I LUOGHI DELL’INFINITOLa casa di Mosè è in Africa

Quasi un pellegrinaggio dell’anima, dove bellezza del sito e dell’arte, solitudine e clima mistico creano una autentica e indimenticabile esperienza religiosa.
I luoghi di culto sono i testimoni nel tempo dell’intelligenza e della cultura dei popoli: monasteri, abbazie, conventi e chiese, spesso suggestivi e affascinanti, rappresentano un baluardo di fede, di storia, di realtà umane talvolta anche eroiche.
Una rinascita di ricerca spirituale o semplicemente religiosa, talvolta legata a tradizioni popolari, sembra rifiorire dalle ceneri di un mondo religioso mai sopito, anche se spesso e in vari luoghi osteggiato.
Un lungo «viaggio» tra monasteri e chiese di ogni parte del mondo cristiano farà emergere, fra antiche mura e preghiere sommesse, quell’atmosfera di fede che ci lega al passato come una mistica armonia mai dimenticata.

UN’ABBAZIA NEL DESERTO

«Keur Moussa» in lingua senegalese significa «Casa di Mosè». È uno strano nome per un monastero contemplativo fiorito dal nulla in un ambiente interamente musulmano. Il luogo scelto si chiama appunto Keur Moussa e dista dalla capitale Dakar una cinquantina di chilometri.
Non è un monastero famoso, non ci sono icone e sculture di gran pregio, ma ciò che lo rende unico nel suo genere è quello di essere una abbazia benedettina proprio come quella di Solesmes, in Francia, dalla quale provengono questi monaci.
Ma come riuscire a fondare un monastero cattolico proprio in una terra dove la fede coranica è seguita dal 92% della popolazione, mentre il rimanente è animista? La risposta dei monaci fu ed è questa: adattamento della fede cattolica alle diverse realtà locali. Un compito decisamente impegnativo per quei primi nove monaci ai quali era stato affidato questo compito: aprirsi alla cultura locale nei modi e nei tempi più opportuni. Un compito non indifferente.
La tranquilla vita di un monaco benedettino, scandita da preghiere, lavoro intellettuale, artigianale e canti liturgici, si è trasferita, quasi per incanto, nel 1963 in una terra a dir poco desolata, tra gente ostile e sospettosa, che viveva in misere capanne, dove il massimo dell’occupazione era rappresentato dall’allevamento di un piccolo gregge di capre affamate.
L’impresa di questi monaci si presentò fin dall’inizio piuttosto difficile: entrare in contatto con la popolazione non era certo come accogliere i pellegrini di Solesmes. Era necessario procedere per gradi, manifestando interesse per il luogo e la gente che, per quanto diversa nel modo di vivere, aveva pur sempre una sua cultura tutta da scoprire.
Momenti di vita, raccontati dai testimoni di quei primi anni di apostolato africano, svelano un tessuto di esperienze fatto di intuizioni, approcci, osservazioni di vario genere, quasi una strategia per assorbire meglio l’atmosfera del luogo e dei suoi abitanti. Coraggio, fede e iniziative interessanti hanno dato col tempo ottimi risultati.

KORÀ: UNO STRUMENTO CHE CONQUISTA

I monaci inoltre hanno scoperto come far leva sull’animo africano, così sensibile alla manifestazione musicale. Uno di loro, padre Catta, un tempo segretario del maestro del coro gregoriano della abbazia di Solesmes, è riuscito ad accompagnare il canto dei monaci al suono della korà, un tipico strumento musicale dell’Africa occidentale. Non era un organo, naturalmente, ma una grande cassa armonica tradizionalmente ricavata da una… zucca!
Lo strumento è più complesso di quanto si possa immaginare, data l’origine: una cassa armonica e un bastone, dal quale partono una ventina di corde inserite in un ponticello perpendicolare al piano armonico. Da questo insolito strumento esce un suono simile a quello dell’arpa, mentre la tecnica di suono è analoga a quella di una chitarra spagnola. Quel suono ha conquistato prima padre Catta, poi i confratelli e infine un compiacente cantastorie locale stupito ed entusiasta quanto quegli uomini vestiti di grigio, che volevano imparare da lui a suonare lo strumento per eccellenza della sua terra.
Il suono della korà, nella piccola chiesa dei monaci, attirò un mattino un anziano del villaggio, che vincendo sospetto e ritrosia volle assistere alla preghiera mattutina. L’impressione che ne ricavò fu non solo buona, ma decisamente rassicurante, se le parole con cui descrisse l’avvenimento alla sua gente furono: «Dio è là».
Curiosa gente, avrà pensato anche il cantastorie, sentendo cantare dai monaci dei salmi in una lingua sconosciuta, dalle parole incomprensibili, ma dal suono affascinante. L’antichissima liturgia latina era diventata una mano tesa, un linguaggio senza parole, un’intesa più forte della paura dello straniero.
Sono passati trent’anni e il repertorio musicale copre oggi ogni momento della liturgia e dell’anno liturgico.

OLTRE LA MUSICA

Ma ci può essere qualcosa di comune tra un canto in stile gregoriano e una musica africana tradizionale? Sembra di sì, se oggi i monaci non solo suonano la korà come se l’avessero sempre avuta tra le mani ma, secondo la tradizione del monastero di Solesmes, producono dischi e audiocassette che raggiungono con successo il mercato francese.
L’iniziativa di questi monaci (oggi sono più di 40, e alcuni del posto) non si è fermata lì: hanno creato un piccolo laboratorio dove ogni anno costruiscono una cinquantina di korà; hanno irrigato e coltivato quel deserto che circondava la nascente abbazia; hanno costruito una scuola primaria, un dispensario medico, un ufficio della Caritas per aiutare le famiglie, una scuola di tecnici agricoli e un laboratorio caseario dove il latte di quelle caprette affamate si trasforma ogni giorno in gustosi formaggi.
Potevano fare di più?

Liliana Pizzoi




RELIGIONI STRUMENTO DI PACESulla via di Allah (3)

Per capire gli elementi di pace e non violenza presenti nell’islam, è fondamentale comprendere il concetto del jihad (sforzo). Esso non implica la guerra, tanto meno la «guerra santa», ma non la esclude, a certe condizioni.

«O voi che credete! Entrate tutti nella Pace. Non seguite le tracce di Satana. In verità, egli è il vostro dichiarato nemico» (Corano xi,208); «Con essi Allah guida sulla via della salvezza quelli che tendono al suo compiacimento. Dalle tenebre li trae alla luce, per volontà sua li guida sulla retta via» (Cor v,16); «Allah chiama alla dimora della pace e guida chi egli vuole sulla retta via» (Cor x,25); «Fu detto: “O Noè, sbarca, sbarca con la nostra pace, e siate benedetti tu e le comunità (che discenderanno) da coloro che sono con te”» (Cor xi,48); «Colà la loro invocazione sarà: “Gloria a Te, Allah”; il loro saluto: “Pace”» (Cor x,10); «Coloro che invece credono e operano il bene li faremo entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli e vi rimarranno in perpetuo con il permesso del loro Signore. Colà il loro saluto sarà: Pace» (Cor xiv,23).
Non possiamo affermare tout-court che l’islam sia una religione pacifista o pacifica, ma neanche il contrario, che sia, cioè, basata sulla guerra, il qital o il harb (il jihad, in realtà, significa «sforzo» e non guerra).
Invero, il dibattito sulla natura violenta o nonviolenta dell’islam è tuttora in corso e coinvolge molti studiosi musulmani, in Oriente come in Occidente. E, in questo dibattito, fondamentale è affrontare il complesso significato di jihad.

AL JIHA FI SABILI-LLAH
SFORZO SULLA VIA DI ALLAH

«Il jihad si distingue in base all’orientamento (verso l’interiorità o verso l’esterno) e al metodo (violento o nonviolento). Il jihad esteriore può essere inteso come la lotta per eliminare il male all’interno della ummah (la comunità dei credenti, ndr); jihad è il comando di Allah onnipotente e gli insegnamenti del profeta Muhammad, i quali impongono al credente una continua verifica della propria idoneità a combattere la tirannia e l’oppressione – il continuo adeguamento dei mezzi all’obiettivo di realizzare la pace e inculcare la responsabilità etica»1.
Satha-Anand, docente presso la facoltà di scienze politiche all’università di Bangkok, in Thailandia, pacifista, musulmano, seguace di Gandhi, impegnato nella nonviolenza, analizza i concetti di salam, pace, e di jihad, sforzo, nel Corano giungendo alla convinzione che quest’ultimo significhi «lottare contro oppressione, dispotismo, ingiustizia nel nome degli oppressi, qualunque essi siano».
A sostegno della sua tesi cita le sure ii,190: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono»; ii,191: «Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla santa moschea, fino a che essi non vi abbiano aggrediti. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti»; viii,39: «Combatteteli finché non ci sia più politeismo, e la religione sia tutta per Allah. Se poi smettono… ebbene, Allah osserva quello che fanno»; iv,75: «Perché mai non combattete per la causa di Allah e dei più deboli tra gli uomini, le donne e i bambini che dicono “Signore, facci uscire da questa città di gente iniqua”».
Inoltre Satha-Anand afferma che jihad indica uno «sforzo o tensione verso la giustizia e verità, che non necessariamente implica violenza»2.
La radice di jihad è jhd, che, nella prima forma verbale jahada, significa letteralmente «cercare, sforzarsi, tentare, impegnarsi, battersi, lottare, affaticarsi»; nella terza «sforzarsi, tentare, cercare, impegnarsi, lottare». Ma numerose sono le sue accezioni nell’islam e gli ambiti di utilizzo. Il primo è quello afferente all’individuo e alla sua natura più intima e profonda, composta da negatività e positività. Il contrasto contro le forze «oscure» dell’essere, quali la collera, avidità, animalità, violenza, potere, può essere inteso come jihad, sforzo sulla via del miglioramento, della «rivoluzione umana».
Tale jihad viene definito jihad an-nafs, «sforzo dell’essere, dell’anima». Esso è il cuore della spiritualità islamica perché rappresenta la lotta continua tra bene e male indirizzata all’autocontrollo, all’evoluzione verso livelli di spiritualità superiori e alla ricerca di Dio.
Un altro significato è quello dell’impegno bellico, che viene definito nei termini di al-qital. La logica che muove il principio del jihad an-nafs è qui applicata sul piano comunitario e socio-politico: lo sforzo contro la propria natura oscurata diventa lo sforzo di resistenza alle aggressioni estee che colpiscono la comunità. Si leggano, al proposito, i già citati versetti della sura ii,190-1913 e il ii, 216: «Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che, invece, è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva».
Scrive ‘Ali M. Scalabrin nel suo sito4: «Allah, nel Corano, non ammette la guerra per scopi politici, o altro che esuli dalla legittima difesa; in tutti gli altri casi viene considerato un omicidio, naturalmente, proibito, nell’Islam, come continuità dei 10 comandamenti della Torah. “Oh voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso, e non uccidetevi da voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi” (Cor iv,29).
“Il credente non deve uccidere il credente, se non per errore. Chi, involontariamente, uccide un credente, affranchi uno schiavo credente e versi alla famiglia (della vittima) il prezzo del sangue, a meno che essi non vi rinuncino caritatevolmente. Se il morto, seppur credente, apparteneva a gente vostra nemica venga affrancato uno schiavo credente. Se apparteneva a gente con la quale avete stipulato un patto, venga versato il prezzo del sangue alla sua famiglia e si affranchi uno schiavo credente. E chi non ne ha i mezzi, digiuni due mesi consecutivi per dimostrare il pentimento verso Allah. Chi uccide intenzionalmente un credente, avrà il compenso dell’inferno, dove rimarrà in perpetuo. Su di lui la collera e la maledizione di Allah e gli sarà preparato atroce castigo” (Cor iv,92-93). “La sua passione lo spinse ad uccidere il fratello (Caino e Abele). Lo uccise e divenne uno di coloro che si sono perduti. Poi Allah gli inviò un corvo che si mise a scavare la terra per mostrargli come nascondere il cadavere di suo fratello. Disse: Guai a me! Sono incapace di essere come questo corvo, sì da nascondere la spoglia di mio fratello? E così fu uno di quelli afflitti dai rimorsi.
Per questo abbiamo prescritto ai figli di Israele, che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I nostri Messaggeri sono venuti con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra” (Cor v,30-32). “A chi crede in Allah e nel giorno del giudizio è vietato procurare alcun male al proprio prossimo; gli è, invece, fatto obbligo di essere gentile, specialmente con gli stranieri e di dire la verità ed astenersi dalla menzogna” (Hadith profeta Muhammad)».

GIUSTIZIA E PERDONO

L’islam si è sviluppato da un bisogno radicato di giustizia, ‘adl 5: «Oh voi che credete, attenetevi alla giustizia e rendete testimonianza innanzi ad Allah, fosse anche contro voi stessi, i vostri genitori o i vostri parenti, si tratti di ricchi o di poveri! Allah è più vicino (di voi) agli uni e agli altri.
Non abbandonatevi alle passioni, sì che possiate essere giusti. Se vi distruggerete o vi disinteresserete, ebbene Allah è ben informato di quello che fate» (Cor iv,135); «Oh voi che credete, siate testimoni sinceri davanti ad Allah secondo giustizia. Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo. Siate equi: l’equità è consona alla devozione» (Cor v,8); «Chi commette una mancanza o un peccato e poi accusa un innocente, si macchia di calunnia e di un peccato evidente» (Cor iv,112); «In verità Allah ha ordinato la giustizia e la benevolenza e la generosità nei confronti dei parenti. Ha proibito la dissolutezza, ciò che è riprovevole e la ribellione. Egli vi ammonisce affinché ve ne ricordiate» (Cor xvi, 90).
Si è inoltre indirizzato, sin dall’inizio, verso la lotta all’oppressione, all’ingiustizia, alla tirannide dei potenti.
Sottolinea ancora Scalabrin: «L’islam proibisce l’attacco di civili innocenti. L’islam è religione di giustizia, di perdono. L’islam è una religione che garantisce la libertà del credo e della fede di tutti. Amare il prossimo tuo come te stesso per la causa di Allah».
Il jihad fi sabili-llah è lo sforzo, l’impegno sulla via di Allah. Secondo la shari’a (legge islamica), si tratta di un obbligo della collettività della comunità musulmana (nell’espressione araba di giurisprudenza islamica: fard kifaya, è sufficiente che siano solo alcuni membri della comunità a compiere jihad)».
Su un’analoga linea interpretativa si colloca Tariq Ramadan6: «Il termine jihad è uno dei più abusati e meno compresi dagli stessi musulmani. Molti di essi non resistono alla tentazione di usarlo per obiettivi politici propri, mentre molti non musulmani misinterpretano il termine per ignoranza o per screditare l’islam e i musulmani.
In realtà, è stato ben specificato dai più eminenti studiosi della religione che il jihad rappresenta un mezzo di difesa contro l’aggressione e non è mai sinonimo di “attacco offensivo”. Il jihad non è uno strumento di guerra contro innocenti, né un mezzo per mostrare i muscoli o tiranneggiare i deboli e gli oppressi.
La parola jihad significa, piuttosto, “sforzo” e più precisamente sforzo interiore, lotta per raggiungere un determinato obiettivo, di norma spirituale. Il termine, nella sua accezione più vasta, ma anche più semplicistica, indica uno sforzo serio e sincero che il credente compie in una duplice direzione, quella personale e quella sociale, per rimuovere il male, l’indolenza e l’egoismo da se stessi, l’ingiustizia e l’oppressione dalla società. La giustizia, nell’ottica islamica, non si raggiunge attraverso la violenza o la prevaricazione, ma attraverso lo sforzo interiore e personale di ciascuno, con mezzi leciti e istruttivi che possano spingere alla conoscenza, alla perfezione, per quanto è possibile a esseri imperfetti quali gli uomini. Lo sforzo è, dunque, sociale, economico e politico. Jihad significa lavorare molto per realizzare ciò che è giusto: il Corano lo nomina 33 volte, e ogni volta esso ha un significato differente, ora riferito a un concetto come la fede, ora al pentimento, alle azioni buone, all’emigrazione per la causa di Dio. Nell’accezione più vera e completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve compiere per riuscire a conformare il proprio comportamento alla volontà di Dio».
Il jihad non è una guerra, dunque, ma può diventarlo se la situazione di pericolo lo richiede. Continua Ramadan: «L’islam è una religione di pace, ma ciò non vuol dire che accetti l’oppressione, o che chieda la passività o una generica presa di distanza di fronte all’ingiustizia. L’azione è importantissima, ma l’islam ci insegna a fare il possibile per eliminare tensioni e conflitti, e per lottare contro il male e l’oppressione attraverso mezzi pacifici e non violenti fino a quando sia possibile. Il termine jihad, in questo contesto, indica anche lo sforzo materiale teso a difendere se stessi, la propria famiglia e paese da attacchi estei e lo sforzo morale per rafforzare il proprio carattere ed essere pronti anche al sacrificio estremo pur di raggiungere quell’obiettivo. La guerra è permessa, nell’islam, ma solo quando i mezzi pacifici, quali dialogo, trattati e negoziati siano falliti: essa deve essere evitata con tutti gli strumenti possibili. Il suo scopo non è convertire con la forza, né colonizzare o rubare terre e risorse altrui. “Il migliore – disse il profeta – è dire una parola di condanna contro un governante ingiusto”».

