La guerra, le guerre a scuola

Caro direttore,
mi rivolgo a lei, ma i giudizi che esprimo sono da estendersi a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione del numero monografico di ottobre-novembre 2003 «La guerra. Le guerre».
L’ampiezza, la profondità, la collocazione cronologica di quanto esposto semplicemente come corretta cronaca… fanno sì che il lavoro dovrebbe figurare anche nei testi scolastici; a mio giudizio, sarebbe un’ottima guida per gli insegnanti che volessero educare i giovani ad una ripulsa in assoluto della guerra come mezzo per superare i conflitti.
La presentazione grafica è di qualità decisamente superiore, così come le immagini e l’agilità dei testi. Mi preme sottolineare anche il coraggio dei singoli autori, che, sottoscrivendo i loro articoli, si sono esposti a giudizi malevoli e forse non solo a quelli. In questo modo si è data testimonianza alla verità del tutto coerente alla posizione costantemente espressa da Missioni Consolata.
Secondo mia moglie Paola, il numero monografico è «coraggioso, tosto, ineguagliabile».

«Ineguagliabile» è troppo!… Ricordiamo che «La guerra. Le guerre» descrive, in 132 pagine, tutti i conflitti bellici presenti oggi nel mondo. Il numero della rivista – come ha scritto il signor Andolfi – merita veramente di entrare nelle scuole medie e superiori. Alcuni insegnanti l’hanno già assunto. Altri lo possono fare richiedendolo al nostro indirizzo.

Feando Adolfi




Detronizziamo la pace

Circa 10 anni or sono Marco Lodoli scrisse un romanzetto anarchico, di cui non ricordo il titolo. I protagonisti erano tre giovani libertari e ingenui che avevano della politica un’idea tutta poetica. La loro prima azione fu quella di rubare Gesù bambino dal grande presepe di San Pietro.
«Secondo le loro menti bizzarre bisognava – a detta dell’autore stesso – simbolicamente interrompere quel ciclo che ogni anno a Natale festeggia la nascita del bambino divino e a Pasqua poi lo crocifigge». E aggiunge: «Bisognava liberare il neonato da un destino feroce, mandarlo a giocare con gli altri bambini».
Prendiamo questa «parabola» come filigrana attraverso la quale contraddistinguere ed individuare la particolarità del discorso cristiano che, con l’incarnazione, si discosta da quello religioso per rivestire i panni della «profanità». Dio, in Gesù Cristo, esce dalla sua solitudine ontocratica per identificarsi con l’uomo, con la sua precarietà, la sua mondanità e, appunto, la sua «pro-fanità», nel senso etimologico del termine. Non l’uomo surrettiziamente imbalsamato dentro il tempio del potere e dell’avere, ma l’uomo nella sua nudità, per il quale «non c’è posto in albergo».
Contro la tendenza, ricorrente e naturale, dell’uomo a consacrare le cose, sottraendole all’uso comune e riservandole alla divinità, il Dio di Gesù Cristo si «sconsacra» diventando uomo comune e compagno di viaggio. La comunione e non la separazione; la condivisione e non l’appropriazione; il darsi e non l’accaparrarsi. «Prendete e mangiate; prendete e bevete; ecco: questo sono io…».
Questo coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo, questo suo frammischiarsi nelle vicende umane è liberante, ma anche molto impegnativo per noi credenti, perché è alla base di una consapevolezza per la quale Gesù Cristo non è solo un nome proprio, ma anche un nome comune; non sta ad indicare solo una persona, ma anche un programma; per cui la sua immanenza non diventa prigionia, così come la sua trascendenza non costituisce evasione.
I nomi comuni di Dio, allora, letti nel versante della nostra contingenza, sono molti: Pace, Amore, Giustizia, Servizio, Condivisione e altri ancora. La loro residenza è là dove l’uomo mette piede; non certamente sui troni: luoghi o-sceni nei quali, per paura e per pigrizia, i potenti amano relegare i sogni degli uomini perché restino tali. I troni creano distanza ed incutono soggezione; è per questo che la deposizione dei potenti dai troni è un atto liberatorio che solo un Dio detronizzato può compiere. Ed è per questo che tutti gli intronizzati tentano di rimettere sul trono i loro idoli: Pace o Libertà che siano.
«Stiano lì, in alto, sul trono delle utopie!» ci dicono. E da quella altitudine sarà difficile che possano cortocircuitare le politiche belliciste o le economie armate. «Stiano lì, lontano, nei sogni delle anime imbelli!» ci ripetono. E in questa lontananza sarà più facile travisare le strategie imperiali e battezzare con nomi capziosi realtà di violenza.
Per i detentori del potere un Dio vicino fa paura ed una pace a portata di mano mette imbarazzo. L’evangelista Matteo narra che alla notizia della nascita del Messia «il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme». Loro, i grandi, amano pregare un Dio lontano e invocare una pace che voli alto.
Ma noi sappiamo che, da quando Dio ha posto la sua tenda tra noi, la vera pace cammina con i piedi dei «Francesco», non vola sulle ali dei Condor.

