LETTERAOGM: speranza o minaccia?

Carissimi missionari,
sono un anziano fedele lettore di Missioni Consolata e fedele abbonato di Civiltà Cattolica.
Il servizio di Silvia Battaglia «Una sola madre terra» mi ha offerto l’occasione per rileggere la cronaca di Giovanni Marchesi S.J., pubblicata sul numero del 20 marzo 2004 di Civiltà Cattolica, con il titolo «Gli organismi geneticamente modificati: minaccia o speranza?». Nella trattazione di un argomento difficile come gli ogm, Civiltà Cattolica ci insegna la massima prudenza, con tutta la stima per padre Alex Zanotelli, che umilmente non dovrebbe pretendere di insegnare la biologia ai biologi.

Ferruccio Gandolini
Varese

Speranza o minaccia? Tutto sommato, l’articolo di Civiltà Cattolica non toglie il punto interrogativo; e conclude affermando che la chiesa «non pretende di insegnare biologia ai biologi, economia agli economisti, politica ai politici. Essa continuerà nella sua missione di coscienza profetica per indicare a tutti, scienziati, operatori culturali, economici e politici, che il fine di ogni ricerca scientifica e applicazione tecnologica è l’uomo, centro del creato e “pastore dell’essere”».

Ferruccio Gandolini




LETTERAPer i bambini sempre le briciole

Carissimi missionari,
sono Massimo e ho 11 anni. Mi piace molto viaggiare. A scuola la materia preferita è la geografia. Nonna Hilde mi ha parlato di voi e delle missioni. Così ho incominciato a leggere Missioni Consolata. Mia nonna dice anche che non basta vedere le cose; bisogna vedere le persone, specialmente se sono povere.
Quest’anno, a giugno, io, la mamma e la nonna abbiamo fatto un viaggio a Capo Verde. Prima di partire, mi sono ricordato di aver letto su Missioni Consolata un articolo su questo paese: sull’aereo incontriamo proprio padre Ottavio, di cui parlava l’articolo.
Il primo giorno a Sal fu meraviglioso. Io e mia mamma ci siamo recati da soli a Santa Maria, un paese non molto lontano dal nostro villaggio. Abbiamo incontrato un senegalese, emigrato, che ci ha guidati nella visita. Alcune case sono molto colorate, con il tetto piatto; altre invece sono diroccate. La gente è poverissima, ma gentilissima. Al mercato, la gente diceva «italiani bravi, italiani amici!» e mi regalava delle collanine e braccialetti. Io ero meravigliato di così grande generosità verso gli stranieri.
Quel viaggio è stato per me molto importante, perché mi ha fatto capire tante cose…

Tommaso Tibaldi
Torino

Fra le cose che Tommaso ha capito c’è nientemeno che il mondo! Il mondo che ha raffigurato, grazie al computer, come una grande pagnotta. Tutti mangiano. Però «milioni di bambini – ha scritto Tommaso – mangiano queste (piccole) parti…». Lo ha scritto in tedesco, lingua appresa da nonna Hilde (vedi l’immagine sopra).

Tommaso Tibaldi




LETTERAConversione ecologica

Dist.mo direttore,
ho avuto modo di apprezzare molto recentemente il suo editoriale «Conversione ecologica» di Missioni Consolata Sett.2004. Avevo, infatti, terminato da poco la lettura di uno degli atti della Conferenza dei vescovi cattolici d’Inghilterra e Galles (Estate 2002), ossia, The Call of Creation: God’s Invitation and the Human Response. Natural Environment and Catholic Social Teaching.
Il suo intervento in Missioni Consolata ritengo sia molto, molto importante anche per aiutare tante persone a comprendere concretamente che l’ecologia cristiana è parte notevole del vangelo e, quindi, applicarla nella vita del terzo millennio (specialmente) è conforme alla volontà di Dio, con tutto quello che implica.
Mi permetta di congratularmi per ciò che lei ha così ben espresso nella pagina «Ai Lettori».

Giovanni Vulpetti
Telespazio Spa (Roma)

Il nostro fondatore, beato Giuseppe Allamano raccomandava ai suoi missionari: «Puntate alla trasformazione dell’ambiente, non solo degli uomini».