GUERRA SANTA

Quando si parla di jihad, in Occidente, è facile equivocare o fraintendere, o forse leggere, adattare i «significanti» di altre culture con i propri «significati» e tradizioni storiche, con i riferimenti alla civiltà di appartenenza. Così il jihad viene, in qualche modo, assimilato alle crociate, alla «guerra santa».
Nel mondo occidentale ci è stato presentato questo termine secondo il significato completamente diverso e negativo di «guerra santa».
Le ragioni di questa manipolazione del vero significato vanno ricercate nella storia. Le numerose guerre di conquista territoriale dei primi califfi arabi post-islamici che arrivarono a espandere il dominio arabo (quindi musulmano) fino alla Spagna e il parallelo ipotetico fra queste guerre e le crociate dello stato-chiesa, nella contesa fra cristiani e saraceni della città benedetta di Gerusalemme hanno indotto i mass-media occidentali a tradurre il termine jihad, molto usato dagli arabi per reclamare giustizia, con guerra santa.
Tale interpretazione ha fatto e fa, tuttora, molto comodo all’informazione occidentale per parlare di «guerra di religione», quando si parla negativamente dell’islam, associando tale affermazione alla presunta arretratezza mentale (a sentir loro) dei paesi islamici.
Non si esclude, comunque, che possano esistere, in talune applicazioni giuridiche dell’islam di alcuni stati, significati diversi e contorti della stessa parola jihad, ma la ricerca e lo studio informativo sull’interpretazione della parola di Dio contenuta nel Corano e sulla vita di Muhammad ci hanno dato segni inequivocabili sui reali e molteplici significati della parola jihad 7.
I primi anni di vita della comunità islamica sono stati contrassegnati da persecuzioni a cui i musulmani hanno risposto in modo passivo. Solo con la loro «emigrazione» a Medina, con il proseguire e aumentare delle ostilità nei loro confronti, essi riceveranno l’autorizzazione, da parte di Dio, a difendersi. Ma a determinate condizioni: legittima difesa, situazione di oppressione, violazione della proprietà, aiuto ad altri che vivono in analoghe situazioni.
Il jihad, dunque, rappresenta una forma di resistenza. Ai musulmani non è consentito infatti fare la guerra per impadronirsi delle ricchezze altrui, di territori o del potere. O per far opera di proselitismo: il Corano afferma che «non c’è costrizione nella religione».
«Se nel corso della storia ciò è potuto accadere – spiega Ramadan -, quelli sono stati dei casi ma non la regola, e ad ogni modo, queste pratiche erano in contraddizione con gli insegnamenti islamici. La Pace è uno dei nomi di Dio e anche del paradiso. Tuttavia, l’islam ci insegna a non essere naif: gli esseri umani sono inclini al conflitto, al punto che l’equilibrio del mondo sembra passare attraverso l’equilibrio delle forze: “Se Iddio non respingesse gli uni per mezzo degli altri” la terra sarebbe perversa, spiega il Corano. Vuol dire che bisogna restare vigili e sapere che gli uomini sono capaci di fare il peggio, se nulla si oppone alla loro volontà di potenza. Nell’avversità, il Corano ci incoraggia a rivaleggiare in bontà, ma ci intima di non confondere la pace e la bontà con la rinuncia e il lassismo di fronte all’ingiustizia. Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza resistenza agli oscuri disegni della volontà di potenza e di potere. Di fronte all’invasione culturale dell’Occidente e al famoso “scontro” di civiltà, la maggior parte dei movimenti islamici non risponde con le armi e non pensa in termini di guerra armata. Per loro c’è ovviamente il jihad, ma questa resistenza passa attraverso la promozione dei loro valori, della loro identità, attraverso l’educazione, l’impegno sociale, l’iniziativa economica. Nel cuore delle nazioni soffocate dal peso della dittatura e del sottosviluppo, resistono lottando continuamente per il pluralismo, la libertà d’espressione e la solidarietà. Essi parlano veramente di jihad ed è proprio di questo sforzo e resistenza che si tratta»8.

MECCA E MEDINA

I riferimenti alla «guerra», cioè al harb (da haraba, essere furioso, fare la guerra, combattere), al qital (qatala, uccidere, combattere, fare la guerra) si ritrovano nel sopracitato periodo medinese9, quando Muhammad, capo di un gruppo o comunità, assume il compito di leader politico e non solo più religioso, e deve pertanto occuparsi anche degli aspetti temporali, organizzativi.
Scriveva Edgar Weber10 nel 1990: «La comunità di Medina deve rispondere a bisogni ben precisi mentre la lotta contro i politeisti della Mecca si fa sempre più decisiva. Il vocabolo che tradurrà chiaramente questa lotta è il verbo qatala. La lotta che il profeta ha ingaggiato contro i suoi detrattori, siano essi ebrei e cristiani o politeisti e abiuri, è presente ben 170 volte nel Corano nella radice qtl (uccidere), sia in forma verbale sia nominale. Dall’esame di questi versetti si impone una prima conclusione: Muhammad predica la guerra santa non astrattamente, come una verità assoluta, ma in condizioni particolari determinate sia dall’opposizione della Mecca o araba, sia dagli ebrei di Medina. La violenza raccomandata dal Corano è quindi occasionale e relativa».
Mecca e Medina segnano due periodi storici essenziali anche per la comprensione del significato dei termini jihad, harb, qital e della loro contestualizzazione storico-politica, contrassegnata dal passaggio di Muhammad da capo spirituale a politico e dalla lotta contro i nemici della comunità islamica (esteamente, politeisti della Mecca, ebrei, cristiani; internamente, ipocriti, rinnegati). Quindi, da una forte esigenza di autodifesa.
«La rivelazione coranica, dunque, ingiunge ai credenti di fare la guerra e uccidere, ma, non lo si ripeterà mai abbastanza, bisogna precisare il contesto e le circostanze che hanno motivato questi versetti. Infatti, presi isolatamente, essi possono apparire di una violenza scioccante. È dovere dei commentatori ricollocarli nel contesto per non travolgee il vero senso. Disgraziatamente oggi gli uomini di religione non hanno questa preoccupazione, ma si impadroniscono dei versetti coranici per giustificare un’azione ispirata più dall’ideologia che dalla dimensione spirituale dell’islam secondo il pensiero del profeta. Se si legge bene il Corano, il jihad non appariva affatto nel primo periodo della predicazione, al contrario»11.

LA PACE

Il periodo meccano, infatti, era contrassegnato da una visione più spirituale, meno operativa e politica dell’islam. Qui i riferimenti alla «pace», salam, sono molti: essa viene citata 25 volte, come augurio, invocazione, speranza, promessa.
Ma è anche vero che la piccola comunità non era ancora così visibile e pericolosa per il mantenimento dello status quo da scatenare la persecuzione dell’oligarchia meccana, detentrice di un vasto potere economico e politico.
«Possiamo notare invece che se l’islam primitivo, quello della Mecca, ignora la guerra e il ricorso alla violenza, è perché il profeta non si è ancora realmente confrontato con gli abitanti della Mecca. La sua predicazione monoteista non rappresenta ancora un pericolo per il vecchio ordinamento sociale. È a partire dal momento in cui il monoteismo diviene una visione sociale che l’opposizione si fa concreta. Predicare il monoteismo in un ambiente politeista era, in un certo senso, rivoluzionario. Muhammad diventava così vittima di una violenta opposizione alla quale egli credeva bene di rispondere con la medesima violenza, restando in tal modo fedele alla legge del deserto, che tutti i beduini ben conoscevano sotto la forma della razzia. Il jihad infatti non può essere totalmente separato dal suo modello preislamico: la razzia»12.
Dunque il jihad non costituisce una novità all’interno dello sviluppo dell’islam, bensì è un prestito dell’epoca precedente, quella preislamica.

LIMITI NELL’USO DELL’HARB

Violenza e guerra, per un musulmano, devono essere eticamente orientate. La violenza indiscriminata che colpisce bambini, donne, vecchi, case, campi, luoghi atti alla produzione di risorse vitali per una nazione, vendetta, stupro, ecc. sono vietate dal Corano: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, che Dio non ama gli eccessivi» (xi,190).
In occasione di una spedizione militare, il primo califfo Abu Bakr, fece il seguente discorso, riportato in Sahib Muslim: «Non commetterete slealtà, deviando dal sentirnero della rettitudine. Non mutilerete i corpi di coloro che avrete ucciso. Non ucciderete il fanciullo, né la donna, né un anziano. Non danneggerete la vegetazione, né brucerete le piante, specialmente quelle che producono frutti. Non sgozzerete le greggi del nemico: risparmiatele perché siano cibo per voi stessi. Quando incontrerete persone che hanno consacrato la loro vita alla missione monastica, passate oltre e non turbatele». E ancora: «Dio non cerca vendetta, nemmeno contro gli idolatri che adorano molti dei, la cui colpa è molto grave. Egli non permette la mutilazione neppure contro la manifesta infedeltà. Non praticare la mutilazione, perché è una pena molto grave. Dio ha preservato l’islam e i musulmani dall’odio e dall’ira incontrollata. Ricordati che caddero nelle mani del messaggero di Dio quei nemici che l’avevano rabbiosamente perseguitato, cacciandolo dalla sua casa e portando la guerra contro di lui, ma egli non permise che fossero inflitte loro mutilazioni».

TEORIA E PRATICA

Vediamo bene quale distanza corra tra quanto qui prescritto e la prassi di gruppi terroristici che hanno deviato, come sostengono molti studiosi e ulama (eruditi) dall’islam, per creare una via meramente politica e ideologica che strumentalizza la religione per propri fini. Guerra di difesa, quindi, e non di offesa, contro oppressione e ingiustizia.
Alla luce di ciò, non solo il terrorismo, dirottamenti, bombardamenti indiscriminati, ma anche l’uso delle armi nucleari o di sterminio di massa sono contrarie all’islam, perché consentono l’uccisione di migliaia di persone innocenti, la distruzione di case, campi, mezzi di produzione e sostentamento.
‘Ali Scalabrin afferma: «C’è anche un’interessante interpretazione su un hadith (discorso) del profeta, il quale vieta completamente l’uso del fuoco come arma contro le genti, secondo cui, riportato ai giorni nostri, ogni arma da fuoco sarebbe proibita nell’islam. Ciò probabilmente è vero, ma basare oggi un sistema difensivo senza armi da fuoco, contro dei nemici che sicuramente le usano è praticamente impossibile.
Sono quindi permessi estremi rimedi nel tentativo di salvarsi la vita, bene estremamente prezioso che Dio ci ha donato»13.

Box 1

CHI SONO I MARTIRI?

Chi è il muhajid, colui che si sforza sulla via di Dio?
«Coloro che partecipano alla lotta sulla via di Allah sono chiamati mujahidin: in vita hanno un’ottima considerazione e vengono spesso presi come esempio; nell’altra vita saranno tra i più vicini al Signore. E non possono essere considerati “morti”, quando vengono uccisi in battaglia. E non dite che sono morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Allah, che, invece, sono vivi e non ve ne accorgerete» (Cor II,154). «Non considerate morti quelli che sono stati uccisi sul sentirnero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per sua grazia, concede» (Cor III,169-170)14.
Ma la condizione è che questi musulmani abbiano opposto una resistenza «dignitosa» ad attacchi ingiusti, e che siano «morti in combattimento o dando la loro vita per colpire i loro persecutori per sola legittima difesa e senza eccedere». Solo costoro hanno diritto ad essere chiamati shuhùd, testimoni o martiri nell’islam. L’azione di «ribellione» alla persecuzione deve essere halal, lecita agli occhi di Dio, perché, se ritenuta haram, proibita, come l’uccisione di persone innocenti (vecchi, donne, bambini), o l’aver scatenato una reazione violenta contro un pericolo o una persecuzione non vera, è destinata a ricevere la punizione di Dio e non il compenso.
Sottolinea al riguardo Ramadan: «Il jihad non è terrorismo. L’aggressione verso civili innocenti è illecita nell’islam e non rappresenta jihad ma fasad, un’azione proibita e grave. Anche in guerra, i non-combattenti e gli innocenti hanno il diritto di essere salvaguardati nella vita, onore e proprietà. L’islam vuole stabilire un ordine mondiale in cui tutti gli esseri umani – musulmani e non musulmani – possano vivere con giustizia e pace, armonia e buona volontà. È nostro preciso dovere, come musulmani, sforzarci di comprendere di più la nostra religione, per poterla trasmettere agli altri in forma positiva. Nel contesto delle società occidentali in cui viviamo, è oggi questo il nostro jihad»15.

Angela Lano




COSTA D’AVORIOLa fine di un sogno

Il paese più ricco dell’Africa dell’Ovest
è all’impasse. La crisi scoppiata a fine 2002 non sembra risolversi.
Per la gente comune dopo i massacri ora
la difficoltà è mangiare. Testimonianze dal basso…

Abidjan. La capitale economica del paese, un tempo modello di sviluppo per tutta l’Africa occidentale, è oggi irriconoscibile. La gente ha fretta: è sospettosa. La sera tutti spariscono e i posti di blocco militari taglieggiano i pochi tassisti. I quartieri popolari sono blindati; i gruppi etnici si sono raggruppati tra loro e tentano, con improvvisate ronde, di garantire la propria sicurezza.
Al Plateau, la Manhattan africana, nel centro di Abidjan, la vita tra i grattacieli pulsa di giorno, ma al contrario di un tempo, si spegne presto la sera, così come sono ormai chiusi ristoranti e locali nottui.

I DUE PAESI

La guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002 ha spaccato territorio e società della Costa d’Avorio, creando divisioni tra la gente in base all’etnia e provenienza.
Il paese è diviso in tre: a nord il 40% è controllato da Forze nuove: militari e milizie che presero le armi contro il presidente Laurent Gbagbo, gli ex ribelli; il sud è in mano alle forze legaliste: le Fanci (Forze armate nazionali della Costa d’Avorio). Queste sono fiancheggiate e appoggiate dalle milizie del presidente, pericolosissime perché sfuggono a ogni controllo. In mezzo, la terra di nessuno: una striscia di terra larga decine di chilometri, che taglia il paese in due da est a ovest. È definita zona di «fiducia», controllata da 4 mila soldati francesi, equipaggiati con le più modee tecnologie (la missione Licoe) e dai caschi blu della Onuci, la missione delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio. Questi ultimi, alla fine dello spiegamento, saranno in 4.600.
Il popolo è sempre di più diviso: ci sono le etnie fedeli al presidente (beté, geré, athié, dida), quelle del nord (dioula, senoufo), gli immigrati stranieri (burkinabè, maliani, guineani, che sono circa il 26% della popolazione e hanno fatto la fortuna del paese, lavorando nelle piantagioni), le etnie che il potere sta cercando di «conquistare», come i baulé, legati al partito di Henri Konan Bédié (Pdci).
Ad alimentare la divisione c’è un disegno preciso del clan del presidente. Ma le radici della divisione sono da cercare più nel passato, quando alla morte di Houpouet Boigny (1993), il presidente Bédié inventò il concetto di ivorité, un nazionalismo pronto all’uso per fini politici (cfr MC ottobre 2003).
«Il paese è caduto in disgrazia – dice un tassista ad Abidjan, dal forte accento del nord -: come si può dire che è tranquillo se vengono in casa tua e ti ammazzano?». «Il paese è calmo – secondo la segretaria di uno studio di professionisti della capitale -; all’estero continuano a dire che qui è rischioso, si sta male: non è vero niente; vengano a vedere! È pieno di nordisti che vengono a fare i loro affari». Due punti di vista di persone di origine molto diversa.
La Francia, a vari livelli implicata nella crisi in Costa d’Avorio (circa 200 società francesi di medie e grandi dimensioni sono nel paese, senza contare quelle piccole), ha patrocinato la soluzione negoziale, portando tutte le parti alla firma dell’accordo di Marcoussis (presso Parigi), nel gennaio 2003. Accordo che ha visto la creazione di un governo di unità nazionale a cui sedevano tutti i partiti e i tre gruppi ribelli (Mpci, Mjp, Mpigo) riuniti sotto la sigla di Forze nuove. Goveo, che avrebbe dovuto risanare le ferite aperte della crisi: la legge fondiaria, la nazionalità, smilitarizzare gli eserciti ribelli e portare il popolo avoriano alle elezioni nel 2005.

