DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIASapori d’Africa

Studente di legge all’Università cattolica di Milano, l’autore ha passato un mese tra i missionari della Consolata a Gatunga, nella regione del Tharaka.
Ne è tornato affascinato dal mondo ivi scoperto e con una grande fame… d’Africa.

Prima che mi fosse offerta l’opportunità di un’esperienza in questo continente, la parola Africa mi evocava vaghe idee infantili e suggestive fantasie di avventura, natura, mistero.
Invece mi sono trovato a esplorare un paesaggio umano e reale di cui avevo sentito parlare solo in astratto da qualche rara inchiesta televisiva o dai resoconti di alcuni missionari. Ho potuto sperimentare sulla mia pelle odori e sapori dell’Africa vera, concreta, quotidiana; ho incontrato un’umanità sofferente per la povertà di mezzi materiali, ma serena, vitale, giorniosa, ricca di speranze.

UNA METROPOLI TERRIFICANTE
Nairobi è il mio primo bagno d’Africa: un’immersione superficiale, ma già ricca d’impressioni ed emozioni. È una città caotica, squallida, disordinata e altamente inquinata. Le immagini scorrono nella mente come rapidi flashes: grande affollamento per le vie e fiumi di persone accalcate sui marciapiedi o sdraiate su aiuole, un tempo verdi, che compongono un mosaico variopinto; mercatini che s’inseguono in modo confuso, deprimente e poco igienico ai bordi delle strade; pulmini scassati, senza portiere, traboccanti di gente pigiata come spiedini; traffico selvaggio (è «proibito» fermarsi col rosso) e assordante per i clacson che suonano a piacimento; incroci stradali dove le frecce manuali sopperiscono alla mancanza di quelle elettroniche; loculi sovrappopolati nell’estrema periferia…
Eppure, nella sordida miseria della periferia esiste un non so che di pittoresco, che si può assaporare solo passeggiando tra i mercatini, abbandonandosi alla loro atmosfera, ai sapori e odori dell’Africa autentica.
C’è qualcosa di addirittura edificante nella drammaticità di un incontro coi bambini malati di Aids in un centro del Cottolengo: dai loro occhi, sguardi e sorrisi catturo un’incontenibile gioia di vivere, un fuoco che arde impetuoso prima di spegnersi, purtroppo, per sempre.
In una casa-famiglia, invece, vedo rinascere la speranza: qui sono accolti bambini e giovani respinti dalla società e dalla famiglia, che hanno alle spalle vicende terrificanti di schiavitù, tortura, prostituzione, droga o accattonaggio.
Con quell’affetto e amore che non hanno mai ricevuto, essi sono aiutati a imparare un mestiere, per ricostruirsi una nuova vita e avere un futuro almeno decoroso. È confortante vedere come delle ragazze africane si adoperino con passione, per aiutare la propria gente ad aiutarsi a sua volta, a risollevarsi con le proprie forze, senza confidare solo su finanziamenti e aiuti dall’esterno.
L’Africa più nera, l’apice della miseria, la incontro a Giturai, un orrendo quartiere ai margini di Nairobi. Qui un gruppo di volontari di Olgiate Molgora (LC), sotto la guida di padre Luigi Brambilla, superiore dei missionari della Consolata in Kenya, sta lavorando con entusiasmo per costruire una scuola, la chiesa e annesso centro pastorale.
Nell’ambiente circostante la missione la povertà di beni essenziali, igiene, decoro e dignità raggiunge i livelli di un desolante degrado materiale e umano.
Ma Nairobi, in fin dei conti, non è l’Africa vera, è la classica e spaventosa metropoli del terzo mondo, in cui convivono in maniera confusa e contrastante quartieri residenziali esclusivi ed eleganti (come le faraoniche ville di magnati pakistani o indiani), centri affaristici o istituzionali con i loro edifici di rappresentanza, e tutt’intorno, senza confini o separazioni nette, si estendono i terrificanti slums di Nairobi.
Qui i ragazzi di strada ti stanno continuamente appiccicati, mentre cammini sui marciapiedi, nella triste speranza che dalle tasche dell’uomo bianco cada qualcosa, anche solo una briciola di quella ricchezza per loro irraggiungibile.

MAGICA GATUNGA
Lontano dalla capitale, comincio a respirare un altro modo di vivere, una dimensione umana e culturale totalmente diversa, un’Africa più intatta e affascinante: primitive capanne di argilla e paglia, tranquillità e aria sana, serenità e tanta dignità. Dopo cinque ore di viaggio, eccoci a Gatunga, terra arida e infeconda nella regione del Tharaka.
Il paesaggio non ha nulla di spettacolare: solo piccoli arbusti, sterpaglie, spine giganti, qualche solitario baobab e tanta polvere rossa. Ma è il paesaggio umano ad attrarre maggiormente. La gente è ospitale, cordiale, a suo modo persino cerimoniosa con noi estranei.
Ricordo con piacere una serata trascorsa a casa di Eduard, con sua moglie e i loro tre bambini dagli occhi e sorrisi di disarmante dolcezza: seduti su artigianali sgabelli di legno, assistiamo al calare delle tenebre, scherzando e ridendo in una quiete surreale, nel cuore della savana tharakese, nell’Africa più nera che ci sia.
In questa immensa distesa di terra rossa e bruciata, provo per un attimo un’ebbrezza indescrivibile, un condensato di contrastanti sentimenti di grandezza, maestosità, dominio, onnipotenza e, al tempo stesso, di soggezione, precarietà, miseria umana. In totale abbandono alla forza magica di questa terra, penso che soltanto questa sia l’Africa vera.
Al momento di congedarci, i padroni di casa, che tra l’altro vorrebbero condividere con noi il loro frugale pasto, ci sommergono con una valanga di regali (ciotole e mestoli di legno, frutta tropicale, borse, uova, legumi…). Vergognandoci di non potere contraccambiare, siamo costretti ad accettare per non ferire il loro senso di ospitalità.
È cosa abituale incrociarsi per gli stretti sentirneri che conducono al mercato o in aperta savana e salutarsi spontaneamente, scambiarsi due parole o tentare una stentata conversazione, e poi proseguire il cammino più contenti, soddisfatti di un contatto così naturale, libero e intenso; tutte cose a cui da tempo non siamo più abituati.
Ogni tanto, sviati dalla loro pacata e serena giovialità, dall’eleganza e pulizia dei loro vestiti di stampo occidentale, capita di dimenticarsi che ci troviamo in una regione tra le più povere al mondo e con un alto tasso di mortalità. È una povertà resa evidente nella mancanza di beni vitali, come l’acqua, ma meno angosciante di quella vista a Nairobi. Qui è più velata, con meno impatto, celata da una coltre di normale e dignitosa quotidianità.
Sono soprattutto i bambini, con la loro contagiosa allegria a farmi trascurare che qui si vive in scomodi capanni, senz’acqua e senza luce, che quasi si muore di fame, o si vive, finché si vive, di poche e povere cose.
Quanti ne ho visti di bambini, alcuni timorosi, altri decisamente più estroversi, stringersi intorno a me, assalirmi con la loro eccezionale carica di gioia, lieti di vedere qualcosa di diverso e «strano» come me!

COLORI, ODORI, SAPORI
Per completare il panorama umano di questo magico angolo d’Africa, non può mancare uno dei momenti tipici della vita africana: una giornata di mercato. Nel cuore del villaggio di Gatunga la gente arriva a sciami da tutto il Tharaka, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi o in bicicletta. Per la gente è un’occasione per scambiarsi un’infinità di notizie e barattare le loro mercanzie.
Per me diventa un ottimo punto di osservazione per penetrare nei molteplici aspetti del macrocosmo africano. Passeggiando come un normale indigeno e abituale avventore, in un’affollatissima e quasi impenetrabile selva di bancarelle, sono impressionato dalla straordinaria varietà di prodotti, dalle numerose specie di frutta tropicale alle verdure, legumi, spezie e tuberi, dalle stuoie, vestiti e tovaglie (celebri le «getambà» made in Gatunga), agli aesi e utensili in ferro e persino sciabole made in China.
È un mercato ricco, vivace, colorato, con l’inconfondibile e indescrivibile sapore d’Africa. M’incuriosiva soprattutto l’enorme assembramento di capre, galline, vacche e asini, di cui non riuscivo ad afferrare il senso. Un missionario mi ha spiegato che gli asini sono i mezzi di trasporto per gli articoli del mercato (come i nostrani carrelli della spesa); capre, galline e vacche costituiscono la merce di scambio per altri articoli necessari alla sopravvivenza.
Già, vivere è il segreto insegnamento di questa terra: riuscire a campare con dignità e apparente serenità in mezzo a una natura che non ti regala niente, a un’immensa distesa di nulla, da cui non ricava che spine e polvere.
Ma mentre mi lascio contagiare dall’atmosfera di festa, mi accorgo di essere diventato io, unico bianco, l’attrazione principale dell’animato mercato. Tutti gli occhi si distolgono dalle usuali occupazioni per soffermarsi ora curiosi, ora magari infastiditi o addirittura intimoriti su di me con mio enorme imbarazzo.
Sono conteso dai venditori che cercano di approfittare del mio evidente disagio per propinarmi l’improponibile, persino una gallina, investendomi con fiumi di belle parole che non capisco. Mi limito, per quieto vivere, a comprare alcune banane, unica merce di facile e immediata utilità.
Continuo impassibile a osservare e inquadrare con la cinepresa, quei volti neri, che a loro volta mi squadrano da dietro le bancarelle e la vita continua a scorrere tranquilla, con la solita quotidianità normale e dignitosa, che pare prevalere, almeno per ora, sulla micidiale povertà.
Anche la vita nei giorni normali ha un suo tratto peculiare. È quello dei bambini di cinque o sei anni, che già guidano con fare sicuro le greggi di mucche o capre lungo i viottoli; delle vecchiette che, logore e curve, si trascinano per chilometri a tutte le ore del giorno, dall’alba al tramonto, sotto pesanti taniche d’acqua sporca, che vanno ad attingere in fiumi dislocati spesso anche a venti chilometri dalle loro case. Sul loro volto è dipinta la fatica, insieme alla serenità derivante dalla consapevolezza di un ineluttabile modo di vivere, radicato ormai da tanto tempo nel loro humus genetico.