Don Aldo opera in una terra che lo scrittore Ignazio Silone portò alla ribalta con il romanzo Fontamara (1930). Gli abitanti di Fontamara (località antica quanto oscura nella regione Abruzzo) sono contadini, chiamati «cafoni». Come in tutti i paesi, anche a Fontamara vigono gerarchie.
Scrive Silone:
«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo… Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito…».

don Aldo Antonelli




Rimanere giovani

Cari missionari,
«Non fate alcuna cosa che non vi riempia la pancia». Frase fatta, sentita molte volte, durante e subito dopo l’ultima guerra mondiale. Era un insegnamento per la sopravvivenza.
Oggi, dopo anni di ricostruzione e lavoro, le cose sono migliorate, e la fame tra noi è quasi inesistente. A tal punto che gli insegnanti modei raccomandano il rovescio della medaglia: «Mantenete la linea, non mangiate troppo».
Slogan pubblicitari, bombardati continuamente nelle orecchie e nei cervelli da togliere quel po’ di sorriso rimasto sulle labbra dei giovani e la gioia di vivere, riducendo i sentimenti a cose futili. Voi, missionari, potete fare qualcosa? Sì. Grazie a Dio, avete personaggi validi per spiegare valori ben superiori ai suddetti.
Abbiamo bisogno di conoscere, per amare meglio, Colui del quale ci si può veramente fidare. Rimanere in silenzio, in certi momenti, è utile e doveroso. Il dialogo, a volte, si riduce all’essenziale: dono di amore, richiesta di ascolto, compagnia premurosa. Ecco di che cosa ci si può riempire il cuore e la mente (senza proporre sempre la pancia piena o vuota).
Parlare ai giovani di nostro Signore, vero Dio e vero uomo. Lo si può fare anche a puntate, quali:
– Gesù e i maestri della legge;
– le predicazioni alle folle;
– i colloqui sussurrati ad alcuni personaggi;
– le guarigioni e la risurrezione (con la sua commozione e compassione);
– le conversioni e il perdono dei peccati…
È giusto che questi argomenti vengano sviluppati sulle vostre riviste al posto di pettegolezzi e notizie vergognose. Alla maggioranza delle persone vere interessano le verità, dette da persone competenti, in modo comprensivo e rispettoso.
La fantasia, i desideri di sapere dov’è il bello e il buono concorrono a farci rimanere giovani nello spirito, a riempire il cuore di gioia, ad amare ciò che si apprende. Non vale la pena tentare questa sfida?

Per tante persone di buona volontà, la domanda finale è retorica. Ma è anche una provocazione, un incoraggiamento.

Cherubina Lorusso




I poveri aumentano o diminuiscono?

Caro direttore,
in questi giorni ho avuto modo di assistere ad una interessante conferenza a Pesaro, tenuta dal professor Dominick Salvatore, apprezzato economista italiano che vive ed insegna presso la Fordham University di New York. Tra varie cose interessanti, il prof. Salvatore ha affermato che, anche e soprattutto a causa della globalizzazione economica, i poveri nel mondo erano 1 miliardo e 100 milioni nel 1982, mentre oggi sono calati a circa 600 milioni.
Non ho motivi di dubitare di queste cifre, anche per l’autorevolezza e la stima che nutro nei confronti del professore: tra l’altro noto editorialista anche de Il Sole 24 Ore.
Le chiedo: è possibile approfondire su Missioni Consolata questo argomento, con un dibattito articolato e con l’apporto di relatori competenti?