SITUAZIONE BLOCCATA

Ma il processo di pace si è arenato: dall’inizio del marzo scorso, partiti di opposizione e movimenti ex ribelli si sono rifiutati di partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri. «Gbagbo ha da subito reso impossibile ai ministri di opposizione di governare – confida una fonte – impedendo loro di nominare i direttori generali e dando lui direttamente gli ordini a questi ultimi».
Le Forze nuove (Fn) non si fidano di un presidente che puntualmente contraddice, con le azioni, le dichiarazioni e le firme degli accordi; quindi decidono di non deporre le armi. Guillaume Soro, segretario generale delle Fn, e ministro nel governo di unità nazionale, ha dichiarato nuovamente, il primo maggio scorso, che solo se il presidente lascerà il potere, si riuscirà a organizzare elezioni libere; il disarmo, fino ad allora, non ci sarà.
Il gioco si è fatto ancora più duro e la paura è cresciuta nella capitale dopo i massacri del 25 e 26 marzo. L’opposizione aveva in quei giorni indetto una manifestazione e il governo aveva proibito ogni raggruppamento di popolazione. Il presidente temeva che le forze ribelli si sarebbero potute infiltrare e prendere la capitale.
All’alba del 25, reparti militari, di polizia e «milizie parallele» bloccarono i manifestanti prima ancora che potessero organizzarsi, continuando la repressione per tutto il giorno seguente: il governo dichiarò 37 morti; il rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani parlò di almeno 120 morti, 274 feriti e 20 dispersi; il Movimento avoriano dei diritti umani di 300-400 vittime.
«Ci sono stati molti assassini ad Abobo. I dioula hanno sgozzato due gendarmi. È entrata in azione l’aviazione; altri militari sono entrati nelle case, uccidendo la gente e portato via i corpi. Non si sa dove li portassero, ma li facevano sparire» racconta una fonte (non dioula), del quartiere popolare Abobo, abitato da molti «nordisti» e immigrati.
«Sono sparite centinaia di persone in meno di 48 ore. Voci insistenti parlano di due fosse comuni, che prima o poi, salteranno fuori» afferma un funzionario della Commissione europea, da anni presente nel paese e con molti amici nei quartieri popolari.
Il dettagliato rapporto Onu chiama in causa, come responsabili, «alte cariche dello stato» e ciò ha fatto infuriare il presidente: è iniziata una campagna di discredito nei confronti delle Nazioni Unite, condotta con ogni mezzo (mass media fedeli al potere, studenti, milizie del presidente). La situazione politica e militare è di stallo; i due blocchi si stanno a guardare.

UN VICINO PERICOLOSO

Ma al di là dei giochi e dichiarazioni politiche, continuano le sofferenze della gente comune. David Bêhi Touamin, che ha vissuto la guerra là dove è stata più cruenta, ad ovest del paese, ai confini con la Liberia, acconsente a raccontarci la sua esperienza.
Tecnico agricolo, lavorava per un organismo non governativo prima della crisi; ma alla fine del 2002, in seguito agli scontri di settembre e la divisione tra nord e sud del paese, nell’ovest nasceva il Mpigo (Movimento popolare ivoriano del grande ovest).
«Quando i ribelli presero Danané, pensammo che si trattasse di qualcosa di politico. Ma subito ci accorgemmo che questa gente attaccava tutti quelli che avevano dei beni: ong e funzionari. L’accusa di aver nascosto armi o persone bastava per dar inizio al saccheggio. Chi si opponeva era morto.
Erano liberiani, ma anche sierraleonesi, già attivi nelle lunghe guerre civili dei loro paesi e nell’est della Guinea. Giovani sfaccendati yacuba (etnia della zona) erano con loro e indicavano dove c’era da saccheggiare: sparavano in aria ed entravano nelle case della gente».
«Presi i grandi magazzini e le attività commerciali, restava la popolazione. Quella che ancora non era scappata. Hanno cominciato ad attaccare i villaggi: Kavalé, Toulepleu, Giglò, nella zona dei geré. Questi, che non volevano i liberiani, hanno cercato di respingerli, ma sono stati massacrati. E poiché tra i liberiani c’erano i yacuba, è iniziato un conflitto tra le due etnie». Problema che persiste.
Ma gli avvenimenti più sanguinosi si ebbero quando le forze nazionali (Fanci) cercarono di riprendere la zona. «Le Fanci erano composte da quattro gruppi: militari, gendarmi, milizie geré e liberiani. I geré venivano a vendicarsi per gli attacchi subiti dai yacuba e recuperare il bottino. Attaccarono Zouan-Hounien, sparando a vista, senza domandare nulla. Fortunati chi incontrava prima i militari o i gendarmi: i yacuba venivano arrestati, con l’accusa di aver aiutato i ribelli».
I liberiani di cui parla David sono di etnia affine a quella geré e in opposizione a quelli che costituivano il Mpigo, milizie mercenarie assoldate dal presidente Gbagbo per «liberare» l’ovest. «L’arrivo di questi liberiani fu il momento peggiore – conferma un padre cappuccino che dovette evacuare la zona -. Mostrarono una ferocia senza precedenti».
«Ci sono stati molti morti – continua David -. Li ho visti prima di fuggire: in certi punti c’erano cataste di cadaveri. Hanno riempito i pozzi di corpi (inquinando così le falde e creando focolai di epidemia, ndr.), altri sono stati gettati sul bordo della strada. Nella casa dove vivo adesso, c’erano vari corpi nascosti. Non sappiamo chi e quanti sono morti: è impossibile conoscee il numero».
Una volontaria italiana che lavorava nella zona racconta storie truculente, riportate dai sopravvissuti: «Un uomo fu ucciso e fatto a pezzi davanti alla moglie e ai figli. Poi, i liberiani, obbligarono la donna a cucinarlo e in seguito a mangiarlo e a bere il suo sangue…».

COSTRETTI A SPOSTARSI

David, minuto, non più giovane, è yacuba e, come molti altri nella zona, è dovuto sfollare con la famiglia ad Abidjan. Dati delle Nazioni Unite contano un milione gli sfollati interni a causa della crisi, metà dei quali non sono ancora rientrati. La maggior parte è stata ospitata presso famiglie e conoscenti, gonfiando i quartieri di alcune città come Giglo, Abidjan, Yamoussoukro. L’ovest è stato il più colpito.
«Ho fatto quattro mesi ad Abidjan, cercando lavoro, ma senza successo. Quando sono arrivati i militari francesi, la situazione si è stabilizzata e siamo ritornati – continua David -. Oggi le cose sono cambiate anche nell’ovest: non ammazzano non saccheggiano più. Ma c’è molta fame. Le case sono state bruciate, la gente si è dispersa, ha perso tutto e non ha potuto coltivare. I campi sono abbandonati, tornati a savana incolta. Ma rimane la paura. Molta gente non vuole restare nei campi».
Anche l’ovest è tagliato in due: a nord Danané e Man; a sud Zouan-Hounien, Blolequin, Guiglo. Le prime sono in mano agli ex ribelli dell’Mpci; le seconde ai governativi; in mezzo i militari francesi.
Le milizie liberiane di entrambi i fronti sono state ributtate nel loro paese e la Licoe pattuglia la frontiera per evitare infiltrazioni. David dice che adesso è possibile passare i vari posti di blocco e spiega qual è il business oggi: «Io riesco ad andare a Danané e ritorno in giornata, pagando qualcosa ai posti di blocco. Ma non posso portare bagagli. Oggi tutti cercano di fare affari con il commercio; ma solo i dioula possono farli. Per questo la situazione deve essere mantenuta calma e i soldi devono poter girare, anche fisicamente».
I grossi commercianti e capi ribelli si stanno arricchendo: importano beni di consumo dai paesi del nord (Mali, Guinea, Burkina Faso) e vi esportano caffè e cacao comprato a basso prezzo. Portare mercanzie dalla zona ribelle verso Abidjan è ancora molto complicato.
«Adesso la gente sta rientrando. C’è anche una parte della popolazione della zona occupata dai ribelli che viene da noi perché ha paura. Non c’è legge nel nord, se non quella di chi ha le armi. Qui la guerra ha toccato anche i villaggi. Molte case sono state bruciate. Non si sa ancora chi è morto, chi è vivo ed è scappato. Per questo molti occupano le case ancora in piedi di chi è sparito; mentre può capitare di vedere le proprie cose, saccheggiate nei mesi precedenti, a casa di qualcun altro».
La sanità è in emergenza in entrambi i lati. Le scuole stanno riprendendo anche nel nord, ma i pochi insegnanti non hanno nessun controllo. «Ma il problema più grave è la mancanza di cibo – conclude David -. I commercianti dioula vendono il riso a 200 franchi (30 centesimi) al chilo, anziché a 260, ma la gente non ha i soldi per comprarlo».

Marco Bello




AL SUPERMERCATO DELLE RELIGIONIBusiness ecologia magia

DAMANHUR: una sètta
abbastanza recente e che ha,
come caratteristica, quella di stupire a tutti i costi.

Chi l’avrebbe mai detto che la Valchiusella, verdissima e selvaggia, a circa 50 km da Torino, fosse il centro dell’universo? È certamente un bel posto, con un torrente ricco di pregiate trote, siti archeologici di un certo interesse e boschi che in autunno regalano profumatissimi funghi porcini.
Un tempo, la valle fu uno dei tanti serbatorni operai del canavese, la silicon valley italiana ai tempi ruggenti dell’Olivetti; ma dopo il tracollo della fabbrica è divenuta famosa per la presenza della comunità Damanhur, fondata nel 1976 da Oberto Airaudi, carismatico personaggio che, attraverso un lunghissimo percorso, ha creato un vera «nazione» o, come preferiscono definirla i damanhuriani, una «città stato» o «città della luce», con una propria costituzione, un governo, una moneta (intea), una scuola privata (fino alla terza media).
«Damanhur è un esperimento sociale volto a dimostrare che, solo attraverso una vita giorniosamente mistica e comunitaria, è possibile oggi salvare l’umanità dal disastro morale ed ecologico cui l’attuale società post-industriale sta portando ineluttabilmente il nostro mondo. Damanhur sarà la città santa del futuro, la prima porta, il primo gradino, tramite il quale si potrà accedere ai grandi spazi della mente e dello spirito»1.
E ancora nella costituzione Damanhur si legge: «… tutti si adoperano a evitare qualsiasi forma di inquinamento o spreco nella vita quotidiana o nell’agricoltura».
Il riferimento alla crisi ecologica post-industriale, che negli anni ’70 veniva irrisa un po’ da tutti, ma ancora adesso, purtroppo, come è ben evidenziato dalla rubrica «Una sola madre terra» pubblicata su questa rivista, si può considerare l’elemento innovativo e di grande successo che ha portato i Damanhur a essere un punto di riferimento anche politico per la vita sociale di tutta la Valchiusella.
Non è un caso infatti che l’esplosione di adesioni sia avvenuta all’insorgenza della crisi Olivetti e dell’acutizzarsi dei problemi ambientali presenti sul territorio.
Molti erano rimasti delusi dalle promesse capitalistiche, senza lavoro e preoccupati per l’avvenire delle generazioni future: su questo zoccolo duro, molto pragmatico, si è innestata la visione esoterica, magica e sincretica voluta dall’Airaudi, che ha reso le sirene damanhuriane ancora più originali e affascinanti.

N egli anni ’80 i Damanhur sfruttarono perfettamente la scoperta di una nuova nicchia, solo lontanamente imparentata con la New Age, con dimostrazioni estreme, come il vivere nei boschi in totale isolamento, oppure con la nascita dell’agricoltura biologica (i primi in Italia) e ancora con le horusiadi, giochi nei quali si sviluppa l’ampliamento della percezione umana, volte a catturare l’attenzione della popolazione locale.
La piccola comunità divenne importante non solo nel numero di cittadini, ma anche negli affari, dato che le attività economiche, artigianato di altissima qualità e costo ebbero un vero boom.
Il continuo ingegnarsi portò alla quasi totale autonomia della comunità, anche in aspetti molto pratici, come la produzione di energia elettrica, fabbisogno alimentare, vestiti. Infine, nacque il filone della medicina naturale, anche in questo caso tra i primi in Italia, e fu l’ennesimo successo.
Nel 1992 i Damanhur vennero alla ribalta a livello nazionale con la scoperta del «Tempio dell’Uomo»: un gigantesco mausoleo di eccezionale valore ingegneristico e artistico, costruito in circa 15 anni all’interno di una montagna e nella totale segretezza.
Ma nel 1996 un fuoriuscito parlò alle autorità civili dell’esistenza di tale edificio, che rischiò di venire soppresso; ma dopo numerose petizioni, fu condonato il flagrante abuso edilizio e il tempio damanhuriano fu addirittura dichiarato «opera d’arte collettiva» dal Ministero dei beni culturali.
In quell’anno, la popolazione di Damanhur arrivò a 500 persone, distribuite a macchia di leopardo sul territorio della valle. Attualmente si possono contare circa 2 mila adepti in tutta Italia.
La scolarità dei cittadini è di livello superiore al livello nazionale e il fenomeno della fuoriuscita dalla comunità risulta molto marginale.
Come sopravvive, anzi, prospera e si espande la comunità Damanhur? Ristoranti cari, prodotti biologici extra lusso, migliaia di visitatori che ogni anno visitano il «Tempio dell’Uomo», corsi di medicina alternativa sono le maggiori voci.

I l credo damanhuriano è contenuto nel libro La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur, tramite Oberto Airaudi.
Ottimismo e consapevolezza della limitatezza della percezione umana sono le parole d’ordine, insieme ovviamente alla sostenibilità.
Tutto è in divenire secondo la filosofia damanhur: per raggiungere e sperimentare i tanti mondi in cui è immerso, l’uomo deve sperimentare e ricercare in continuazione.
A differenza del buddismo, che prevede la distruzione del karma come liberazione del dolore, i damanhuriani teorizzano come meta finale la «coscienza», cioè la partecipazione viva a tutte le forme di vita.
«Tale risultato, ovviamente, non si raggiunge con una vita sola, bensì attraverso una serie di nascite ripetute non solo nella forma uomo, ma anche in quella animale vegetale»2.
Il pensiero diventa complesso e alquanto ermetico, quando si teorizza la presenza degli «spiriti della natura», ovvero i veri signori della terra, con i quali si dovrebbe incessantemente trovare un contatto su piani sottili, ovvero luoghi che l’uomo per sua limitatezza inizialmente non riesce a percepire, a differenza delle piante e degli animali. Per riuscire in questo, l’uomo può utilizzare la magia, elemento doppio che raccoglie in sé fattori spirituali e tecnologici.
Si tratta di un pensiero piuttosto stravagante, con teorie ermetiche e fortemente sincretiche, in cui sono mescolate tutte le credenze religiose e filosofiche dell’umanità, dell’antica religione egizia alla mitologia classica, dalla religione celtica a quelle orientali, dalla modea ricerca scientifica all’ecologia e libero mercato…
Come dimostrato dai maggiori studi antropo-sociologici, il fattore rituale rappresenta un cardine delle nuove sètte: i Damanhur non fanno eccezione; anzi, la vita comunitaria, per molti aspetti fortemente spersonalizzata, trova legittimazione intea nella partecipazione ai più importanti riti. Solstizi ed equinozi, la commemorazione dei defunti, il rituale dell’uomo sono momenti in cui vengono date spiegazioni cosmogoniche che definire originali è assolutamente riduttivo.
Cerimonie rituali, preghiere, esperienze medianiche, giochi, assemblee, evocazione delle forze cosmiche si svolgono generalmente nel tempio all’aperto. Tale tempio non è dedicato a una divinità in particolare; tutti gli déi sono ben accolti, come segno di tolleranza e pluralismo religioso e filosofico. Tuttavia a Pan, un dio dell’antica Grecia, è riservato un culto particolare, poiché indica le forze vitali della natura che ora sono compromesse dall’inquinamento ambientale.