L’UNIVERSO MISSIONARIO
Da decine di anni, i missionari si sono inseriti in questo pezzo d’Africa e ne fanno parte a tutti gli effetti. Costituiscono, assieme ai volontari laici che fanno da supporto tecnico o finanziario, l’unica possibile via d’uscita di queste popolazioni dal circolo vizioso del sottosviluppo.
Il loro impegno è orientato a colmare le carenze più gravi, a soddisfare i bisogni più urgenti e fondamentali, a migliorare, a poco a poco, la qualità della vita. Ma al primo posto c’è la formazione di una coscienza umana e cristiana, per costruire comunità autonome e attive.
Non avevo mai avuto a che fare con dei missionari; a Gatunga ho toccato con mano la loro dedizione totale, sincera, appassionata ai problemi della gente. Tra questi il più pressante è certamente quello dell’acqua.
Marimanti, cittadina a un quarto d’ora da Gatunga, diventata da poco capoluogo distrettuale, perciò sede di uffici statali e polizia, ospedale e scuola, è ancora sprovvista d’acqua, comprese le strutture che maggiormente ne hanno bisogno.
È terrificante vedere in quale stato di sporcizia e disagio sia ridotto un sanatorio senza acqua corrente: ho visto coi miei occhi dei bisturi immersi in bacinelle d’acqua mista a sangue, servizi «igienici» (anche se mi è difficile definirli tali) posti all’esterno dell’edificio ospedaliero, che costringono i pazienti a trasferimenti scomodi o difficoltosi, se non impossibili in alcuni casi.
I missionari hanno avviato il progetto di un acquedotto a Marimanti. Il luogo di prelievo, a un paio di chilometri dal paese, è il fiume Kathiga, che con le sue cascate dà vita a una vera oasi nel deserto tharakese. La canalizzazione partirà dalla sommità delle cascate, per sfruttare la caduta senza l’impiego di costose pompe. Unica difficoltà da superare è la distanza, poiché il percorso della tubazione dovrà sormontare una collinetta prima di scendere in città.
Tecnicamente il progetto è fattibile e sicuramente partirà: un gruppo di volontari di Torino e Roma è venuto sul posto, ha tracciato i rilievi e fatto i preventivi sui tempi e costi dell’operazione, per poi lanciare una campagna e avere finanziamenti necessari.
Osservando l’entusiasmo di questi ragazzi, si rinvigorisce la speranza in un futuro migliore per l’Africa. Se di giovani come loro, animati da grandi ideali e capaci di sacrificarsi, ce ne fossero di più, forse l’Africa non sarebbe così lontana.
Gli africani, da parte loro, non stanno a guardare. Nel caso di Marimanti, per esempio, la popolazione si offre per la mano d’opera e organizza le arambé (una specie di lotteria) per raccogliere fondi e contribuire, per quanto è possibile, al progetto dei missionari.
Ma il problema tecnico-finanziario non è tutto. Il lavoro dei missionari è molto più lungo e spinoso, ma decisivo: si tratta di sensibilizzare ed educare la gente al bene comune, un concetto non facile da inculcare dove si lotta per la sopravvivenza.
In un incontro, sempre sul problema dell’acqua, con alcune autorità locali, ho potuto constatare la difficoltà di taluni a comprendere l’utilità collettiva di un bene prezioso come l’acqua, l’importanza che essa riveste per uno sviluppo complessivo della vita. Trapelava, invece, la tendenza a considerarla una possibile ricchezza ad esclusivo vantaggio personale, come può esserlo un gregge di capre.
Tale mentalità potrebbe sfociare in gesti di illegalità, accaparramento e sfruttamento di pochi a danno della comunità, con conseguenze funeste per la civile convivenza. È evidente che il compito dei missionari è complesso e delicato, perennemente in bilico tra ciò che della cultura africana va conservato e valorizzato, perché in armonia col loro carattere e la loro terra, e ciò che deve essere corretto o gradualmente integrato con la modeità.
Se vogliamo veramente aiutare l’Africa, dobbiamo aiutare i missionari.

L’AFRICA CHE MI PORTO DENTRO
Nei miei pellegrinaggi tra missioni e cappelle, dentro e fuori del Tharaka, ho partecipato a decine di celebrazioni religiose, animate da vivaci e interminabili canti, danze e processioni, che conservano sapori ancestrali, un tempo usati forse per oscuri rituali, ma che i missionari hanno saputo trasformare per esprimere la gioia della fede cristiana.
Il rito del matrimonio, soprattutto, mi è sembrato una stupenda vetrina sulle più ataviche tradizioni africane. La messa solenne nella chiesa di Gatunga, prevista per le 9 del mattino, è iniziata rigorosamente 4 ore dopo e si è prolungata per tre altre ore, secondo l’usuale orologio africano, che dilata la dimensione del tempo e della vita.
Finita la funzione, si procede in processione lenta, ma sonoramente andante, dietro agli sposi fino al banchetto nuziale, al quale sono tutti invitati. In un’atmosfera di festa paesana e giorniosa comunione, parenti, amici e conoscenti partecipano alla felicità degli sposi.
Un’intrattenitrice ci stordisce per quasi un’ora. Finalmente (sono circa le cinque del pomeriggio) ha inizio il convito nuziale: prima gli sposi e la parentela, muniti di forchette e coltelli, poi tutti gli altri con le mani. Mentre li guardo mangiare, mi sento un intruso, finché una signora sorridente si avvicina per offrire anche a me la ciotola di riso, condito da una salsa di legumi e un pezzo di carne di gallina. Rifiuto cortesemente, ma apprezzo ancora una volta la calorosa ospitalità.
Al pasto segue il rituale simbolico della consegna dei doni agli sposi e lo scambio della dote tra i rispettivi genitori, che consiste in un buon numero, concordato in precedenza, di capre e galline schiamazzanti.
La giornata si chiude felicemente alle sette, quando d’improvviso le tenebre avvolgono quest’angolo di terra e comincia una lunga notte silenziosa, interrotta dai versi striduli delle scimmie.
Trascorro l’ultima settimana tra battesimi e cresime, al seguito del vescovo di Meru, nelle cappelle sparse per la vasta parrocchia di Gatunga. Sono giorni scanditi dai ritmi, suoni e colori, conditi dall’impareggiabile accoglienza da parte delle varie comunità cristiane, animate tutte da spirito e fervore inimmaginabili nelle nostre asfittiche parrocchie.

I ricordi più vivi di questa lunga esperienza sono proprio i momenti, anzi le ore, fino a tre o quattro, intensamente vissute in mezzo a queste comunità, nelle loro semplici e accoglienti chiese di legno, fango e lamiera, sperdute nella più raggelante miseria umana e ambientale, ma scaldate dal calore della gente, dalla voglia di stare insieme, dagli allegri e orecchiabili canti che accompagnano danze e processioni, dai cocktails entusiasmanti di suoni, colori, voci, sguardi e sorrisi meravigliosi.
Sono questi i sapori d’Africa che mi porto dentro; anzi, sapori di cui ho fame.

BOX 1

MEZZA CAROTA

Ho vissuto lo slum di Nairobi, come volontario. L’ho vissuto nella sua interezza, camminando tra le capanne di sterco e fango, con l’odore penetrante del liquame, spaventato dalla diossina che un’immensa discarica a cielo aperto, bruciando, consegna ai polmoni degli abitanti. Devastandoli.
Ho giocato con bimbi uguali a quelli di tutto il mondo, con la stessa voglia di correre e crescere, senza sapere che solo uno su dieci di loro diverrà adulto. Sono entrato in capanne dove persone malate riuscivano a sorriderti solo perché tenevi per mano il loro figlio: ho guardato e sono uscito, inutile nella mia impotenza. Sono stato alla messa che padre Luciano celebra nel capannone di legno: quattro ore di funzione e canti, con una potenza tale da farti paura, tanto Dio si avverte vicino. Tanto da farti capire l’assurda inutilità di oro e argento nelle case del Signore.
Sono stato crocifisso da un bambino che ha spezzato la sua carota in due, la sua merenda, forse anche cena, offrendomene metà, solo perché avevo giocato con lui.
A poche centinaia di metri i grattacieli di Nairobi diretti verso il cielo, strade piene di auto, uffici lussuosi: l’Occidente ricco e opulento a violentare la realtà che avevo attorno, la realtà dell’80% del mondo.
Ho vissuto lo slum di Nairobi e sono andato via, troppo vigliacco per restare in quel posto, dove mi era stato regalato il mondo in cambio di niente. Ma le stesse cose ho incontrato in Madagascar, Senegal, Camerun e altri posti, dove la sopravvivenza si cattura giorno dopo giorno, senza mai la certezza di possederla.
Lo slum di Nairobi: ci vivono oltre 2 milioni di persone. Ora hanno deciso di scacciarle. Gigantesche ruspe come demoni cattivi entreranno fra le case, scardineranno i sogni, la voglia di vivere ancora nonostante tutto.
Si dice che un’impresa americana, abbia deciso di costruire sulla collina un complesso per il golf, nobile gioco di nobili persone, che certo non possono avere sotto gli occhi lo spettacolo di una baraccopoli con le sue disgraziate vicende e pestilenziali odori. Già l’anno scorso si parlava di demolizione. In Kenya la terra appartiene interamente allo stato che può decidere in ogni momento la requisizione.

Io non credo a girotondi, appelli, preghiere alle autorità del mondo, per molte delle quali gli esseri umani senza risorse sono poco più che fastidiosi insetti. Non lo credo, anche se sono certamente importanti, come tutte le ribellioni a situazioni simili. Credo invece che colpire gli interessi economici ottenga risultati migliori, perché solo il denaro e l’interesse hanno valore per il potere. Perché allora non sensibilizzare tutte le agenzie di viaggio, boicottare le vacanze in terra kenyana, fino a quando una parte del salato visto d’ingresso non venga destinato alla costruzione di villaggi, strutture di accoglienza, di cura? Perché non far comprendere a chi sogna il sole dorato delle spiagge africane e i safari fra esotici animali, che questo avviene fra il dolore inimmaginabile di milioni di persone, devastate da fame e Aids?
Solo con la consapevolezza di tutti, l’assurda sperequazione nelle condizioni di vita del pianeta potrà, lentamente, ridursi. Solo con la voglia di capire che un semplice caso non ci ha portato a nascere e morire a solo poche ore d’aereo e che, in tale sfida per tutti noi, il piano divino prevede la voglia di lottare per dei fratelli privi di ogni cosa, potremo cercare di cambiare qualcosa.
L’ingiustizia atroce di quello slum non è la sua demolizione, ma la sua esistenza stessa. Anche se fra sterco e fango esiste un’umanità autentica, spesso dimenticata dal quotidiano vivere della nostra parte di mondo. Anche se la mezza carota di quel bambino possedeva e possiede la forza autentica della parola di Cristo, quella parola quasi sempre oscurata dal luccicante spettacolo del nostro tempo.

William Giusti

Angelo Croce




CIADLa cortesia di Dio

In Ciad si confrontano diverse religioni, le tensioni non mancano; piccoli, importanti passi vengono fatti.
Per scoprire che, alla fine, si può vivere insieme con rispetto e… simpatia.

Nei mesi trascorsi a Fianga, nel sud del Ciad, mi fu richiesto da parte del locale centro culturale giovanile di fare il punto sulle relazioni tra cristiani e musulmani in generale e, in particolare, nel Ciad. Una richiesta singolare, ma l’ho accolta volentieri, come una sfida. Non mi sono sottratto, soprattutto, perché si trattava di una richiesta fatta da giovani, che vivono in un ambiente assolutamente privo di mezzi per conoscere e consultare le fonti di informazione.
Il circolo culturale, composto da 170 studenti, dispone di una piccola biblioteca, messa insieme con l’aiuto dei padri della missione e organizza attività culturali con i modestissimi mezzi a disposizione.
La mia presenza in Ciad ha rafforzato in me la convinzione che la promozione della lettura, l’accesso all’informazione, il confronto di idee attraverso dibattiti e conferenze costituiscono una sfida sempre più urgente: la missione dovrebbe inserire queste attività tra le sue priorità.
Sia pure condotta con mezzi modestissimi e disorganizzazione impressionante, la scolarizzazione avanza anche nelle zone più recondite della savana. Ciò costituisce una grande sfida all’evangelizzazione.