In attesa di un eventuale approfondimento, riportiamo alcuni dati dal Rapporto della Fao (Fondo delle Nazioni Unite sull’agricoltura e l’alimentazione), dal titolo «Lo stato dell’insicurezza alimentare nel 2003».
Dal citato Rapporto si apprende che, al presente, sono 798 milioni le persone denutrite nei paesi in via di sviluppo; 34 milioni quelle nelle nazioni mediamente sviluppate; 10 milioni coloro che soffrono la fame nelle regioni ricche e industrializzate.
Oggigiorno, rispetto agli anni ’90, le vittime della denutrizione sono circa 18 milioni in più. Pertanto si allontana sempre di più l’obiettivo di ridurre del 50% i morti di fame entro il 2015.

Giovanni Pirovano




Il sequestro

Roraima / Brasile, 6 gennaio 2004. Latifondisti (fazendeiros) e risicoltori, con l’appoggio di indios, sequestrano tre missionari della Consolata a Surumú, a 220 km dalla capitale Boa Vista, e li detengono in ostaggio. Un fatto inedito a Roraima. Il giorno 8 i missionari vengono rilasciati. Ma la vicenda resta gravissima, e non solo perché sono stati vilipesi tre religiosi: un brasiliano, un colombiano e uno spagnolo.
Con il fattaccio, gli autori:
– hanno depredato una missione cattolica;
– hanno assalito l’annesso Centro di formazione indigena, sequestrando persino alcuni allievi;
– hanno attaccato a Boa Vista due istituzioni nazionali: la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) e l’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria);
– hanno bloccato le vie di accesso a Boa Vista e le autostrade 174 e 401, che collegano rispettivamente al Venezuela e alla Guyana inglese;
– hanno impedito l’accesso di generi alimentari…
La ragione? Esprimere un secco no al governo federale per l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol, prevista per la fine di gennaio, dopo estenuanti pressioni durate un trentennio. Intanto, nel 1998, il ministro della giustizia firmava il decreto di demarcazione dell’area.
Il territorio, di 16.500 kmq, è abitato dagli indigeni Macuxi, Wapichana Ingarikò, Patamoma e Taurepang. Complessivamente 15.000 persone.
Ma c’è di più nei fatti del 6 gennaio. Sotto la punta di un iceberg, si cela il disegno perverso di conservare il territorio di Roraima nell’anarchia ed impunità.
Noi, al contrario, riteniamo che la legalità non solo sia possibile, ma soprattutto doverosa. Lo affermiamo confortati dalle seguenti esperienze positive.
– 1997, giugno-luglio. Le comunità indigene, dell’area ovest della Raposa/Serra do Sol, insorgono pacificamente, pressando il governo federale di Brasilia affinché allontani dal territorio i cercatori d’oro e diamanti (garimpeiros). Questi tuttavia, sostenuti da vasti settori della comunità dei bianchi, sostengono che l’intervento delle forze del governo federale avrebbe scatenato la guerra civile. Alla fine, di fronte alla polizia federale, i garimpeiros (benché armati) si arrendono senza colpo ferire.
– 1998. I garimpeiros occupano illegalmente l’area est della Raposa/Serra do Sol, e gli indios incalzano la Funai affinché allontani gli invasori. Costoro, ancora una volta, minacciano il caos sociale. Ma il 31 gennaio intervengono le forze federali, accompagnate da indigeni. E tutto si risolve nella tranquillità. La stessa società roraimense, pur ostile agli indios, non reagisce.
Dunque, l’ordine è garantito dal governo federale, mentre quello di Roraima è inetto e fomenta le invasioni nel territorio indigeno.
Dopo i fatti del 6 gennaio, il governo federale deve ristabilire l’«ordine», come vuole anche la bandiera nazionale del Brasile. Non farlo significherebbe avallare anarchia e impunità, su cui contano le autorità corrotte di Roraima.