D alle ceneri della New Age sono nati centinaia di movimenti esoterici, la maggior parte dei quali sono scomparsi. Ma la comunità di Damanhur, a oltre 25 anni dalla nascita, gode di ottima salute e si può considerare in piena espansione, forse grazie alla ricetta che prevede occidente e oriente, tecnologia e spiritualità, creatività artistica e crescita economica, classici elementi New Age, ma rivisitati in salsa non fondamentalista.
I Damanhur non sono rivoluzionari; preferiscono definirsi «diversi». Anche per questa ragione le attività nella vita pubblica sono accresciute notevolmente, evitando così il rischio dell’elitarismo.
Ultimamente Damanhur ha dato grande prova di vitalità con l’acquisto di alcuni capannoni ex Olivetti, riutilizzati con scopi artistico-culturali e aperti alla popolazione tutta. Investimenti di notevole portata finanziaria, segno della solidità economica del gruppo, ma anche della voglia di interagire con l’esterno.
Pur considerandosi «nazione autonoma» o, secondo un rapporto di polizia, «un’organizzazione che ambisce ad assumere le caratteristiche di stato nello stato», alle ultime votazioni amministrative in Valchiusella i damanhuriani hanno avuto un grande successo, riuscendo ad eleggere un sindaco e 21 consiglieri comunali.
Note
1- Da: La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur attraverso Oberto Airaudi, edizioni Horus, p. 29
2- Da: Costituzione damanhuriana, art. 5.

Maurizio Pagliassotti




RWANDAQual machete che nessuno fermò’

Un milione di morti sotto gli occhi
del mondo. Cosa causò quella tragedia? Conflitti etnici, retaggi della dominazione coloniale o altro? A 10 anni di distanza ancora ci si interroga. Mentre
la situazione nella regione dei «Grandi laghi» rimane altamente instabile.

Dieci anni fa il cuore dell’Africa sanguinava per la tragedia del Rwanda. Circa un milione di tutsi (ma anche molti hutu moderati) furono trucidati a colpi di machete in tre mesi, tra aprile e luglio del 1994. L’odio etnico, che da sempre ha strutturato i rapporti sociali tra i due maggiori gruppi etnici, ha raggiunto un atroce parossismo con la «soluzione finale» teorizzata e meticolosamente messa in pratica dagli estremisti dell’hutu power. In Africa e nella regione dei Grandi laghi tornavano a materializzarsi le peggiori previsioni degli «afropessimisti» che scommettevano sull’inevitabile deriva del continente. Il genocidio era un evento traumatico, un dramma storico che segnava uno spartiacque tra l’Africa di prima e quella del dopo genocidio.
La tragedia rwandese del 1994 è stata un’opera di sterminio tra le peggiori avvenute nel secondo dopoguerra. È quindi doveroso interrogarsi su come si sia arrivati ad una simile esplosione di violenza.
Il ruolo del colonialismo nella definizione delle identità etniche è ormai ampiamente accertato. Le autorità coloniali della Germania prima e del Belgio poi non hanno favorito sempre gli stessi gruppi sociali od «etnici».
In un primo tempo, le autorità coloniali avevano individuato nei tutsi i propri referenti di fiducia. Successivamente, negli anni Cinquanta, vennero invece preferiti gli hutu. Il momento di svolta nella scelta degli europei del proprio personale politico ed amministrativo di fiducia coincide con un mutamento nell’atteggiamento della chiesa cattolica. E con la scomparsa di una forte personalità e di un capace organizzatore come monsignor Classe (esponente di rilievo del movimento missionario francese del primo Novecento): «La morte di monsignor Classe, avvenuta nel gennaio del 1945, aveva concluso l’esperienza di una generazione di missionari “monarchici” cresciuti nel quadro del cattolicesimo francese del XIX secolo, rigido e conservatore». La nuova generazione di missionari, vicini al cristianesimo sociale belga, vedeva gli hutu come gli oppressi da aiutare. Così, «una contro-élite hutu si formò nelle scuole cattoliche e nei seminari» ed assunse ben presto ruoli politici, emarginando definitivamente i tutsi con la «rivoluzione sociale» del 1959. Il regime rwandese divenne sempre più autoritario ed oppressivo, mentre i tutsi emigrati all’estero per sfuggire alle persecuzioni costituivano le proprie organizzazioni politiche e militari per rientrare in Rwanda. Si arriva così all’epilogo del massacro nel 1994, ultimo capitolo dell’agire genocidario, esito di una sequela di avvenimenti storici e non più inspiegabile esplosione di violenza.
La «questione etnica» in Rwanda parte dalla comprensione del formarsi dei contrasti tra hutu e tutsi. I nodi della questione sono fondamentalmente tre: se sia più corretto affermare che si tratti di contrasti etnici o di contrasti socio-politici, e come ha agito il colonialismo sulla società rwandese nel definire le identità etniche.
Per quanto riguarda la prima questione, alcuni studiosi sostengono la tesi che la divisione hutu-tutsi sia essenzialmente sociale, riprendendo le analisi di Claudine Vidal secondo cui l’ubuhake (il contratto di vassallaggio feudale secondo il quale un proprietario di bestiame prestava alcuni capi ad una persona che così assumeva nei suoi confronti obblighi servili), «contrariamente a quanto affermato dalla visione “classica”, non si concludeva esclusivamente fra tutsi ricchi e hutu poveri ma, verosimilmente, fra due lignaggi tutsi di differente livello socio-economico». Inteso in questo senso, come afferma l’abbé Alexis Kagame, si può definire «tutsi chiunque possiede più capi di grosso bestiame anche se non di razza hamita».
Una lettura del conflitto come sociale anziché razziale è fondamentale, ma difficile da accertare con sicurezza, basandosi su fonti orali raccolte all’inizio dell’epoca coloniale. Molto più convincente invece l’analisi del secondo importante nodo della questione, ovvero l’impatto del colonialismo nella definizione delle etnie. Per analizzare tale problematica si può infatti ricorrere ai classici metodi dell’indagine storica, disponendo di numerose prove documentarie: gli archivi coloniali, i diari degli amministratori e dei missionari, ogni sorta di documenti riguardanti l’azione delle autorità coloniali. «Lo scopo principale delle milizie armate nel passato era proteggere Kigali dall’assedio del Fronte patriottico rwandese. Da quando è arrivata l’Unamir, gli è stato ordinato di censire tutti i tutsi che vivono a Kigali. Il nostro informatore sospetta che ciò venga fatto in previsione del loro sterminio».
L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, il capo canadese dei Caschi blu inviati in Rwanda, generale Roméo Dallaire, avvertì l’Onu di quanto stava per accadere nel paese africano. Nessuno si mosse. Tre mesi dopo, il 6 aprile 1994, l’omicidio di Juvenal Habyarimana, capo di stato rwandese di etnia hutu, diede il via allo sterminio dell’etnia tutsi: stando a prove documentali, i morti furono 937 mila.
È necessario ripartire dalla storia del colonialismo e l’indipendenza del Rwanda, raccontando la salita al potere di Habyarimana e i primi scontri tra le due diverse etnie in cui si divide il paese: la maggioranza hutu e la minoranza tutsi.
Nel suo saggio Daniele Scaglione narra l’intervento delle forze di interposizione dell’Unamir e l’esplodere delle violenze. Infine, descrive i tentativi di ricostruire il paese e di consegnare gli autori dell’eccidio alla giustizia. Particolarmente drammatica risulta l’analisi del modo inadeguato con cui l’Onu preparò la missione dei 2.500 soldati dell’Unamir. Il generale Dallaire si trovò a gestire una truppa i cui uomini provenivano da 20 paesi differenti, tra cui Bangladesh, Ghana e Belgio. Per motivi di bilancio e per la sottovalutazione della situazione, i soldati furono male equipaggiati: la dotazione si limitò a veicoli leggeri di fabbricazione russa e a segnalatori luminosi privi di batterie, mentre mancò del tutto l’artiglieria. Inoltre, il generale dovette affrontare il difficile rapporto con Jacques Roger Booh, rappresentante dell’Onu in Rwanda, la cui tendenza era a minimizzare quanto stava avvenendo. Scaglione, nel suo lavoro, afferma: «Sul Rwanda l’Onu ha completamente fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Se il Consiglio di sicurezza non è stato adeguatamente informato di ciò che accadeva è perché Boutros Ghali, Kofi Annan e i loro collaboratori hanno liberamente scelto di non farlo». L’insuccesso della missione fu vissuto da Dallaire anche come una sconfitta personale. Dalla narrazione emerge l’umanità del generale che, dopo l’ordine da New York di abbandonare il paese, scelse di restare con pochi soldati fidati. «Roméo Dallaire si è ammalato e a distanza di ormai quasi nove anni ancora non è del tutto guarito. Il suo corpo, la sua mente, non hanno saputo accettare quello che ha vissuto».

BOX 1

BUTARE CHIAMA, GENOVA RISPONDE

A seguito degli avvenimenti del 1994, un notevole numero di artigiani dell’area di Butare (a circa 3 ore d’auto dalla capitale Kigali), che facevano riferimento al «Centro dei mestieri», creato nel 1990 dalla cooperazione tedesca, non risultavano più essere attivi. I motivi principali di ciò dipendevano dal loro essersi rifugiati nei paesi limitrofi, oppure di essere scomparsi (morti o imprigionati). Senza contare che il Centro, luogo fisico di attività e identità degli artigiani, era andato distrutto.
Per rilanciare l’attività degli artigiani dell’area nel settembre 1996 è sorto un progetto sostenuto dalla Gtz (Cooperazione Tecnica Tedesca) che ha permesso la costituzione, nell’agosto del 1997, della Copabu (Cooperativa dei produttori artigianali di Butare), con i seguenti obiettivi:
• promuovere la vendita dei prodotti artigianali dei suoi membri
• fare conoscere i diversi mestieri presenti sull’area
• sostenere gli artigiani affinché venga fissato il miglior prezzo possibile alle loro merci
• organizzare fiere periodiche.
La Copabu è attualmente il riferimento locale per 954 artigiani della prefettura di Butare, 324 uomini e 630 donne. Di questi 99 sono soci individuali, mentre gli altri sono associati alla Copabu attraverso 35 associazioni di villaggio. A loro volta queste associazioni sono distinguibili perché esclusivamente femminili (sono 19 quelle associate alla Copabu), o maschili (7) o ancora miste (9).

Il gemellaggio
Dopo il genocidio, la Caritas Italiana era intervenuta in Rwanda con un programma d’urgenza che ha permesso di riabilitare quasi il 50% del settore sanitario. Un’équipe di operatori fino a tutto il 1999 è stata presente nel paese per sostenere attività in favore dei bambini di strada, dei carcerati (oltre 130.000) e piccoli progetti agricoli, d’allevamento e di costruzione di case. Nel 1998, grazie alla presenza a Kigali di Maurizio Marmo, referente del «Programma Grandi Laghi» della Caritas Italiana ed esponente del mondo del commercio equo e solidale, è stato possibile avviare il contatto che si sarebbe poi concretizzato nel progetto di gemellaggio.
Una prima missione nel febbraio del 1999, grazie anche al contributo del Comune di Genova, ha reso possibile la conoscenza reciproca tra La Bottega Solidale di Genova e la Copabu di Butare e la stesura di un primo documento d’accordo finalizzato a facilitare l’accesso ad un nuovo mercato estero per i prodotti degli artigiani e delle artigiane della Prefettura. Nell’ottobre 1999: arriva il primo container di prodotti rwandesi, reso possibile dalle prenotazioni di circa 70 botteghe del mondo di tutta Italia. Per la Copabu un aumento di fatturato del 60% rispetto all’anno precedente, per i consumatori delle botteghe una nuova opportunità di acquisto di prodotti africani e di informazione attraverso il materiale informativo che accompagna gli oggetti.
Ci sembra importante richiamare, nelle motivazioni del progetto, quanto scritto dalla giornalista Colette Braeckman: «Ogni volta che hutu e tutsi lavorano fianco a fianco, facendo sorgere dalla terra un’altra casa, è anche il nuovo Rwanda che si costruisce». E ancora, tratto da uno scritto di André Sibomana, sacerdote direttore della rivista Kinyamateka, scomparso nel marzo 2004: «Dobbiamo riapprendere a vivere insieme. Alcuni diplomatici – pensando senza dubbio che non saremo mai più capaci di coabitare – hanno suggerito la creazione di un Hutuland e di un Tutsiland. Questa idea non è soltanto stupida; è assai nefasta. Al di là del fatto che questa divisione dei rwandesi sarebbe una magnifica vittoria degli apostoli del razzismo, credo che non sia dividendo o spostando i problemi che li si risolve. Al contrario».
Il progetto ha anche questa ambizione: sostenere la sfida voluta dagli artigiani di Copabu e da coloro che si impegnano a livello locale per promuovere incontri tra le vedove del genocidio e le donne i cui mariti sono incarcerati. Una sfida difficile, ma possibile.
L.Rolandi

Luca Rolandi




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola




GLI OGM (2) Sfameremo il mondo con il cibo di Frankestein?

La «biodiversità» è in grave pericolo anche a causa delle biotecnologie e dei prodotti geneticamente modificati. Le multinazionali si appropriano
di organismi viventi e di saperi del Sud del mondo (è la pratica della «biopirateria») e li brevettano per fae commercio e profitti. Nell’Unione europea oggi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti Ogm. Allo stesso tempo, la Commissione Ue ha ceduto alle pressioni dell’industria togliendo la moratoria sull’importazione degli Ogm (come il mais dolce «Bt11»). Sarebbe meglio decidere: prima il business o prima le persone? (Seconda parte)

«Attualmente il 95% del nostro fabbisogno alimentare è legato a 30 piante, e tre quarti della nostra dieta si fondano su 8 colture. Il re dei Boscimani, in Sud Africa, pranza con 85 tipi di verdure selvatiche. E noi? I nostri supermercati moltiplicano le confezioni e le cosmesi di prodotti, e spacciano la “diversità ottica” per “diversità biologica”. L’uomo dei paesi industrializzati acquista involucri diversi e mangia le stesse cose» (1).
Giorgio Celli visualizza così una delle conseguenze dell’industria agroalimentare: la perdita di biodiversità, destinata ad acutizzarsi con l’introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura. Soddisfatti l’occhio e lo stomaco, ci siamo «dimenticati» di porre l’attenzione al modo in cui è stato ottenuto il cibo di cui ci nutriamo.

BIODIVERSITÀ: LA DIVERSITÀ BIOLOGICA

Per biodiversità, ossia «diversità biologica, diversità della vita», si intende sia la ricca varietà delle forme viventi che popolano il nostro pianeta sia gli ecosistemi in cui le diverse specie sono inserite.
Secondo le stime, il numero di specie viventi è compreso tra 3,6 e 100 milioni. Attualmente si conoscono circa 3.000 specie di batteri, 260.000 piante vascolari, 70.000 funghi, 500.000 virus, 45.000 vertebrati e 950.000 insetti.
L’uomo rappresenta solo una delle milioni di specie esistenti, ma l’industria agroalimentare e biotech considera tutte le altre come semplici fonti di materia prima e di profitto. Al di là degli aspetti etici e del rispetto per tutte le forme viventi, preoccuparsi esclusivamente delle specie vegetali e animali considerate «utili» all’uomo può risultare molto rischioso. Ad esempio, microbi apparentemente insignificanti giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento di processi ecologici che permettono la vita di tutte le specie, compresa la nostra. Eppure, evidenzia Vandana Shiva, non esiste alcun movimento di opinione per la loro tutela e protezione, come c’è invece per salvare la tigre o l’elefante.
Ogni anno si estinguono circa 27.000 specie, mille volte di più di quanto avverrebbe senza il contributo umano. «L’uomo – continua la scienziata indiana – almeno nei paesi occidentali, pensa infatti di occupare il vertice della piramide della vita, anziché considerarsi un semplice tassello nel complesso teatro biologico del pianeta, dove il grande dipende dal piccolo e dove l’estinzione di una specie significa non solo perdere quella specie, ma anche creare una situazione di pericolo per le altre». Per fare un esempio, quando scompare una pianta, con lei si estinguono da 20 a 40 specie animali. Un metro cubo di terreno estratto da una faggeta in Danimarca e analizzato in laboratorio, ha rivelato la presenza di 50.000 anellidi, 50.000 fra insetti e acari, 12 milioni di nematodi. Un grammo dello stesso campione conteneva 30.000 protozoi, 50.000 alghe, 400.000 funghi e miliardi di cellule batteriche. Batteri, funghi e protozoi dell’intestino di molti animali svolgono funzioni fondamentali per la digestione: senza questi organismi microscopici i cosiddetti animali superiori non potrebbero esistere. L’ignoranza umana sulle funzioni ecologiche delle specie viventi non può quindi essere il pretesto per manipolarle a piacimento, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e, dunque, sull’uomo.
La distruzione della biodiversità è stata sicuramente accelerata dalla globalizzazione: centinaia di migliaia di ettari di foreste e terre agricole sono convertite in monocolture industriali, ossia in distese di territorio coltivate ad un’unica coltura, scalzando e distruggendo, quindi, la diversità biologica. Ad esempio, rispetto ad una foresta pluviale ricca di specie, che sostiene gli ecosistemi e i cicli ecologici, la concezione dominante privilegia le monocolture, come quella dell’eucalipto, utile all’industria della carta e della polpa di legno. Mantenute grazie all’uso intensivo di fertilizzanti chimici, energia e acqua, le monocolture distruggono la biodiversità e consumano più risorse naturali. Per fare un altro esempio, in India le varietà indigene di grano richiedono 300 mm d’acqua, mentre le varietà dell’agricoltura industriale ne usano circa 900.
Avendo come obiettivo la selezione di piante con una presunta maggiore produttività, l’estensione delle coltivazioni Ogm su tutto il pianeta rientra quindi perfettamente in questa tendenza alla monocoltura ed anzi la incentiva.

