Introduzione – Noi ci siamo e contiamo

N egli ultimi 25 anni, per i lettori di «Missioni Consolata», lo stato di Roraima (Brasile) è divenuto quasi un sinonimo di «campagne». Tutte a favore degli indios. Ricordiamo le principali.
p La campagna per gli indios Yanomami del 1979-80. Promossa dai missionari della Consolata, si svolse soprattutto in Italia. Dal nostro paese partirono circa 700.000 lettere e/o cartoline, con oltre un milione di firme, che sollecitavano il presidente della repubblica del Brasile a creare il parco per gli indios Yanomami. Dopo altee vicende, l’obiettivo fu raggiunto nel 1991, allorché il parco fu demarcato e omologato.
p La campagna indios/Roraima, realizzata nel 1988-89 ancora dai missionari della Consolata (a livello europeo), si proponeva la raccolta di firme, da presentare al segretario dell’Onu, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dello stato; le firme consegnate furono circa 400.000. Inoltre la campagna lanciò il progetto una mucca per l’indio in favore dei Macuxi, Wapichana, ecc., che si concretizzò in 10.000 capi di bestiame (oggi 42.000).
p Ma la caserma no! È la campagna del 2001: si opponeva ad un insediamento militare nel villaggio macuxi di Uiramutã. Purtroppo la caserma fu costruita. Ma gli indios non si sono demoralizzati: incoraggiati anche da oltre 17 mila firme raccolte in Italia (in un solo mese), hanno pressato il presidente Lula per l’omologazione in area continua della regione «Raposa Serra do Sol». Il 28 novembre 2003 Lula ha assicurato che l’area sarà omologata, ma «senza fretta». Tuttavia, il 19 dicembre, c’è stata una doccia fredda: la Commissione «relazioni estere e difesa nazionale» della Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge, che consente la costruzione di nuove caserme nelle aree indigene di Roraima. Un passo avanti e due indietro?
p Nós existimos è la campagna in corso, ma con tre novità rispetto alle precedenti. La prima: la campagna è nata e cornordinata in Brasile da realtà locali (diocesi di Roraima, missionari e missionarie della Consolata, Consiglio indigenista missionario, Consiglio indigeno di Roraima, ecc.). Seconda novità: la campagna è «globale», perché investe non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e i lavoratori emarginati della città; insomma tutti i poveri. La terza novità è, a nostro parere, sorprendente: è una campagna che sta diventando «movimento». Un movimento che continuerà anche quando la campagna chiuderà i battenti.

P er anni abbiamo sentito i popoli indigeni di Roraima affermare: «Vogliamo vivere!». È stato un grido di fronte ad una costante minaccia di morte.
Oggi tutti i poveri dello stato ostentano con giusto orgoglio il fatto di esistere. «Nós existimos e… resistiamo. L’unione di indigeni, lavoratori rurali ed emarginati della città è un segno di cambiamento» dichiarano con forza gli interessati.
E in altre parole: «Noi ci siamo, eccome! Ma soprattutto contiamo. E vogliamo contare sempre di più nella vita del nostro paese».

Francesco Beardi




Un unico grido: noi esistiamo

Roraima / Brasile:
campagna internazionale Nós existimos
indios, agricoltori ed emarginati della città
uniti per la vita contro la violenza e l’impunità

È la prima volta che indigeni,
agricoltori ed esclusi della città
si uniscono insieme nella solidarietà, per cercare la soluzione
ai problemi che devono affrontare…
«Presidente Lula, vogliamo aiutarti
a vincere la battaglia per il rispetto
dei diritti umani.
Facci credere che ne vale la pena…».

Silvia Zaccaria e Silvano Sabatini




Poveri & isolati

Un missionario, non più giovane, sperduto nella selva colombiana,ma
con la voglia di rimboccarsi le maniche di fronte ai molti problemi
causati da lontananza abbandono, sfruttamento del suolo,guerriglia…
E chiede una mano, soprattutto per i bambini.

Solano, con la sua foresta meravigliosa e, nello stesso tempo, piena di insidie; non esclusi gli scontri tremendi tra guerriglia, paramilitari e narcotrafficanti, che generano solo morte, distruzione, paura e, soprattutto, famiglie distrutte, bambini soli, anziani abbandonati a se stessi e tanta (ma tanta!) povertà.
Mi trovo, ormai alla soglia dei 60 anni, a lavorare in questo paese, dopo un periodo trascorso in Venezuela, tra gli indios guajiros, con la salute traballante (11 operazioni in dieci anni), ma contento di essere missionario della Consolata. Siamo due padri e quattro suore Carmelitas misioneras, tutti colombiani, tranne il sottoscritto.
Qui la vita (se si può chiamare così) è lotta dura; fin da bambini ci si educa all’arte di arrangiarsi come uno meglio può. Un contatto strettissimo con le varie famiglie delle veredas (comunità rurali: ne abbiamo 145), mi ha aiutato a fissare l’attenzione sul problema molto grave e urgente di questi bambini: molti sono disabili; altri con il labbro leporino, a causa della coca; la maggior parte senza genitori, fuggiti a causa della guerriglia, ammazzati, o spariti nel nulla.