Dal gennaio 2003 a Roraima è in corso la Campagna internazionale «Nos existimos», che vede i popoli indigeni, i contadini poveri e gli emarginati della città alleati contro l’impunità. La Campagna, promossa dalla diocesi di Roraima, missionari della Consolata, Centro indigeno, Centrale unica dei lavoratori, Centro dei diritti umani, ecc., rivendica pure l’omologazione in area continua della Raposa/Serra do Sol: omologazione che il presidente Luis Inazio Lula da Silva dovrebbe presto sottoscrivere.
Ci auguriamo che il presidente di una grande nazione democratica, come il Brasile, non si lasci intimorire da un pugno di facinorosi.
Nos Existimos,
Italia

Benedetto Bellesi




Leali, corretti, cordiali

Leali, corretti,
cordiali

Egregio direttore,
sono un’assidua lettrice del vostro giornale e mi complimento con lei e con tutto il suo staff per la grande professionalità con la quale realizzate Missioni Consolata. In questo mondo, dove spesso il giornalismo si assoggetta alle classiche logiche di potere, voi dimostrate in ogni numero di mantenere un comportamento corretto e leale, permettendo quindi a noi, lettori, di formarci un’idea e un’opinione oggettiva su molti fatti che accadono vicini e lontani da noi.
Apprezzo in particolare la sincerità e la schiettezza con le quali compilate i vostri articoli, riuscendo comunque e mantenere sempre un tono pacato e cordiale anche nei confronti di idee diverse.

Gli apprezzamenti sono sempre graditi. Però, forse, commentiamo meglio le lettere che ci criticano che quelle che ci lodano

Anna Avanzi




Gli angeli di pietra sono stanchi

GLI ANGELI DI PIETRA
SONO STANCHI

Messaggio alle comunità cristiane
nel mondo
G li angeli di pietra sono stanchi. Da 2.000 anni attendono i coloni cristiani a Gerusalemme… I coloni cristiani partirono a migliaia verso la Palestina per pulirla del sangue e distruggere le leggi dell’odio.
Finalmente i crociati della pace cammineranno sopra dune d’acqua per abbracciare il Cristo ferito, mille volte deriso, calpestato dalle armi: a Gerusalemme, Nazaret, Betlemme.
Quanti verrete, coloni, tra un miliardo di cristiani? Tutti i cristiani della terra. Tutti i cristiani uniti a difendere un popolo costretto alla morte e un altro costretto alla guerra.
Gli angeli di pietra piangono Gerusalemme. Gerusalemme di tutti i popoli, Gerusalemme di tutti gli dei e di un solo Dio. Gerusalemme del Monte degli Ulivi e del Golgota, dove sei?
La Pasqua non è più ebraica e non è cristiana, finché un’arma schiaccia la colomba della pace: la vita di una ragazza o di un giornalista cosa contano in terra di Palestina? Rabin è morto per la pace. Quante volte è stato ucciso Rabin!
Israele vedrà i granelli del deserto farsi uomini-scudo contro le stragi perpetue. Israele, città del Messia ucciso, risorto e che verrà.
Israele, è tempo di perdono: è tempo che l’Arca rapisca i malvagi della tua terra, perché chi attende preghi al muro del pianto, chi spera nel Risorto s’incammini premuroso per le vie dei miracoli e raggiunga le acque del Giordano.
Allora gli apostoli e i bimbi di Gesù ritoeranno a frotte, non da macerie e sangue, ma da case e orti profumati. Cristiana

Cristiana




Missione da sfogliare

L a parrocchia è stato l’oggetto privilegiato dell’assemblea straordinaria della Conferenza episcopale italiana (Cei), svoltasi ad Assisi alla fine del novembre scorso. Oltre a rilevae difficoltà e problemi, a ribadie importanza e ruolo, i vescovi ne hanno delineato «il volto missionario», convinti che la «connotazione missionaria può aiutare la parrocchia a superare il rischio dell’autoreferenzialità, come pure di configurarsi come stazione di servizio».
Il riferimento alla missionarietà deriva dal programma tracciato nel documento Cei: «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia», in cui sono stati indicati gli orientamenti pastorali per il decennio 2001-2012. In esso si invita la chiesa ad «allargare il nostro sguardo… alla vera e propria missione ad gentes, paradigma dell’evangelizzazione»; a «non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato a “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio di tutta la comunità. L’allargamento dello sguardo verso un orizzonte planetario, compiuto riaprendo il “libro delle missioni”, aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel “qui e ora” della loro situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e intuizioni apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale» (46).