DIVERSITÀ CULTURALE

Quando i modelli di produzione e consumo della popolazione ricca del pianeta contribuiscono all’erosione della biodiversità, compromettono la possibilità dei poveri del Sud del mondo di mangiare e curarsi: per loro la biodiversità si traduce, infatti, in sopravvivenza umana.
«Per il cibo e le medicine, per l’energia e le fibre, per i cerimoniali e l’artigianato, i poveri dipendono proprio dall’abbondanza delle risorse biologiche, dalla conoscenza e dall’esperienza accumulata nel tempo sulla biodiversità – dichiara Vandana Shiva -. Tre miliardi di persone, cioè il 60% della popolazione mondiale, utilizzano le medicine tradizionali per il trattamento delle malattie». In India e in Cina l’80-90% di queste cure si basa sulla conoscenza dei principi attivi delle piante: il solo erbario officinale cinese utilizza circa 5.000 specie vegetali. In Kenya, il 40% dei principi curativi vegetali viene estratto dalle piante delle foreste native. Gli stessi chinino e morfina sono prodotti di origine vegetale: negli Usa il 40% delle prescrizioni mediche dipende ancora da principi attivi ricavati dalle risorse naturali. Anche la popolazione che vive nel mondo industrializzato ha bisogno della biodiversità per la propria economia: dal cibo, al petrolio e al carbone, al cemento, tutta l’economia dipende dalle risorse biologiche.
«Se si fa una valutazione in termini di biodiversità anziché di capitali finanziari, il Sud del mondo è ricchissimo, mentre il Nord è povero. Al contrario, il Nord ha accumulato benessere esercitando il controllo sulle risorse biologiche del Sud». Con l’avvento degli Ogm tale controllo è incrementato ed è destinato ad aumentare.

IL MITO (FALSO) DI SFAMARE IL MONDO

I fautori degli Ogm affermano che lo sviluppo delle colture transgeniche è essenziale per sfamare la crescente popolazione mondiale e per abbassare i prezzi delle derrate alimentari. Qualsiasi rischio derivante dalla tecnologia agroalimentare di ultima generazione, sostengono, non può essere paragonato ai benefici apportati da maggiore quantità di cibo a prezzo più basso (2).
Chi si oppone alle biotecnologie, offre, però, diverse argomentazioni. Innanzitutto, spiega Greenpeace, «l’insicurezza alimentare – come elegantemente viene oggi definita la fame – non si caratterizza per l’insufficiente disponibilità di alimenti, ma per la squilibrata distribuzione dei redditi e l’iniquo accesso alle risorse produttive, che rendono precario l’accesso al cibo. La produzione odiea di alimenti a livello mondiale è tale da soddisfare il consumo umano per un valore medio pari a 2.800 calorie pro capite al giorno, a fronte di 2.500 calorie ritenute la soglia media per un’alimentazione adeguata». In linea con questo punto di vista, l’economista indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel nel 1998, afferma che «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare. Non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare».
In Argentina, secondo produttore mondiale di colture geneticamente modificate e unico paese in via di sviluppo che coltiva piante transgeniche su larga scala, gli Ogm hanno concentrato la ricchezza e gli introiti nelle mani di poche aziende, contribuendo all’ulteriore impoverimento dei piccoli agricoltori. «La causa principale della fame risiede in problemi di natura sociale e politica, e puri strumenti tecnologici, quali sono gli Ogm, non offrono soluzione a questi problemi. Sono troppo costosi per i contadini e non sono appropriati per il consumo locale, tanto che le colture Gm, come mais, soia, colza e cotone, vengono esportate e utilizzate soprattutto come alimento per il bestiame.
I dati mostrano, inoltre, come i raccolti transgenici stiano soppiantando alimenti che popolazioni di culture diverse usano da sempre. «L’industria si sta concentrando su raccolti non alimentari, come il tabacco e il cotone, e sulla soia che, prima d’ora, rappresentava un alimento base solo nell’Asia dell’est – incalza Vandana Shiva -. Tabacco, cotone e soia non sono alimenti base e non sfameranno gli affamati». Semmai, preoccupazioni sulla produttività dei terreni agricoli provengono dai crescenti fenomeni di desertificazione che, negli ultimi 50 anni, hanno interessato l’85% circa della superficie agricola mondiale: erosione, salinizzazione, compattamento, impoverimento dei nutrienti, inquinamenti di vario tipo.
Molta enfasi è stata data al cosiddetto Golden rice, ossia riso Gm alle popolazioni con carenza di vitamina A. Tuttavia, affinché sia fonte di vitamine per chi se ne ciba, la dieta deve contenere quantità sufficienti anche di grassi e proteine, situazione evidentemente non realistica.

IL MITO DEGLI ALTI RENDIMENTI

Il bihmal è un albero diffuso nella regione dell’Himalaya. Si tratta di una pianta «polivalente»: le foglie offrono nutrimento agli animali d’allevamento durante la stagione secca, i rami foiscono fibre per la fabbricazione di corde, combustibile per cucinare e sostanze detergenti per i capelli. Per gli esperti dell’agricoltura industriale sarebbe da eliminare, per incrementare la resa delle colture. Molte varietà agricole sono state ingegnerizzate per ottenere maggiori rendimenti in termini di chicchi, ossia solo di una parte del raccolto effettivo: la paglia idonea a nutrire il bestiame e il suolo viene invece prodotta in quantità modeste.
Ciò che si ottiene con gli Ogm è quindi un aumento del prodotto su cui c’è interesse commerciale, a spese della componente utile per gli animali, i suoli e per l’economia locale. Secondo alcuni esperti, prima fra tutti Vandana Shiva, «l’ingegneria genetica porta in realtà ad una diminuzione complessiva della produzione».
Piantare una sola coltura sull’intera superficie di un campo, come prescrive la tecnica della monocoltura, ovviamente ne accresce il rendimento; piantare diverse colture intercalate comporterà una resa minore per ognuna di esse, ma una più elevata produzione totale di cibo. «Il mito degli alti rendimenti degli Ogm è fondato sul confronto con le grandi monocolture industriali anziché con l’agricoltura biologica, che è la vera alternativa», conclude Vandana Shiva.
Se vogliamo eliminare fame e povertà è necessario conservare la diversità, biologica e culturale.

BREVETTI E BIOPIRATERIA

L’ingegneria genetica ha aperto la strada ai brevetti sulla vita, il primo dei quali è stato concesso nel 1980 alla General Electric per un batterio modificato geneticamente. Negli ultimi anni, con l’introduzione sul mercato di piante transgeniche e di organismi misti, come ad esempio il maiale serbatornio di organi da trapiantare su esseri umani, la richiesta di brevetti per vegetali ed animali ha subito un’accelerazione. All’Ufficio europeo brevetti (Epo) di Monaco sono state presentate più di 15.000 richieste di brevetti nel campo dell’ingegneria.
I sostenitori della brevettabilità degli organismi viventi affermano che la concessione del brevetto consente, al mondo scientifico ed industriale, di accedere ad informazioni importanti da utilizzare per migliorare il benessere umano.
Tuttavia, chi si oppone alla brevettabilità adduce differenti motivazioni, sostenendo che la «libertà di ricerca» viene scambiata con la «libertà di vendere». Innanzitutto, un organismo vivente non può essere considerato propriamente un’invenzione umana. «I geni non sono creati dagli ingegneri genetici che, semplicemente, li spostano da una parte all’altra – come ha sottolineato un gruppo di scienziati inglesi -. Se questo principio fosse stato applicato alla chimica, sarebbero stati brevettati anche gli elementi» (3).
I brevetti rappresentano inoltre un incentivo commerciale allo sviluppo di organismi geneticamente modificati: avendo generalmente una validità compresa tra 17 e 20 anni, esso garantisce al suo possessore i diritti esclusivi per sfruttare l’invenzione a fini commerciali. Infatti, dichiara Greenpeace, nel caso delle colture geneticamente modificate gli agricoltori devono per esempio pagare un diritto sul brevetto, delle royalties per l’uso dei semi ingegnerizzati, nonché le sementi stesse prodotte dalle piante ingegnerizzate per tutta la durata del brevetto.
I potenziali profitti derivanti dalla brevettabilità incoraggiano quindi le multinazionali a ricercare per il mondo i geni che potrebbero avere applicazioni proficue dal punto di vista commerciale. Come si è visto in precedenza, una delle ricchezze peculiari dei paesi del Terzo mondo è rappresentata proprio dalla diversità genetica: nelle foreste pluviali del Sud vive più della metà delle specie animali e vegetali del mondo. I ricercatori vengono quindi inviati in queste zone per scovare organismi o piante di valore, riportano in laboratorio i campioni, e da questi vengono isolati i principi attivi o le sequenze geniche che saranno brevettate come «proprie» invenzioni.
Come denuncia Greenpeace, l’accordo TRIPs sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade related aspect on intellectual property rights), iniziativa di una coalizione di multinazionali, non impone né che le compagnie biotech chiedano un permesso prima di accedere alle risorse biologiche, né che i proprietari dei brevetti condividano i benefici con le popolazioni che da un lato abitano le terre da cui hanno origine i geni, e che dall’altro hanno mantenuto e sviluppato la biodiversità nel corso di migliaia di anni. Anzi, in molti casi, le comunità devono pagare alle multinazionali i diritti per usare qualcosa che precedentemente era parte integrante della loro civiltà.
In India, l’albero di Neem rappresenta un classico esempio: utilizzato per migliaia di anni grazie alle sue proprietà antibatteriche ed insetticide, proprio su queste caratteristiche le multinazionali occidentali hanno ottenuto dozzine di brevetti.
Un rapporto commissionato da Christian Aid ha valutato che la biopirateria sta drenando risorse dal Terzo mondo per un valore equivalente a 45 miliardi di dollari all’anno.

IL CONSUMATORE PRIGIONIERO

«Nell’era della comunicazione – spiega Giorgio Celli – si è verificata, su una materia universale e tanto delicata come quella degli alimenti, un’imperdonabile omissione di comunicazione». Nell’era della democrazia, i cibi transgenici sono stati immessi sul mercato prima ancora che i consumatori potessero capire di cosa si trattasse. Nell’era della libertà, il cittadino non ha potuto scegliere se acquistare o meno prodotti Ogm, semplicemente perché non è stato informato che essi erano già presenti in commercio.
Nell’Unione europea, il 18 aprile 2004, sono entrati finalmente in vigore i nuovi regolamenti europei sull’etichettatura di alimenti e mangimi geneticamente modificati e sulla tracciabilità degli Ogm. Ora tutti i prodotti contenenti ingredienti o derivati da un ingrediente che contiene più dello 0,9% di Ogm dovranno essere etichettati con la dicitura «questo prodotto contiene Ogm» oppure «questo prodotto deriva da Ogm».
L’etichettatura sarà richiesta anche per i prodotti in cui il Dna degli Ogm non può più essere identificato nel prodotto finale, come oli vegetali, amidi, zuccheri, ecc., finora esclusi dall’obbligo di etichettatura. Anche mangimi e additivi dovranno finalmente essere etichettati; basti pensare che i mangimi per gli allevamenti zootecnici (pollame, suini, bovini, pesci), costituiscono l’80% degli Ogm che entrano in Europa da oltreoceano. Secondo la Fao, nei paesi industrializzati il 70% della produzione dei cereali, ed in particolare della soia, viene infatti dirottato verso l’alimentazione zootecnica.
Anche se ancora lacunosi su alcuni aspetti, i nuovi regolamenti rappresentano attualmente le misure più rigide sull’etichettatura degli Ogm su scala mondiale, e dimostrano una certa attenzione nei confronti dei consumatori. Dati resi noti nel novembre 2003 dal Censis nell’ambito delle indagini condotte dal Monitor Biomedico, svelano infatti che il 57,3% degli italiani si dichiara favorevole agli interventi di ingegneria genetica se finalizzata alla prevenzione delle malattie. Ma la situazione si ribalta quando si parla di alimentazione: il 56,6% del campione è contrario e il 30,6% è favorevole. In seguito alla pressione dei consumatori, dettaglianti e grandi compagnie del settore hanno cominciato a puntare sugli alimenti non Gm. I primi sono stati Nestlè, Unilever e Cadbury nel 1999. Nello stesso anno la Monsanto ha addirittura deciso di eliminare per quanto possibile l’impiego di soia e mais transgenici dalla propria mensa aziendale!

DILEMMI E VINCOLI DEGLI SCIENZIATI

Secondo molti studiosi, non essendo ancora in grado di padroneggiare le nuove biotecnologie, l’unico atteggiamento razionale è quello di adottare il principio di precauzione, e quindi proporre controlli rigorosi alla sperimentazione e una moratoria sulle fasi successive. Il commercio dovrebbe essere guidato dal sapere scientifico, non il contrario.
Tuttavia, mentre da un lato gran parte dei biologi favorevoli agli Ogm lavora grazie a finanziamenti privati, dall’altro le risorse economiche pubbliche sono sempre minori. Il rischio che ne deriva è che sparisca una comunità scientifica indipendente, oltre che interdisciplinare. Dice Vandana Shiva: «I costruttori di refrigeratori non sono esperti dei danni prodotti alla fascia di ozono e i produttori di automobili non sono esperti di cambiamenti climatici, così come i genetisti non sono competenti di bioinquinamento».
La protezione della biodiversità richiede alcune radicali modifiche nel nostro modo di pensare, nei nostri modelli di produzione e consumo e nelle nostre politiche. E l’Occidente industrializzato dovrà attuare dei cambiamenti ancora più radicali. «La lezione da imparare – secondo Vandana Shiva – è la cooperazione, non la concorrenza: il grande dipende dal piccolo e non può sopravvivere se lo stermina».
(Seconda parte – fine)

(1) G. Celli, N. Marmiroli, I. Verga, I semi della discordia. Biotecnologie, agricoltura e ambiente, in bibliografia
(2) Worldwatch Institute, State of the World 2004. Consumi, in bibliografia
(3) Dalton H. et al, Patent threat to research, Nature 1997.

BOX 1

L’APPELLO DI GREENPEACE: «Entra in azione!»

I consumatori hanno un grande potere, quello di fare in modo che i supermercati, i ristoranti, gli alimenti che quotidianamente vengono acquistati, rimangano NON Ogm. Adesso che nuove norme sull’etichettatura, maggiormente restrittive, sono entrate in vigore (a partire dal 18 aprile 2004), con il tuo aiuto possiamo trovare i prodotti contenenti Ogm, identificarli, evitarli e mostrarli a tutti i consumatori. Alcune aziende proveranno ad introdurre prodotti etichettati Ogm nei mercati europei. Più persone rifiuteranno questi prodotti, più facile sarà salvaguardare il nostro diritto di dire NO agli Ogm.

Informa altri consumatori
Stampa il nostro volantino informativo e fallo leggere alla tua famiglia, agli amici, ai vicini di casa. Se è possibile lasciane alcune copie in negozi, ristoranti o dal tuo medico.

Diventa un Detective di Ogm
Ogni volta che vai a fare la spesa, guarda attentamente la lista degli ingredienti. Se trovi un prodotto etichettato Ogm, prendi nota dei dettagli del prodotto, del produttore, del nome e dell’indirizzo del supermercato, della data in cui hai trovato il prodotto in questione e dell’ingrediente Ogm segnalato sull’etichetta. Informa il Responsabile della Campagna Ogm di Greenpeace e, se possibile, fai una foto del prodotto (in particolare dell’etichetta) e carica la tua foto sul nostro sito. Apprezziamo molto il tuo supporto perché è essenziale per mantenere informati i consumatori in tutta Europa.

