VENEZUELA 2005 Dopo il referendum del 15 agosto


VENEZUELA 2005

UN PIENO DI VOTI E DI PETROLIO

Il presidente Hugo Chávez Frias ha vinto anche il referendum del 15 agosto.Oggi gli alti prezzi del petrolio lo aiutano a governare e a resistere ad un’opposizione disposta a tutto pur di cacciarlo.

Dopo il referendum del 15 agosto, lo scrittore Eduardo Galeano ha detto: «Strano dittatore, questo Hugo Chávez. Masochista e suicida: ha messo in piedi una costituzione che consente al popolo di cacciarlo, e ha corso il rischio che questo succedesse in un referendum revocatorio che il Venezuela ha realizzato per la prima volta nella storia universale. Il castigo non c’è stato. E questa è stata l’ottava elezione che Chávez ha vinto in 5 anni». Anzi, la nona, considerando le elezioni amministrative dello scorso 31 ottobre.
Anche il «Centro Carter» (la fondazione dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ha certificato la regolarità del referendum del 15 agosto, ma l’opposizione venezuelana non accetta la sconfitta. Attraverso i media che controlla cerca di far passare (spesso riuscendovi) presso i governi esteri e presso molti media occidentali che il presidente Chávez è un dittatore. Purtroppo per loro questo non è un buon momento, per almeno due motivi.
Il primo è di ordine politico. Viviamo in un periodo storico in cui un personaggio quantomeno ambiguo, il colonnello libico Gheddafi, è stato più che riabilitato, nonostante sia al potere dal 1969 e non abbia un curriculum vitae invidiabile… Abbracciare Gheddafi e nel contempo affossare Chávez è, allo stato delle cose, un’impresa difficile anche per poteri tanto forti come quelli in gioco. Sarà questa la «ragion di stato» di cui parlò il nostro Machiavelli?
Il secondo motivo è prettamente economico. Caracas è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il secondo fornitore degli Stati Uniti (coprendo il 15 per cento delle importazioni Usa). L’importanza strategica del paese latinoamericano sta tutta in questi numeri.
Sullo sfondo rimangono comunque le contumelie della comunità internazionale, in particolare degli economisti neoliberisti e della folta schiera dei media allineati alla filosofia dominante. Per costoro le entrate derivanti dal petrolio venezuelano costituiscono un grave cruccio. Il perché è presto spiegato.
Il governo Chávez utilizza gran parte delle cospicue entrate petrolifere per finanziare programmi sociali (come le misiones), indispensabili in un Venezuela abituato ad avere una classe dominante (non più del 20% della popolazione) a cui era concesso ogni privilegio. Economisti e politici neoliberisti dicono che così non va bene, perché questo è populismo, termine che, a dispetto del suo significato etimologico, in politica è un insulto grave, utilizzato alla bisogna, soprattutto quando non si sa che altro dire.
Dare medici e ambulatori a chi non può permettersi una sanità privata (missione Barrio Adentro), scuole ed insegnanti a chi non ha potuto avere un’istruzione (missione Robinson), la possibilità di completare gli studi secondari a chi li ha interrotti (missione Ribas), alimenti a prezzi inferiori a chi non ha risorse (missione Mercal), è populismo?
Se lo è, allora ben venga il populismo, se serve per avere finalmente un po’ di giustizia.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




STATI UNITI D’AMERICAAltri quattro anni di guerre e terrorismo?

George W. Bush è stato rieletto. In attesa di capire come si comporterà, proviamo a fare un bilancio
dei suoi primi quattro anni alla guida della superpotenza americana.