PUNTINO NERO E CONTAGIOSO
Mentre preparavo la conferenza, si sono verificate alcune circostanze interessanti. Nel corso di una cena, offerta dai missionari all’imam e altri notabili musulmani del luogo, si ebbe modo di parlare di questa iniziativa e li si invitò a parteciparvi. Il direttore di una delle due scuole superiori di Fianga, un musulmano laureato in storia presso una delle università del Camerun, si è proposto di offrire il punto di vista musulmano su tale tema. Questo ha permesso un confronto simpatico e rispettoso, sia durante la preparazione immediata, sia nello svolgimento dell’incontro.
Con il termometro che oscillava tra i 41 e i 43 gradi, seduto sui banchi dell’area sacra, un folto gruppo di cristiani e musulmani (120 persone) hanno seguito la conferenza e partecipato appassionatamente al dibattito. Al termine mi è sembrato di cogliere gioia ed emozione, forse dovute al fatto di aver visto seduti fianco a fianco, laddove la domenica si mette la tavola dell’altare, un prete cristiano e un intellettuale musulmano. Essi parlavano tra di loro, con estremo rispetto, di divergenze, ma anche di possibili convergenze, non tanto sul piano dottrinale, ma almeno sul piano delle relazioni umane e di possibili prospettive comuni di azione.
Sono uscito da questa esperienza con la convinzione che una storia ormai lunga di rapporti cortesi e familiari tra missionari e imam stesse dando dei frutti che vanno nella giusta direzione, per offrire «uscite di sicurezza» a tutta la società planetaria, che si trova sempre più bloccata in vicoli ciechi.
Anche una sperduta missione nella brousse africana può e deve prendere posizione nei confronti delle fratture che portano il mondo verso conflitti sempre più aspri. Il microscopico puntino nero di Fianga non coltiva certo la pretesa di risolvere gli immensi problemi che ci agitano, ma può offrire il suo contributo esemplare e contagioso.
la tenda di abramo
Sulle relazioni tra cristiani e musulmani in Ciad, i vescovi hanno scritto interessanti documenti; ma le azioni concrete della chiesa ciadiana sono ancora più eloquenti. Tutte le attività di promozione umana nell’insegnamento, salute, cultura, sviluppo, movimenti giovanili, comunicazione sono messe a disposizione di tutti: cristiani, musulmani, animisti. Di più, all’interno di questi servizi e organismi della chiesa, spesso sono assunti dei musulmani, per lavorare a fianco dei colleghi cristiani.
La chiesa del Ciad ha creato strutture specifiche per favorire il dialogo interreligioso, specie quello cristiano-islamico, e può contare sulla competenza di alcuni esperti, come il gesuita Coudray, grande islamologo, profondo conoscitore della lingua araba, recentemente eletto prefetto apostolico di Mongo (Sudan).
A N’Djamena, inoltre, esiste un importante centro per l’incontro e il dialogo interreligioso, El Mouna, che pubblica una rivista di cultura (Carrefour), organizza conferenze e dibattiti, propone corsi di arabo e cura pubblicazioni sul tema.
Significativa è pure l’iniziativa della diocesi di N’Djamena di creare una parrocchia all’interno dei quartieri arabi della città, affidata al comboniano padre Renzo. Egli ha accettato con entusiasmo la sfida, anche se il lavoro è ancora tutto da inventare. Per il momento egli dispone di uno spazio recintato, coperto di stuoie, a cui significativamente ha dato il nome di «Tenda di Abramo».

IDENTIK MUSULMANO… O CRISTANO?
La gente cosa ne pensa, come vive concretamente le relazioni interreligiose? Nelle brevi visite ad alcune famiglie cattoliche di N’Djamena, ho ascoltato frequenti lamentele nei confronti dell’ex-arcivescovo e degli organismi ecclesiali di promozione umana: a loro giudizio, si occupano un po’ troppo dei musulmani. Sembrerebbe che i dirigenti della chiesa si trovino in una posizione più avanzata, rispetto all’insieme del mondo cattolico ciadiano.
Tuttavia, è nei quartieri popolari e nei villaggi che più frequentemente cristiani e musulmani vivono tutti i giorni gomito a gomito. È a questo livello che può nascere sia il maggior numero di conflitti, come il determinarsi di numerosissimi episodi di condivisione e aiuto reciproco.
Ne ho avuto la prova nel corso di un incontro tra i catechisti di Mokolo (Camerun), sul tema: «I punti di scontro, ma anche le cose belle che si possono mettere in evidenza nei rapporti tra cristiani e musulmani». Circa le motivazioni di contrasto, la maggior parte dei rilievi negativi non era di ordine dottrinale, ma nascevano su un terreno molto concreto: «Perché i musulmani non mangiano carne di animali, se non sono uccisi secondo un rito preciso? Perché vogliono imporre le loro osservanze a chi non condivide la loro religione?».
Tuttavia, le stesse persone, interrogate sugli aspetti positivi che potevano osservare tra i musulmani, hanno steso una lunga lista: tutti hanno riconosciuto il carattere di «oranti» che li contraddistingue; hanno sottolineato la loro obbedienza alla legge (religiosa) e la solidarietà in occasione di malattia o morte di qualcuno della loro comunità. Uno è arrivato a dire di aver visto un musulmano spogliarsi della sua gandura (sopravveste) per donarla a un portatore di handicap incontrato per strada.
Inoltre, lo stesso gruppo di cristiani ha riconosciuto come particolari virtù dei musulmani la fortezza, la pazienza, la ricerca della fedeltà a Dio, il compimento dei doveri religiosi, la preghiera… Tratti dell’identikit del vero cristiano!
In conclusione, la gente mantiene una posizione molto realista e pratica. Non è questione di sorvolare sui tanti motivi di scontro o sulle differenze, che rimangono sostanziali; se però si dà il tempo per andare a fondo, la gente è in grado di mettere in evidenza le ragioni di stima reciproca e di convivenza pacifica, talvolta carica di ammirazione.
Non sarà possibile praticare questo stesso metodo anche in Italia, sottraendo il discorso agli accesi dibattiti contrapposti (che non conducono a niente), per riportarlo nella zona più discreta degli incontri che escludono per principio polemica e contrapposizione?
TRE SFIDE
Il nord e il sud. Alcuni pensano che il sanguinoso conflitto che ha insanguinato il Ciad nel decennio 1980-90 sia scaturito dalla differenza religiosa tra la regione del nord e le province del sud. Tale semplificazione è negata dalle conclusioni di intellettuali di ambedue le sponde, raggiunte in un dibattito tenuto a N’Djamena e riportate in una recente pubblicazione.
È vero che la stragrande maggioranza della popolazione del nord è musulmana e quella del sud cristiana o di religione tradizionale, ma non esistono frontiere: da un capo all’altro del paese tutti si sentono fieramente ciadiani, anche se non tutti sanno con precisione cosa significhi.
Pur ammettendo l’esistenza di un certo antagonismo tra nord e sud, ci si domanda se esso sia dovuto alle diverse religioni praticate, o non piuttosto ad altri fattori molto più decisivi. Molti ciadiani pensano che il sanguinoso conflitto che ha scompaginato per troppo tempo il tessuto sociale del paese sia stato causato dalla spartizione e gestione del potere e che la religione sia stata utilizzata dai diversi partiti e personalità in lotta come elemento catalizzatore per affermare i propri interessi.
Per capire la vera posta in gioco di tale conflitto, una chiave di lettura possono essere le controversie tra i nomadi allevatori di bestiame del nord, in prevalenza musulmani, e gli agricoltori sedentari del sud, prevalentemente cristiani o di religione tradizionale: i loro frequenti scontri non sono di natura religiosa, ma piuttosto conflitti di interessi.

Cittadini in una casa comune. La ripartizione della popolazione ciadiana tra islam, cristianesimo e religione tradizionale è un dato di fatto. È certo che i sanguinosi avvenimenti della guerra civile (1980-90) hanno portato le diverse etnie a raggrupparsi, spartendosi il territorio. Tuttavia, esse sono condotte a interagire in maniera sempre più frequente.
Se tutti questi sono cittadini a pieno diritto, quale forma dovrà darsi questo stato perché ognuno si senta in casa propria? Trovo la risposta in un’affermazione dell’ex-presidente del Senegal, Abdou Djouf: «Occorre riconoscersi come un paese di tolleranza e laicità attiva, capace di darsi una Carta costituzionale che assicuri a tutti la libertà di coscienza e il libero esercizio della religione».
Solamente attraverso il dialogo, il rispetto dell’altro, la neutralità dello stato sarà possibile costruire la casa comune, che deve essere il Ciad per tutti i suoi cittadini.

Il bilinguismo. Gli anziani del Ciad si sono interrogati a lungo su questo problema: «Come nostra lingua ufficiale, dobbiamo riconoscere l’arabo, la lingua del Corano, oppure continuare a utilizzare il francese, la lingua del colonizzatore?».
È probabile che le nuove generazioni ciadiane si trovino avvantaggiate, rispetto agli anziani, per sbarazzarsi con maggiore facilità di pesanti eredità, che rallentano il passo verso profondi cambiamenti. Occorrerà, per questo, desacralizzare la lingua araba e considerarla (come essa è in realtà) un importante mezzo di comunicazione, sia all’ interno che all’esterno del paese, con una frazione importante della popolazione mondiale.
Il bilinguismo non è un problema, ma una risorsa. D’altra parte, si pone il problema di come utilizzare l’immenso patrimonio linguistico del Ciad ai fini di una vera comunicazione tra le etnie che lo compongono. Le giovani generazioni, coinvolte negli attuali processi di globalizzazione, grazie alle loro particolati propensioni poliglotte (in Ciad si sono catalogate 300 lingue), non si fermano certo alla conoscenza di due lingue. Discutere di bilinguismo, forse, è tempo perso.

GIOVANI: SEGNO DI SPERANZA
Nel breve soggiorno a Fianga, ho avuto la fortuna di visitare la località di Gamba, un grande villaggio della brousse profonda. Mi sono reso conto che il villaggio era formato da diverse etnie concentrate, in maniera equilibrata, nei diversi quartieri: toupouris, moundangs e foulbes. Da un punto di vista religioso, la popolazione si distribuisce tra seguaci della religione tradizionale, cristiani (cattolici e protestanti), musulmani. Si tratta di un microcosmo, pluralista sotto tutti gli aspetti. Ciò non impedisce a chi vi abita di condurre una vita tranquilla.
Vivendo insieme sul filo delle generazioni, la gente, pur connotata da grandi differenze, ha trovato un linguaggio comune e regole di comportamento sociale non scritte, ma osservate da tutti.
Guardavo con soddisfazione la sfilata dei giovani del villaggio che si dirigevano tutti insieme verso la stessa scuola: una di quelle «case comuni» dove si sta forgiando il cittadino del futuro. Impossibile distinguere tra di loro chi era toupouri e chi moundang, chi cristiano e chi musulmano. Erano semplicemente dei giovani.
A questo proposito, alcuni musulmani ciadiani, organizzati in un’associazione per il dialogo tra giovani appartenenti a diverse religioni mi dissero: «Noi invitiamo tutti i politici a una presa di coscienza, per evitare tutto ciò che può contribuire a creare una divisione tra i giovani, i quali hanno imparato a familiarizzare tra di loro, a conoscersi e amarsi. Ci dà fastidio sentire parlare ancora di nord e sud, di musulmani e cristiani».

In occasione della festa del montone, chiamata localmente tabaski, avevo accompagnato il parroco di Fianga in una visita al grande imam, che ci invitò a unirsi a lui per fare gli auguri al sottoprefetto e a varie autorità locali. Verso la fine del ricevimento, in casa del sottoprefetto, l’imam recitò la preghiera della fatiha (prima sura del Corano) per la città e le autorità locali. Con nostro grande stupore, terminata la sua preghiera, ci invitò a fae una cristiana per gli stessi scopi. Il Padre nostro che recitammo fu seguito in rispettoso silenzio da tutti i presenti.
Alla fine del giro, arrivati di fronte all’abitazione dell’imam, questi ci invitò a entrare, perché anche a casa sua non mancasse la nostra preghiera cristiana, per invocare su di lui e la sua famiglia la benedizione di Dio.
Restai profondamente colpito da questi gesti, che manifestavano una grande apertura di spirito: gli uomini religiosi, se sono tali, non possono non essere rispettosi. La cortesia è il segno di Dio, perché è lui stesso cortese e misericordioso verso tutti.