Restituzione – sostituzione – rimborso
Se senza saperlo compri un prodotto etichettato Ogm, dovresti riportarlo indietro al supermercato dove lo hai comprato e richiedere la sostituzione di questo con uno NON Ogm. Porta anche i tuoi amici a fare la stessa cosa. Perché non ci andate tutti insieme per dare più forza alle vostre idee? Più siete meglio è!

Protesta contro i cibi Ogm
Manda una lettera di protesta al tuo supermercato o all’azienda produttrice del prodotto Ogm per chiedere cibi NON Ogm. Perché non scrivi una lettera anche ai giornali locali e non incoraggi una discussione a livello locale?

Se vuoi puoi accedere al sito di Greenpeace Inteational dove puoi anche trovare le ultime notizie su come i consumatori stanno lottando a livello europeo per il proprio diritto di dire NO agli alimenti Ogm.

Fonte: www.greenpeace.it

BOX 2

La nuova normativa: i pro e i contro

• Pro. Nuova soglia dello 0,9% per ogni ingrediente.
La soglia massima, definita come «presenza accidentale o tecnicamente inevitabile», sotto la quale non vi è alcun obbligo di etichettatura, ha subito una modifica più di forma che di sostanza: è passata dall’1% allo 0,9%. Tale soglia fa riferimento a ogni singolo ingrediente usato nel prodotto e non alla massa o volume totale; questo significa, per fare un esempio, che se la lecitina di soia contenuta in una tavoletta di cioccolato deriva da materia prima transgenica per più dello 0,9%, dovrà essere etichettata anche se la lecitina è solo l’1% del totale degli ingredienti. È importante notare che questa soglia è applicabile soltanto a quei produttori che possono dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure per evitare tale contaminazione.

• Pro. Controllo del processo.
Fino a oggi non dovevano essere etichettati quei prodotti contenenti ingredienti di provenienza transgenica nei quali, a seguito del processo di lavorazione, non erano più rintracciabili Dna o proteine transgeniche (come ad esempio oli, amido o glucosio), anche se provenienti al 100% da materie prime transgeniche. Grazie alle pressioni dei consumatori, volte a una maggiore trasparenza e informazione, con le nuove norme non sarà più così e anche questi prodotti dovranno essere etichettati se derivanti da materie prime transgeniche.

• Pro. Mangimi, transgenici o no?
Si stima che circa il 90% degli Ogm importati in Europa siano utilizzati nella mangimistica animale e nella produzione di oli e amidi. Finalmente, grazie ai nuovi regolamenti, si comincia a porre rimedio all’assoluta mancanza di regole in questo settore per ciò che riguarda l’utilizzo di Ogm: i mangimi dovranno essere etichettati rispettando la stessa soglia degli ingredienti alimentari, 0,9%.

• Contro. Senza etichetta i prodotti derivati da animali nutriti con Ogm.
Purtroppo, vanno segnalate ancora gravi carenze. A cominciare dai prodotti derivati da animali nutriti con Ogm, tuttora non soggetti all’obbligo di etichettatura. Parliamo di uova, carne, latticini, per i quali i produttori non sono obbligati a specificare in etichetta se gli animali dai quali provengono sono stati nutriti o meno con mangimi transgenici. Anche per questo motivo Greenpeace ha scelto di continuare a informare i consumatori attraverso la guida «Come difendersi dagli Ogm», contenente notizie sull’origine dei prodotti in commercio ottenuti o meno da animali nutriti con Ogm. Le liste di prodotti che Greenpeace propone (www.greenpeace.it) sono realizzate in base alle dichiarazioni scritte ricevute dalle aziende alimentari. Queste liste non comprendono tutti i prodotti disponibili sul mercato italiano, e poiché il mercato muta costantemente, le liste sono aggiornate periodicamente.

• Contro. Ogm non autorizzati.
Altro punto dolente delle nuove regole riguarda la tolleranza, fino a un massimo dello 0,5%, concessa per quegli Ogm non ancora autorizzati che arrivano comunque sul mercato europeo. Tale soglia scadrà automaticamente dopo 3 anni; a partire dalla scadenza, è tolleranza zero per gli Ogm non autorizzati.

Fonte: www.greenpeace.it

Silvia Battaglia




IMMIGRAZIONE ITALIA”Permesso sì, permesso no, permesso forse”

Scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno cosa significa, per uno straniero, aspettare «il permesso» (ad un tempo, incubo e parola magica), trovare una casa, imparare una lingua nuova, integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola.
In questa nostra inchiesta, abbiamo dato voce agli immigrati incontrati in un Ufficio stranieri, ma anche ai poliziotti che vi lavorano. Un punto di vista diverso e interessante…

La civiltà europea è sempre stata divisa: liberi e schiavi, nobili e plebei, capitalisti e operai. Nell’Europa di oggi ci sono gli «europei» e gli «extracomunitari».
Le divisioni cambiano forma, ma non la sostanza. Invece dell’uguaglianza ci sono ancora le leggi che garantiscono la disuguaglianza, invece della fratellanza ci sono i cittadini di primo e secondo grado, invece dell’unità, alcuni paesi e popoli europei sono stati spinti, e poi lasciati marcire nella miseria e nella violenza.
Siamo nel terzo millennio. In quello precedente c’erano molte rivoluzioni, è stato sparso molto sangue, ma cosa abbiamo cambiato in sostanza?

«MA PERCHÉ VENGONO IN ITALIA?»

«Perché vengono gli stranieri in Italia?», questa è la domanda più frequente degli alunni durante i miei interventi nelle scuole superiori, come mediatrice interculturale.
Io rispondo: «Perché nei loro paesi c’è la guerra, o la miseria, o l’instabilità politica e sociale che non permette una vita serena. La maggior parte degli immigrati non lascerebbe mai il proprio paese se le condizioni permettessero una vita dignitosa lavorando onestamente. D’altra parte, ci sono paesi che hanno necessità di immigrati. Anche il nostro paese ha bisogno di operai per le costruzioni, di camionisti per i trasporti, di cameriere per gli alberghi, di badanti per gli anziani, di infermiere per i malati, ecc… e, non trovando questa manodopera tra gli italiani, deve ricorrere agli immigrati».
Poi seguono altre domande che rivelano una scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. Molti pensano che gli stranieri abbiano dei vantaggi, che abbiano troppi diritti, che mettano in pericolo i cittadini italiani. Hanno paura che siano troppi e sanno poco o niente di come vivono in Italia, quali difficoltà hanno, quali disagi. A un razzista questo non interessa. Più disagio prova uno straniero, più contento è perché spera che avrà motivo di andarsene.
Ho sentito molte volte la frase: «Se non gli piace che vadano a casa loro!». Ma dov’è la loro casa? Alcuni sono rimasti senza le case, alcuni hanno la casa piena di gente che aspetta il loro aiuto per sopravvivere. Gli immigrati stanno meglio in Italia che nel proprio paese, ma sono ancora lontani dal benessere di un occidentale. I problemi, i disagi che incontra nel nuovo paese sono grandi, ma non può tornare perché sarebbe peggio.
La maggior parte degli immigrati sono costretti a scegliere il male minore. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno quanta fatica fanno gli stranieri a trovare una casa, quali problemi hanno nell’integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola, quanto è difficile imparare una lingua nuova in fretta per capire il datore di lavoro, o l’insegnante, o la pioggia di comunicazioni di vario genere. Quanto è difficile muoversi, orientarsi, in un paese dove tutto funziona in modo diverso dal proprio.

L’ESPERIENZA DI TRENTO E ROVERETO

Nella provincia di Trento, è stato fatto molto per aiutare gli immigrati: lo Sportello Cinformi è un importantissimo punto di riferimento per lo straniero, dove può avere tutte le informazioni per l’orientamento anche in madrelingua. Il Centro Millevoci offre una consulenza agli insegnanti che hanno in classe gli alunni stranieri, e ha formato molti mediatori interculturali che si occupano dell’integrazione dei figli degli immigrati nelle scuole trentine.
Ho fatto una piccola indagine, come mediatrice interculturale, nella mia cittadina, Rovereto (32 mila abitanti), per scoprire quali problemi e quali disagi incontrano adesso gli immigrati all’Ufficio stranieri del locale Commissariato di polizia.
Ho parlato con gli operatori, che hanno risposto gentilmente a tutte le mie domande.
Mi hanno spiegato come funziona il loro ufficio stranieri, i rapporti con la Questura di Trento, quali sono le difficoltà loro e quali quelle degli stranieri che chiedono il permesso di soggiorno.
Quello che segue è il risultato della mia inchiesta.

LAVORARE ALL’UFFICIO STRANIERI

Romano è un uomo alto e biondo, che ascolta con molta attenzione e pazienza le innumerevoli domande che pongono gli stranieri. Non smette di essere gentile neanche quando lo fermano nel corridoio. Lavora in quest’ufficio da quasi un anno. Mi spiega che l’ufficio è aperto dalle 9 alle 12.30 tutti i giorni (il giovedì anche nel pomeriggio) tranne il sabato e la domenica. Di solito ricevono 20 persone circa, tutte le mattine, tranne il giovedì quando ci sono 60 – 70 persone che aspettano il proprio tuo, dopo aver ritirato il numero all’entrata. È il giorno in cui si danno le informazioni e si ritirano i permessi di soggiorno.
«La maggiore difficoltà che trovo nel servizio è la mancanza di contatto con Trento, il fatto che non ci sono direttive ben precise».
E per gli stranieri cos’è la cosa più difficile?, chiedo. «Riuscire a portare tutta la documentazione. C’è un elenco di documenti che lo straniero deve portare». Romano mi mostra i fogli con l’elenco dei documenti, che sono diversi a seconda che si chieda un permesso di soggiorno nuovo o di rinnovarlo, o si domandi la carta di soggiorno. L’elenco cambia anche in relazione al tipo di permesso di soggiorno richiesto (motivi di turismo, di lavoro, di ricongiungimento familiare, ecc…).
«Durante il periodo di 2-3 mesi dal momento in cui il cittadino straniero riceve l’elenco e presenta la documentazione – continua a spiegarmi il funzionario -, può capitare qualche variazione, allora deve portare qualche certificato che non era incluso nell’elenco».
Come mai si aspetta così tanto? «Mancanza di personale e il lavoro si accumula».
Cos’è più fastidioso nel suo lavoro? «Quando la mia richiesta di rispettare la legge viene interpretata come razzismo. Per esempio, in caserma è vietato entrare con il volto coperto. Questa legge c’era da sempre e non è stata inventata per colpire i musulmani, ma per la semplice ragione che chi entra in un ufficio di polizia deve essere riconoscibile, identificabile. Questa legge non è cambiata, e il nostro dovere è di rispettarla. Non può entrare in polizia un ragazzo con il casco sulla testa, e per lo stesso motivo non può entrarci una donna musulmana con il velo sulla faccia. Ma quando io dico alla donna di togliersi il velo è un dramma. Anche le foto per i documenti con la testa coperta non sono accettate. Noi trattiamo tutti allo stesso modo e facciamo solo il nostro dovere. Io capisco che è difficile quando la legge dello stato non è conforme alla legge religiosa, ma il mio dovere non è cambiare la legge ma adempierla».
Gabriella è una bella poliziotta con capelli lunghi, raccolti in una coda e gli occhi blu. L’uniforme le dà un aspetto severo. In questo ufficio lavora da 4 anni. Per lei è più difficile spiegare le ragioni delle richieste che fanno tornare una persona più volte allo stesso sportello.
«È vero, si richiedono molti documenti. Mi dispiace quando leggo disperazione negli occhi di chi non riesce a procurarsi qualche certificato che si chiede. Ma non siamo noi che chiediamo certificati, è la Questura di Trento: noi controlliamo solo se c’è tutto prima di mandare loro la pratica».
Anche a Gabriella dà fastidio l’arroganza o i modi grezzi e poco rispettosi da parte di alcuni stranieri. Alcuni sfogano la propria insoddisfazione e rabbia. Chiedo se questo succede perché lei è una donna, ma lei nega dicendo che gli arroganti sono arroganti anche con i colleghi uomini. «Ma per fortuna di solito i rapporti sono normali e tranquilli», conclude sorridendo.
Romana lavora nell’Ufficio stranieri dal 2000. È una poliziotta molto giovane, con la pelle chiara, capelli lunghi, occhi azzurri, e un bel sorriso che fa vedere poco, perché c’è poco da sorridere davanti ai problemi della gente che incontra nel suo lavoro. Risuona la sua voce, per far sentire e far capire cosa serve, quando e perché, e non si stanca mai di ripetere sempre le stesse cose.
Non si capisce se non vogliono capire o non capiscono per davvero quello che diciamo. So che non è facile: non conoscono la lingua, e in alcuni casi non sanno dove andare a cercare i documenti richiesti. So che non è facile accettare che non si può rinnovare un permesso di soggiorno se manca una carta sola di tutte quelle richieste. Noi non siamo indifferenti. Gli stranieri non sono per noi solo i numeri o i fascicoli. Cerchiamo di andare loro incontro, di essere pazienti, ma quando una cosa non si può fare, è inutile insistere. Noi dobbiamo applicare la legge, non è una questione personale. Mi dispiace se una persona non può presentare il certificato che serve, ma io non posso farci niente. Ogni paese ha le sue leggi. Mi fa arrabbiare l’arroganza, la maleducazione e la mancanza di rispetto per le leggi del paese in cui sono arrivati da parte di alcune persone. C’è la gente che viene molte volte per una stessa cosa e io non capisco se non hanno capito quale documento devono portare, o non vogliono capire che io non posso mandare la pratica a Trento senza quel documento.
Rino lavora da poco presso questo sportello. È molto cordiale e comprensivo, ha una pazienza infinita e ascolta tutti quelli che lo fermano anche nel corridoio. Per lui il problema maggiore è la comunicazione.
«Quel problema non viene superato con la conoscenza della lingua – dice -. Con la conoscenza dell’italiano la comunicazione migliora, ma restano ostacoli di tipo culturale». Secondo Rino sarebbe utile la presenza del mediatore interculturale per rimuovere completamente tutti gli ostacoli di comunicazione. Aggiunge che il loro lavoro è diventato più facile e sereno da quando è aperto lo sportello presso il comprensorio di Rovereto dove si prendono gli appuntamenti. Loro adesso raccolgono la documentazione, prendono le impronte digitali e mandano tutto a Trento. Poi consegnano il permesso o la carta di soggiorno allo straniero.
«I tempi di attesa sono lunghi – continua Rino -. Anzi, sempre più lunghi: 2 – 3 mesi solo per prendere un appuntamento, un altro mese per finire la pratica e farla arrivare in questo ufficio. Nel frattempo, lo straniero non può lasciare l’Italia. Deve aspettare che arrivi il permesso di soggiorno per andare in ferie o andare a trovare la famiglia nel paese d’origine».
Abbiamo parlato sempre delle difficoltà. Che cosa è bello nel suo lavoro? «Io sono molto contento quando le persone riescono a prendere il permesso di soggiorno prima delle ferie. Tutti fanno le ferie nei paesi d’origine, vanno a trovare le famiglie, dei parenti e mi dà molto fastidio quando sono impediti di partire a causa delle lunghe attese per il rinnovo».
E lei, cosa si aspetta dagli stranieri? «La comprensione. Che comprendano le nostre difficoltà e i nostri limiti come noi cerchiamo di comprendere loro».
Quanto agli stranieri, sono tutti d’accordo che bisogna essere in regola con il permesso di soggiorno, ma non tutti sono d’accordo con le condizioni necessarie per ottenerlo. La legge è dura, e per molti (quelli che non potranno mai adempiere alle condizioni che lo stato impone) è crudele.
Inoltre, nessuna delle persone si dice contenta che, avendo le condizioni richieste per ottenere il permesso di soggiorno, occorra aspettare molti mesi per averlo.

«PERMESSO», INCUBO O PAROLA MAGICA?