Il «comandante in capo» rimane alla Casa Bianca. George W. Bush, texano (d’adozione) di 58 anni, figlio maggiore di George Bush, ha vinto le elezioni presidenziali del 2 novembre 2004 e per altri 4 anni guiderà la più forte nazione della terra. In tanti, soprattutto fuori dagli Usa, speravano che ciò non avvenisse (1). E li capiamo. I primi 4 anni della presidenza di George W. Bush sono stati i più travagliati e negativi della storia recente dell’umanità.
Qualcuno obietterà che Bush ha liberato due paesi dalla tirannide e difeso il mondo dal terrorismo. Proviamo a ragionare, mettendo in ordine i tasselli…

A proposito di terrorismo. Il terrorismo ha ricevuto linfa vitale dalle scelte politiche del presidente statunitense. Sir Ivor Roberts, ambasciatore britannico in Italia, durante un convegno pubblico, ha definito Bush «il più grande reclutatore per conto di al-Qaeda» (2).
Un’esagerazione di un diplomatico inglese un po’ eccentrico? Il 9 ottobre il New York Times ha raccontato un’intervista immaginaria a Bin Laden, che dice al giornalista: «Guardi, la più grande sfida che abbiamo di fronte non è essere capaci di ottenere l’arma chimica. Ma è quella di persuadere nuovi adepti, e Bush è diventato il nostro miglior reclutatore. Al-Qaeda vincerà se Bush sarà rieletto, inshallah» (3). A parte le trovate giornalistiche, secondo l’Inteational Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra la guerra in Iraq ha reso al-Qaeda più forte (4).
Il diritto internazionale è stato fatto a pezzi, travolgendo le Nazioni Unite, istituzione con molti difetti ma l’unica che ricomprenda la totalità delle nazioni del mondo. Lo ha ripetuto davanti ai rappresentanti di 191 nazioni (5) lo stesso Kofi Annan, di solito piuttosto timoroso: «Nessuno nel mondo deve essere al di sopra della legge (…) ogni paese che proclama la legalità in patria deve rispettarla all’estero e ogni paese che insiste che sia rispettata all’estero deve rispettarla in patria (…) a volte perfino la lotta contro il terrorismo viene strumentalizzata per violare, senza che sia strettamente necessario, le libertà civili».
Meno diplomatico di Annan è stato il suo predecessore, l’egiziano Boutros-Ghali: «Anche a Baghdad gli americani si sono dimostrati dei perfetti incompetenti» (6).
Nel corso dell’assise Onu, la guerra al terrorismo è stata letta anche in chiave diversa da quella dominante. Il presidente brasiliano Lula, ad esempio, ha dichiarato: «Se vogliamo eliminare la violenza, è necessario rimuovere le sue cause profonde con la stessa tenacia con cui affrontiamo gli agenti dell’odio. Dalla fame e dalla povertà non nascerà mai la pace».
Il gruppo di lavoro Alleanza contro la fame, creato per iniziativa dello stesso Lula, ha proposto l’istituzione di alcune tasse inteazionali (su vendita armi, transazioni finanziarie, trasporto aereo e marittimo, profitti multinazionali) per finanziare lo sviluppo e ridurre drasticamente la fame. Un’idea molto interessante, che però ha subito trovato l’ostilità di alcuni paesi, tra cui i soliti Stati Uniti (7).

A proposito di Iraq. La seconda guerra del Golfo è iniziata il 20 marzo del 2003. Dell’Iraq ormai non si sa più che dire, se non che il paese è nella più totale anarchia, senza legge né parte, né prospettive per una popolazione che – dopo aver contato 100.000 morti civili (dei quali a Porta a porta poco si parla…) (8) – non sa più da che parte girarsi.
Iyad Allawi, l’uomo che gli Usa hanno posto a capo del cosiddetto «governo provvisorio iracheno», prepara le elezioni di gennaio 2005. Intanto Falluja, la città sunnita ribelle, da mesi è assediata e ripetutamente bombardata dalle forze statunitensi, senza che il primo ministro iracheno spenda una parola in favore della sua popolazione.