BOX 1

ANIME DELL’ISLAM
L a presenza dell’islam in Ciad cominciò nel 1090, quando un musulmano salì al trono di Karen. Per alcuni secoli, fu professato dalle persone prossime alla corte reale e uomini di lettere. L’inizio di una vera islamizzazione delle campagne iniziò nel secolo xvii. L’islamizzazione del Ciad si svolse in forma piuttosto pacifica, anche se si legò alla tratta degli schiavi, a spese delle popolazioni non islamizzate. Ma, dal momento che un musulmano non poteva essere fatto schiavo da un altro musulmano, molti si convertirono all’islam per evitare la riduzione in schiavitù.
Con la colonizzazione (inizio 1900) il rapporto di forze tra il nord (a maggioranza musulmana) e il sud venne rovesciato in favore di quest’ultimo. Le popolazioni meridionali, di religione tradizionale, si trovarono in posizione difensiva, a volte di aperto conflitto con quelle del nord, e, dopo pochi decenni di dominio coloniale, incominciarono ad aprirsi verso il cristianesimo: dapprima verso le chiese protestanti, poi verso la cattolica.
Dal punto di vista religioso, attualmente la popolazione del Ciad potrebbe essere così divisa: su 5,5 milioni di abitanti, 2,9 milioni (il 53%) si considerano musulmani;1,4 milioni (25%) sono cristiani; 1,2 milioni (22%) di religione tradizionale.

I n campo musulmano, esistono tre tendenze:
– islam delle confrateite: più tradizionale e con forte radicamento popolare;
– islam riformista: di tendenza wahabbita (Arabia Saudita), più radicale e, talvolta, molto critico verso l’islam delle confrateite;
– islam delle élites modee: presente soprattutto tra gli studenti delle scuole superiori e la classe insegnante aperta al nuovo; ma senza rinunciare al radicamento nella religione musulmana.

Giuliano Vallotto




FRANCIAL’isola degli schiavi

Perché vogliamo, io e te, risalire il cammino del sole, cerchiamo di attirare verso di noi il giorno del passato, sentiamo che siamo troppo leggeri sotto quel peso; e per riempire la nostra presenza siamo troppo vuoti in questa assenza, in questo oblio; sì, la nostra presenza nel mondo; una parola troppo grossa per noi.
(Édouard Glissant, Il quarto secolo).

Come si sente una persona che sa per certo di discendere direttamente dagli antichi schiavi africani? Le ferite profonde, causate dallo sradicamento violento dall’Africa e dalla vita disumana sulla nuova terra, si sono rimarginate o popolano ancora l’immaginario collettivo dei popoli delle Antille francesi? Con toni poetici lo racconta Édouard Glissant, scrittore della Martinica anche lui discendente di schiavi, nel suo affascinante romanzo Il quarto secolo, premiato in giugno dal Grinzane Cavour.
Nato nel 1928 a Sainte-Marie in Martinica, Édouard Glissant, dopo aver frequentato, grazie a una borsa di studio, il liceo Schoelcher di Fort-de-France, nel 1946 parte per Parigi, dove prosegue gli studi filosofici ed etnologici alla Sorbona e al prestigioso Musée de l’homme.
Con una solida preparazione culturale, inizia la sua collaborazione con riviste letterarie come poeta e saggista. Nel 1958 ottiene il premio letterario Renaudot per il suo primo romanzo La Lézarde e inizia la sua attività politica per il diritto della disobbedienza nella guerra di Algeria, che lo vedrà perseguitato e anche arrestato.
Il quarto secolo, l’unico romanzo tradotto finora in italiano, esce nel 1964. L’anno dopo Glissant rientra in Martinica dove insegna filosofia al liceo e fonda una rivista letteraria e un istituto di studi su tradizioni e cultura della sua isola.
Tornato a Parigi nel 1980 scrive saggi, poesie, romanzi e diviene redattore capo della rivista Le Courrier de l’Unesco. Negli anni ’90 ottiene riconoscimenti inteazionali in molte università. Attualmente è titolare della cattedra di Letteratura francese alla City University di New York e presidente onorario del Parlamento internazionale degli scrittori.

«Terra, schiavi, magazzini, rum» furono, secondo Glissant, le «manie» dei bianchi dominatori delle Antille francesi, forse nobili o criminali fuggiaschi dalla Francia, che per quasi tre secoli si arricchirono con il lavoro degli schiavi, cioè dal 1635, anno di annessione della Martinica alla Francia, sino al 1848, anno in cui fu abolita la schiavitù.
Sulla storia travagliata della Martinica, filtrata dall’insolito sguardo degli «schiavi», si snoda la trama de Il quarto secolo. Nel 1935 iniziano, infatti, gli incontri regolari tra i due protagonisti del romanzo: l’anziano papà Longoué, stregone e chiaroveggente, e il quattordicenne Mathieu, un ragazzino sveglio e curioso di conoscere il perché della loro presenza sull’isola.
Papà Longoué racconta come nel 1789 arrivarono sull’isola il primo Longoué e il primo Béluse, antenato di Mathieu, sulla nave negriera Rose-Marie capitanata dal francese Lapointe. Persino la madre Africa, terra di provenienza del macabro traffico, era stata infettata da tanto squallore. Con occhio disincantato e spietato Glissant rievoca: «Quando il capitano arrivava c’era già il carico… L’intero paese era stato drogato, le madri avevano venduto i figli, gli uomini i fratelli, i re i sudditi, l’amico vendeva l’amico per il rum senza canna. E così compravano la morte con la moneta della morte, per potersi tuffare nella morte del rum».
Con ironia denuncia poi i cinici calcoli dei negrieri: «Il capitano era un uomo umano e organizzato. A che cosa serviva mettee 800 nelle stive e arrivare con 200, quando si poteva tranquillamente allineae seicento fra i ponti e arrivare con quattrocento?». La traversata fu terribile e disumana, ma ancora più terribile fu l’arrivo nella nuova terra sconosciuta, dove arroganti e beffardi «bianchi» si spartivano il carico.
Eppure, prima di sbarcare, Longoué e Béluse si batterono in un’epica lotta, sotto gli occhi sbalorditi dei loro futuri padroni, La Roche e Senglis. Due rivali che, di solito, usavano gli schiavi anche per le loro sfide personali. Mentre Béluse e la sua discendenza vissero come schiavi nella tenuta di La Roche, Longoué riuscì subito, con una fuga rocambolesca, a seminare cani inferociti nella foresta di acacie, e divenne un negro maron, con una vita libera insieme alla bellissima giovane schiava che, chissà come, aveva compreso un suo gesto tradizionale: gli aveva tagliato le corde e poi era stata rapita dall’audace Longoué mentre scontava l’atroce supplizio della croce.
Glissant racconta le vite parallele in un mondo dove coloro che si credono i «padroni» sono di fatto schiavi di usi e costumi talvolta ridicoli, che mal si adattano all’isola tropicale. Ai loro occhi, però, gli altri abitanti dell’isola sono «schiavi e inesistenti, senza qualità umana, come voleva l’uso della società». Il padrone può fare di tutto: scegliere il nome dello schiavo, farlo accoppiare come ritiene più opportuno, torturarlo (su una croce), seviziarlo, mutilarlo, ucciderlo. Gli schiavi diventano così «un popolo ai margini, soddisfatto di una penombra in cui sopravviveva alla maniera degli animali e che fingeva persino coll’affezionarsi ai padroni». I pochi neri liberi (maron), che vivono nella foresta, si chiedono perché gli altri non fuggano, senza capire che proprio la sottomissione degli altri protegge la loro libertà.

N el 1848 fu decretata la liberazione degli schiavi. Tutti furono registrati con nomi e cognomi di fantasia. Gli abitanti delle foreste scesero a valle, ma, commenta Glissant, «non c’è da stupirsi che questi negri si urlassero addosso e abbiano disprezzato il colore del legno sulla pelle», perché «il paese laggiù era morto per sempre; sì, certo, c’era la nuova terra, ma non la sentivano dentro il loro ventre, non vedevano l’unico cielo sopra di loro, cercavano in lontananza altre stelle, senza contare il loro fiume asciutto e la loro foresta senza radici».
Nasceranno, poi, le città, «il santuario della parola, del gesto, della lotta», si consoliderà la lingua creola, mentre la «gente di colore» si batterà per ottenere posti di lavoro dignitosi e poi – osserva con ironia lo scrittore della Martinica – per «strappare gli altri diritti che ne derivano (il diritto di agitarsi in quanto cittadino che elegge il suo sindaco e il suo deputato… il diritto di aprire bottega e di pavoneggiarsi, il diritto di addobbare la notte con una scintillante ghirlanda di parole)».
Intanto, malgrado fosse terminata la schiavitù ufficiale, l’isola si sarebbe, fino ai giorni nostri, popolata dei nuovi «negrieri», cioè persone che sfruttano gli abitanti locali e agiscono come l’antico capitano Lapointe, ma nel ruolo di «ricchi funzionari con il beneficio di una cospicua indennità di soggiorno».
Anche la religione è stata imposta agli schiavi dai padroni, credenti in un dio «che temevano tanto, ma verso il quale si comportavano in modo disinvolto», e si è perciò rivelata una sequela di feste e vuoti rituali.
Spicca, comunque, la bella figura di Melchior, «un uomo buono con tutta la forza della bontà, quando è fortificata dalla solitudine», nato dal primo Longoué e dalla schiava rapita, che volle mettere al figlio il nome del mitico re, e vissuto libero nella foresta per curare e guarire, lenire le pene, capace di non vendicarsi del male subito (l’uccisione del fratello) e con la sua presenza di far «maturare la forza e la pazienza».
Melchior è il nonno di papà Longoué e ne diviene un maestro da indicare come esempio; infatti, «non lo afflisse con ricette o conoscenze precise; ma, come un uccello che fischia invisibile fra i rami e altrettanto tenue e insistente, gli diede in quella parola frusciante il gusto dell’acqua che si cerca, del ramo che cresce, della roccia che si sgretola, della terra che lavora; di quello che dolcemente si anima e aspetta paziente sotto il sole». •

Silvana Bottignole




BRASILEMa il sole non brilla ancora

Missionario della Consolata kenyano, studente
nel seminario di San Paolo, Daniel si prepara
alla missione collaborando alle attività parrocchiali nella favela di Heliopolis, il cui nome significa
«città del sole». Ma la realtà è ben differente.

È una delle 1.999 favelas con cui si espande la megalopoli di San Paolo. È nata nel 1970, quando alcune famiglie, rimosse dalla prefettura da un quartiere della metropoli brasiliana, per fare spazio a una grande avenida, si rifugiarono a sud della città.
Negli anni seguenti la favela si è ingrandita gradualmente, con l’arrivo di migrati provenienti dal nord-est del Brasile, in cerca di lavoro e nella speranza di una vita più dignitosa. Oggi, conta oltre 85 mila abitanti: è una delle più grandi favelas del Brasile. Di questa popolazione oltre 30 mila sono bambini in età scolare, tra i 7 e i 14 anni.
Afflitta da enormi carenze strutturali e sociali, oggi, Heliopolis (città del sole) è ben lontana dallo splendere suggerito dal nome: il 40% delle abitazioni non ha adeguate condizioni igieniche, con il conseguente dilagare di malattie d’ogni genere; oltre il 60% delle strade non è asfaltato; più di 250 famiglie vivono in baracche che rischiano di franare alla prima pioggia torrenziale; costruzioni di ogni tipo formano un labirinto in cui è difficile districarsi.
Povertà e disoccupazione sono all’origine di enormi problemi sociali: violenza, droga, fame, emarginazione, analfabetismo (14 milioni di brasiliani non sanno leggere né scrivere). Ai problemi locali, infatti si aggiungono gli squilibri che affliggono il resto del Brasile.
Pur essendo l’ottava potenza economica mondiale, il Brasile è il paese con la maggiore disuguaglianza al mondo nella ridistribuzione di ricchezza, concentrata in mano a pochi nababbi. Per cui, come dimostrano le statistiche ufficiali, oltre 32 milioni di brasiliani sono al di sotto della soglia della povertà e il 29% vive con meno di un euro al giorno.
I sociologi definiscono tale miseria «apartheid sociale»; e questa è ben visibile a Heliopolis. Per i più fortunati, cioè per chi ha un lavoro, il salario oscilla tra i 90 e i 400 euro al mese. La paga minima copre appena l’1% del cosiddetto «paniere» dei beni di prima necessità: ciò significa che migliaia di persone non guadagnano a sufficienza neppure per comprare gli alimenti.