Giovanni Vulpetti




LETTERAMonografie 2004: Le mani sul Congo

Salve,
sto leggendo con interesse e molto sconcerto il numero monografico del vostro mensile dedicato al Congo. Mi occupo di Etiopia,
attraverso la mia associazione (www.gruppomeki.org); ora la lettura delle terribili vicende storiche del Congo mi hanno suscitato un certo interesse in quello che è un pezzo di storia poco conosciuto: la storia dell’Africa…
Fabio (via e-mail)
Gentile direttore,
vi siamo grati per l’ottimo numero monografico «Le mani sul Congo» da voi realizzato.
In quel martoriato paese vi lavorano da più di 40 anni, nel sud del Kivu, confinante con Rwanda e Burundi, una cinquantina di nostri confratelli, tre dei quali vennero uccisi nel novembre 1964, quando anch’io arrivavo in Burundi per la prima volta.
Quanto avete realizzato ci interessa moltissimo…

Padre Michele D’Erchie
Saveriano
Saleo

padre Michele D’Erchie




LETTERAUn millimetro di regno di Dio

Caro direttore,
approfittiamo della spedizione di questa raccolta di firme, in favore della campagna Nós existimos, per incoraggiare lei e tutti i collaboratori della rivista a continuare nella missione di annunciare e, di conseguenza, di denunciare.
Siamo un gruppo missionario impegnato a costruire un millimetro quadrato del regno di Dio, collaborando con i francescani conventuali, e ci serviamo di Missioni Consolata per i nostri incontri di formazione.
È consolante trovare in voi la conferma della nostra linea di pensiero, ma ci dispiace quando qualche vostro lettore si scandalizza, a tal punto da disdire l’abbonamento; allora speriamo che qualcuno a cui l’abbiamo fatta conoscere diventi un vostro nuovo abbonato.
Oltre ad essere la nostra consolazione, siete anche una voce di speranza. Continuate sempre così…
Il gruppo missionario
«B. Barracciu»
Cagliari

«Un millimetro quadrato» oggi, un altro domani… E che bel campo!

Gruppo miss. Barracciu




LETTERAAntico Testamento, pieno di battaglie

Spettabile redazione,
su Missioni Consolata di luglio-agosto 2004 c’è un accenno al film La passione di Mel Gibson; c’è un interessante articolo sulle bombe atomiche dello stato di Israele; nell’ultima pagina si parla di Mosè.
Gibson ci ha ricordato, in modo crudo ma efficace, che a condannare a morte Gesù è stato il mondo dell’Antico Testamento, che non poteva sopportare un totale capovolgimento di principi, come quello portato dall’insegnamento di Cristo. L’Antico Testamento è pieno di battaglie, di nemici: un «popolo eletto» che combatte in continuazione. È un’epopea per gli israeliti, più o meno com’è l’Iliade per i greci, senza introdurre alcun giudizio di valore.
La lontana eredità dell’Antico Testamento sono le testate nucleari di Israele e il vergognoso incondizionato appoggio degli Stati Uniti.
Forse, dopo 18 secoli da quando sono prevalse (anche con la violenza) le correnti contrarie a Marcione e allo gnosticismo, siamo ancora in tempo per abbandonare Adamo ed Eva, Abramo, Mosè e tutti i personaggi di quel mondo: il nostro fondamento dovrebbe essere solo l’insegnamento di Gesù Cristo; senza alcuna condanna del passato, ma si tratta di filosofie e fondamenti del tutto diversi.
Se vogliamo trovare un insegnamento precedente, simile a quello di Cristo, non dobbiamo cercare nell’area mediterranea, ma nel nord dell’India, dove da circa cinque secoli si stavano diffondendo il buddismo e il jainismo. In particolare: il buddismo mahayana, la cui essenza è l’amore compassionevole verso tutti gli esseri viventi, ci invita, come Gesù, a un’empatia e amore verso tutte le entità naturali.

Guido Colombo
Brescia

Secondo la teologia cristiana, Cristo da sempre è presente nella storia: «tutto fu creato in Lui e per Lui» (Col 1,16). Il Concilio ecumenico Vaticano ii ha dichiarato che le culture di ogni tempo contengono semina Verbi, ossia «semi di Cristo» (cfr. Ad gentes, 11). Questa affermazione, che risale ai padri della Chiesa del ii secolo, è di enorme importanza per i missionari, che devono riconoscere e valorizzare i «semi di Cristo», presenti in ogni popolo.
E Gesù Cristo condanna ogni violenza.