Tentazione «della foglia»
Il comune di Solano è situato nel trapezio amazzonico colombiano, sulla sponda sinistra del fiume Caquetá, a 170 chilometri da Florencia, capoluogo della regione. È il comune più esteso della Colombia: 43 mila chilometri quadrati, la maggior parte costituito da foresta vergine.
La zona è solcata da due grandi fiumi: il Caquetá, affluente del Rio delle Amazzoni, e l’Orteguaza che, nelle vicinanze di Solano, confluisce nel primo.
Non esistono strade: uniche vie di comunicazione sono i fiumi. Gli abitanti, circa 20 mila, sono per la maggior parte contadini. Provengono da diverse regioni della Colombia ed è quindi difficile parlare di cultura «caquetegna». Parecchi agglomerati umani nascono, crescono e muoiono in poco tempo. Gli unici mezzi di trasporto sono la canoa e il cavallo; non essendoci strade, sono molto disagiati e costosi. La commercializzazione dei prodotti agricoli diventa quasi impossibile.
Unitamente ai contadini, esistono alcune comunità indigene di witotos, inganos, tamas, karijonas e coreguajes. Quasi tutti questi gruppi si sono in parte integrati col resto della società; altri, più isolati, conservano ancora tradizioni, lingua e abitudini culturali. Solo in questi anni il governo sta favorendo una politica del territorio riservato agli indigeni, ma sia i contadini come gli indigeni vivono la stessa situazione di emarginazione e abbandono.
La popolazione vive di un’agricoltura di sussistenza (che produce manioca, mais, banane) e qualche forma di allevamento di bestiame. La vera sorgente di guadagno, però, a cui la maggioranza dei contadini si dedica, è la coca. Nonostante i rischi connessi all’attività della «foglia», il suo mercato sicuro, il suo facile trasporto e il pagamento in contanti l’hanno convertita nella coltivazione più comune e pratica.
Nel Caquetá è raro che un contadino non coltivi coca, anche se in realtà questa non lo fa ricco, pur aiutandolo a sopravvivere. Il boom della coca ha causato una crescita esorbitante del costo della vita e sta strangolando l’economia familiare. Il prezzo della coca è fluttuante, mentre i beni di prima necessità continuano a rincarare. Inoltre, il cemento e la benzina – prodotti importanti per l’economia della regione – hanno prezzi esorbitanti e continuano a scarseggiare per il fatto che sono pure gli elementi essenziali nella lavorazione della coca.

Privi di (quasi) tutto
La droga ha portato in questa regione la perdita dei valori umani. Dilagano violenza, vendetta, sfiducia verso gli altri, immoralità e corruzione a tutti i livelli. I contadini sono coscienti del degrado che la droga apporta, ma proseguono nella sua coltivazione, perché non ricevono alcun sostegno nel tentativo di coltivazioni alternative.
I problemi economici si riflettono anche sulla scuola. Pochi privilegiati riescono a terminare i cinque anni di scuola elementare; solo 40, delle 145 comunità del comune di Solano, hanno scuola e maestro. Circa il 60% della popolazione in età scolastica non siederà mai su un banco di scuola, a causa delle grandi distanze e difficoltà di trasporto.
Il problema della salute non è meno preoccupante. Nel comune di Solano il servizio medico è disimpegnato da due dottori. La popolazione è affetta dalle tipiche malattie tropicali: malaria, ameba, tifo, infezioni e febbre gialla. Sono frequenti i casi di denutrizione e mortalità infantile, mentre altre malattie potrebbero essere evitate con un minimo di medicina preventiva.
L’alimentazione è basata sul mais, manioca, riso, banane e raramente si consumano altre verdure e frutta; l’acqua è tratta dai fiumi. Le case sono, per la maggior parte, palafitte di legno, disadoe e spesso animali di tutti i generi (serpenti compresi) vi hanno libero accesso.
L’ecosistema di questo territorio ha sofferto gravi alterazioni negli ultimi anni, soprattutto a partire dalle coltivazioni: i coloni hanno abbattuto indiscriminatamente la foresta, per trasformarla in pascoli e campi coltivabili. Anche se la maggior parte del terreno continua ad essere foresta, il danno inferto alla natura già si sta notando nel cambiamento dei ritmi delle precipitazioni.
Le alternative
La parrocchia di Solano si è fatta promotrice di sviluppo e partecipa a un vasto piano di promozione sociale. Da almeno 10 anni, ha iniziato un processo di riflessione, con alcuni contadini, sui problemi che la coltivazione della coca ha portato nella zona. Si è iniziato a proporre la coltivazione di caucciù, cacao, sesamo e arachidi in sostituzione della coca. Si sono aiutati i contadini con corsi di addestramento e la distribuzione di semi e strumenti di lavoro. Coltivazioni nuove stanno già dando i primi frutti.
La sostituzione della coca non è un fatto puramente economico, ma deve essere accompagnato dal risveglio di altri valori umani e cristiani. Si è, allora, favorito il dibattito sulle realtà sociali, alcornolismo, aids, scuola… iniziando pure corsi di alfabetizzazione e avviamento professionale.
La comunità cristiana è intensamente attiva in programmi di salute, assistenza ai poveri e anziani, microimprese e interventi socio-economici di vario tipo; non ultimo, il grave e urgente problema dei bambini abbandonati.
Il nostro è un progetto molto semplice, dato che da noi non ci sono strutture statali. Abbiamo in mente di raggruppare questi bambini e prestare loro aiuto, a secondo delle necessità. Qui, a Solano, vorremmo costruire due saloni con una cucina, per dare la possibilità ai bambini soli ed abbandonati di continuare gli studi. Il terreno lo abbiamo, manca tutto il resto.
Tra i casi più urgenti e gravi, una bambina, che si chiama Maria Yaqueline Anturi Nieves, nata con una malformazione al cervello. Ha solo un anno e ha bisogno di una operazione molto costosa. Ho perfino interpellato il vicepresidente della Colombia, ma, a tuttoggi, niente.
Non perdiamo la speranza, anche se, guardandoci attorno, lo scoraggiamento invade il cuore e viene voglia di mollare tutto. Viviamo con la sfiducia di trovare gente di buona volontà, che in qualche modo ci venga incontro.
Perché noi missionari doniamo sì la vita, ma senza l’aiuto di chi può darci una mano, nulla riusciremo a fare, in favore di chi è davvero nel bisogno.