La parola permesso la capiscono tutti. Usano questa parola italiana anche quando parlano in madrelingua. È una parola magica che apre o chiude molte porte nel nuovo paese.
Un algerino, in Italia da 15 anni, con la moglie e la figlia di due anni ha la carta di soggiorno. Lavora in fabbrica e vive con la sua famiglia in un appartamento di 60 metri quadrati. Per il momento non ha nessun problema. Lavora solo lui, la moglie sta a casa con la bambina, è contento in Italia. Ma se nasce un altro figlio, come lui e la moglie vorrebbero, potrà perdere la carta di soggiorno. Per rinnovarla, dovrà trovare un altro appartamento, più grande, non perché questo in cui è adesso per lui sarebbe piccolo, ma è piccolo per lo stato. La nuova casa non sarà facile da trovare, e anche se la trova, le case più grandi costano di più e poi non resta più niente per vivere.
Un altro algerino, pieno di rancore e delusioni, racconta che in Algeria ha la moglie e tre figli. È qui dal ’98. Dice che lavora in fabbrica, spende tutta la forza delle sue braccia per guadagnare onestamente lo stipendio, ma chissà se, e quando, potrà portare qui la sua famiglia. Tutta la sua permanenza ha accompagnato l’incubo del rinnovo del permesso di soggiorno: gli appuntamenti, le carte, le attese, la paura per le assenze dal lavoro. Per l’ultimo rinnovo, ha preso l’appuntamento a novembre per febbraio dell’anno dopo. Da febbraio, ogni mese rinnova il tagliando. Il permesso di soggiorno non è ancora pronto. E sono 8 mesi che non vede sua moglie e i suoi figli.
Un signore pakistano è arrivato in Italia 14 anni fa, con la moglie. In Italia sono nati i suoi tre figli. Ha la carta di soggiorno ma i suoi problemi non sono finiti. Per inserire un nuovo dato nella carta di soggiorno bisogna fare tutto da capo e aspettare. Lui è commerciante e deve viaggiare per il suo lavoro. Mentre aspetta, il lavoro si ferma. È solo lui che lavora. Succede che deve aspettare anche sei mesi il rinnovo.
Non chiediamo che cambi la legge – dice il pakistano -. Chiediamo solo di non aspettare così a lungo. Basterebbe aprire più sportelli che fanno le pratiche, assumere gli operatori quanti ne servono finché i tempi di attesa diventino ragionevoli.
Un albanese, in Italia dal ’93 con la famiglia (moglie e tre figli maggiorenni), mi racconta arrabbiato: «Per un errore amministrativo io non ho ancora la carta di soggiorno. Dopo 11 anni in Italia, ancora ho 5 permessi di soggiorno da rinnovare in continuazione, e questo mi costa soldi, tempo e nervi. Non è giusto che devo perdere tutto questo tempo e assentarmi dal lavoro. Non è giusto che non possiamo andare in ferie in Albania».
Una bella signora alta, con gli zigomi sporgenti e capelli biondi raccolti in una coda, in Italia dal ’95 dice: «L’informazione è migliorata molto, e le persone che lavorano presso gli sportelli informativi sono gentili, accoglienti, pazienti. Ma l’organizzazione che riguarda le pratiche è peggiorata. C’è qualcosa che non va e non può andare avanti così».
Questa nostra inchiesta dimostra che la critica è fondata: è aumentato il tempo di attesa; il numero di persone che aspettano; il numero di quelli che si chiedono fino a quando il datore di lavoro avrà pazienza di sopportare le assenze; il numero dei bambini che non possono passare l’estate dai nonni.
Nessuna persona di buon senso desidera che le leggi calpestino la dignità degli immigrati e i sentimenti dei loro bambini, futuri cittadini italiani ed europei. Sicuramente c’è una soluzione. Bisogna cercarla assieme.

BOX 1

IMMIGRATI «BUONI», IMMIGRATI «CATTIVI»

Vent’anni fa, quando arrivai a Rovereto, davanti all’Ufficio stranieri non c’era nessuno ad aspettare. Tutte le informazioni relative al mio permesso di soggiorno me le diede il signor Gabriele. Toai in quell’ufficio un paio di volte per delle informazioni, ma anche perché era piacevole fare due chiacchiere con il commissario che era simpatico e sempre di buon umore.
Adesso lui è in pensione e lo vedo quasi tutti i giorni nel centro della città, sempre negli stessi posti, a chiacchierare con i suoi amici. Adesso ha una faccia seria, sorride poco, non è più in uniforme ma è sempre vestito elegante e non ha perso niente del suo fascino di vent’anni fa. Ha accettato volentieri di parlare con me degli stranieri.
«Una volta era più semplice – mi spiega – e le pratiche si facevano più in fretta, perché la Questura di Rovereto era autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno, e perché c’erano meno stranieri. Adesso mandano tutto a Trento».
Come? Quando ce n’erano pochi, ogni Questura faceva le proprie pratiche, adesso che sono tanti le fa una sola. Non è assurdo? «È così. Adesso nell’Ufficio stranieri di Rovereto si raccoglie la documentazione, poi si manda tutto a Trento. Solo Trento è autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno».
Ricordo che, quando ci conoscemmo, a Rovereto c’erano 4 serbi e 1 croata, adesso invece ci sono centinaia di famiglie. Questa piccola città del Trentino ha cambiato il suo volto. È diventata una città variopinta: visi bianchi, neri e gialli; vestiti occidentali ed orientali; si sentono per strada i suoni di lingue sconosciute.
Chiedo all’ex funzionario come vive lui questi cambiamenti. «Conosco molti stranieri – mi dice -, che sono proprio brave persone. Ma altri non mi piacciono: gente volgare, arrogante, violenta, quelli che sputano per strada, che pretendono quello che nel loro paese non avrebbero mai».
Ma loro – obietto io – sono qui proprio per avere quello che nel proprio paese non possono avere. «D’accordo, ma non lo devono pretendere. Neanche ai cittadini italiani è stato regalato niente, ma hanno ottenuto tutto con anni di lavoro. A nessuno dà fastidio se loro mantengono gli usi e costumi del proprio paese, ma devono rispettare anche i nostri».
È vero. La mancanza di rispetto dà fastidio a tutti, agli italiani come agli stranieri.
«Infatti – continua il mio interlocutore -, molti stranieri sono persone che lavorano, cittadini onesti che meritano ogni rispetto, ma quelli che non rispettano le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre abitudini, io credo che dovrebbero andare via».
Molti italiani la pensano così. Purtroppo, succede che vengano mandati via anche i «buoni» e nelle prigioni finiscono anche gli innocenti. Succede. Perché i «buoni» e i «cattivi» sono mescolati fra di loro, in tutti i popoli e in tutti i luoghi del mondo.

S.Petrovic

Snezana Petrovic




ISRAELEL’incredibile storia di Mordechai Vanunu

Nel 1986, il tecnico Mordechai Vanunu rivelò ad un giornale che Israele disponeva di un sofisticato sistema nucleare. Fu rapito dai servizi segreti
del Mossad a Roma ed incarcerato in Israele. Mordechai Vanunu è uscito lo scorso 21 aprile, dopo 18 anni di detenzione.
In questo articolo, ripercorriamo la sua storia da brividi. E ci poniamo qualche (ingenua) domanda: come mai Israele può detenere testate nucleari senza che nessuno (di importante) se ne preoccupi? Perché mai per Tel Aviv non si parla di ispezioni inteazionali come, ad esempio, per il vicino Iran?

La vicenda che vogliamo raccontare prende le mosse dalla liberazione dal carcere, dopo 18 anni di detenzione, di un tecnico nucleare israeliano, nato in Marocco da famiglia sefardita. La sua colpa era di aver rivelato informazioni segretissime sull’armamento atomico di Israele.
Dopo aver cercato inutilmente di entrare nello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, Mordechai Vanunu – questo il nome del protagonista – all’età di circa vent’anni venne assunto al centro di ricerche nucleari di Dimona, nel deserto del Negev in Israele. Questo impiego segnò il suo destino successivo.
Prima di ricordae le vicende, vale però la pena di esaminare con un minimo di dettaglio la storia dell’impianto, interessante ed esemplificativa di come le alleanze politiche e militari tra stati cambino radicalmente nel tempo e portino a risultati inattesi e talora imprevedibili.

L’ENERGIA NUCLEARE: MA PER QUALI SCOPI?

Dopo la seconda guerra mondiale la prospettiva di un uso diffuso e importante dell’energia nucleare ebbe sostenitori entusiasti ovunque, dato che in essa si vedeva la fonte energetica del futuro: potentissima, abbondante, economica. I benefici di questa fonte si auspicava fossero universali e a questa filosofia si ispirò il presidente americano Eisenhower quando, l’8 dicembre 1953, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, propose il programma Atomi per la Pace, mirato a fornire assistenza tecnica ai paesi che desideravano impegnarsi nel campo dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare.
In Israele la Commissione per l’energia atomica era nata un anno prima e si caratterizzò subito per una stretta collaborazione con gli ambienti militari, in ciò seguendo le direttive di uno dei padri dello stato sionista: David Ben Gurion. L’anno dopo gli israeliani riuscirono a mettere a punto un processo efficace per estrarre l’uranio presente nel deserto del Negev, nonché un nuovo metodo per produrre acqua pesante. Con questi due materiali i progetti atomici del paese potevano procedere, innanzitutto costruendo un reattore nucleare.
Per la complessa progettazione e realizzazione dell’impianto, Israele ebbe bisogno di assistenza. La cercò (e la ricevette) in Francia, che a quel tempo era fortemente impegnata a cercare di sconfiggere il movimento indipendentista algerino.
In quel periodo, Parigi si contrapponeva al mondo arabo (in primis all’Egitto, contro cui, nel 1956, Francia, Gran Bretagna e Israele combatterono la cosiddetta guerra di Suez) e quindi era interessata a sostenere uno stato mediorientale «naturalmente antiarabo». All’interno della collaborazione che ne scaturì, Israele ricevette pure assistenza militare diretta, sotto forma di aerei e altri armamenti sofisticati. Il pilastro fondamentale su cui reggeva questa tacita alleanza era comunque rappresentato dalla rivolta algerina e quando la nazione maghrebina ottenne finalmente l’indipendenza nel 1962 iniziò un lento processo di normalizzazione tra Parigi ed i vari stati arabi, che man mano vide il parallelo raffreddamento dei rapporti con Tel Aviv.
La centrale di Dimona venne realizzata alla fine degli anni ’50, in gran segreto. Ma gli Stati Uniti si accorsero che qualcosa di insolito stava succedendo. Effettuando dei sorvoli con gli aerei spia U2 nacque in loro il sospetto che Israele avesse ambizioni nucleari militari, tanto che espressero la loro preoccupazione in merito. Alla fine la natura nucleare dell’impianto fu ammessa apertamente da Ben Gurion, ma solo nel 1960, quando lo descrisse come «struttura di ricerca a scopo pacifico». Negli anni successivi Israele ribadì più volte che non sarebbe stato il primo a introdurre armi nucleari nel Medio Oriente.
L’impianto venne visitato negli anni ’60 da ispettori americani, che però non riuscirono a farsi un’idea chiara di quel che in esso avveniva, anche perché, secondo alcune fonti, gli israeliani camuffarono abilmente le installazioni, realizzando delle false sale controlli e addirittura murando intere sezioni, specialmente quelle sotterranee. Gli ispettori si fecero peraltro l’idea che non esistessero motivazioni scientifiche o civili sufficienti per giustificare un reattore nucleare di tali dimensioni – e ciò aumentò i sospetti che Israele avesse intenzione di farsi segretamente la bomba atomica – ma nemmeno trovarono prove di attività chiaramente mirate alla produzione di ordigni nucleari.
Si giunse così al 1968, quando la Cia americana concluse che Israele aveva iniziato a realizzare bombe nucleari. Negli anni successivi vi fu molta incertezza; non sull’esistenza, ma solo sulle dimensioni dell’arsenale atomico israeliano.
Risulta sorprendente l’incapacità ed il disinteresse mostrato a questo riguardo dal mondo intero: sia gli stati occidentali, come anche e soprattutto le nazioni arabe e l’Urss se ne restarono quieti relativamente all’armamento atomico israeliano. Questo tema non assunse mai grande importanza, né venne mai discusso pubblicamente ed Israele non subì particolari pressioni perché accettasse ispezioni inteazionali e rinunciasse ai propri programmi di armamento nucleare. Anche i principali leaders arabi avallarono questa «politica dello struzzo», evitando di sollevare la questione a livello internazionale. Forse per paura di non poter più utilizzare a fini interni l’infiammante retorica che auspicava la totale distruzione dello stato sionista.

LE «TESTATE» DI ISRAELE

Quando entrò in gioco Mordechai Vanunu? Egli rimase a lavorare a Dimona per quasi un decennio, fino al 1985. Licenziatosi, andò dapprima in Australia, ove si convertì alla religione anglicana. Spostatosi in Gran Bretagna, nel 1986 svelò al giornale britannico Sunday Times l’esistenza del segretissimo programma di armamento nucleare del suo paese. Grazie alle informazioni foite da Vanunu e alle 60 fotografie che egli era riuscito a scattare di nascosto nell’impianto (materiale vagliato e convalidato da noti esperti, come il fisico Frank Baaby), la comunità internazionale scoprì che l’arsenale di Israele era di tutto rispetto: 100 se non forse addirittura 200 testate atomiche.
Ci si sarebbe attesi che la notizia scatenasse un putiferio. Improvvisamente si affacciava sulla scena mondiale una sesta potenza, comparabile con Francia, Gran Bretagna e Cina. Gli stati arabi avrebbero potuto usare questa novità per mettere in cattiva luce lo stato sionista, incolpandolo di aggravare le tensioni nell’area e di introdurre -contrariamente a tutte le dichiarazioni pubbliche precedenti – armi di distruzione di massa dalle conseguenze imprevedibili. Invece nulla accadde e presto tutto finì nel dimenticatornio.
Ma non per Mordechai Vanunu, che per aver divulgato queste notizie dovette pagare un prezzo altissimo.

L’EFFICIENZA DEL MOSSAD E L’ITALIA

Israele si attivò subito e Vanunu cadde nella trappola preparatagli. Una trappola antica, ma sempre valida. Gli venne fatta incontrare una donna – agente segreto di Tel Aviv – di cui egli si invaghì. Da lei fu indotto a venire in Italia e precisamente a Roma. Giunto nella nostra capitale, fu immediatamente rapito, drogato, messo su una nave che aspettava al largo della costa e condotto illegalmente in Israele, ove nel 1988 venne processato e condannato a 18 anni di carcere per tradimento e spionaggio.
L’operazione dei servizi israeliani era chiaramente illegale e infrangeva tutte le leggi italiane e inteazionali. Sta di fatto che il rapimento venne eseguito con tale professionalità che nessuno si accorse di nulla. Ancora una volta il Mossad aveva mostrato la sua leggendaria efficienza.
Il fattaccio venne alla luce solo più tardi, quando Vanunu, durante un trasferimento in auto tra il carcere e il tribunale ove veniva processato a porte chiuse, riuscì a far arrivare ai giornalisti un messaggio. Con grande inventiva Vanunu aveva scritto sul palmo della propria mano poche righe in cui denunciava di essere stato rapito a Roma e la mostrò ai fotografi che stazionavano fuori del tribunale. La notizia fece il giro del mondo, ma ancora una volta la questione non suscitò grandi reazioni nel nostro paese.
Solo la magistratura fece qualcosa: il pubblico ministero Domenico Sica aprì un’inchiesta, ma questa fu presto archiviata con la motivazione che non c’era nessuna prova. L’Italia usciva così dalla vicenda in maniera vergognosa e inetta.
Viene da chiedersi perché i servizi israeliani scelsero di non agire contro Vanunu in Gran Bretagna, attraendolo invece in Italia. Dovevano avere fiducia nella nostra incapacità di intralciare i loro piani e nella mancanza di una reazione degna di una nazione civile. In quella occasione, anziché da democrazia attenta a salvaguardare la propria dignità e i principi di legge, l’Italia si comportò come una impotente «repubblica delle banane».