Guido Colombo




EDITORIALEPace preventiva

Era nella sua casa natale, vicino a Nyeri (Kenya), il 9 ottobre scorso, quando le fu comunicato che le era stato assegnato il premio Nobel per la pace 2004. Per celebrare l’inaspettata notizia, Wangari Maathai ha piantato con le proprie mani un piccolo nandi flame, un albero tipico della vegetazione locale.
Prima africana a ricevere il Nobel per la pace, Wangari Maathai, 64 anni, vanta altri primati: laureata in biologia all’università del Kansas (Usa), fu la prima donna in Africa centro-orientale a ottenere un dottorato di ricerca; entrata nel dipartimento di medicina veterinaria all’università di Nairobi come ricercatrice e poi docente, diventò, nonostante lo scetticismo e l’opposizione maschilista di allievi e colleghi, la prima preside della stessa facoltà; nel 1977 fondò il movimento Green Belt (cintura verde), che ha piantato oltre 30 milioni di alberi.
Nella sua crociata ambientalista Maathai coinvolse decine di organizzazioni non governative e centinaia di migliaia di persone, donne soprattutto, creando progetti dal basso e offrendo occupazione, per frenare l’erosione del terreno e lo spreco delle riserve d’acqua: un fenomeno che, specie in Africa, causa una reazione a catena, i cui anelli sono siccità, sottosviluppo, malnutrizione e malattie d’ogni genere.

A lla salvaguardia del creato, la leader kenyana ha sempre unito la lotta per la democrazia e la difesa dei diritti umani dei più poveri e marginali, fino a sfidare lo strapotere del presidente Daniel Arap Moi. Nel 1997 si candidò alla presidenza del paese, ma il suo partito ritirò la sua candidatura pochi giorni prima del voto; nel 1998 riuscì a bloccare un progetto del governo, che prevedeva la distruzione di una parte dell’Uhuru Park, polmone verde di Nairobi, per fare spazio a un complesso residenziale di 60 appartamenti.
Tale impegno civile le procurò fama internazionale, insieme all’opposizione del regime e incomprensioni familiari: fu più volte incarcerata; nel 1999 venne ferita alla testa mentre piantava alberi nella foresta di Karura (Nairobi); negli anni ’80 fu abbandonata dal marito, un ex deputato da cui ha avuto tre figli, protestando che era «troppo istruita, troppo forte, troppo riuscita, troppo testarda e troppo difficile da controllare».
Ripresentatasi alle elezioni del dicembre 2002, è stata eletta al parlamento e, attualmente, ricopre la carica di sottosegretario al ministero dell’ambiente, risorse naturali e fauna selvatica.

N on c’è pace senza la salvaguardia del creato, abbiamo scritto nell’editoriale di settembre. Lo conferma la signora Maathai, commentando a caldo la notizia della sua premiazione: «La maggior parte dei conflitti in Africa e in altre parti del mondo derivano da una lotta per accaparrarsi le risorse naturali. Dobbiamo garantire che vi sia giustizia nella distribuzione di queste ricchezze. Occorre una pace preventiva: è necessario evitare le guerre, invece di risolverle quando sono ormai iniziate. La protezione dell’ambiente e la gestione delle sue risorse sono essenziali; ma per una vera pace è necessario garantire anche equità e giustizia».
L’attribuzione del premio Nobel alla coraggiosa donna kenyana è una pietra miliare nel riconoscimento del ruolo, ancora misconosciuto, delle donne in tutto il continente africano. Mogli, madri, infaticabili lavoratrici, esse sono le spine dorsali della società. Sulle loro spalle gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Le donne sono, le mani invisibili che, silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa, ne strutturano la società e ne provocano i cambiamenti: esse sono il motore del futuro, a patto che vengano loro riconosciuti tutti i diritti e maggiore spazio e voce nella vita culturale, politica e sociale.

Benedetto Bellesi




Carlo Urbani e…

Egregio direttore,
ho letto il bellissimo articolo di Guido Sattin su Missioni Consolata, giugno 2003, riguardante Carlo Urbani. Grazie.
dr. M. Pellanda

Bassano del Grappa (VI)

Caro direttore,

ho appreso da Missioni Consolata la notizia incredibile della morte del dottor Carlo Urbani. Allora ho appeso la pagina del giornale con la sua foto su un muro in costruzione del laboratorio medico della missione: lo dedicherò proprio a Carlo, se… mi manderà un suo collega ad iniziare l’opera.