Renato Riboni




Una scintilla nell’incendio

Abbè Pierre, fondatore di Emmaus

Già partigiano e deputato all’Assemblea nazionale francese, l’Abbé Pierre resta l’anima carismatica di Emmaus, movimento
da lui fondato per dare speranza ai disperati
e lottare contro la miseria e le sue cause.
In questo incontro privilegiato con i lettori
di Missioni Consolata, egli rivela la sua visione sull’Africa e sul mondo, proiettata nel futuro.

Ouagadougou. Piccolo, con una lunga barba bianca e gli occhi azzurri vivissimi. Si sposta con l’aiuto di una sedia a rotelle o di un bastone. Eppure la sua presenza è costante, importante. Ha superato i 91 anni, ma è venuto in Africa per partecipare alla decima assemblea del movimento da lui fondato nel 1949. Sempre disponibile all’ascolto, ci accoglie nella sua stanza d’albergo il giorno della partenza, dopo una settimana passata tra riunioni plenarie, visite a gruppi e una marcia contro la miseria. Prima di tutto ci chiede di noi, ci fa raccontare. Capiamo di essere al cospetto di un grande…

Abbé Pierre, i conflitti nel mondo e in Africa sono in aumento, perché?

«In Africa essi derivano da gravi fattori specifici. All’epoca della colonizzazione furono tracciate le frontiere, senza tenere conto del passato e delle relazioni tra i diversi gruppi. Tale divisione, nella prima fase post coloniale, non provocava particolari rischi, perché gli eroi dell’indipendenza godevano di tale prestigio da disinnescare eventuali tensioni e mantenere i rispettivi paesi nella pace. Ma con la graduale sparizione di questa generazione di leaders, le aspirazioni separatiste si sono riaccese diventando motivi di conflitto.
Altre cause di guerra sono i problemi d’interesse e dominio, di potere economico e politico: molte guerre in Africa sono dovute alle ambizioni di personaggi che vogliono appropriarsi delle risorse del continente, materie prime, petrolio e minerali.
A tutto ciò si aggiungono le legittime proteste di popoli che si sentono sfruttati, impediti di sviluppare le potenzialità del proprio paese. Ne è un esempio la coltura del cotone in Burkina Faso: il paese è in ginocchio perché altri paesi produttori, come gli Stati Uniti, sovvenzionano i loro agricoltori, che possono vendere i loro prodotti a un prezzo inferiore al costo reale. Allo stesso modo milioni di tonnellate di cotone prodotto da vari paesi africani non trovano uno sbocco sul mercato mondiale. Questo può arrivare a essere un motivo d’insurrezione.
Se allarghiamo lo sguardo sul resto del mondo, vediamo che non ci sono solo le grandi guerre. C’è anche il terrorismo. Un gruppo di fanatici può mettere in ginocchio la più grande potenza del mondo, nonostante la sua impressionante forza tecnica e militare. Purtroppo stiamo constatando che le guerre di questo secolo appena cominciato non saranno solo quelle tradizionali, ma tendono a evolversi forme e manifestazioni di terrorismo».

Alcune grandi potenze occidentali hanno scelto una strategia di lotta al terrorismo…

«Non sarà facile né breve superarlo. Non dimentichiamo che in Europa abbiamo vissuto analoghi problemi e tensioni, con la differenza che non ci si combatteva con bombardieri ed elicotteri, ma a colpi di frecce e lance. Il terrore è stato superato in Occidente grazie all’impegno di personaggi eccezionali, con una vita evangelica diffusa a tutti gli strati della popolazione, facendo forza sul sentimento espresso nel Padre nostro, insegnando a ogni popolo a riconoscere la frateità con gli altri popoli.
È certo che, se non ci fosse stata questa predicazione del vangelo, le cose non si sarebbero potute evolvere come le vediamo oggi. Al tempo stesso, è evidente che, per fermare il terrorismo occorre un instancabile lavoro al fine di ottenere una diversa ripartizione delle ricchezze della terra; un’opera che si protrarrà per generazioni.
Sono due fattori della stessa importanza, benché su livelli diversi: uno è morale e interiore, l’altro politico e materiale».

Che consiglio darebbe a George Bush?

«Da un lato suggerirei di applicarsi a vivere i valori del vangelo nella vita personale; dall’altro di diventare competente nei problemi economici, politici del mondo, sempre più complessi, per potere poi sostenere quei governi che sono determinati di imboccare la strada della pace. Si tratta, al tempo stesso, di un problema intimo, di testimonianza di vita, e l’essere qualificato per esercitare una pressione positiva sugli stati».