Dal 1997 nella favela di Heliopolis lavorano i missionari della Consolata, da quando, cioè, si sono ritirati i missionari di un’altra congregazione religiosa.
Oltre alla necessità di assistenza religiosa alla popolazione, l’accettazione di questo nuovo campo di apostolato è motivata dalla vicinanza al seminario teologico: la favela offre un’opportunità ai giovani studenti di prepararsi concretamente alla missione.
Quando i missionari della Consolata incominciarono la loro presenza, Heliopolis non era ancora parrocchia, ma un’«area pastorale», organizzata in comunità cristiane di base, che cercavano di conciliare la loro fede con l’impegno sociale, la solidarietà e l’aiuto reciproco, lottando per la casa e altri diritti basilari.
Incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche, catechesi, novene, corsi biblici e altre attività religiose avvenivano in abitazioni private. Finché ci si è organizzati per trovare terreni e costruirvi spazi adeguati alle varie attività comunitarie.
Il 14 dicembre del 2003 l’«area pastorale» di Heliopolis è stata elevata a parrocchia e padre Ricardo Gonçalves Castro, dopo tanti anni di lavoro nella zona, è stato nominato parroco.
La parrocchia è dedicata a santa Paulina, la quale, nata in Italia, a 9 anni andò in Brasile, dove visse e morì, diventando la prima santa brasiliana che dedicò tutta la vita al servizio dei poveri.
La nuova parrocchia è composta da sei comunità: San Giuseppe Operaio, Santa Elisabetta, San Benedetto, Immacolata Concezione, Sant’Angela e Sant’Antonio. Quella di San Giuseppe è sede parrocchiale; la sua chiesa è stata una delle prime ad essere costruita, con l’aiuto di benefattori stranieri e la collaborazione della comunità.
La cappella della comunità di Santa Elisabetta, con l’adiacente centro sociale, è nata per l’iniziativa di gruppi del quartiere, che hanno comperato il terreno e offerto praticamente tutta la mano d’opera. Lo stesso coinvolgimento locale si è avuto anche con le comunità di San Benedetto e Sant’Antonio.
Sant’Angela, invece, ceduta alla parrocchia di Santa Paulina dai padri Oblati di San Giuseppe, era già una comunità matura, con cappella e centro sociale. Solo la comunità dell’Immacolata non ha ancora alcuna struttura e continua a radunarsi nelle abitazioni private.

Scopo della nostra presenza è, naturalmente, l’evangelizzazione e la promozione umana. Oltre al parroco e ai seminaristi, nella parrocchia di Santa Paulina lavorano due comunità religiose: le suore dell’Immacolata Concezione e le Francescane Angeline. In concreto, tale lavoro abbraccia tutte le normali attività di una parrocchia.
«I l lavoro missionario a Heliopolis richiede pazienza e tempi lunghi – afferma padre Ricardo, che da tempo vive nella favela -. L’organizzazione della parrocchia non è facile, anche perché la gente, abituata a vivere autonomamente, come comunità di base, stentano a inserirsi nella complessa organizzazione di una parrocchia. Ma a forza di insistere che la chiesa non è mia ma della gente, qualcosa si sta muovendo».
Molte responsabilità, infatti, sono affidate ai laici. Una volta al mese, i cornordinatori e animatori di tutte le comunità, si radunano insieme al parroco, ai seminaristi e alle suore per valutare il lavoro svolto, programmare e cornordinare le attività essenziali della parrocchia: catechesi, liturgia, cura degli anziani, infanzia missionaria, pastorale dei bambini, dei giovani e delle famiglie.
Esistono, poi, diversi gruppi e movimenti impegnati in varie attività religiose e sociali: gruppo delle donne, gruppi di preghiera, di studio della bibbia, di alfabetizzazione, di visite alle famiglie.
Ciò non significa che a Santa Paulina sia tutto rose e fiori. La partecipazione a incontri e attività è molto varia, anche perché si svolgono di sera, dopo una giornata di duro lavoro. Così pure la domenica: alcuni uomini lavorano anche nei giorni festivi; altri approfittano per riposarsi o per migliorare la propria casa.
Sorte migliore hanno le iniziative rivolte a donne, adolescenti e bambini. La pastorale dei bambini, che si occupa della loro salute, per esempio, è inserita nel programma a livello nazionale. Secondo le statistiche, il 41% dei bambini tra i 6 e i 14 mesi sono denutriti; uno ogni 16 muore prima di raggiungere i 5 anni, per malattie che possono essere prevenute.
A Heliopolis ci occupiamo dei bambini da zero a sei anni: una volta al mese essi vengono al centro sociale per essere pesati e nutriti; negli altri giorni, gli agenti di pastorale li visitano a domicilio. Il programma comprende pure la formazione delle mamme, per insegnare loro a proteggere la salute dei loro figli.
Il coinvolgimento delle comunità riguarda pure i mezzi per sostenere le loro attività. E bisogna dire che sono ingegnose: organizzano lotterie e bazar, cercano liberi contributi e donazioni di vario genere.

Il problema più grave di Heliopolis è certamente la violenza: la maggior parte degli assassinii sono provocati dai trafficanti di droga. Molta gente è coinvolta nello spaccio, non per scelta, ma come mezzo di sopravvivenza.
La chiesa cerca di rispondere alla sfida della violenza soprattutto con la catechesi familiare, che, dall’inizio dell’anno, ha subito una svolta significativa: stiamo coinvolgendo i genitori nella formazione religiosa dei loro figli. Sono essi che, in casa, danno lezioni di catechismo, con l’aiuto di un catechista, che visita regolarmente le famiglie. In tali visite si discute dei mezzi per difendere i più piccoli dai pericoli della droga.
Per ora ci sembra il metodo migliore. È impossibile prendere di petto i trafficanti: si rischierebbe la vita. La loro presenza è di per se stessa causa d’insicurezza, anche per noi seminaristi stranieri, almeno all’inizio: non essendo conosciuti da tutta la popolazione, si rischia di essere scambiati per trafficanti. Una volta raggiunte le comunità, ci sentiamo al sicuro.
Ad aiutarci nella lotta contro la violenza si è unito un organismo non governativo: l’Unione dei nuclei e associazioni di abitanti di Heliopolis (Unas). Da 5 anni, all’inizio del mese di giugno, Unas e comunità cristiane organizzano la «Marcia della pace» per chiedere la fine della violenza nella favela. Il motto dell’ultima manifestazione era: «La pace comincia qui».
La collaborazione tra chiesa e Unas comprende altre iniziative per migliorare la formazione di 1.100 ragazzi e adolescenti: per toglierli dalla strada sono stati creati spazi di incontro per il tempo libero; vengono organizzate attività culturali e sportive, come scuola di teatro e di pallone, dopo-scuola per supplire alle carenze dell’insegnamento statale.
Molte di queste attività per i più piccoli sono gestite dai giovani, preparati appositamente per tale responsabilità. Per i giovani, inoltre, organizziamo corsi di abilitazione per entrare nel mercato del lavoro, evitando così di cadere nelle maglie della droga.

Daniel Mkado Onyango




ITALIAIl brivido della missione

Con il terzo Convegno missionario nazionale la chiesa italiana si è messa in ascolto delle esperienze
di evangelizzazione delle chiese sorelle nei vari continenti e ha preso nuovo slancio per continuare il cammino del suo impegno missionario, nella comunione e corresponsabilità di tutti i battezzati.
Riportiamo la testimonianza di un prete cinese.

Oltre 1.800 delegati di diocesi, istituti religiosi, laici impegnati nell’evangelizzazione hanno partecipato al terzo Convegno missionario nazionale, tenuto a Montesilvano (PE) dal 27 al 30 settembre scorso.
Incentrato sul tema «Comunione e corresponsabilità per la missione», il convegno si è tradotto in uno «sforzo per disceere, verificare e dare nuovo dinamismo alle strutture di comunione per l’unica missione nella quale tutti i membri della chiesa e gli organismi sono impegnati», come afferma il messaggio finale alle chiese italiane, con lo scopo di «consolidare e dare nuovo slancio all’attività di evangelizzazione».
Nelle assemblee e lavori di gruppo, nelle conferenze e incontri di preghiera, sono riecheggiati come ritoelli alcuni principi fondamentali: la vocazione missionaria di ogni credente, in forza del battesimo; il ruolo imprescindibile del laicato nell’opera di evangelizzazione; la necessità di allargare lo sguardo oltre il proprio ambiente e i propri problemi, per salvare tutta l’umanità che attende ancora di incontrare Cristo e la sua buona notizia.
Per tutti i quattro giorni, è stato ribadito, come un chiodo fisso, che «solo in Gesù Cristo l’umanità può trovare e divenire quella famiglia quale Dio l’ha intesa nel crearla»; che «si parte in nome di Cristo e per proclamare e testimoniare Cristo», altrimenti si ritorna indietro alle prime difficoltà.
Grande spazio e risonanza hanno avuto le esperienze delle chiese in Africa, Asia e America Latina, in cui la fedeltà a Cristo e al suo vangelo ha spesso il martirio come sbocco naturale. Riportiamo, come esempio, la testimonianza di un giovane sacerdote cinese, per nove anni in prigione, ora studente in una università romana. Per motivi di prudenza, tralasciamo ogni dettaglio che possa ricondurre alla sua persona.

«Sono un sacerdote della Cina continentale. La chiesa cinese è strettamente legata a quella italiana, poiché a trasmetterci per primi il messaggio del vangelo sono stati i missionari italiani, come il francescano Giovanni da Montecorvino e il gesuita Matteo Ricci, due nomi che nessun cristiano cinese potrà mai dimenticare».
In Cina la chiesa ha vissuto la stessa esperienza di quella dei primi tre secoli in Italia: dalla prima trasmissione del vangelo a oggi, la persecuzione religiosa è stata una realtà sempre presente.
«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». Nell’anno del grande giubileo del 2000, il papa ha canonizzato 120 martiri cinesi, rappresentanti di una grande folla di testimoni uccisi durante la ribellione dei Boxer (1900).
Nel periodo della «rivoluzione culturale» (1966-1976), nella mia diocesi decine di fedeli, vescovi, sacerdoti, suore e laici, hanno testimoniato la fede con la propria vita. Il più eminente tra questi testimoni è un anziano laico: poiché si rifiutava di abbandonare la fede cristiana, fu ucciso davanti alla folla, immerso in acqua bollente.
Per diversi sacerdoti il governo comunista scelse una pena «meno dura»: furono rinchiusi in piccole gabbie come cani, dove non potevano alzarsi, né allungare le gambe, né soddisfare liberamente ai bisogni naturali. Molti hanno resistito per vari anni in tali condizioni, finché sono morti sotto una tortura così crudele.
Questo capitava oltre 30 anni fa. Attualmente, 2 vescovi, 15 sacerdoti e 2 diaconi della mia diocesi sono ancora in prigione a causa della loro fedeltà a Dio e al papa. Ancora oggi, il governo cerca con ogni mezzo di costringerli a rompere le relazioni con il papa e il Vaticano ed entrare nella cosiddetta «Associazione patriottica», una chiesa indipendente dal papa, creata dal governo.