A proposito di Afghanistan. La prima guerra preventiva di George W. Bush risale al 7 ottobre del 2001. Dopo le emozioni, tanto telegeniche quanto effimere, del burqa e degli aquiloni, dell’Afghanistan non si è più parlato fino alle elezioni del 9 ottobre. Ha vinto senza fatica (e tra svariate contestazioni degli avversari) Hamid Karzai, l’uomo degli Stati Uniti. Sarà presidente dell’Afghanistan o, come malignamente sostengono in molti, semplice sindaco della capitale Kabul?
«Dire che le elezioni – spiega don Paolo Farinella – sono il segno della giustezza della guerra è come dire che dopo il temporale viene il bel tempo e dopo la notte sorge il sole. Chi ha voluto la guerra, chi vuole la guerra, deve sempre trovare una giustificazione e legge tutti i fatti in quest’ottica: avevo ragione. Se non si fossero svolte elezioni, avrebbero detto che le difficoltà erano più gravi del previsto e quindi bisognava incrementare la guerra per arrivare alla democrazia».
Che l’Afghanistan sia fuori controllo è testimoniato da due fatti. La produzione di oppio è tornata ai livelli ante-guerra (si parla di 3.600 tonnellate annue, in gran parte destinate al mercato europeo). Nel frattempo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha abbandonato il paese dopo l’uccisione di 5 suoi membri (nel giugno 2004).

A proposito di 11 settembre. Ancora una volta qualcuno obietterà: «ma voi dimenticate la tragedia dell’11 settembre 2001!». Rispondiamo prendendo a prestito le parole di don Raffaele Garofalo (9): «Non si può pensare che, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti si siano guadagnata, di fronte al mondo, l’aureola di paese vittima innocente. Come commuove la sorte atroce subita dalle vittime delle Torri gemelle (esse sì innocenti), ugualmente dobbiamo essere sensibili al “terrorismo di stato”, agli spregiudicati interventi nordamericani nella politica di altre nazioni in tutto il mondo».
Racconta Ettore Masina, scrittore cattolico: «Ci sono momenti in cui uno si odia per avere avuto ragione: (…) più di vent’anni fa scrissi che le guerre che i poveri avrebbero, prima o poi, cercato di combattere per uscire dalla loro oppressione sarebbero state “naturalmente” feroci. Non possedendo mass-media per illustrare le sofferenze del proprio popolo né trovando chi se ne faccia portavoce, la disperazione dei miseri non può che portarli a creare eventi tanto terribili da costringere giornali e televisioni a registrarli con clamore; (…) convinti, sino al suicidio, che per i loro figli i paesi dominanti non abbiano pietà, essi stessi non sentono pietà per gli innocenti travolti nelle loro imprese. (…) Chi ha occhi per vedere, con la lucidità che tutti dovremmo conservare, sa che la guerra dei poveri è disumana perché essi sono stati disumanizzati. (…) Considero anch’io il terrorismo una spaventosa minaccia (…) ma so che accanto a me, dalla mia parte (che io lo voglia o no, e quindi con mia inevitabile complicità), c’è chi, da posizioni dominanti, nelle sedi e istituzioni in cui dovrebbe articolarsi una civiltà fratea o almeno attenta a un po’ di giustizia, provoca, alimenta e spesso sfrutta la collera dei poveri: quella collera che quasi cinquant’anni fa già il grande papa Paolo VI sentiva crescere nelle viscere della storia e inutilmente ci additava nella sua enciclica Populorum progressio» (10).
Sulla stessa linea interpretativa un altro prete, don Gianfranco Formenton (11): «Non c’è nessuna differenza, se non nelle parole e nelle proporzioni, tra un terrorismo degli eserciti regolari e un terrorismo fatto di bande armate al servizio di qualche mente malata. Uccidono, inesorabilmente, implacabilmente, gli uni e gli altri. (…) I criminali-terroristi sono tra le grotte delle montagne dell’Afghanistan e tra i palazzi del potere occidentale. Gli uni e gli altri si alimentano a vicenda».

