DOSSIER GIAPPONE

INTERVISTA

Parla Akihiro Takahashi: vittima della bomba atomica di Hiroshima

Il più famoso dei 290 mila hibakusha (vittime sopravvissute alla bomba atomica), Takahashi è un punto di riferimento per i movimenti che lottano per la pace e chiedono il bando delle armi atomiche. Mentre gli riesce facile allacciare relazioni amichevoli, a livello personale, con i cittadini dei paesi una volta nemici, incontra orecchi da mercante a livello di governi, compreso quello del proprio paese.

Classe 1931, Akihiro Takahashi aveva 14 anni quando fu colpito dalla bomba atomica di Hiroshima. Ne porta ancora le conseguenze, fisiche e psicologiche, tanto da aver dedicato l’intera vita a testimoniare la terribile esperienza.
Direttore del Museo della bomba atomica di Hiroshima dal 1979 al 1983, autore di diversi libri, vice Presidente della sezione dell’Unesco a Hiroshima, Takahashi è il più famoso hibakusha (vittima della bomba atomica) vivente e un faro per il movimento che chiede il bando delle armi atomiche. Lo abbiamo incontrato a Hiroshima, al Museo della bomba atomica.

Perché ricordare Hiroshima e Nagasaki?
Dentro di noi, vittime della bomba atomica, c’è questa forte speranza di non ripetere mai più un’esperienza di questo genere.

Lei è stato diretto testimone e al tempo stesso vittima del bombardamento del 6 agosto 1945. Cosa ha sentito quando, a 14 anni, ha subito questa esperienza? Cosa ha sentito nei confronti di chi ha voluto lanciare la bomba atomica e cosa sente oggi nei confronti del governo degli Stati Uniti, che ha già annunciato a più riprese di essere pronto a far esplodere «mini» bombe nucleari?
Quando ho subito il bombardamento ero nel cortile della scuola media, ma non sapevo cosa stesse accadendo; ho sentito un potente rumore, poi il buio più completo. Dopo essermi ripreso dallo stato di incoscienza, ho visto che i miei vestiti erano bruciati e il mio corpo era ferito e ustionato. Tutti i circa 150 studenti della mia stessa scuola erano nelle stesse condizioni, mentre gli edifici erano distrutti. Per 5 o 6 giorni dopo il bombardamento, ho perso conoscenza, ma la mia famiglia mi ha riferito che continuavo a ripetere di odiare gli Stati Uniti e gli americani. Per diversi anni non ho trasmesso la mia esperienza a nessuno e il mio odio verso gli Stati Uniti è rimasto intatto.
Adesso il sindaco di Hiroshima sta cercando il modo per intavolare un discorso di pace con i paesi che possiedono armi nucleari, ma personalmente, come vittima della bomba atomica, non penso ci sia alcun modo di intavolare un discorso di pace con questo tipo di stati. Come individui possiamo fare amicizia con i loro cittadini, ma a livello di entità statali, di governo, non c’è alcun modo di fare la pace.
Tutti abbiamo dei problemi, quindi come singoli possiamo dichiararci amici con tutti, farci amici di tutti, ma quando pensiamo alla politica del paese e dello stato, dobbiamo fortemente e chiaramente affermare che non si può parlare di pace con chi possiede armi nucleari.

Eppure il Giappone è in stretta alleanza con paesi che possiedono bombe atomiche, in special modo con gli Stati Uniti, di cui ospita anche sul proprio territorio basi militari. Infine non mi sembra che la politica di Koizumi stia mettendo in discussione questo tipo di amicizia e la stessa alleanza militare con gli Usa.
Lo stato giapponese deve essere chiaro con gli Stati Uniti. Quando dobbiamo dire no, che no sia! Ora non lo sta facendo e da quando Koizumi è divenuto primo ministro, la situazione è peggiorata.
Inoltre, dopo l’11 settembre 2001, gli Usa hanno ripreso la loro politica nucleare, costruendo anche le cosiddette mini-bombe atomiche. Koizumi deve chiaramente dire no a questa politica.