Secondo lei, è possibile un vero sviluppo senza esclusione, ovvero la ridistribuzione di risorse a livello mondiale?

«Bisogna che i paesi poveri, come hanno dimostrato con determinazione nella recente conferenza di Cancun, si uniscano e si esprimano con un’unica voce sui problemi che hanno in comune. Questa conferenza, da tutti giudicata un fallimento, lascerà il segno nella storia: abbiamo visto tutti che le vittime dell’ingiustizia, in maniera inedita e inattesa, hanno fatto blocco e detto «no!». Questa presa di posizione degli stati del terzo mondo, uniti, è un avvenimento.
Bisogna incoraggiare ognuno di loro a continuare queste alleanze. Noi lavoriamo per fare una unione europea, ma c’è la necessità di un’unione africana forte e allo stesso tempo solidale con l’Asia e l’America Latina».

Quest’unità è stata fatta dai governanti dei paesi, ma la società civile che ruolo ha?

«I governi sono stati spinti a prendere tali posizioni perché sentivano che era quello che voleva la loro opinione pubblica. C’è stata una pressione, e questo li ha incoraggiati ad agire, per una vera democrazia, nella quale si è realizzato quello che voleva la gente».

La marcia che avete fatto come movimento Emmaus, a Ouagadougou, cosa voleva dire?

«Un piccolo segno. Ma è moltiplicando tali partecipazioni e prese di posizione che, nonostante la loro piccolezza, da un lato potremo diffondere e radicare la condivisione nello spirito evangelico, dall’altro rafforzare la resistenza alle grandi potenze.
Queste ultime non sono solo perversione e cupidigia, che rifiuta la condivisione; sono soprattutto causa di cecità. Se interroghiamo dei semplici cittadini negli Stati Uniti, ci rendiamo conto che non sono coscienti di quello che il loro governo sta facendo. Vuol dire che c’è un’educazione da fare «da popolo a popolo». E il vostro lavoro nella stampa è uno dei più validi strumenti».

Qual è il ruolo del movimento Emmaus nella società civile mondiale?

«È una scintilla in un incendio. Ognuno è molto piccolo, ne siamo coscienti. Qualsiasi partecipazione, in un qualsiasi movimento, è poco, ma è con tutte queste scintille che il fuoco diventa una forza capace di trasformare la materia!».

Emmaus dichiara «guerra alla povertà». Cosa vuol dire?

«Chiediamo che ogni famiglia abbia l’indispensabile, per dare ai bambini quello di cui hanno bisogno. Per questo è necessario trasformare noi stessi, per poi contagiare gli altri. San Francesco d’Assisi, per esempio, ha contribuito a stimolare queste evoluzioni interiori durante i secoli.
Allo stesso tempo ritorniamo sulla necessità di diventare competenti. I problemi mondiali attuali non hanno nulla a che fare con i dilettanti. Spesso, anche con le migliori buone intenzioni, facciamo delle stupidaggini e otteniamo risultati contrari a quello che volevamo. Come sacerdote, so di essere poco competente. Il mio ruolo è piuttosto quello di provocare il risveglio psicologico di ognuno: lavorare, studiare, essere ben informati per sapere disceere tra i programmi politici degli uni e degli altri, e appoggiare quelli positivi, mobilitando energie.
Ho 91 anni, si ricordi. È una follia».

Ma lei è sempre molto dinamico. Come lo spiega?

«Non ho spiegazioni; bisogna assolutamente farlo e anche voi dovete farlo. Dio mi ha lasciato la voce, ma ognuno di questi giorni di assemblea, di incontri personali, mi lascia sfinito. Quando mi vedono in forma arrivano tante chiamate, tutte valide, che mi chiedono di andare da una parte e dall’altra. Ma io non posso».

Come vede il futuro del movimento Emmaus?

«Non ho alcuna inquietudine, il movimento ha i suoi fondamenti, che si basano sul «Manifesto universale d’Emmaus», fatto 45 anni fa. In questi decenni il movimento ha conosciuto azioni di grande efficacia in determinati momenti storici; quotidianamente e ha portato avanti azioni minime, ma tutto ha contribuito al risveglio delle coscienze. Quando accolsi un uomo disperato, se mi avessero detto: «Un giorno ci saranno 400 persone di 47 paesi che si riuniranno nel centro dell’Africa per riprodurre le stesse azioni», io avrei detto: «Sognate!».
Certo, in ogni tappa e in ogni luogo del mondo è stato necessario trovare delle persone capaci e responsabili. Ma non ho inquietudini, a condizione che rinnoviamo periodicamente il nome e il fuoco di ciascuno, perché si rimetta a bruciare».