PERCHÉ LO FECE?NON PER DENARO

Sui motivi che hanno spinto Vanunu a denunciare le attività nucleari militari del proprio paese si è discettato molto. Prima di questa decisione egli aveva certamente vissuto un periodo difficile dal punto di vista psicologico, culminato con la crisi religiosa che lo aveva portato ad abbandonare la fede ebraica per quella cristiana anglicana. In ogni caso il suo ripensamento sulla «bontà» del programma nucleare israeliano doveva risalire a ben prima, dato che si era adoperato a scattare numerose immagini dell’impianto di Dimona e a trafugarle all’esterno. Sicuramente era anche conscio dei rischi cui si esponeva nel rivelare i segreti atomici israeliani, ma questo non gli impedì di agire, accettando la possibilità – come poi avvenne – di venir arrestato e pagare duramente per il suo gesto.
Da quel che si sa appare certo che egli non abbia agito per denaro, ma per motivi etici e morali. Vanunu decise di far sapere al mondo intero che il suo paese si era dotato dei più terribili ordigni di morte, introducendo nel Medio Oriente un elemento fortemente destabilizzante, che avrebbe potuto accrescere i rischi di un disastro totale.
Alcuni, ad esempio lo scrittore israeliano A. Yehoshua, sostengono come l’arsenale atomico israeliano giochi in realtà un ruolo favorevole per le prospettive di pace nel Medio Oriente. Esso permetterebbe infatti alle colombe israeliane di avanzare con maggiore efficacia proposte di rinuncia ai territori occupati e ad altre concessioni, a fronte della garanzia foita dalla presenza delle bombe atomiche, che dovrebbe essere in grado di dissuadere ogni stato arabo da un eventuale attacco finale. Un esempio di questo efficace ruolo di deterrenza viene individuato anche nell’improvviso arresto della notevole avanzata militare di egiziani e soprattutto di siriani nei primi giorni della guerra del Kippur nel 1973; «una sconfitta troppo bruciante avrebbe potuto spingere Israele a far uso delle sue armi letali».
Supponendo, per ipotesi, che il possesso delle bombe atomiche favorisca davvero i moderati israeliani, non si può certo dire che questi abbiano avuto grande successo politico negli ultimi anni!

NELLE CARCERI ISRAELIANE

Il trattamento carcerario in cui è stato tenuto Vanunu è stato spietato. Ha trascorso oltre 11 anni in isolamento completo, senza che gli fosse consentito alcun contatto umano, se non sporadici colloqui con i familiari, il suo avvocato e un prete. Durante questi incontri egli era peraltro sempre separato dai suoi interlocutori da una grata metallica. Fino a tempi recenti non gli venne nemmeno concessa l’ora d’aria, come a tutti gli altri detenuti.
I numerosi appelli inteazionali per la sua liberazione, o almeno per un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, vennero sempre rifiutati dalle autorità israeliane. Per loro Vanunu aveva tradito la patria e come tale andava trattato in modo severissimo.
Nonostante questo trattamento disumano, Vanunu non è impazzito e a fine aprile di quest’anno, scontata la sua lunghissima pena, è stato rimesso in libertà.

«LIBERO» E SENZA DIRITTI

L’odissea di Mordechai Vanunu non è purtroppo terminata. Come denuncia Amnesty Inteational, lo stato di Israele continua a violare i diritti fondamentali di Vanunu, anche ora che è uscito di prigione. Gli vengono imposte restrizioni assolutamente arbitrarie; ad esempio non gli viene rilasciato il passaporto e, per la durata di un anno, non potrà nemmeno lasciare il paese (come invece egli desidererebbe).
Inoltre, gli è proibito entrare in contatto con cittadini stranieri, se non con uno specifico permesso; non può visitare nessuna ambasciata di stati esteri (in un primo tempo gli era stato imposto di non avvicinarvisi nemmeno); non può rilasciare interviste.
Questa sembra una vera persecuzione, anche perché Vanunu afferma di non essere in possesso di nessun ulteriore segreto atomico. Ciò nonostante non gli è permesso discutere con nessuno (nemmeno per telefono o per posta elettronica) di argomenti nucleari, e gli è anche vietato ripetere le affermazioni già pubblicate nel 1988 dal Sunday Times.
Tutto questo va contro quanto previsto dall’articolo 12 dell’accordo internazionale sui diritti politici e civili. Questo accordo (ratificato anche da Israele, che quindi sarebbe tenuto a non violarlo) recita che «chiunque si trovi legalmente all’interno di uno stato, avrà – all’interno di quella nazione – diritto alla libertà di movimento e la libertà di scegliersi la propria residenza» e «ognuno sarà libero di lasciare qualunque paese, incluso il proprio». Inoltre i diritti alla libertà di espressione e di associazione sono garantiti dagli articoli 19 e 21 dello stesso accordo.
Secondo Amnesty Inteational, «Vanunu non deve essere sottoposto a restrizioni arbitrarie e a violazioni dei suoi diritti fondamentali, sulla base di pretesti o di sospetti nei riguardi di ciò che egli potrebbe fare nel futuro».

ISRAELE: «STATO CANAGLIA»?

La questione Vanunu non è importante solo per l’aspetto umano, ma ha una valenza ben più ampia.
Si è fatta la guerra contro l’Iraq motivandola con la supposta presenza di armi di distruzione di massa, mai rinvenute. Libia, Iran e Corea del Nord erano state inserite tra gli «stati canaglia» perché sospettate (peraltro a ragione) di voler sviluppare armamenti nucleari.
Di Israele e delle sue centinaia di bombe nucleari non si dice invece nulla, incuranti del fatto che questo arsenale, mai dichiarato ufficialmente, sia all’origine delle ambizioni atomiche di molti governi della regione mediorientale.
Stupefacente appare l’uso di due pesi e di due misure e l’incapacità della stampa e dei media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano. Nel caso della stampa nazionale e dei maîtres à penser nostrani, suscita inoltre tristi riflessioni l’assoluta mancanza di autocritica nei confronti di come il rapimento di Vanunu sul suolo nazionale sia stato gestito.
Ulteriore punto importante riguarda la mancanza di clausole di protezione, sia nella legge italiana che in quella internazionale, per chi decida di divulgare informazioni che sono sì segreti di stato, ma che è invece utile siano noti alla collettività internazionale, in primo luogo nel settore della realizzazione di bombe atomiche. Chi lo fa è in tal modo abbandonato alla vendetta dei governi, che spesso hanno molto da nascondere. Questi misconosciuti benefattori dell’umanità non godono nemmeno del trattamento riservato ai prigionieri politici. Pensiamo a quel che succederebbe se uno di questi coraggiosi personaggi si presentasse un giorno alle nostre frontiere, chiedendo asilo politico dopo aver divulgato ai media notizie riservate sul conto del proprio paese. Sarebbe rispedito in patria e abbandonato alla vendetta delle autorità, come è stato per Vanunu?
Si impone, a livello internazionale, un’iniziativa di protezione di queste persone e sarebbe auspicabile che l’Italia e l’Europa si facessero parti attive a questo riguardo.

L’INSEGNAMENTO DI MORDECHAI

Vogliamo chiudere con le parole di speranza espresse da Mordechai Vanunu poco prima del suo rilascio dal carcere: «Siamo riusciti a superare questo lungo periodo di silenzio. Grazie a tutti gli attivisti e ai sostenitori che hanno lavorato in molte nazioni. Siete stati la mia voce, la mia coscienza. (…) Sarò lieto di incontrarvi e di condividere con voi le mie esperienze, le mie opinioni e di lavorare (…) per l’abolizione delle bombe nucleari in tutto il mondo (seguono varie parole censurate). Quella è la nostra missione e il nostro obiettivo futuro. Ci fermeremo solo nel momento in cui si avrà un nuovo accordo internazionale che metta al bando e abolisca tutti i tipi di bombe nucleari. (…) Crediamo che ciò sia possibile e che potremo vedere questo momento nel corso della nostra vita, proprio come è successo con la fine della guerra fredda. Il nostro messaggio è: “la fine delle bombe nucleari è possibile!”».

Mirco Elena




TOGOLa spesa dello stregone

In Africa occidentale le religioni tradizionali sono molto radicate. La cosmogonia è complessa e cambia per ogni etnia.
Divinità, curatori, oracoli e oggetti sacri di ogni tipo
mostrano una grande ricchezza e varietà di queste tradizioni.
Da profani, visitiamo un centro di vendita, rinomato in tutta la regione.

CCapitale ordinata e pulita, Lomé si apre come un ventaglio sul golfo di Guinea. La sua bellezza è nel litorale, le lunghe spiagge di sabbia chiara, punteggiate di palme. Il mercato centrale è colorato di frutta e vestiti della gente; le vie sono invase da banchetti di venditori di ogni genere, che indossano cappelli di paglia per ripararsi dal sole. Le auto cercano di passare in mezzo alla folla brulicante.
Prendiamo una delle grandi vie asfaltate che, a raggiera, portano fuori città. Cerchiamo il quartiere d’Akodessewa, verso nord-est. La strada taglia in due una laguna: il panorama è particolarmente bello. La gente è gentile e cerca di spiegarci come raggiungere la nostra meta.
Arriviamo al grande mercato di quartiere, ma non è quello che stiamo cercando. Un giovane ci si avvicina, incuriosito dagli stranieri. Ha un viso pulito, parla tranquillo in un francese stentato. Gli spieghiamo cosa stiamo cercando: «Il mercato dei fétiches, è qui?».

Stregoni africani

I féticheurs, coloro che utilizzano i fétiches, in una traduzione approssimativa, si potrebbero chiamare «stregoni». Mezzi medici e mezzi maghi, in Africa sono coloro che detengono l’arte dell’uso delle erbe, ma anche dei talismani, delle cure tradizionali e della capacità di parlare con gli spiriti. Alcuni sono più indovini, altri più curatori. È tramite loro che si tramanda la spiritualità degli antenati: in pratica i sacerdoti animisti.
Foiscono su richiesta i gris-gris, amuleti personalizzati, che hanno molteplici scopi: allontanano i malefici o esaltano le forze (nei diversi campi) di chi li possiede.
I fétiches (feticci) sono oggetti sacri che proteggono case o villaggi e comunicano direttamente con le divinità ancestrali, o meglio: ne sono la rappresentazione fisica. In questa regione ogni etnia (ce ne sono centinaia) ha il suo pantheon di spiriti, il proprio animale totem, i geni protettori e tutte hanno una sorprendente varietà di feticci.
Ci era stato detto che proprio a Lomé esiste una specie di supermercato degli stregoni, dove un «iniziato» può trovare tutti gli strumenti del mestiere, tutto ciò di cui ha bisogno per poter praticare.
Moise, il nostro nuovo amico, annuisce: «È qui vicino. Posso accompagnarvi io». Cammina lentamente, per la strada polverosa. Supera il grande mercato ed entra in profondità nel quartiere. Ad un tratto si apre un piccolo spiazzo, sul quale sono allineate file di bancarelle. Da lontano sembra un qualsiasi mercatino locale, ma appena ci avviciniamo notiamo che la mercanzia esposta non annovera pomodori e cipolle.
Vediamo file di gusci di tartarughe, con l’animale essiccato al suo interno, uccelli di tante specie diverse, anche loro imbalsamati, montagne di teschi bianchi che riflettono il sole…
Prima di riuscire ad avvicinarci, ecco che un ometto ci viene incontro e confabula con Moise. «Questo è il mercato dei fétiches di Akodessewa – annuncia solennemente dopo averci salutati -; qui è consuetudine, per gli stranieri, avere una guida». Naturalmente acconsentiamo: non bisogna mai andare contro le abitudini africane. E così siamo al secondo accompagnatore.

Supermercato dell’impossibile

Il signor Calixte Ganyehesson ci guida alla visita di questo mercato incredibile e talvolta raccapricciante. I banchetti, uno in fila all’altro sono colmi di teschi di scimmie, coa di animali vari, ratti squartati e sapientemente essiccati, rane e pesci gatto che hanno subìto una sorte simile. Ciuffi di peli e piume sono un po’ ovunque. Ma i pezzi più ricercati sono una grossa zampa di ippopotamo, con pelle e tutto il resto, quella di un elefante; un’intera testa di cavallo, teste di giaguaro con le fauci aperte. In un banchetto sono sovrapposte, con estremo ordine, decine di teste di coccodrillo di diversa dimensione.
«Tutte queste cose – spiega Calixte – sono materiali e ingredienti molto importanti per i curatori tradizionali e i féticheurs delle nostre parti. Solo qui si riesce a trovare tanta varietà. Ci sono pezzi, come quel teschio di elefante (e indica un ammasso di grosse ossa) che arrivano direttamente dalla Nigeria».
Andiamo avanti. I banchetti di grezze assi di legno qui li chiamano «stand» e portano delle insegne, dipinte a mano, con scritte del tipo: «Guedenon Christian, guérisseur en médicine traditionnelle, stand n. 11» (guaritore in medicina tradizionale). O ancora: «Herboriste – guérisseur, docteur en médicine traditionnelle»; oppure: «Terapeute traditionnel». Tutti accompagnati dal numero di stand, di telefono ed eventualmente di cellulare.
Tecnologia e tradizione convivono alla perfezione, come spesso accade oggi in Africa. Un po’ inquietante l’insegna con la scritta: «Membre de sciences occultes des forces vodous africaines»; in realtà, ci sembra preparata apposta per i turisti stranieri.

Dal Benin al mondo

Calixte ci spiega che tutti i venditori-curatori di questo mercato sono di origine beninese. Il Benin, paese confinante, è la culla di alcuni riti africani molto importanti, classificati come vudù ed esportati anche nelle Americhe, attraverso la tratta degli schiavi. Riti originari di queste zone e con molti tratti comuni oggi sono praticati in Brasile, Cuba, Haiti e altre isole dei Caraibi. Differenti riti vudù sono originari della Nigeria.
In un angolo vediamo alcuni scatoloni pieni di materiale appena arrivato e ancora da sistemare: pipistrelli secchi, camaleonti e uccelli di varia dimensione.
Il nostro accompagnatore ci mostra delle statuette di legno, alcune addobbate con piccole conchiglie cauris (pronuncia corì), un tempo moneta in tutta l’Africa occidentale e oggi strumento importante di veggenti e guaritori. Gettate a terra con un certo rito, esse permettono all’indovino esperto di leggere il futuro del cliente che gli sta davanti. Ce ne sono in gran quantità in tutti i mercati di questa regione.
«Sono semplici statue, non sono fétiches, ma potrebbero diventarlo con un rito» precisa Calixte. Sono anche esposte e ben allineate sculture in legno di organi maschili: «Servono per riti e cure contro l’impotenza» spiega il nostro accompagnatore.
In effetti, in questo supermercato dei curatori tradizionali, ogni pezzo, per quanto strano o truculento possa sembrare a un osservatore straniero (soprattutto se animalista), ha un significato e un utilizzo ben preciso. Il buon tradi-terapeuta o stregone, sa in che occasione dovrà usare il guscio di tartaruga, il dente di coccodrillo o la pelle di camaleonte.

Un amuleto per…

Per un non africano è difficile credere ad alcune pratiche di questi popoli. Eppure qui possono risultare molto importanti e molto «presenti» nello spirito della gente. Alcune persone sono iniziate, altre consultano il guaritore quando hanno piccoli o grandi problemi; altre ancora dicono e pensano di non crederci, ma in fondo quasi tutti ne sono influenzati.
Il nostro accompagnatore vuole farci vedere qualcosa di più. Ci porta in una baracca ai margini del mercato. «Qui – sostiene – se volete potete incontrare un féticheur. Si tratta del figlio di un grande, che ha ereditato alcuni poteri».
Entriamo nella piccola capanna fatta di bastoni di legno. È buio. Venendo da un ambiente con il sole splendente, le pupille dei nostri occhi impiegano qualche minuto prima di allargarsi. Finalmente riusciamo a vedere: davanti a noi, nell’angusto stanzino, compaiono statue di diverse dimensioni, alcune a due teste, altre con una sigaretta in bocca, altre immerse nella cenere o con piume che fuoriescono da orifizi. Il tutto ricoperto di una polvere che fa sembrare le cose più vecchie, in un’atmosfera misteriosa e mistica. Ci troviamo di fronte a un gruppo di veri fétiches.
Il giovane stregone ci propone degli amuleti. Degli oggetti che ci possono servire nella nostra vita quotidiana, ma che devono essere «benedetti» da lui, alla presenza dei fétiches. Un nocciolo di karité da mettere sotto il cuscino la notte serve per aumentare la memoria; una minuscola statuetta per avere un buon viaggio; un sacchettino di erbe da appendere al collo per essere protetti dal male; un altro oggetto per avere fortuna con il proprio amato.
Ogni gris-gris, posto in un guscio di tartaruga vuoto, subisce un rituale di fronte a un feticcio e con la partecipazione del destinatario. Ma attenzione, una volta a casa gli amuleti devono essere accuditi.
Il tutto, a noi scettici, sembra una sceneggiata per turisti. Di fatto è una procedura semplificata di quello che normalmente si fa con chi crede a questo tipo di riti. Il momento è comunque carico di solennità e capiamo che siamo in un contesto reale. Solo noi, stranieri a questa cultura, siamo l’unica cosa fuori posto. Anche questa è l’Africa e non deve essere banalizzata. •

Marco Bello