Ricordi, direttore, come il dottor Urbani avesse promesso di rispondere alla mia richiesta? Aspettavo sempre la risposta. Ora è venuto… Lui, e l’ho pregato di intervenire. Sono sicura che farà tutto quello in cui confido.

sr. Rosa Carla Cazzaniga

Pemba (Mozambico)

Carlo Urbani, nostro amico e collaboratore, è mancato il 29 marzo, colpito da Sars. Per ricordare la sua attività anche pubblicistica, abbiamo bandito il «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani».

Di esso ha parlato ampiamente anche «Salute», il settimanale del quotidiano la Repubblica (6 novembre).

Dalla Presidenza della Repubblica abbiamo invece ricevuto queste graditissime righe:

Egregio dottor Moiola,
ho il piacere di informarLa che il Presidente della Repubblica ha destinato una medaglia
al Premio giornalistico Carlo Urbani.

Con viva cordialità,

dott.ssa Francesca Romana Reggiani

(Capo divisione adesioni patronati e premi)

dr. M. Pellanda




COLOMBIA: il dramma dei “desplazados” VENTISEI UOMINI DI PACE

Lo scorso 28
aprile, in una fattoria nascosta nel verde delle montagne che circondano Carmen de
Apicalá (Cundinamarca), si è inaugurato un centro destinato a realizzare un grande sogno
per la Colombia: costruire uomini di pace. Pochi edifici nei quali vengono ospitati 26
bambini, tutti provenienti da famiglie di sfollati (“desplazados”), che a decine
ogni giorno arrivano a Bogotà, private di tutto. Alcune di queste porte si sono aperte e
di lì è nato il progetto “bambini di guerra, uomini di pace”: un piccolo
esempio di cosa la solidarietà può fare quando, pur avendo pochi mezzi, trova la
collaborazione di molti.

Quando arriviamo a Carmen de Apicalá, sullo schienale posteriore della
nostra auto si sono accumulati maglioni e vestiti pesanti. Questa mattina, a Bogotà,
l’alba era un po’ fredda, ma dopo esserci allontanati dalla città, a poco a
poco, il calore del tropico ci aveva aiutato a liberarci del superfluo.

A partire da Fusagasugá, ai lati dell’autostrada cartelloni
pubblicitari molto colorati ci ricordano che ci stiamo avvicinando a una delle zone più
turistiche del paese: hotels, piscine, negozi, divertimenti. Sulle rive del Magdalena
tutto è organizzato in modo tale che, chi se lo può permettere, ha la possibilità di
riposare e dimenticare le fatiche e gli inconvenienti della grande città. Il paesaggio
cambia immediatamente quando abbandoniamo la via principale, per salire lungo le pendici
di una delle montagne che dominano la valle del Magdalena. Nello spazio di pochi
chilometri ci ritroviamo nella Colombia agricola, così diversa da quella turistica:
piccole case di contadini con molti animali da cortile, un verde esuberante in ogni angolo
e, attorno a noi, soltanto sole, colore, silenzio e un piacevole odore di campagna. Dopo
qualche chilometro giriamo e ci inoltriamo, seguendo una strada sterrata e sconnessa, in
quello che a prima vista sembra un bosco e che poi si rivela un campo fittamente coltivato
con alberi da frutto: manghi, cacao, mandarini, guayabas. Arrivati ad una finca
(proprietà) e scesi dall’auto, siamo subito circondati da strilli di entusiasmo,
saluti, fervore di attività. Siamo finalmente arrivati alla casa-fattoria dei
“bambini della guerra”.

“Come primo passo – sono parole di Napoleone Malaver, responsabile
del gruppo “Volontari del mondo” che amministra questa proprietà di 20 ettari –
ci preoccupiamo di creare un rifugio per i figli di coloro che arrivano a Bogotà per
fuggire la violenza che colpisce le altre regioni del paese”. La guerra, si sa, non
risparmia sofferenze e nel suo procedere distruttivo nessuno si salva, neppure i bambini.
Nell’età in cui casa, educazione, famiglia sono indispensabili per modellare gli
adulti di domani, tutto può sparire ed essere sostituito, dalla notte alla mattina, da
una fuga interminabile, dallo sradicamento dal proprio ambiente e da una insanabile
mancanza di risorse. Questa è storia quotidiana per migliaia di famiglie colombiane e i
loro figli. Cosa vuole significare la fattoria dei “bambini della guerra”? In un
ambiente familiare, genuino e contadino (perché la maggioranza dei figli provengono dalla
campagna) si cerca di fornire ai bambini quelle condizioni minimali che possano fare di
loro, in futuro, degli “uomini di pace”. Se la guerra è sinonimo di
distruzione, nella fattoria si vuole “costruire conoscenza e vita”. Ma come si
è arrivati a realizzare questo progetto?