Io stesso, accusato di aver organizzato dei pellegrinaggi, sono stato in prigione ripetutamente a causa della fede e della fedeltà al papa; l’ultima volta rimasi in carcere dal 1996 al 13 luglio 2002, quando, grazie alle pressioni della società internazionale, fui liberato, espulso dalla patria e pervenuto in Italia.
Si sa, la prigione è un luogo orribile dappertutto; ma le condizioni di vita in un carcere cinese sono inimmaginabili e indescrivibili: a parte la perdita di ogni libertà personale, le più fondamentali necessità per una vita umana diventano un problema. I pasti consistono di uno o due panini cotti al vapore (mantou) e senza le minime condizioni igieniche; la carne non la si vede quasi mai. Non si può fare un bagno.
In una cella sono rinchiusi fino a 30 persone. Si vive insieme a criminali di ogni genere: assassini, ladri, truffatori, sequestratori, venditori di bambini…, che si tormentano a vicenda, fino a picchiarsi senza pietà. Non esistono tra loro sentimenti di amore o compassione. Le violenze peggiori vengono dai condannati alla pena capitale. Altri sono diventati violenti e sfogano sui nuovi arrivati la loro rabbia per i tormenti subiti all’inizio della loro prigionia. Vendette che ho subito anch’io.
Non avevo mai fatto nulla di male in vita mia; eppure dovevo vivere insieme ai più crudeli assassini, condividere la stessa stanza, dormire sullo stesso letto, essere trattato come loro… Tutto ciò mi procurava dolore e rabbia: era una situazione che non riuscivo ad accettare.
Poi, riflettendo sulla mia vocazione e la mia vita, nella preghiera e nel ricordo della parola di Dio, mi sono calmato e ho maturato reazioni più serene: sentivo che stavo camminando sulla stessa strada percorsa da Gesù.

Avevo un gran desiderio di ricevere la santa comunione, perché Gesù rafforzasse la mia debolezza. Ma nelle carceri cinesi ciò è impossibile. Anzi, come prigioniero a causa della fede, i poliziotti mi guardavano con speciale attenzione.
I criminali comuni possono ricevere varie cose dai parenti; ai prigionieri politici, invece, non è consentito avere contatti con la gente estea, neppure con i familiari, tanto meno ricevere da loro alcunché.
Desideravo tanto celebrare la messa, ma era impossibile procurarsi del vino, dal momento che, secondo le usanze cinesi, uniche bevande che accompagnano i pasti sono la birra e una specie di grappa.
Finalmente qualcuno riuscì a farmi avere di nascosto un po’ di vino. Ero pieno di gioia. Lo stesso giorno, per la prima volta dopo anni di prigione, celebrai la santa messa. Certamente fu la più semplice delle liturgie mai celebrate in tutto il mondo, senza altare, né tovaglie, né calice, né patena, ma soltanto alcune gocce di vino in una mano e un pezzo di pane nell’altra.
Le lacrime mi scendevano dagli occhi: il Creatore dell’universo veniva nel mondo, ma per lui non c’era posto; per il suo sacrificio non c’era alcun altare, come sul Golgota; il Figlio di Dio si degnava di entrare nella nostra prigione, piena di peccati e di odio.
Consumai in fretta il corpo e sangue di Cristo, che gli altri guardavano come cibo e bevanda normale. Poi, in silenziosa meditazione, ripensai alcuni momenti della vita di Gesù che più assomigliavano all’esperienza che stavo vivendo in quel momento della mia esistenza.
Dopo quella celebrazione eucaristica, il mio atteggiamento mutò completamente: una grande pace invase il mio cuore; accettai pienamente e con gioia tutte le sofferenze causate dalla prigionia. In quel momento capii veramente le parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò sollievo» (Mt 11,28).

Con la pace del cuore, la mia vita quotidiana diventava relativamente più facile: potevo ridere, scherzare, dimenticare le preoccupazioni. Gli altri prigionieri trovarono strano che, da un momento all’altro, non fossi più depresso e quasi non sentissi più alcuna sofferenza. Ne approfittai per condividere con loro la mia esperienza, benché la legge cinese proibisca assolutamente di parlare del vangelo ai prigionieri.
Mi resi conto come queste persone, che avevano perduto ogni speranza nella vita, avessero bisogno della buona notizia di Cristo Gesù. Non era facile parlare a persone che mi avevano accolto con odio, mi avevano picchiato, che non sapevano che cosa fosse un sacerdote, che non avevano mai sentito parlare di Gesù.
Ma col passare del tempo, ci siamo conosciuti meglio, fino a entrare in confidenza e familiarità. I loro cuori pieni di odio sono cambiati. Dalle mie parole e atteggiamenti hanno capito che il sacerdote è una persona buona. Nelle conversazioni ho cercato gradualmente di fare conoscere la nostra fede, di illuminare il significato della vita e della morte, di trasmettere la speranza che avevo in cuore.
Quando parlavo di queste verità tutti i compagni di prigionia erano attenti e accettavano le mie parole. Da quel momento sono diventato il loro centro di attenzione. Ogni giorno presentavo segretamente qualche aspetto del vangelo.
Dopo alcuni mesi, il clima era completamente mutato: la pulizia era regolare, i prigionieri non gridavano, non bestemmiavano, non si picchiavano come erano soliti fare prima; anzi, essi cominciarono ad aiutarsi e incoraggiarsi a vicenda. Quando mi raccoglievo in preghiera, nessuno mi disturbava.
I poliziotti della prigione si meravigliavano e non riuscivano a spiegarsi che cosa fosse successo. Ogni volta che passava l’ispezione per controllare ordine e igiene, la nostra cella otteneva encomi e premi.
Il vangelo di Cristo aveva cambiato il modo di vivere di molti prigionieri, dava loro nuovo coraggio per diventare umani. Alla fine, alcuni di essi chiesero di essere battezzati e di fare parte della chiesa.
È superfluo dire che, nonostante la vita in prigione fosse dura, mi sentivo pienamente realizzato come sacerdote, nel constatare come, attraverso la mia presenza, molti funzionari e criminali avessero cominciato a comprendere la chiesa e il vangelo di Cristo.

Dopo 300 anni di persecuzione, la chiesa di Roma riacquistò la completa libertà. Anche la storia della chiesa in Cina è segnata da secoli di persecuzione, ma sono convinto che Dio stia preparando la sua liberazione. Come cristiani e cattolici, dobbiamo affrontare tanti problemi, eppure la chiesa cresce velocemente, più che in tanti paesi liberi.
Ciò che più sorprende è che, proprio durante la persecuzione, il Signore della messe ha inviato un gran numero di operai e che durante i 20 anni di apertura politica (dalla metà degli anni ’80) si è registrata una crescente fioritura di vocazioni. Il fervore dei giovani missionari cinesi è indescrivibile.
Con la grazia speciale di Dio, il numero di nuovi cristiani è aumentato in fretta. In un piccolo villaggio, per esempio, dove tre anni fa non c’era alcun cristiano, oggi quasi tutti i 3.000 abitanti sono entrati nella chiesa mediante il battesimo. La ragione di tale crescita non è dovuta soltanto al lavoro dei sacerdoti, ma ogni cristiano è diventato missionario attivo.
Persiste ancora la pressione del governo sui cattolici, ma essa ottiene l’effetto contrario: i fedeli si uniscono più strettamente alla chiesa, ne sostengono le iniziative e si assumono le responsabilità nel lavoro pastorale. I cattolici uniti al papa sono oltre 6 milioni, numero superiore ai seguaci della «chiesa patriottica». Siamo ancora come una goccia nell’oceano, rispetto alla popolazione totale del paese, che conta 1,3 miliardi di abitanti. Eppure sono convinto che, con la grazia di Dio e l’impegno dei suoi sacerdoti e fedeli, in un futuro non troppo lontano, la chiesa in Cina potrà godere di una libertà come non ne ha mai avuta. Allora, il gigante cinese spalancherà le porte a Cristo e diventerà una forza di pace per tutta l’umanità.

Benedetto Bellesi




MONGOLIA (3)Tra “Ethos” e “Daimon”

Come dialogare con i buddisti in Mongolia?
Da dove cominciare? Con quale linguaggio? Senza dubbio: con il linguaggio dell’amore e della carità.

La chiesa cattolica si prepara per estendere la sua azione fuori della capitale. «C’è molto da lavorare qui in Mongolia – dice il padre congolese Pierre Kasemuana, missionario di Scheut – e la tolleranza tra cattolici e buddisti è fondamentale per ottenere risultati concreti».
La presenza dei cattolici in Mongolia è numericamente esigua, ma molto apprezzata, anche dai buddisti lamaisti, che costituiscono il 90% della popolazione. Un obiettivo comune unisce le due fedi: dare un futuro alla nazione mongola, cominciando dai suoi abitanti più giovani.
Potremmo cominciare il dialogo leggendo insieme un testo, come il Canone buddista, che contiene molti brani condivisibili dai cristiani. Oppure potremmo scegliere la lettera di san Giacomo, che lo stesso Dalai Lama, per esempio, ha letto ed elogiato.
Questa lettera, in realtà, presenta varie somiglianze con alcuni testi della tradizione buddista, in particolare con quelli di scuola lojong (lett.: dimostrare la mente), i quali parlano, per esempio, di «tre livelli della fede» da conquistare successivamente e del dovere di tradurla in azione, dell’importanza dell’ascolto, «in contrapposizione al parlare», del controllo delle «emozioni negative», come l’ira.
È necessario dialogare per vincere fondamentalismi e intolleranze, che negano all’altro il diritto di essere differente e che, oggi, servono di pretesto per guerre e conflitti. Il teologo Hans Küng afferma: «L’umanità non sopravviverà senza una etica mondiale. Nel mondo, non ci sarà la pace senza dialogo fra le religioni».

DA DOVE COMINCIARE?
Il dialogo potrebbe cominciare da due parole dell’antica Grecia, quindi né cristiane né buddiste, ma che contengono concetti universali: ethos e daimon.
Il primo termine, ethos, richiama subito alla mente il concetto di «etica» (legge morale universale); ma il suo significato originario è piuttosto quello di dimora, abitazione umana. Non si tratta dei muri e tetto della casa; l’ethos indica quel complesso di relazioni che l’essere umano stabilisce con l’ambiente, da cui ritaglia lo spazio per la sua dimora, con i familiari per essere cornoperativi e pacifici, con un piccolo luogo sacro, dove si conservano le memorie più care, e con i vicini, perché ci sia mutua collaborazione e cortesia. In altre parole, l’ethos è il luogo dove l’uomo dà dignità alla sua esistenza.
Alla partenza da Roma, nel luglio del 2003, ci domandavamo come e dove sarebbe stata la nostra abitazione in Ulaanbaatar. Sapevamo che il vescovo aveva già affittato due appartamenti, uno per le suore e l’altro per noi padri. Ci aspettavamo di essere alloggiati almeno a un chilometro di distanza; invece ci siamo ritrovati nello stesso stabile, in due appartamenti sovrapposti. Ci troviamo bene: abbiamo scelto il luogo sacro comune (la cappella) e avviato il nostro ethos, cioè il nostro modo di essere missionari.
Per ogni missionario l’ethos è il mondo intero; nella pratica, però, diventa un luogo specifico, che per noi è la Mongolia. Essendo all’inizio, il complesso di relazioni con i mongoli è ancora complicato, ma non sarà difficile, poiché abbiamo già sperimentato che essi sono molto simpatici e aperti agli stranieri.
Ciò che fa della casa un ethos, cioè una dimora umana, un insieme di relazioni, è il daimon, che nel greco classico non è il demonio, ma il contrario: l’angelo buono, genio protettore. Socrate, per esempio, si lasciava orientare dal suo «demone»: lo chiamava «voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore», o «segnale di Dio».
In ultima analisi, il daimon si identifica con la nostra coscienza, con quella voce interiore che suggerisce i nostri comportamenti, guida, dissuade o incoraggia altri elementi fondamentali del nostro essere: desideri, intelligenza, amore o potere.
Ancora prima di Socrate, il geniale filosofo Eraclito (500 a.C.) aveva unito i due concetti nell’aforisma 119: ethos anthrópo daimon, letteralmente: ethos all’uomo (è) daimon. Le interpretazioni di questo frammento sibillino sono molte. Nei tempi più recenti, il filosofo Martin Heidegger lo ha tradotto così: «L’uomo, in quanto uomo, ha la sua dimora in Dio»; invertendo i termini si può anche dire che «Dio è la dimora dell’uomo».
La fedeltà a questo angelo buono fa sì che abitiamo bene nella casa, quella individuale, nella città, nel paese e sul pianeta terra, la casa comune. Tutto ciò che facciamo perché si possa vivere bene insieme (felicità) è etico e buono; ciò che è contrario alla convivenza è anti-etico, cioè cattivo.