P er «dare concretezza alle decisioni indicate… per imprimere un dinamismo missionario» alle singole comunità cristiane, è in corso la preparazione del «Convegno missionario nazionale», che si terrà a Montesilvano (Pescara) dal 27 al 30 settembre 2004 ed ha come tema «Comunione e corresponsabilità per la missione».
Organizzato dall’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le chiese, il convegno ha alcuni obiettivi molto importanti, spiega mons. Giuseppe Andreozzi, direttore dello stesso Ufficio:
– aiutare la comunità cristiana, e in particolare la comunità parrocchiale, a prendere coscienza che si deve aprire all’universalità, assumendo come paradigma della propria attività pastorale la missio ad gentes;
– superare il preconcetto che il compito missionario sia solo per «addetti ai lavori»;
– proporre nuove forme di evangelizzazione, perché tutta la comunità possa sentirsi missionaria;
– individuare e sostenere occasioni e strumenti di lavoro che concorrono a definire e qualificare l’apertura ad gentes della comunità cristiana.

T ale apertura non è a senso unico. Sfogliando «il libro delle missioni» le parrocchie italiane possono trovare risposte alle sfide che fanno anche dell’Italia una «terra di missione». Le comunità cristiane in Africa, Asia e America Latina hanno molto da insegnare in fatto di freschezza di fede vissuta, gioia delle celebrazioni, testimonianza fino all’eroismo e, soprattutto, ricchezza di ministeri laicali .
Una delle mete del documento Cei per il decennio in corso riguarda proprio «l’impegno dei fedeli laici alla testimonianza evangelica, all’assunzione di nuove forme ministeriali» (67). Soprattutto in questo campo «il libro delle missioni» può essere di stimolo e di esempio per valorizzare il ruolo dei laici, uomini e donne, trasformare la parrocchia in una «chiesa ministeriale», ancora tutta da inventare, senza scivolare in una ennesima «clericalizzazione».

Benedetto Bellesi




Non servono i muri…

Il papa ha criticato il muro di Sharon. L’Unione europea pure. Addirittura Bush pare non gradirlo. Eppure, a contestare pubblicamente Israele si rischia di…

Mentre scrivo queste note per "Missioni Consolata" il luogo comune più in vista è costituito dall’equiparazione, ormai divenuta quasi automatica, tra una qualsiasi espressione di critica verso lo stato d’Israele e la sua politica, da un lato e l’antisemitismo dall’altro. Dunque è quasi obbligatorio ragionarci sopra, anche se è un tema straordinariamente difficile e – lo confesso – lo affronto con un certo disagio, ben sapendo che ogni virgola fuori posto sarà usata immediatamente per affibbiare anche a me l’epiteto di «antisemita». Ma ci provo, facendomi scudo del… papa.
Giovanni Paolo II ha detto a Sharon che «non servono muri, servono ponti» (1). Sharon sta costruendo un muro che, letteralmente, ruba territori ai palestinesi e, come ha detto anche il cardinale Sodano, trasforma lo stato palestinese in una gruviera. Antisemita anche lui? Anche quando dice che bisogna collocare una forza d’interposizione tra israeliani e palestinesi, che tenga a freno gli uni e gli altri?
Ma il presidente Bush e Ariel Sharon non ne vogliono sapere. Eppure prova a dire o a scrivere una cosa del genere e immediatamente sarai tacciato di voler attentare alla sicurezza degli ebrei. E perfino le parole del papa, che ha già chiesto perdono per il passato, che è andato laggiù a pregare sul muro del pianto, sono messe in un angolo, quando non ignorate dai giornali e dai telegiornali.