LA SVOLTA AFRICANA

Ouagadougou. H anno i colori dei quattro continenti, ma tutti con il loro bedge al collo: sono i 400 e più delegati di oltre 300 gruppi Emmaus, provenienti da 47 paesi dei quattro continenti. Per la loro decima assemblea generale (17-22 novembre 2003) hanno scelto Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.
Nella sala dei congressi dell’Uemoa, al tavolo di presidenza, spicca un anziano con la barba bianca, vestito di nero: è l’Abbé Pierre, il sacerdote francese che 50 anni fa fondò il movimento. Anima i dibattiti il presidente di Emmaus internazionale, Renzo Fior, responsabile della Comunità di Villafranca (VR), rieletto per altri 4 anni.
Con l’aiuto di esperti africani, discutono sulla situazione del mondo attuale, con le sue speranze e le sue ingiustizie. Quindi rieleggono le cariche, emendano gli statuti, tracciano le linee operative per i prossimi 4 anni.
La base del movimento Emmaus sono le comunità, aperte a quanti vogliono condividere vita, lavoro e solidarietà con i poveri del mondo. Identica rimane la convinzione del fondatore: anche le persone più semplici, o gli esclusi dalla società competitiva, sono capaci di «piccole-grandi cose» e di forti provocazioni. Due sono i pilastri del movimento: servire per primi i più sofferenti; lottare per distruggere le cause della miseria. «Il primo è più facile e immediato – afferma un delegato -; più difficile il secondo: richiede lavoro di riflessione, attività che vanno nel senso dell’autonomia, solidarietà di lunga durata».

E mmaus non impianta progetti nei paesi del Sud. Persone e gruppi che, conosciuta la filosofia del movimento, chiedono di entrarvi, prima si mettono in contatto con i rappresentanti nazionali o regionali; quindi seguono visite per stabilire legami di conoscenza e amicizia reciproca; infine prende forma la comunità.
«È importante che ogni gruppo faccia un’attività economica per raggiungere l’autosufficienza – spiega il presidente Renzo Fior -. Fin dall’inizio deve esserci questa preoccupazione, altrimenti si crea una relazione di assistenza e dipendenza, dove chi dona, vuole poi controllare e giudicare i progetti. Gli africani ci dicono: siamo noi che viviamo qui, conosciamo realtà, abitudini, tradizioni e difficoltà; quindi spetta a noi valutare; l’aiuto deve essere uno scambio e la verifica fatta insieme. Dobbiamo stare attenti a non sostituire un colonialismo economico politico con “colonialismo solidale” degli aiuti».
S e si eccettua quella iniziale di Montreal, l’Assemblea generale di Ouagadougou è la prima tenuta fuori dall’Europa. L’evento è stato possibile solo ora, perché, secondo gli statuti, tocca ai gruppi locali a organizzarla.
La scelta del Burkina Faso è stata motivata da vari fattori. Prima di tutto è proprio qui che, 10 anni fa, è sorto il primo gruppo Emmaus. Il secondo fattore deriva dalla posizione che il continente occupa, oggi, nel panorama mondiale: l’Africa è il continente dimenticato. «Tenendo il momento più alto della vita del nostro movimento in Burkina, uno dei paesi più poveri del mondo – continua il presidente – vogliamo dare un messaggio forte all’opinione pubblica. Inoltre abbiamo voluto dare alla gente del movimento la possibilità di conoscere l’Africa e di rendersi conto delle difficoltà in cui vivono gli africani».

È soddisfatto il presidente di Emmaus internazionale per i risultati? «Più che all’interno del movimento, l’Assemblea ha guardato all’esterno, al suo ruolo nella società civile mondiale, all’insegna dello slogan: “Insieme, agire, denunciare”. Insieme: perché crediamo nel valore del movimento. Agire: perché operiamo in situazioni di miseria e mancanza di diritti, cercando di ristabilire una certa giustizia. A partire da tale situazione abbiamo il diritto e dovere di denunciare.
Abbiamo sempre avuto questo ruolo, ma dopo quest’incontro la denuncia diventa pane l’agire quotidiano. Ma non è la denuncia del teorico, ma di gente semplice, che per tutta la settimana raccatta cose che gli altri buttano via, dà loro un valore e vi ricava quanto serve a realizzare tante attività. Se viene da un gruppo che agisce, la denuncia diventa più credibile. Se una realtà tanto piccola riesce a risolvere certi problemi, vuol dire che chi ha più possibilità e capacità potrebbe farlo in maniera definitiva.
I nuovi statuti di Emmaus non hanno niente di rivoluzionario, ma sono stati codificati vari punti in maniera chiara e sistematica: denunciamo la politica neoliberale e coloniale, le guerre come scelta dei paesi ricchi per continuare a sfruttare le risorse economiche dei paesi del Sud; denunciamo il blocco e la chiusura del nostro mondo sviluppato nei confronti dei prodotti che vengono dal Sud; denunciamo le politiche perverse degli organismi inteazionali che, con le loro proposte di aggiustamenti strutturali, aumentano il numero dei poveri e hanno creato un’altra forma di colonialismo, ammantata di preoccupazione per lo sviluppo».
I delegati hanno elaborato anche un documento con le linee di lavoro per i futuri quattro anni: un manuale operativo centrato su 5 temi: economia di giustizia, coscientizzazione liberatrice, nuovi stili di vita e di consumo, finanza etica, pace e nonviolenza, lotta al terrorismo.
«Sono cose molto concrete. E il fatto che i gruppi si sentono impegnati a metterle in pratica provoca una riflessione all’interno delle realtà locali e importanti conseguenze concrete. Circa la finanza etica, per esempio, la comunità deve verificare se esiste sul proprio territorio, mettersi in contatto e depositare i propri soldi. Il problema della pace spinge a denunciare la produzione e commercio di armi. Per i nuovi stili di vita si chiede a ogni comunità di fare un’analisi chiara sui consumi e cercare nuove forme di energia. La coscientizzazione liberatrice sprona a creare una coscienza critica nei confronti dei meccanismi di potere, insegnando le varie materie».