La storia ce la ricorda padre Claudio Brualdi, superiore provinciale
dei missionari della Consolata in Colombia. “Con il padre Juan Testa ci trovammo
d’accordo nel dare vita ad un’opera che potesse offrire rifugio e protezione
alla parte più indifesa della popolazione colombiana. Questa, tra l’altro, era
conforme al nostro carisma di missionari della consolazione. Rimaneva un problema: a chi
chiedere aiuto per realizzare un siffatto progetto? I missionari che lavoravano in
Colombia non erano sufficienti e, comunque, avevano già molto lavoro da fare”. La
soluzione arriva con la collaborazione del gruppo “Volontari del mondo”, la
solidarietà di molta gente del quartiere El Vergel e l’appoggio di alcune scuole e
collegi. Non ultimo l’attenzione e l’affetto della gente della comunità, la
quale a poco a poco si accorge che le nascenti costruzioni non hanno una finalità
agricola. Finché un giorno la popolazione scolastica risulta più che raddoppiata.
“Da don Alfonso, la persona che abita più vicina, a quelli più lontani – ci spiega
Napoleone Malaver – tutti si interessano di quello che sta accadendo ai “bambini di
guerra e uomini di pace”. Cosicché quest’opera non appartiene né ai missionari
della Consolata né ai “Volontari del mondo”: essa è un’opera di tutta la
comunità e di tutti i numerosi benefattori”. A sua volta, padre Jaime Bonilla,
responsabile della pastorale dei migranti per l’arcidiocesi di Bogotà, fa questa
riflessione: “Questa è un’opera di tutti, ma allo stesso tempo è un’opera
di Dio. Perché è stata fatta in favore dei più piccoli, ai quali Gesù tiene in modo
particolare. Incontreremo certamente molte difficoltà, ma questo progetto andrà avanti e
crescerà. Questo non significa che ci attendiamo che tutto cada dal cielo. Il vangelo ci
insegna che le opere di Dio esigono sempre il nostro apporto. Pensate al miracolo della
moltiplicazione dei pani: esso fu possibile perché un ragazzo mise a disposizione del
Signore il suo pasto, con la speranza che da esso si ottenesse cibo per altri. Allo stesso
modo questo progetto è frutto del nostro lavoro, del nostro impegno e di tutto ciò che
possiamo apportare con la benevolenza di Dio”.

Domando: “Quanti “bambini della guerra” sono ospitati
nelle strutture che oggi inaugurate?”.
– Ventisei.
– Solamente?, ribatto.
– Per il momento, sì.

“Quando cominciammo questo progetto – mi spiega Napoleone Malaver
-, avevamo molte speranze e un pensiero: ciò che abbiamo potuto fare oggi, che cosa
diventerà domani? Abbiamo iniziato con 26 bambini, tutti ospitati in quella semplice
costruzione che puoi vedere lì. Già domani si cominceranno nuove costruzioni e noi tutti
speriamo che, in uno o due anni, si potranno ospitare tra i 100 e 120 bambini e bambine
che vivono in situazioni di alto rischio a causa della guerra. Per ora abbiamo questo e
non possiamo perdere tempo. È qualcosa di piccolo, però lo consideriamo un gran
successo”. La violenza in Colombia produce molti più bambini di guerra di quanti se
ne potranno assistere nei prossimi anni nella casa. Tuttavia, sappiamo che le cose grandi
nascono sempre piccole.

Voglia Dio che questo progetto cresca e che nel futuro si possano avere
molti uomini di pace cresciuti all’interno di esperienze come queste! Voglia Dio che
i missionari della Consolata un giorno possano vendere la proprietà! Se ciò accadesse,
significherebbe che la guerra sarà finita e non ci saranno più le sue vittime,
soprattutto le più innocenti, i bambini.