IL DIALOGO
Nel corso della storia, il daimon fu dimenticato, sostituito dai filosofi con sistemi etici, proposti come legge universale, e, negli ultimi secoli da ideologie, come marxismo e liberismo, che hanno ridotto l’etica a un affare utilitario, con conseguenze disastrose per la convivenza umana.
La Mongolia ne è un esempio. Per 70 anni satellite dell’Unione sovietica, in omaggio all’ideologia marxista-leninista fu proibita ogni pratica religiosa pubblica, i monasteri buddisti furono chiusi o distrutti, migliaia di monaci assassinati, molti altri perseguitati.
Da poco più di un decennio è ritornata la democrazia: nelle elezioni del 1996, la Coalizione della madrepatria democratica (Cdm) sconfisse il Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia (Prpm), al potere nei precedenti 70 anni. Ma il popolo mongolo non sembra avere staccato totalmente il legame col partito comunista: nelle elezioni legislative del 2000 restituì il potere al Prpm e in quelle del giugno scorso ha diviso in parità i deputati mandati in Parlamento.
I governi che si sono succeduti in questi anni hanno abbandonato ogni atteggiamento antireligioso; anzi, hanno aperto le porte alle diverse religioni, pur imponendo certe limitazioni. Le chiese, per esempio, non possono esporre la croce fuori dell’edificio; nelle nostre scuole non possiamo avere segni religiosi; non è consentito fare manifestazioni religiose fuori degli edifici di culto.
Tuttavia, il dialogo con le autorità pubbliche è bene incamminato; le relazioni sono stabili. Senza dubbio, le autorità cominciano a capire chi siamo grazie all’impegno della chiesa verso i più bisognosi. Anche tale testimonianza è una forma di dialogo, fatto di gesti concreti, più eloquenti delle parole.
Quando parliamo dei poveri, ci troviamo in sintonia con i fratelli buddisti; pure i monaci, infatti, hanno opere a favore dei bambini di strada, degli anziani bisognosi, dei carcerati, dei giovani.
Inoltre, in Ulaanbaatar il buddismo asiatico ha la sede della Conferenza continentale per la pace. Anche sotto questo aspetto non è difficile darci la mano per leggere insieme i segni dei tempi e il grande libro della vita, nella ricerca della pace e dell’armonia.

PRESENZA DI FEDE E AZIONE
Dio ha piantato la sua gher (la tipica tenda rotonda) in mezzo alla Mongolia dei buddisti, degli sciamanisti, dei musulmani… e di noi cattolici, chiamati a lavorare in questa vigna del Signore nell’ultima ora.
Dice Simone Weil: «Ogni qualvolta una persona ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Budda, il Taho, ecc…, il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non impegnandolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma donandogli la luce e, nel migliore dei casi, la pienezza della luce, all’interno di tale tradizione».
Come missionarie e missionari della Consolata in Mongolia, abbiamo bisogno di ascoltare la voce dello Spirito, per liberarci da preconcetti, paura del nuovo, occidentalismo, conservatorismo e da tutto ciò che ci impedisce di aprire le nostre tende e accogliere gli altri.
È lo Spirito che insegna il cammino del dialogo e la ricerca della pace. Tale cammino non può rimanere ristretto alle grandi conferenze, ma deve essere praticato ogni giorno, in casa, nelle relazioni familiari e nella convivenza con i vicini. Dio è amore e ci fa fratelli e sorelle nella ricerca dell’ethos perfetto, della «Terra senza mali», del «paradiso dell’armonia».
Per ora la nostra missione consiste nell’essere comunità di presenza, che si dedica ai lavori domestici (cucinare, lavare, stirare…), partecipa alla vita e alle attività delle comunità locali e, soprattutto, apre il cuore a futuri orizzonti.

BOX 1

IL MONDO RELIGIOSO DEI MONGOLI

Sciamanismo
È la componente più antica della cultura e della vita del popolo mongolo. È sopravvissuto al buddismo, che ne ha assimilato o inculturato vari elementi. Si è rafforzato durante il governo comunista, dal momento che non aveva né libri sacri da bruciare, né templi da distruggere. Oggi è praticato nelle zone rurali più remote.
Lo sciamano, circondato da un’aureola di rispetto e timore, è l’anello di unione tra vita terrena e mondo degli spiriti, grazie alla sua esperienza estatica (trance). Il suo ruolo è per natura benefico e la sua funzione molteplice. Lo sciamano è medico (diagnostica il male mediante il contatto con gli spiriti e lo cura con interventi diretti); è psicologo (con rituali e dialogo agisce sulla psiche del paziente); è sacerdote (offre sacrifici e compie riti sacrali); è divinatore (nell’esperienza estatica, rivela fatti sconosciuti del passato e previene il futuro; fa ritrovare cose o persone smarrite); è psicopompo (accompagna l’anima del defunto nella nuova dimora).
Dialogare con lo sciamanismo è dialogare con la realtà più profonda della persona mongola. Per noi missionari è pure una sfida: ci stimola a scoprire nuovi modi per diventare medici del corpo e dello spirito, per attuare la nostra dimensione sacerdotale e profetica, per essere guide delle anime verso la vita senza fine.

L’antico pantheon
Fino alla seconda metà del xvi secolo, i mongoli praticavano una propria religione, poi soppiantata dal buddismo nella forma lamaista; ma alcuni antichi elementi sono sopravvissuti.
Nelle sconfinate distese della steppa, dove il cielo rappresenta l’unica possibilità di orientamento, la stella polare determinava l’asse terrestre; sotto di essa c’era l’«ombelico» del mondo, dove aveva sede il «Signore dei mongoli».
Al cielo si volge lo sguardo dell’antico cavaliere mongolo: dal cielo scende la pioggia per i pascoli delle mandrie; il cielo è la sede della divinità suprema, Tengri (cielo), raffigurato come un cavaliere con vessillo e invocato come erketu Tengri (potente cielo) o koke mongke Tengri (eterno cielo azzurro).
Questo Essere supremo è alla testa di 99 figure divine, 34 delle quali individuate nella zona orientale della volta celeste e 55 in quella occidentale. A queste 99 figure celesti corrispondono 77 madri della terra, a volte raffigurate complessivamente nella sola Etugen, la madre terra.
Chagan Ebugen (bianco vegliardo), lo spirito delle mandrie e della fertilità, viene ritratto come un vecchio con vesti e capelli bianchi. Accanto alle divinità a cavallo, protettrici dei cavalieri, esistono divinità tutelari della casa, gli «dei di feltro», dal materiale con cui sono riprodotte le loro immagini. All’ingresso delle tende, erano posti gli ongon, spiriti protettori dell’abitazione, ai quali veniva offerto del latte.
Gli sciamani, sia uomini (boge) che donne (idughan), avevano la funzione di stabilire, tramite riti sacrificali ed estatici, un contatto con il mondo di tali spiriti e divinità.
Presso l’ovoo, un cumulo di pietre dove si riteneva si riunissero gli spiriti della natura, pastori nomadi e viaggiatori invocavano la protezione di queste potenze.

Aspettando Gengis Khan
Depositario di antiche e ricche tradizioni religiose, il popolo mongolo si è sentito investito della missione di creare un impero universale che riunisse tutti i popoli dei «quattro angoli», cioè dei quattro punti cardinali.
Tale credenza è rafforzata da antichi miti, riportati dalla Storia segreta dei mongoli, compilata nel 1240. Tali miti raccontano che i capostipiti del popolo mongolo furono «il lupo blu e la cerva selvatica»; il clan di Gengis Khan ebbe origini celesti; al momento della nascita, Temujin stringeva in pugno un grumo di sangue nero, simbolo di regalità. La leggenda lo presenta come «inviato dal destino», rivestito di poteri derivanti da Tengri, dio del cielo; dopo la morte è diventato una potenza celeste e il più nobile degli antenati.
Temujin (1155-1227), che nel 1206 prese il nome di Gengis Khan (khan oceanico, universale), è il fondatore del più grande impero che la storia ricordi: si estendeva dal Mare della Cina fino ai Balcani e al Golfo Persico.
Col passare dei secoli, nonostante che la Mongolia fosse diventata uno stato teocratico, basato sul buddismo lamaista, la memoria di Gengis Khan rimase radicata a livello popolare, grazie all’influsso degli sciamani. Il ricordo delle sue imprese ha assunto una dimensione mitica, fino a diffondersi la credenza nel suo ritorno e nella rinascita del suo impero. Ancora oggi, visitando le famiglie mongole, vediamo spesso un ritratto o disegno di Gengis Khan posto in bella mostra.

Ritoo a Karakorin
L’antica capitale del regno mongolo, era un grande centro culturale e commerciale in cui varie religioni convivevano in armonia. Secondo la leggenda, la città era il luogo sacro per l’iniziazione e la sede del «Re del mondo».
L’antica Karakorin non esiste più: sulle sue rovine, nel 1500 fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il cui tempio è ritenuto la residenza del messia, quando questi farà ritorno sulla terra alla fine del kali yuga, cioè nell’ultima delle quattro ere del ciclo cosmico buddista. Ed è quella attuale, la più tenebrosa e oscura.
Nel secolo scorso, in concomitanza con la condizione di oppressione del popolo mongolo, si diffuse un’aspettativa messianica che prevedeva la riconquista dell’identità nazionale a lungo repressa. Tali speranze furono alimentate dal profeta altaico Chot Chelpan, che nel 1904 fondò un movimento di riscossa nazionale, basato sulle sue visioni: gli sarebbe apparso un cavaliere bianco vestito, che cavalcava un cavallo bianco, annunciandogli il ritorno di Oirot Khan, discendente di Gengis Khan, per porre fine all’oppressione zarista e ripristinare l’antico impero dei mongoli.
Per alcuni mongoli la profezia di Chelpan si è ridotta a una tenue speranza: vedere Karakorin, tra una decina di anni, capitale della Mongolia. Ma mancano i soldi per adattare, modeizzare e trasformare la città.
Speriamo anche noi: un giorno Karakorin potrebbe essere la terra che accoglie i missionari della Consolata.

Juan Carlos Greco




LETTERAVanunu traditore?