D all’Assemblea sono emerse anche le due anime del movimento Emmaus. Quella maggioritaria pensa a un’organizzazione forte, capace di rispondere alle sfide di oggi; quella minoritaria rivendica l’autonomia di gruppo. «Una parte di noi ha paura che tutto, attività e politica, venga deciso dall’alto. Nessuno vuole che succeda, poiché la vita di Emmaus nasce dai gruppi locali, non è decisa a tavolino, nelle discussioni fatte a Parigi o altrove. Tuttavia un movimento internazionale è un sostegno per il gruppo e amplificazione del problema – rincara il presidente e porta un esempio: «Alcuni gruppi indiani fanno un lavoro di difesa dei diritti degli intoccabili nel sud dell’India. Che questa lotta rimanga circoscritta nell’ambito indiano può essere utile; se invece, a partire da questa esperienza, si riesce ad allargae l’eco e il movimento la fa propria, le persone sul posto saranno meno esposte».
«Il risultato politico è positivo – conclude Renzo Fior -. Ma ci sono alcune remore ancora esistenti all’interno. La dichiarazione finale è passata quasi all’unanimità, ma essa non si è tradotta sulla parte politica degli statuti. Leggo comunque la volontà e la possibilità di poter lavorare, perché il movimento è già su questa strada».

Marco Bello




Noi, i figli dei marziani

Gli esperti di marketing, quelli che attraverso le giuste tecniche di lavaggio del cervello riescono a creare il bisogno per qualsiasi baggianata nell’indifeso consumatore occidentale, hanno come cardine del loro sapere un assunto: «Spàrala grossa, inventa, non avere limiti e non temere mai di essere ridicolo. Qualcuno riderà, ma qualcun altro ti seguirà e comprerà il tuo prodotto».
Claude Vorilhon, fondatore del culto raeliano, quando smise di fare il giornalista sportivo di scarso successo, divenne il profeta di questa «nuova religione» o, a seconda dei punti di vista, uno dei più grandi strateghi di marketing che la storia recente ricordi.
Il 13 dicembre del 1973, mentre girovagava nei pressi di una formazione vulcanica a Clermont Ferrand, nel cuore della Francia, venne rapito da alcuni alieni, alti come bambini; portatolo sulla loro astronave spaziale, essi gli impongono il nome di Rael (il messaggero) e gli comunicano una serie di consigli e rivelazioni sulle verità sull’Antico e sul Nuovo Testamento. Almeno questo è quello che lui racconta.
In un remoto passato, gli extraterrestri riuscirono a creare la vita artificialmente attraverso complesse tecniche di ingegneria genetica. Questo provocò una sollevazione popolare sul loro pianeta e gli scienziati, o elohim, ovvero «coloro che sono venuti dal cielo», vennero costretti a proseguire i loro esperimenti sulla terra, luogo sul quale nacque l’uomo attuale. Una storia un po’ complessa, ma comunque interessante.
L’uomo si ribellò e venne cacciato dal paradiso terrestre; successivamente, accoppiatosi con delle terrestri originarie, diede vita al popolo ebraico. Il resto ricalca più o meno le vicende principali della bibbia, dal diluvio universale, a Mosè, a Gesù… con l’aggiunta di qualche tocco di colore etnico, ad esempio l’inclusione di Maometto e Buddha tra i profeti.
Ma nel 1945, con lo scoppio della bomba atomica a Hiroscima, è iniziata l’epoca dell’apocalisse: la «rivelazione», l’era in cui la verità può essere presentata in termini scientifici e non più allegorici e simbolici.
Le sparate non mancano e l’unione della tecnologia con il sacro è un campo ancora abbastanza inesplorato. Rael racconta inoltre che, dopo la prima rivelazione, venne rapito ancora dagli ufo, che gli spiegarono chi fossero i suoi genitori: Jahvé, capo degli elohim, il babbo, e una donna rapita e inseminata artificialmente, la mamma.
Altre rivelazioni furono: l’inesistenza di Dio, del paradiso e dell’inferno; la presenza di un partito politico il cui capo è Satana, che vuole la distruzione degli uomini; l’inesistenza dell’anima e la ri-creazione post mortem di tutti i meritevoli sul pianeta degli elohim.