Lo scorso novembre quattro ex capi del servizio segreto israeliano, lo Shinbeth, hanno pubblicato un documento congiunto in cui criticano severamente Ariel Sharon per aver puntato esclusivamente sulla guerra, sulla violenza contro i palestinesi, per il suo rifiuto ostinato di abbandonare gl’insediamenti dei coloni nei territori che il processo di pace aveva già assegnato ai palestinesi. Il New York Times mette la notizia in prima pagina, ma i giornali italiani o ne tacciono, o la relegano in luoghi invisibili. I telegiornali italiani, tutti, senza eccezione alcuna, la ignorano.
Qualche giorno prima l’Unione europea aveva pubblicato un sondaggio (su 7.500 cittadini europei, distribuiti uniformemente) (2) in base al quale – scrissero tutti i giornali tra grida di scandalo e accuse di antisemitismo – la politica dello stato d’Israele rappresenta, per il 59% degli europei, la maggiore minaccia alla pace mondiale. Quasi tutti i capi partito italiani si mostrarono indignati. Il presidente della Camera, Casini, definì il sondaggio «inopportuno» (non gli era piaciuto il risultato o il sondaggio?). Quasi tutti ignorarono che il sondaggio era composto di 10 domande, solo l’ultima delle quali riguardava Israele (lo stato, non gli ebrei). Le altre 9 erano tutte sulla guerra americana in Iraq e tendevano a scoprire quale fosse l’orientamento dei cittadini d’Europa. Ebbene, dal sondaggio emergeva che la stragrande maggioranza degli europei riteneva la guerra sbagliata, ingiusta, e si attendeva dall’Europa una politica di forte distinzione rispetto a quella degli Stati Uniti.
Si trattava di un’informazione preziosa, per chi avesse voluto mettere mano a una politica estera dell’Europa più rispettosa della volontà dei suoi cittadini. Invece il coro scandalizzato dei commentatori fu rumoroso e scomposto: l’Europa – si chiesero – sta diventando antisemita? Ma che c’entra?
Dovremmo giungere alla conclusione che il 59% degli europei è diventato antisemita? E in Italia anche? C’è qualcuno disposto ad affermare pubblicamente che la maggior parte degl’italiani, che si è pronunciata contro la guerra, è diventata antisemita? Begli amici di Israele per davvero quelli che sostengono questa tesi! Dice il proverbio: dai nemici mi guardi Iddio che dagli amici mi guardo io. È chiaro che non è vero, ma la pressione mediatica guerriera e bugiarda è riuscita a far diventare senso comune un’equazione falsa.
Difendono gli ebrei? Niente affatto. Sono preoccupati di difendere l’imperatore e le sue guerre. E poiché Sharon le sostiene e ne fa parte integrante, ecco invocare a sua difesa il ricordo dell’olocausto, che non c’entra assolutamente niente. Eppure non si può più discutere di queste cose in termini civili. I dibattiti (si fa per dire) televisivi si trasformano in risse non appena si tocca l’argomento Israele. È diventato un tabù. E, ogni volta che qualcuno osa alzare il dito per proporre un distinguo, ecco l’altra accusa, che diventa anch’essa un luogo comune invalicabile: se non sei con Israele non solo sei antisemita, ma sei anche a favore del terrorismo, dei terroristi, di Osama bin Laden e di Saddam Hussein. Tutto in un fascio, per creare la massima confusione nelle menti.

Anche in Iraq, dove sono morti pure 19 italiani (si veda l’ampio servizio su questo stesso numero di MC), vogliono che si veda soltanto il terrorismo islamico. E invece c’è una guerra che non è affatto finita e non è affatto vinta. Dove c’è sicuramente il terrorismo (prima non c’era e ce lo ha portato la guerra americana), ma c’è anche una enorme resistenza popolare all’occupazione. Così i luoghi comuni uccidono, perché, sbagliando e ingannando la gente, si manderanno altri soldati italiani a morire inutilmente e per una causa sbagliata.

Giulietto Chiesa




Troppo facile piangere quando ci fa comodo


È assurdo rispondere al terrorismo con la guerra.

«Qualcuno vuole “uno scontro di civiltà”».