E gregio signor Elena, ho letto il suo articolo su Mordechai Vanunu. Sono rimasto molto deluso e un po’ offeso. Nel 1984 lavorai per un anno in un kibbutz del nord d’Israele.
Perché Vanunu decise di rivelare alla stampa ciò che faceva, tradendo un giuramento? Perché, signor Elena, le sue ipocrite parole contro il legittimo diritto d’Israele a difendersi, attorniato da nemici in perenne ostilità, non le rivolge a Pakistan, Cina, Usa, Russia? Israele è l’unica democrazia nel mare dittatoriale e medioevale arabo.
In Israele la persona ha gli stessi nostri diritti come in Europa. Lei, conosce la condizione femminile nei paesi arabi e quella delle donne tra i palestinesi? S’informi e non si riempia la bocca di parole consolatorie… Solo musulmani (Pakistan, Algeria, Arabia Saudita, Yemen) uccidono cristiani, non il contrario.
Sono molto dispiaciuto che Missioni Consolata, cui sono abbonato da anni, pubblichi articoli così politicamente filo-comunisti e filo-arabi.

Alfio Tassinari
Cervia (RA)

Criticare la politica d’Israele non significa ipso facto simpatizzare con quella araba o comunista. Almeno da parte nostra.
Dopo la morte di Yasser Arafat (11 novembre), considerato dal governo israeliano un interlocutore inaffidabile (o addirittura un terrorista), vedremo se le parti sapranno ricominciare a parlare di pace.

Alfio Tassinari




LETTERAAntisemitismo strisciante?

S u Missioni Consolata (ottima pubblicazione) compare l’articolo di Mirco Elena «Mai dire che Tel Aviv…». L’autore dice cose inedite, ma ovvie. Raccontato il «caso» di Mordechai Vanunu, Elena si limita a dire: «Stupefacente appare l’uso di due pesi e due misure e l’incapacità della stampa e media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano». Qui ferma la disamina. Peccato!
È ovvio chiedersi: perché Israele è dispensato dall’ottemperare ad alcune delle risoluzioni Onu, mentre altri devono farlo sempre e comunque? E per quale ragione, quando una persona di origini ebraiche viene toccata da violenza (vera o presunta), si levano grida al cui confronto quelle del Manzoni appaiono blande raccomandazioni? Ricordiamo il famoso sedicente prof. Marsiglia (Verona), il meno noto sedicenne di Orbassano (TO), la recente mitomane francese.
I casi sono tanti… Il punto è, però, chiaro: se la «vittima» è un ebreo finisce sui media; se è un… ghanese, non gliene frega a nessuno.
Io sono rimasto fermo all’equazione: «La vita di un uomo vale come quella di un altro». Evidentemente, oggi, l’ebreo vale di più. Nessuna sorpresa.
Alle elezioni politiche del 1994 l’afflusso fu procrastinato a lunedì 28 marzo fino alle ore 22, anziché chiudere nel primo pomeriggio, perché quel giorno «cadeva in una festività ebraica».
Gli ebrei in Italia sono circa 35 mila. Perché lo stato che li accoglie deve adeguarsi alle «loro» festività e non a quelle, semmai, di minoranze più numerose? È latente antisemitismo chiedersi: perché gli ebrei, storicamente, non sono mai stati un popolo troppo amato? Se viene bruciacchiata una sinagoga, la notizia finisce nella tua… minestra, ma se l’esercito israeliano entra nella grotta della Natività (aprile 2002), tutto è presentato in maniera «edulcorata».
L’ebreo si presenta come «vittima». Poi, lontani da «complotti», si scopre che nei centri del potere c’è (quasi) sempre un ebreo: si veda il numero dei giornalisti e banchieri, anche nostrani. Quasi un razzismo rovesciato.
Mirco Elena può trovare «qui» una risposta alle sue domande…
Tutto trae spunto da «Auschwitz e dintorni». Loro sono il popolo che ha sofferto più di tutti e, «per contrappasso», a loro è concesso tutto.
Nessuno parlerà mai dell’«olocausto del popolo iracheno», uno dei tanti provocati dalle democrazie occidentali: 12 anni di embargo, bombardamenti quotidiani (il diritto internazionale dov’era?), guerra finale. Chi processerà Bush, Blair e comprimari? E questo perché il popolo iracheno non «ha un mercato» e non è funzionale ai poteri che scandiscono i fatti del mondo.
Lascia perplessi la comparsa, nel settembre 2001, di Al Qaeda e Bin Laden, soggetti sconosciuti fino a poco prima, quando oggi ci sono strumenti che individuano un temperino nel mare! Un nemico «imprendibile ed indefinibile (è pure comodo) che, dalle brulle montagne dell’Afghanistan, è in grado di terrorizzare il mondo» (D. Rumsfeld). Da questa «comparsa» chi ha tratto vantaggio politico ed economico (si può dirlo?) se non Usa e Israele?
«Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare ciò che non ti aspettavi» (Eraclito). Senza con questo volere, sempre e comunque, cogliere una verità «recondita e occulta», bensì una più ovvia e nitida, che ci fa capire come il potere, a ogni latitudine, non tolleri altri che coloro che lo celebrano.

Max Cole
Brescia

Rigettiamo ogni violenza, senza «se» e senza «ma». Però nella storia, raccontata da alcuni, se «tutti i morti sono uguali, alcuni sono più uguali di altri». L’abbiamo ricordato, con tristezza, anche nel nostro libro La guerra, le guerre, Emi 2004.

Max Cole




LETTERAAntipatia verso Israele?

Q uando sul vostro bel giornale si parla d’Israele, è evidente l’antipatia verso questo paese. È l’antipatia che si coglieva, prima dell’attuale terrorismo, nei pellegrini in Terrasanta, magari solo per le misure di sicurezza cui erano sottoposti, vissute come soprusi. Forse un motivo non c’era, o forse sì: era l’insofferenza che i luoghi sacri del cristianesimo si trovassero in un paese ebraico. Ma, ahimè, Gesù era ebreo e i luoghi della sua vita sono lì e non altrove.
Mirco Elena racconta la storia di Mordechai Vanunu, liberato dopo 18 anni di detenzione per avere rivelato i segreti nucleari d’Israele, e si chiede come mai questo paese può detenere testate nucleari senza che nessuno se ne preoccupi. E perché non si parla mai di ispezioni inteazionali come per il vicino Iran.
Posso tentare una risposta? Forse perché il conflitto arabo-israeliano è enormemente asimmetrico. Quando Israele nacque nel 1947, con il voto dell’Onu, era poca cosa: territori slegati, fatti di città e kibbutz fondati su terre acquistate dai legittimi proprietari, più un pezzo di Galilea, dove gli ebrei erano presenti da secoli, e un po’ di deserto del Negev. In tutto un territorio abitabile, grande come la provincia di Cuneo, per ospitare i reduci di 2 mila anni di persecuzioni, culminate con i 6 milioni di morti della follia nazista (oggi gli ebrei in Israele non arrivano a 5 milioni!). Gerusalemme, dove gli ebrei c’erano da secoli e rappresentavano il gruppo etnico più numeroso, era tagliata fuori dal nuovo stato.
La stessa notte della dichiarazione di indipendenza gli eserciti di Siria, Libano, Giordania, Egitto e Iraq invasero Israele, senza valutare che avrebbe potuto essere una opportunità di sviluppo per tutti. Nessuno pensava di fondarvi uno stato palestinese, che peraltro non era mai esistito. L’obiettivo era la distruzione dello stato ebraico.
Come è noto, gli arabi persero quella guerra e tutte le successive. Se Israele ne avesse persa solo una, non esisterebbe più. Vincendole ha occupato altro territorio, creando i problemi attuali a sé ed altri. Con Egitto e Giordania ha dimostrato di non ambire a ulteriori ingrandimenti: in cambio di pace, ha ceduto il Sinai, dove si erano già insediati i coloni.
Ma ci sono stati arabi che non hanno rinunciato ai vecchi progetti. Ecco l’asimmetria: un attacco nucleare su Israele lo cancellerebbe dalla faccia della terra, mentre le bombe israeliane stanno lì, perché tutti lo sappiano e nessuno sia tanto pazzo da provarci. Non è una bella cosa, ma così siamo vissuti anche noi per 40 anni e così vivremmo ancora se non fosse stato per Gorbaciov.

Gianni Damilano
Fossano (CN)

Missioni Consolata, dall’Intifada del 1987, ha pubblicato decine di articoli sulla «terra santa», distinguendo sempre tra «israeliano» ed «ebreo», tra «arabo» e «musulmano». I rilievi critici (non l’antipatia) coinvolgono la politica, mai la religione.

Gianni Damilano




LETTERANatura=bontà? Non sempre.

Cari missionari,
vi ringrazio degli spunti e provocazioni. Mi piace riportare in famiglia, presso amici e conoscenti, le informazioni che trovo su Missioni Consolata, perché è importante non chiudersi e, soprattutto, conoscere chi e come si vive nel mondo.
Trovo pure stimolanti i servizi sui problemi ambientali e le risorse mondiali della rubrica «Una sola madre terra». Per formazione (sono laureata in agraria) e per lavoro (mi occupo di analisi di alimenti) mi ha molto interessato l’articolo sugli organismi geneticamente modificati (ogm), apparso in giugno 2004.
Non ritengo costruttivo l’atteggiamento «basta ogm!»: mi sembra un preconcetto, che non indaga su qualcosa che può essere utile per chi muore di fame e malattie. Sono d’accordo che una manipolazione genetica, volta (per esempio) a inserire geni per consumare fragole tutto l’anno, serva solo ad arricchire qualcuno. Inoltre, rimane essenziale sottolineare come la biodiversità sia un patrimonio troppo importante, che non va distrutto. Per cui non vale neppure lo slogan «ogm a ogni costo!».
L’equazione «natura uguale bontà» non sempre vale. Infatti esistono sostanze naturali dannose, anche cancerogene. Ad esempio: alcuni funghi, microscopici, emettono micotossine che, a piccole dosi provocano tumori o, a dosi elevate, conducono alla morte tra molte sofferenze. Non sempre l’emissione di tali tossine viene evidenziata da «muffe»; per cui, essendo impossibile analizzare ogni partita di alimento, occorre sfavorire la presenza di funghi sulle derrate alimentari per evitare la produzione eventuale di micotossine.
Nel caso del mais, l’infestazione fungina è favorita da un precedente attacco di un insetto (la piralide), che, fessurando la pianta, consente ai funghi di penetrarvi. Cosa propone la biotecnologia? Un mais con un gene (tratto da un microrganismo, il bacillus turingensis) che funzioni da insetticida biologico e protegga la coltura dalla piralide e dal conseguente instaurarsi dei funghi.
Perché vi racconto tutto ciò? Perché ho appreso, da un programma di Inteational Society for Infectious Diseases, che in Kenya stanno morendo decine di persone per aver consumato mais con elevate percentuali di micotossine, in particolare quelle chiamate aflatossine. Forse non è pensabile il mais ogm nella realtà africana, senza prima studiare la situazione locale; però voglio far riflettere su come sia facile giudicare «cattiva» una tecnica, che, se ben usata, potrebbe essere uno strumento al servizio dell’uomo.
Sento già l’obiezione circa la creazione di dipendenza da alcune ditte per l’eventuale approvvigionamento del seme. Non conosco come avviene in Africa. Da noi il mais prodotto non può essere seminato e il seme ibrido è sempre acquistato da ditte sementiere.
So di non aver esaurito l’argomento, né ho la pretesa di suggerire la soluzione al problema ogm. Tuttavia mi pareva utile apportare un piccolo contributo alla conoscenza della questione….
Cari missionari, continuate a farmi crescere!

Laura Bersani
Torino

Grazie, signora Laura, per la lezione di biotecnologia, che supera l’aspetto accademico. «È il segno di un’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato, che indicano come gli uomini e donne del nostro tempo se ne sentano in qualche modo corresponsabili» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 29).

Laura Bersani