T utto questo, molto probabilmente, non bastava. Ci voleva il botto per avere un successo planetario e vendere il proprio brand (marchio) in tutto il mondo; e doveva essere davvero storico: tale da lasciare tutti senza fiato (o almeno coloro che hanno accesso ai mezzi di comunicazione).
Il botto è arrivato nel febbraio del 2003 e ha preso il nome di clonazione del primo essere umano nella storia. Nome della sventurata: Eva… Che fantasia! La notizia fece il giro del globo e, in poco tempo, la notorietà dei raeliani è diventata universale.
Mai nessuno aveva osato clonare un essere umano; ci avevano provato con le pecore, tori, topi, scarafaggi… ma con l’uomo mai. Troppe difficoltà tecniche, alti i rischi di creare mostri infelici, calpestata la morale, che, fino a prova contraria è quella che divide ancora il bene dal male.
Subito scattò lo scetticismo della comunità scientifica e l’anatema della chiesa, che duramente condannò l’avvenuto esperimento genetico. La prima venne rassicurata con vaghe promesse di test scientifici per provare l’avvenuta clonazione; mentre la seconda fu derisa e tacciata di oscurantismo.
Ovviamente, mai nessuno scienziato indipendente ha potuto confutare la veridicità delle affermazioni dei raeliani; il che fa capire che, fortunatamente, l’obbrobrio della creazione della vita in laboratorio è ancora lontano dall’essere concretizzato. Si capisce, soprattutto, che l’annuncio della clonazione era una pagliacciata per attirare l’attenzione e, quindi, denari da convogliare all’interno della comunità raeliana per il finanziamento delle varie attività, anche scientifiche, che portano avanti.
L a comunità raeliana conta circa 44 mila adepti in tutto il mondo, con la particolarità che essi, più o meno, credono nelle sparate teologiche di Rael, ma sono interessati soprattutto al finanziamento della ricerca scientifica, riguardante la clonazione umana. E chissà che un giorno, magari, i primi ad essere riprodotti saranno i soci. Infatti, la religione atea dei raeliani si è divisa in due branche: una spirituale e una scientifico finanziaria.
Nella prima, chiamata «struttura», ristrettissima e dove vivono solamente 1.500 persone, è presente una rigida gerarchia, con a capo Rael. E proprio perché è capo, egli gode anche di vantaggi pratici; quello più vistoso è costituito dall’«ordine degli angeli di Rael», cioè le sei donne che si prendono cura di lui. All’interno della comunità non esiste il matrimonio e la sessualità è molto disinvolta.
La seconda branca, invece, può vantare addirittura una società per azioni, la Clonaid, dove lavorano decine di scienziati, proiettati totalmente verso il raggiungimento della clonazione umana. Il laboratorio per gli esperimenti sarebbe alle Bahamas, dove pare che la clonazione sia legale.
Fenomeno marginale in fatto di proselitismo, il culto dei raeliani ha avuto un impatto mediatico senza precedenti nella storia delle religioni: nel giro di una settimana sono ascesi alla notorietà planetaria e hanno ottenuto lo scopo che si prefissavano, ovvero che si parlasse di loro, nel bene come nel male.
In Italia i raeliani sono circa 500, presenti in molte città e formano comunità piccole, ma ben organizzate, che propongono serate di dibattito e studio. Frequenti anche gli inviti nei vari talk show sulle più importanti emittenti nazionali, dove ovviamente amano stupire, sparandole grosse.
Da notare, però, che dopo la madre di tutte le sparate (la clonazione della bimba Eva), la loro smania di protagonismo è scemata e, da marzo, quasi non si hanno più notizie di loro e, soprattutto, della bimba. «Vi daremo tutte le risposte quando lo riterremo opportuno» sono soliti rispondere a chi fa notare che è passato un po’ di tempo dall’annuncio in mondovisione.
Concludiamo con il dire che il ritorno degli elohim è previsto per il 2035 e, per questo, è prevista la costruzione di Ufoland, una città religiosa tecnologica, che ospiterà gli illustri ospiti; il tutto, in Canada, che è anche la patria di Claude Vorilhon e paese dove hanno avuto maggiore successo i raeliani.

La prima puntata, dedicata alla televisione Tbne, è stata pubblicata su Missioni di settembre 2003.

Maurizio Pagliassotti




Nonna, mi sposo…

«Nonna, mi sposo…»

M ara esordì così con nonna Teresa, per annunciare il suo matrimonio con Alessio.
«Avete già parlato con il parroco» domandò la nonna, intenta a ricamare a punto croce una pezzuola di lino, formato 15×15.
– Ma che domanda, nonna! In parrocchia abbiamo anche frequentato il corso di preparazione al matrimonio. E ti pare che non abbiamo concordato con il don…
– Già, ragazza mia! E…
– E tu, nonna, che stai facendo?
– Sto ricamando, come vedi…
Squillò il telefono. Mentre Teresa attendeva alla chiamata, Mara prese in mano il ricamo della nonna. «Va bene, signorina – diceva la nonna al telefono. Mancano solo cinque ricami. Poi attaccherò un cucchiaino africano. Tutto sarà pronto per la fine della settimana…».
– Nonna, non sapevo che tu, pensionata da anni, lavorassi ancora.
– Beh, il mio lavoro è volontariato.
– Insomma, nonna, che stai facendo?
– Lo vuoi proprio sapere? Sto completando una serie di 100 bomboniere per due sposi…
La ragazza sgranò i suoi grandi occhi neri. «Chi sono gli sposi?».
– So soltanto che abitano a Napoli.
– Cavoli, nonna! Tu pensi alle bomboniere di due sposi sconosciuti, e per tua nipote…

T eresa ha conosciuto tempo fa gli «Amici Missioni Consolata» di Torino, un’associazione che da anni è impegnata con vari progetti in favore delle popolazioni in ogni parte del sud del mondo. Propone anche bomboniere alternative, confezionate anche dalla signora Teresa.
Sono bomboniere per battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni… come le altre. Però hanno un valore umano diverso, perché esprimono anche solidarietà con i più poveri nel sud del mondo.
Invitato a nozze, ti viene consegnata la bomboniera alternativa. L’oggetto è prezioso, perché gli sposi, con i soldi non spesi per la bomboniera tradizionale, hanno contribuito, per esempio, a costruire un asilo per bimbi nati sieropositivi in un villaggio africano. Così facendo, hanno compiuto un gesto di solidarietà anche a nome tuo.