Dopo l’11 settembre, molti hanno richiamato i fantasmi del nazismo, dei campi di concentramento e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Secondo lei esiste una connessione storica o solo emotiva con questi eventi?
Molti hanno paragonato l’attacco al World Trade Center con quello di Pearl Harbour. In parte è vero, ma personalmente ho visto delle similitudini con il 6 agosto 1945, anche se la bomba atomica di Hiroshima era molto più devastante.

Lei è stato direttore dell’Associazione di amicizia Giappone-Cina. A Hiroshima, quel 6 agosto del 1945 non c’erano solo giapponesi, ma anche cinesi, coreani, stranieri portati in Giappone per lavorare sotto il regime colonialista. Cosa si è fatto per questi non giapponesi, ugualmente colpiti dalla bomba atomica?
La guerra giapponese verso i paesi asiatici è stata una guerra di colonizzazione. Non possiamo dimenticare questo e quando racconto la mia esperienza di hibakusha, racconto anche la mia vergogna di giapponese per la politica del mio governo verso questi paesi.

In che modo l’attuale generazione di giapponesi vede il vostro passato, la vostra esperienza di vittime della bomba atomica?
In questi ultimi anni arrivano a Hiroshima circa 3-400 mila studenti ogni anno per visitare il museo. Poi spediscono alcuni pensieri, in cui molti affermano di essere scioccati di quello che hanno sentito e di non voler dimenticare. Io spero che la nuova generazione assimili questa esperienza e la trasmetta ad altri.

Lei ha incontrato più volte il papa. Cosa pensa della sua persona e di cosa avete parlato?
Nel febbraio 1980 l’ho incontrato per la prima volta, quando il papa, per sua volontà ha voluto visitare Hiroshima e il museo di cui, in quel periodo ero direttore. Di fronte al diorama ho spiegato al papa che l’effetto della bomba atomica sull’uomo è 4 mila volte superiore rispetto alle bombe tradizionali lanciate dai B-29. Al che il papa mi ha chiesto di ripetere, per essere sicuro che non mi fossi confuso e che, anziché 4 mila non avessi voluto dire 400 o 40. Confermai la potenza 4 mila volte superiore; e ricordo l’espressione del papa, molto stupita e affranta.
Ho inoltre spiegato la mia personale esperienza. Il tempo previsto per la sosta al museo era di 20 minuti, ma il papa ha voluto trattenersi per ben 40 minuti, chiedendo continuamente della mia esperienza. Alla fine, ciò che più mi ha commosso è stato il ringraziamento ricevuto dal santo padre che, ha voluto sottolineare, non era diretto solo al direttore del museo, ma soprattutto al testimone e vittima della bomba atomica.
Dopo dieci anni sono stato ricevuto in Vaticano. Quando l’ho incontrato, Giovanni Paolo II mi ha subito detto di ricordarsi di Hiroshima, mi ha preso la mano bruciata dalla bomba e l’ha tenuta stretta a lungo.

Il Giappone, il mondo intero, ha tratto una lezione dall’esperienza di Hiroshima e Nagasaki? Voglio dire, ci potrà essere un’altra Hiroshima e Nagasaki nel futuro dell’uomo, o pensa che oggi esistano le condizioni per eliminare tutte le armi nucleari?
Quello che temo di più è la possibilità da parte dei terroristi di utilizzare le armi nucleari. Non possiamo capire che utilizzo vogliano fae. Ma anche da parte di alcuni stati temo la possibilità di utilizzo nucleare. Quindi devo purtroppo affermare che la situazione mondiale è molto critica e noi siamo tutti a rischio.

Anche se sono passati 60 anni, come mai l’umanità non riesce a trarre frutto dell’esperienza e migliorare i propri rapporti con le culture, religioni, stati?
L’esperienza non scompare, ma non viene ricordata bene. Noi vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, diciamo ai leaders delle nazioni, che possiedono armi nucleari, che se vogliono utilizzarle, facciano loro stessi l’esperienza di essere bombardati.

Lei ha detto che non si è assimilata l’esperienza, ed è vero. Ma nelle scuole, in Italia come in Giappone, c’è una forte tendenza al revisionismo storico, vale a dire rivalutare esperienze negative del passato. Ha paura che questo revisionismo influisca sulla conoscenza della vostra esperienza di sopravvissuti alla bomba atomica?
I revisionisti affermano che in quel determinato periodo storico era giusto fare la guerra. Io invece non lo penso e lo dobbiamo dire chiaramente. Non possiamo distorcere i fatti storici.

Il governo degli Stati Uniti vi ha mai chiesto scusa? Non parlo di scuse dirette al governo giapponese, ma a voi vittime.
No.

E voi pretendete delle scuse, immagino.
Sono state richieste, ma non ci è pervenuta alcuna risposta. Gli statunitensi dicono che bombardare Hiroshima e Nagasaki con le bombe atomiche era l’unica soluzione fattibile a quel tempo. Chiedere scusa significherebbe ammettere i propri torti.

Non parlo di scuse al governo, ma a voi; quindi non scuse politiche, ma umanitarie.
Neppure per motivi umanitari sono state mai fatte scuse. Gli Stati Uniti continuano ad affermare che con le bombe atomiche hanno salvato milioni di altri giapponesi che sarebbero morti con il prolungamento della guerra.

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Residuato bellico, le isole Curilli

I l governo Koizumi si sta preparando per convincere Putin a riaprire qualche spiraglio di trattativa per discutere il problema delle Curili.
Si tratta di una manciata di isolette all’estremo nord dell’arcipelago, al largo di Hokkaido, che l’allora Unione Sovietica aveva occupato nel 1945, all’indomani dell’entrata in guerra di Stalin contro il Giappone, nella speranza di contrastare l’influenza statunitense del dopoguerra in Estremo Oriente. Per quasi cinque decenni le isole hanno rappresentato una spina nel fianco del Giappone, le cui coste si trovavano a pochi chilometri da postazioni militari sovietiche.
Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento dell’Urss, Tokyo ha ripreso con più vigore le richieste di riottenere il desolato e scarsamente abitato arcipelago. In particolare, sono quattro le isole contese: Etorofu, Kunashiri, Shikotan e Habomai. In gioco non c’è solo il diritto di pesca nelle ricche acque del nord, ma anche il ristabilimento dell’onore imperiale.
Le Curili, infatti, sono abitate da popolazioni ainu, autoctoni di Hokkaido e da discendenti dei giapponesi che nel xviii secolo completarono la colonizzazione dell’arcipelago. Dopo la Dichiarazione congiunta russo-giapponese del 1956, che prevedeva la restituzione di Shikotan e Habomai al Giappone dopo la firma del trattato di pace, Mosca e Tokyo permisero alle famiglie separate di effettuare visite tra le due nazioni per onorare la memoria dei loro congiunti defunti.

M a 60 anni di presenza sovietica e russa, hanno modificato, forse per sempre, la fisionomia etnica e sociale di questi isolotti. Oggi, accanto agli ainu e ai nipponici, vivono migliaia di russi e siberiani che si sono stabiliti qui con le loro famiglie, allettati dagli alti stipendi che lo stato garantiva loro e che non vedono di buon grado l’eventuale cambio di bandiera sulle loro case.
Neppure sul nome topografico Mosca e Tokyo hanno trovato un accordo, riferendosi all’arcipelago rispettivamente come Curili e come Territori del Nord. Pochi mesi fa, Putin ha raggelato le speranze del governo Koizumi affermando che la Dichiarazione congiunta del 1956 non costituisce un impegno per il nuovo gabinetto russo.
Il problema è che le due capitali interpretano il documento secondo due diversi punti di vista: mentre al Cremlino i punti sottoscritti si intendono conclusivi per una definitiva soluzione del contenzioso, a Tokyo l’intesa viene tradotta come una prima tappa per la restituzione di tutte le quattro isole contese.

Piergiorgio Pescali

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