Non è facile trovarlo, ma quando ti risponde ha una voce calda e sicura e soprattutto parole chiare, ancorché concilianti. Padre Giulio Albanese è il vulcanico direttore della Misna, l’agenzia di informazione missionaria che già tanta credibilità si è guadagnata in pochi anni di attività.
Non nasconde la propria preoccupazione: per la guerra, il terrorismo, la pace, il giornalismo asservito o svilito a gossip.
Sulla chiesa rimane cauto e non vuole tornare sulle polemiche che hanno accompagnato l’omelia funebre del cardinale Camillo Ruini, pronunciata durante le esequie di stato per le vittime della strage di Nassiriya. E men che meno vuole commentare i virulenti attacchi subiti da monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta, colpevole di aver detto verità troppo scomode per essere ammesse in pubblico.

Direttore, ci sono stati i morti iracheni, i morti statunitensi ed alla fine anche i morti italiani. Più che dalla giusta pietas il nostro paese è stato travolto da un’ondata di patriottismo non proprio disinteressato...

«Che senso ha questo patriottismo in un’epoca di villaggio globale? Se i confini nazionali sono ormai soltanto virtuali, allora anche la percezione del patriottismo dovrebbe essere cambiata.
Dobbiamo piangere per le sorti del mondo intero e di tante vittime innocenti delle quali spesso neppure sappiamo l’esistenza.
Noi della Misna siamo tra i pochi che danno notizia delle stragi quotidiane che avvengono, ad esempio, nei paesi africani.
Il patriottismo del 2003 dovrebbe avere un respiro globale. Insomma, è troppo facile piangere quando ci fa comodo…».

La guerra fa male e va male. Gli Stati Uniti lasceranno l’Iraq?

«Lo avrebbero lasciato se non ci fossero troppi interessi legati al petrolio e al business della ricostruzione. Certo di sbagli ne hanno fatti, anche dal punto di vista operativo. Tra l’altro, ormai hanno aizzato una guerra intrairachena in quello che prima del loro arrivo era il paese più laico del mondo islamico».

Il presidente Bush sostiene che la guerra in Iraq andava fatta per difendere il mondo dal terrorismo internazionale…

«Combattere il terrorismo con degli eserciti convenzionali? Già questo mi sembra uno sbaglio operativo clamoroso. Detto questo, l’unica lotta lecita è quella fatta attraverso la legge internazionale, l’unica in grado di difendere interessi non particolari».

Ma in un’epoca dominata dall’unilateralismo statunitense non è semplice parlare di diritto internazionale…

«Il papa ha detto che bisognava rispettare il diritto internazionale, che è stato palesemente violato. Questo significa che l’Onu deve tornare a svolgere un ruolo centrale e super partes. Sappiamo tutti che è un’istituzione burocratica, mastodontica, eccessiva, ma nonostante i limiti le Nazioni Unite rappresentano l’unica via d’uscita».

Come spiega il fenomeno del terrorismo?

«Prima di tutto una cosa va detta a voce alta: il terrorismo va condannato comunque, senza se e senza ma. Sempre. È vero che i terroristi trovano terreno fertile dove le situazioni di privazione e ingiustizia sono maggiori. Ma sicuramente essi non combattono per porre fine a ciò, come dimostra il fatto che le vittime delle loro azioni sono quasi sempre gente innocente. In realtà, credo si voglia arrivare al cosiddetto clash of civilizations, lo scontro di civiltà».

Cioè sta dicendo che qualcuno spinge verso questa direzione?

«Sì».

E chi perseguirebbe questo obiettivo?

«Io non posso dirlo, ma le dò un suggerimento. Pensi alla storia italiana e a quanti attori c’erano dietro la stagione del terrorismo negli anni ’70 ed ’80. Ora è su scala globale…».

Mi permetto di tornare alla domanda iniziale alla quale ha preferito non rispondere. Le tematiche della guerra, del terrorismo, della pace continueranno a dividere la chiesa italiana?

«Continuo a non rispondere. Però, un piccolo suggerimento ce l’avrei. Non è un’idea né nuova né originale, ma potrebbe essere qualcosa di positivo. Sto pensando ad un Osservatorio internazionale della chiesa cattolica italiana, formato da personalità religiose e laiche, che studi e valuti le problematiche inteazionali».

Nel suo libro lei è molto critico con il giornalismo italiano. Ora si dice che la guerra e la strage di Nassiriya lo abbiano ucciso…

«Il giornalismo italiano era in crisi già prima della strage di Nassiriya. Prigioniero del provincialismo e del gossip». •

Paolo Moila