Sei interessato/a alla «bomboniera alternativa»?
Contatta: Maria Carpaneto: tel. 011/56.82.471;
011/81.31.007; e-mail: elecarpa@virgilio.it

Silvia Lanna




La vita è sempre missione

Sono un’animatrice missionaria e non so a chi scrivere. Ma devo contattare, in qualche modo, qualcuno dei missionari della Consolata per dire grazie di aver mandato nella nostra parrocchia i padri Pietro Moretti e James Lengarin.
Mentre facevo una valutazione dell’andamento della nostra comunità parrocchiale (molto complessa, perché numerosa e con tante realtà), mi rendevo conto di quanto lavoro si sia fatto da quando ci sono i padri Pietro e James. Solo se i «pastori del gregge» sono forti e perseveranti nella provvidenza di Dio può avvenire questo.
Si, è vero: stiamo cambiando il nostro modo di vedere la parrocchia, la quale sta diventando un vero e proprio campo di missione. Diciamo: una piccola Africa a portata di mano. È questo che i nostri padri cercano sempre di insegnarci: vivere nella comunità e per la comunità, come una seconda casa, una famiglia, dove ogni componente deve sentire corresponsabilità che diventa «con-passione» per il prossimo.
Io appartengo, in un certo senso, ai missionari della Consolata, soprattutto da quando, tre anni fa, partecipai al pellegrinaggio Torino-Assisi-Roma, in occasione del centenario dell’Istituto Missioni Consolata. Quella meravigliosa esperienza ha dato un senso alla mia esistenza, delle risposte chiare: fare missione ovunque mi trovo. Non importa se non andrò in Africa. Voglio che la mia vita sia sempre missione.
Ma questo ideale svanisce subito se non si hanno testimonianze forti accanto. Queste le ho avute e le abbiamo con i padri Pietro e James, «i padri col grembiule», sempre «al servizio», anche solo per farti «una scrollata di pianto come sfogo».
Ringrazio il beato Giuseppe Allamano per la vocazione di questi missionari; ringrazio la Provvidenza che li ha mandati nella nostra parrocchia.
Grazie a chiunque legga questa lettera.

I padri Pietro Moretti e James Lengarin (il primo già missionario in Kenya e il secondo un samburu dello stesso paese) sono stati rispettivamente parroco e viceparroco di Galatina (LE). Oggi padre Pietro opera a Bedizzole (BS) e padre James a Martin

Maria Luce Bianco




Ragazzi peruviani in prigione e…

Egregio direttore,
sono una signora che si tiene in comunicazione con alcuni ragazzi prigionieri in Perù e, tramite loro, ho saputo che hanno letto Missioni Consolata di ottobre-novembre. I ragazzi mi hanno chiesto se riuscivo a reperire loro anche i numeri successivi della rivista. Non essendo abbonata, ho provato a cercarli nelle edicole, ma senza risultato.
Finalmente ho trovato il vostro indirizzo contattando un amico che, gentilmente, mi ha aiutata.
Grazie per la vostra rivista molto interessante.

Straordinario questo rapporto tra la signora Nina e i ragazzi peruviani in carcere.

Nina Loy




Grazie, padre Franco

Egregio direttore,
se crede opportuno, la prego di far pervenire a padre Franco Soldati la seguente lettera.
«Carissimo padre Franco, mi hanno detto ciò che ti è capitato. Pertanto hai dovuto cedere e sei tornato in patria, nella nostra civiltà… avanzata, che ti farà vivere più a lungo, finché i medici non ti molleranno. Tu hai detto: fiat.
Tu che in Kenya, insieme al professor Operti, hai compiuto «il miracolo delle stampelle» per tanti poliomielitici (miracolo che il tuo caro fratello, padre Gabriele, ha pure filmato)… tu che hai ridonato la speranza (anche umana) a tante persone, oggi ti ritrovi blocccato per sempre.
Mi dicono che anche la tua mente… vagola.
Così le estremità del corpo (testa e gambe) incominciano odorare di… aldilà.
Volevo venirti a trovare ad Alpignano, dopo 32 anni dal nostro ultimo incontro in Kenya. Ma ho preferito non disturbare i tuoi ricordi. Preferisco ricordarti «in cammino», per aiutare i malati nel corpo e nello spirito. Preferisco rivedere i miei filmati, fatti a Tuuru nel 1971, le foto, le lettere che i miei alunni spedivano ai tuoi bambini…
Grazie di esserti donato a tutti. Grazie ai tuoi confratelli che ti stanno vicino con tanta tenerezza.

A padre Franco Soldati, 83 anni, rientrato dal Kenya per ragioni di salute, sono stati amputati interamente gli arti inferiori. Il 4 gennaio scorso moriva ad Alpignano (TO) nella «casa anziani» dei missionari della Consolata.

Tanina Vitale




Come padre Luigi

Cari missionari,
Missioni Consolata mi piace molto. È sempre ricca di servizi con temi di varia natura. Apprezzo gli articoli riguardanti i missionari; li ammiro tantissimo, perché danno tutto, compresa la vita.
Io ne so parecchio, essendo anche cugina di padre Luigi Andeni, ancora oggi rimpianto da tutti in Kenya.

Andreina Biondi Ferrari