A proposito di anti-americanismo.Qualcuno obietterà: «Criticare la politica di Bush è anti-americanismo ed essere anti-americani significa schierarsi con i nemici dell’Occidente!».
«No – ha detto Boutros-Ghali -, non esiste alcuno scontro di civiltà. Ci sono, piuttosto, conflitti tra ricchi e poveri, tra stati sempre più ricchi e continenti sempre più drammaticamente poveri».
Dopo l’11 settembre, Bush ha potuto introdurre norme che riducono drasticamente le libertà civili dei suoi connazionali, dichiarare guerra all’Afghanistan, rinchiudere i prigionieri nella grande Bastiglia di Guantanamo, voltare le spalle all’Onu ed invadere l’Iraq, concedere appalti e commesse alle industrie di famiglia della sua amministrazione, dissipare l’attivo del bilancio e accumulare un considerevole passivo, predicare la democrazia in una parte del mondo e sostenere i regimi repressivi dei paesi di cui ha bisogno. Affermazioni, tutte queste, non di un presunto «anti-americano», ma di un illustre estimatore degli Stati Uniti (12).
Moises Naim, direttore dello statunitense Foreign Policy, ha scritto: «Come dimostrano i sondaggi, l’anti-americanismo è il più diffuso dei sentimenti condivisi dalle opinioni pubbliche. Perciò all’estero è sempre più difficile per i politici difendere la causa degli Stati Uniti o collaborare con Washington» (13).
Dopo la rielezione di Bush, le reazioni delle cancellerie mondiali sono state caratterizzate da un freddo linguaggio di circostanza; soltanto pochi paesi – tra cui la Russia di Putin e l’Italia di Berlusconi – hanno pubblicamente giornito.
Si dice preoccupato don Aldo Antonelli: «Ritengo Bush estremamente pericoloso, non tanto per quel che è ma per il mondo che gli sta dietro e che lui rappresenta. Bush esce dall’ambiente del protestantesimo evangelico. I suoi biografi ufficiali ci dicono che legge la Bibbia ogni giorno. In effetti il presidente mostra una forte vocazione religiosa. Pensa di essere stato chiamato da Dio alla presidenza; dichiara l’unicità storica degli Stati Uniti, un paese scelto da Dio per redimere il mondo. Egli ha anche definito questa sua fede con un nome: “teologia della libertà”. È qualcosa di molto vago, che lui spiega con la volontà divina di liberare l’intero genere umano da oppressione e schiavitù. In questa visione, le truppe americane sarebbero uno strumento per promuovere la libertà voluta da Dio».

A proposito di media ed informazione. Sono in molti a criticare aspramente le due televisioni satellitari arabe: al-Jazeera (Qatar) e al-Arabya (Dubai). Si obietta: «Propagandano l’odio e lo scontro di civiltà», «Sono contigue ai terroristi». Sicuramente sono vicine al mondo arabo ed islamico di cui sono emanazione, ma i media occidentali sono super partes? Certamente no.
Troppo spesso chi non è d’accordo con l’interpretazione dei media dominanti o è un incapace o, peggio, è un connivente con il terrorismo.
Negli Stati Uniti, le televisioni come Fow News (appartenente a Rupert Mardoch, il magnate dei media mondiali) non sono di certo un esempio di correttezza. D’altra parte, la stragrande maggioranza degli statunitensi vede la tv e sicuramente non legge il New York Times, il quotidiano che la scorsa estate ha fatto pubblicamente una severa autocritica per non aver indagato sulle informazioni (poi rivelatisi false) foite dalla Casa Bianca rispetto all’Iraq e alle armi di distruzione di massa.
In Italia, la situazione dell’informazione è addirittura peggiore, perché, invece di spiegare ed aiutare a capire, sobilla, esagera, incita allo scontro. A settembre, il settimanale Panorama titolava in copertina: «Guerra all’Occidente». Nell’editoriale, il direttore Carlo Rossella scriveva: «La guerra contro l’Occidente, contro di noi, è stata dichiarata. I terroristi la combattono senza porre limiti alla barbarie. Meritano una risposta dura, spietata, unanime. Così li sconfiggeremo» (14).
In questo quadro, va inserito il linciaggio mediatico a cui sono state sottoposte le «due Simone»: Il Gioale, Libero, Il Foglio, La Padania si sono particolarmente distinti in questo gioco al massacro alquanto sospetto. Qualcuno ha addirittura utilizzato la morte di Jessica e Sabrina nell’attentato di Taba per coniare il termine di «anti-Simone» (15).
Quelle stesse Simone che si sono guadagnate la copertina di Time, il noto settimanale statunitense…(16).