La casa dei bambini della guerra può essere una goccia nel mare, ma la
sua assenza si notava.

 

(*) Juan Antonio Sozzi, missionario della Consolata, ha lavorato
in Spagna, Ecuador e Colombia. Già direttore di “Antena misionera” (Madrid),
attualmente è redattore di “Dimension misionera” (Bogotà).

Juan Antonio Sozzi




Conversione ecologica

Da alcuni decenni il problema ecologico è dibattuto a livello internazionale. Da un punto di vista sociale, l’ecologia è diventata un problema di coscienza civile, la questione etica per eccellenza, soprattutto nella prospettica occidentale. Dai vari summit mondiali tenuti su tale argomento, si sono levate voci allarmanti, prospettando un futuro catastrofico per il nostro pianeta e di ogni essere vivente che lo abita, se l’uomo non inverte la rotta del dissennato sviluppo economico e consumistico e non imbocca la strada di uno sviluppo sostenibile.
Nella visione cristiana, non è in gioco solo un’ecologia «fisica», attenta a tutelare l’habitat dei vari esseri viventi, ma anche un’ecologia «umana», che renda più dignitosa l’esistenza delle creature, protegga il bene radicale della vita in tutte le sue manifestazioni, facendo sì che l’ambiente si avvicini sempre più al progetto del Creatore.
L’impegno per la promozione della vita e la percezione di un disegno provvidenziale della creazione sono due momenti inscindibili della «teologia cristiana della natura», che riecheggia nell’insegnamento del magistero della chiesa nei riguardi del problema ecologico.
Può sembrare contraddittorio: l’ecologia è una scienza concreta, mentre la teologia ci parla dell’uomo e del suo rapporto con Dio. Invece il legame c’è ed è molto profondo, dal momento che la teologia cristiana mette al centro l’uomo creato in questo mondo e per questo mondo.

L a natura vivente, vegetale e animale, partecipa all’«opera redentrice di Cristo» ha ricordato il papa nella Novo Millennio. «La natura stessa, com’è sottoposta al non senso e al degrado provocato dal peccato, così partecipa della gioia e della liberazione di Cristo». La frase rievoca un’espressione celebre e «scandalosa» della lettera di Paolo ai Romani: «Tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce, perché anch’esso sarà liberato». Ogni filo d’erba sospira la liberazione che viene da Cristo e l’aspetta dall’uomo, il solo vivente che possa deliberatamente salvarsi e, insieme a sé, salvare gli altri esseri viventi. È più che teologia: è escatologia della natura.
Dio ha dato all’uomo la responsabilità sulla natura, ma l’uomo, devastandola, «ha deluso l’attesa divina», per cui occorre «una conversione ecologica» ha sottolineato più volte Giovanni Paolo ii. Si tratta di cambiare mentalità nei riguardi del creato e della vita, che sono doni di Dio a servizio di tutti e non da sprecare egoisticamente. «Il dominio dell’uomo sulla natura non si faccia assoluto, ma riflesso della signoria unica e infinita di Dio – ammonisce ancora il papa -. Se l’uomo si fa della natura non custode, ma tiranno, la natura si ribella».
Tradotta in altri termini, frequenti nel magistero della chiesa, tale conversione consiste in nuovi modelli di vita e sviluppo, a livello personale e globale.

L a salvaguardia del creato, afferma ancora il papa, è una delle sfide del nuovo millennio, insieme a quelle della pace e del dialogo tra le culture e le religioni.
Di tale affermazione si fa portavoce anche il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee), che alla fine della consultazione tenuta a Namur (Belgio) all’inizio del giugno 2004, afferma: «La responsabilità per il creato è una sfida centrale per il futuro della terra, per la difesa della pace e anche per la testimonianza cristiana nella società contemporanea».
Riecheggiando il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace del 2003, «non c’è pace senza giustizia», i vescovi affermano che «non c’è giustizia senza corretta gestione e salvaguardia delle risorse del creato. Dietro ogni conflitto c’è di fatto un problema di ripartizione delle risorse naturali. Sono necessarie azioni concrete e dialoghi intensi per fare in modo che i conflitti ecologici sull’accesso alle risorse di acqua (come in Medio Oriente), petrolio (in Iraq) e terra coltivabile (Africa) vengano bloccati e non trasferiti sul piano religioso».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi