DOSSIER GIOVANI”Darfur? Carrefour!.”

A colloquio con Diego, professore di religione

Apatici e disinteressati al mondo esterno: sembrano così la maggioranza dei giovani d’oggi. Ma la loro responsabilità è limitata, mentre le colpe degli adulti sono chiare e sotto gli occhi di tutti. Abbiamo costruito un mondo senza solidarietà, dove la sola linea guida è l’interesse economico.

I ragazzi a scuola lo chiamano «professorone». Diego Gottardi, quarant’anni, insegna religione presso il liceo scientifico «Luigi Bobbio» di Carignano. Prima agrotecnico, poi insegnante di religione, ormai da 12 anni. Seconda professione a tempo pieno: papà. Ha infatti quattro figli, numero che suscita incredulità tra le sue studentesse.

Cosa insegna la scuola ai ragazzi oggi?

«Mi faccio portavoce solo di quello che vedo. La scuola ai ragazzi insegna le cose che ha sempre insegnato ma con meno convinzione o meglio, con la semiconvinzione che l’insegnamento non sia più utile. Questo non dipende dai ragazzi, ma da noi adulti che non riusciamo più a toccare le corde giuste. Dall’altra parte, i ragazzi sono apatici nell’affrontare gli argomenti necessari per formarsi. Sono apatici, perché non hanno il senso della scalata e del gusto delle cose. Il problema dei ragazzi è che, nonostante le smisurate potenzialità tecnologiche odiee, il loro mondo è divenuto piccolo piccolo e non riescono a buttare lo sguardo oltre. In seconda liceo faccio fatica a proporre un testo come Lettera ad un consumatore del Nord perché il loro mondo ha una frontiera che non abbraccia questi argomenti quotidiani che interessano tutti. Non si sentono responsabili di quello che accade fuori dalla loro stanza. Questi sono i nostri prodotti e presto dovremo fare un mea culpa.
Quando un bambino cresce in un ambiente dove non esiste lo spazio alla solidarietà ed il mirino è fisso sul consumismo, è inutile poi chiedergli di andare a fare del volontariato a diciassette anni, perché si propone un’incongruenza».

I ragazzi amano conoscere?

«Di primo acchito sembrerebbe di no. A loro piace capire. Gli piace leggere Dante? No. Ma se tu fossi capace di usare Dante per fargli capire qualcosa di fondamentale anche per loro, allora amerebbero Dante o Platone. Il segreto è questo. La vera sfida è rimanere in contatto con i giovani e se scoprono in te un interlocutore di cui fidarsi allora questo accadrà, non solo a scuola ma anche nella famiglia. Se noi amassimo, anche in maniera idealistico, questo modo di rapportarci con i ragazzi riusciremmo a ricavare uno spazio educativo forte».

Oggi gli insegnanti sono più autoritari o autorevoli?

«Non sono particolarmente nessuna delle due cose. C’è un ritorno all’autorità esercitata. Durante un consiglio di classe, un’insegnante di scienze ha fatto un richiamo pubblico ai genitori affinché controllassero come i figli si vestono per venire a scuola. I limiti sono stati oltrepassati. Questa durezza per quanto necessaria deve essere caricata di affetto».

Perché si distrugge una scuola (il Parini di Milano) per evitare una verifica di latino?

«Per incoscienza ed irresponsabilità. È un discorso che parte da noi adulti. Se io non sento il peso dell’educazione, non mi interesso di come crescono i figli. Tantissimi genitori hanno l’idea che l’educazione sia una crescita fatta di diritti. I genitori danno tutto ciò che è materiale saltando il contatto e la vicinanza. Perché tanti adolescenti chiudono le porte con i genitori? Perché non parlano, perché non li conosciamo?
Se i genitori non possono dare il tempo, tanto, nasce il problema della comunicazione è un ponte che non viene costruito. Un abbaglio su ciò che pensiamo sia amare. Scegliamo la forma di amore che ci mette meno in discussione. Scegliamo una forma di amore che possiamo comprare con i soldi. Non si può pensare di amare i figli perché si apre il portafogli. Il bambino sente questo amore castrato e falso che gli è stato dato e mette in atto degli atteggiamenti di protesta. Noi diamo un bene piccolo».

Quanto è presente lo sport?

«Quando lo sport è presente lo è in maniera quasi ossessiva. Lo sport, l’attività ricreativa, il violino, la danza, il corso di qualcosa, vanno a sommarsi al già grande carico di lavoro che hanno gli studenti, i bambini in particolare. Perché non educhiamo i nostri figli-alunni in maniera meno pesante? Non è possibile che i bambini dopo otto ore di maestra abbiano voglia di ascoltare un’altra maestra. Questo mi impressiona molto. Io penso che non ci sia nulla da imparare per forza. Si creano così dei bambini con personalità poco bambine, con ragionamenti da uomini già a otto anni. Vivono per tappe forzate, imposte.
Perché oggi tutti i giovani vanno all’università? Perché nessuno riesce ad immaginare un futuro felice senza la laurea. Non riescono ad avere il fiuto della felicità, come non lo abbiamo noi. La felicità è diventata dipendente dall’esterno, dal telefonino come dagli amici, dal corso di qualcosa, dall’amore. Non si riesce più ad essere felici partendo da cosa siamo noi. È un germe che abbiamo inoculato noi a loro. La generazione come la mia, nonostante i grandi ideali ha puntato tutto sui soldi, perdendo di vista il tempo e la gioia».

Cosa sognano i ragazzi?

«Non lo so. Temo che non abbiano sogni. Alcuni dicono che hanno sogni materiali. Io non sono d’accordo, perché, qualora anche li avessero, essi hanno la coscienza che sono dei palliativi, sanno che non hanno preso il toro per le coa.
Infine, non è forse una grave negazione del sogno anche lo “smontare” la fede dei bambini?».

A scuola si parla della guerra?

«No. Dei ragazzi che conosco io il 98% non segue la cronaca. Le mie lezioni si agganciano alle grandi questioni planetarie. Ho provato a fare un’intervista, anche ai colleghi, sull’argomento Darfur nei giorni in cui questo problema era seguito da servizi giornalistici.
Sai cosa mi rispondevano? «Dar che? Ah! Carrefour!». Dobbiamo fargli capire che il mondo non è il paesino o quartiere dove vivono. Se vado scuola e faccio un richiamo alla cronaca eclatante del giorno prima, non ho risposta. Se venisse un guerrucola qui e loro dovessero rinunciare ai beni di consumo, il 70% dei ragazzi (ma anche degli adulti) morirebbe di fame. Stiamo combinando un grosso guaio con loro perché li stiamo educando a non affrontare la vita».

La chiesa e il suo rapporto con i giovani.

«La chiesa a mio avviso è un po’ ferma. Avrebbe dei canali di presa, sa quali sono le corde da toccare e credo che le realtà più incisive siano quelle missionarie. Ogni anno invito un gruppo di volontariato presentando i loro progetti. Questa è la parte più attiva della chiesa che agisce sui ragazzi.
Cinquecentomila giovani sono andati a vedere il papa a Tor Vergata perché vedono una figura in cui credono, un adulto-adulto.
Il giovane, più di altri, ha bisogno di scoprire il senso della vita e il papa è coerente con quello che manifesta. Io credo che noi gli confondiamo le idee nella sua ricerca impedendogli di vederlo con chiarezza: questo è peccato. Il papa dice aprite le porte a Cristo e cercate la verità lungo quella via, con autorevolezza, semplicemente e senza esitazioni».

Maurizio Pagliassotti

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