A proposito di ambiente ed economia. George W. Bush considera l’ambiente una merce qualsiasi, invece che un unicum, con il risultato di aver contribuito a stravolgere, forse irreversibilmente, gli ecosistemi mondiali. L’affossamento del Protocollo di Kyoto (a novembre firmato anche dalla Russia), già di per sé totalmente insufficiente come strumento di preservazione ambientale, si accompagna al fatto che gli Stati Uniti sono, di gran lunga, il paese più inquinante del mondo (17). La mercificazione dell’ambiente rientra nella ideologia neoliberista, che considera il libero mercato alla stregua di un dogma.
Con sempre meno risorse e meno potere, gli stati sono schiacciati dalle politiche economiche neoliberiste, che privilegiano l’individuo e l’iniziativa privata rispetto alla collettività e al bene pubblico.
«La sfera pubblica – scrive Joel Bakan – è oggi sotto attacco. (…) Negli ultimi due decenni, le corporation hanno sferrato un’offensiva energica per far arretrare i suoi confini. Con le privatizzazioni, gli stati hanno ceduto alle corporation il controllo di istituzioni un tempo considerate “pubbliche” per natura. Nessun ambito è rimasto immune dall’infiltrazione. Le società di distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica, la polizia, i servizi di emergenza e i vigili del fuoco, gli asili nido, l’assistenza e la previdenza sociale, le scuole e le università, la ricerca scientifica, le prigioni, gli aeroporti, il sistema sanitario, il genoma umano, i mezzi di comunicazione, lo spettro elettromagnetico, i parchi pubblici e le strade sono stati tutti sottoposti, o stanno per esserlo, a una privatizzazione totale o parziale. (…) Basare un sistema sociale ed economico su queste caratteristiche è un approccio pericolosamente fondamentalista» (18).
Gli stessi statunitensi hanno visto allargarsi, nel 2003, la forbice sociale: 35,9 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà, mentre 45 milioni non hanno alcuna assicurazione sanitaria (19).
«Il sogno americano – ha scritto l’economista Jeremy Rifkin (20) – è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità».
Secondo don Paolo Farinella, «l’America come popolo bianco (cioè quello che comanda) è immaturo, banale e superficiale… Chiede una cosa sola: non cambiare un tenore di vita che genera livelli di spreco strepitosi. Tutto il resto (il mondo, l’Iraq, ma anche Bush o Kerry) poco importa. Ciò che conta è il loro supposto benessere che, sebbene malato, deve essere mantenuto a spese del mondo (vedi protocollo di Kyoto, che anche Kerry si era impegnato a non firmare). Il welfare in America non c’è e non ci sarà, perché la società ha un fondamento religioso d’interpretazione, basato sul principio teologico vetero-protestante: la ricchezza è segno della benedizione di Dio, la povertà segno dell’abbandono: il ricco può essere compassionevole e fare l’elemosina, ma tu, mondo, grida sottovoce e non pretendere troppo».

A proposito di chiesa. Si chiamano Jackie Hudson, Carol Gilbert e Ardeth Platte e sono suore domenicane che stanno vivendo una condizione particolare (21). Sì, perché le tre religiose sono detenute in 3 carceri statunitensi: Jackie ad Adelanto (per 30 mesi), Carol a Alderson (per 33 mesi), Ardeth a Danbury (per 41 mesi). Sarebbe bello sapere quanti hanno letto o sentito parlare di queste 3 donne. Pochi, crediamo. Ma non necessariamente per colpa loro: è difficile che trasmissioni come Porta a porta, settimanali come Panorama o quotidiani come Il Gioale o Libero parlino di un fatto simile. Troppo dirompente, troppo poco «moderato» e soprattutto troppo foriero di messaggi inadeguati in tempi di guerra permanente. Suor Jackie (di 69 anni), suor Carol (56) e suor Ardeth (67) sono in carcere perché il 6 ottobre 2002 sono entrate nella base missilistica di Greeley (vicino a Denver, nel Colorado) per protestare contro i missili a testata nucleare lì custoditi.
Se non fossero sufficienti Jackie, Carol e Ardeth, ci piacerebbe sentire l’opinione di padre Roy Bourgeois, missionario di Maryknoll, che nelle prigioni Usa ha trascorso più di 4 anni per aver protestato contro la School of the Americas, la scuola degli assassini (22). «L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti – scrive padre Bourgeois – ha reso molto più difficile protestare in questo paese, soprattutto davanti alle basi militari. Il cosiddetto Patriot Act e il Dipartimento per la sicurezza nazionale (Department of Homeland Security), creati dopo la tragedia dell’11 settembre, rendono difficoltoso agli attivisti dei diritti umani l’organizzazione di qualsiasi manifestazione per la pace e la giustizia».

A proposito di futuro. In questo quadro, cosa ci riserveranno i prossimi anni? Se Bush proseguirà sulla strada intrapresa durante il suo primo mandato, probabilmente ci saranno altre guerre preventive (Iran?, Siria?, Sudan?, Corea del Nord?, ma rischiano pesanti interferenze anche Cuba e Venezuela) e una recrudescenza del terrorismo su scala mondiale. Verranno sprecate risorse immense per la corsa ad armamenti sempre più sofisticati, sottraendole ad impieghi utili a rendere il mondo un luogo più vivibile: per ridurre le diseguaglianze, per preservare un ambiente sempre più disastrato.
Insomma, con George W. Bush ancora alla Casa Bianca, è difficile intravvedere un futuro di tranquillità per l’umanità, a meno che, sul palcoscenico della politica mondiale, non si affaccino nuovi attori-protagonisti (l’Europa, purché non divisa, per esempio) in grado di contrastare il monologo statunitense. Nella speranza di essere smentiti dai fatti, al momento abbiamo una sola certezza: passati i prossimi 4 anni, George W. Bush non potrà più essere rieletto.

BOX 1

VITTIME</b< • in Israele-Palestina: palestinesi 3.519
israeliani 960

(dal 28 settembre 2000 al 3 nov. 2004)

• in Iraq:

civili iracheni 14.304-16.439
soldati coalizione 1.301
di cui soldati statunitensi 1.155
soldati iracheni 4.895-6.370
resistenti iracheni (*) 24.000

(dal 19 marzo 2003 al 10 nov. 2004)

Altre ricerche:
100.000 morti civili, secondo uno studio pubblicato il 29 ottobre dalla rivista medica internazionale The Lancet (www.thelancet.com); lo studio è stata effettuato dalla scuola di medicina pubblica della Johns Hopkins University, dalla scuola di infermieristica della Columbia University e dalla Mustansiriya University di Baghdad.

(*) «Iraqi resistance fighters» o «insurgents», secondo la definizione di Foreign Policy e dei maggiori media Usa.

Fonti:
• Foreign Policy in Focus,
Washington (Usa)
• www.iraqbodycount.net
• http//icasualties.org/oif
• Afp / Internazionale

NOTE

(1) Secondo un’inchiesta internazionale della GlobeScan e dell’Università del Maryland, in un’ipotetica votazione in 35 paesi di tutti i continenti George W. Bush vincerebbe soltanto in 3 stati (Polonia, Nigeria e Filippine). Risultati similari sono stati raggiunti dai sondaggi del Pew Research Centre e del quotidiano inglese The Guardian (15 ottobre).
(2) Testuale: «The best recruiting sergeant ever for al-Qaida». Si veda Corriere della sera del 20 settembre e The Guardian del 21 settembre.
(3) Si veda l’articolo di Nicholas Kristof sul New York Times del 9 ottobre 2004: «Dreaming in Kabul».
(4) A questa conclusione giunge «Military balance 2004-2005», l’annuale rapporto dell’Iiss. Su al-Qaeda: Jason Burke, Al-Qaeda la vera storia, Feltrinelli 2004.
(5) Discorso d’apertura della 59.a sessione, 21 settembre 2004. Kofi Annan aveva già parlato di «guerra illegale» in un’intervista concessa all’inglese BBC il 16 settembre.
(6) Intervista realizzata da Marc Innaro (Rai), 3 ottobre 2004.
(7) Sul quindicinale Adista del 2 ottobre 2004.
(8) La cifra è quella pubblicata da The Lancet (vedere il box con tutte le statistiche). Essa è nettamente più alta di quella foita e continuamente aggiornata sul sito: www.iraqbodycount.net.
(9) Da «Terrorismo e politica del terrore» su Adista del 18 settembre 2004.
(10) Ettore Masina, «Lettera 100», settembre 2004.
(11) Su Adista del 25 settembre 2004.
(12) L’ex ambasciatore Sergio Romano sul Corriere del 3 novembre 2004.
(13) Moises Naim sul settimanale L’Espresso del 30 settembre 2004.
(14) Panorama del 16 settembre 2004.
(15) Pierluigi Battista su La Stampa del 12 ottobre 2004. Altra stranezza: il Corriere del 22 ottobre si è scandalizzato – con un corsivo in prima pagina – del linguaggio utilizzato da un magistrato di Bari, che ha definito gli ex ostaggi Cupertino, Stefio, Agliana e Quattrocchi dei «mercenari», ma non ha usato parole altrettanto severe per chi ha insultato le 2 Simone.
(16) Time, 11 ottobre 2004.
(17) Sulle disastrose politiche ambientali di Bush, si veda Robert F. Kennedy jr., «Crimes against nature» (Crimini contro la natura), Harper Collins, 2004.
(18) Joel Bakan, «The corporation: la patologica ricerca del profitto e del potere», Fandango 2004. Bakan è professore di diritto costituzionale all’Università British Columbia di Vancouver.
(19) Dati del Census Bureau, l’Istat statunitense: nel 2003, 35,9 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà, 1,3 milioni in più rispetto al 2002. In rapporto alla popolazione totale, significa che 1 cittadino su 8 della nazione più ricca del mondo è povero. Sempre nel 2003, il numero delle persone senza copertura sanitaria è salito a 45 milioni, 1,4 in più rispetto al 2002: il 15,6% della popolazione Usa.
(20) Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori 2004. Sugli stessi temi anche il libro dell’inglese Will Hutton, Europa vs Usa, Fazi 2004. Mentre sono opposte le tesi espresse da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Mondadori 2004. Dello stesso autore, Paradiso e potere, considerato una sorta di manifesto del neoconservatorismo statunitense.
(21) Informazioni sulle tre suore incarcerate su www.domlife.org (il sito delle suore domenicane degli Usa) e su www.jonahhouse.org (sito Usa di solidarietà). Vi si trovano anche gli indirizzi a cui spedire eventuali lettere.
(22) La School of the Americas oggi si chiama «Weste Hemisphere Institute for Security Cooperation» (Whinsec) ed ha sede a Fort Benning, in Georgia. Per conoscere la storia di Roy Bourgeois, si legga il libro di Mike Wilson, Padre Roy contro il Pentagono. Il prete anti-terrorismo (americano), Edizioni San Paolo, 2004.

Paolo Moiola




BOLIVIA – incontro con il presidente Carlos Mesa: «Se i popoli tornano proprietari»

INCONTRO CON IL PRESIDENTE CARLOS MESA

A chi appartengono le risorse naturali? In Argentina, hanno venduto tutto
ai tempi di Menem. In Venezuela, se lo stato non fosse il padrone delle risorse petrolifere, non si sa cosa sarebbe successo. In Bolivia, le rivolte popolari hanno mandato a casa un presidente che voleva svendere le ricchezze del paese, calpestando i diritti dei legittimi proprietari. Il sostituto, Carlos Mesa Gisbert, sta cercando di arginare l’arroganza e la voracità delle multinazionali petrolifere. Ma non è facile. Lo abbiamo incontrato a La Paz, capitale del paese latinoamericano.

LA PAZ – Nell’accogliente Plaza Pedro Domingo Murillo si trova tutto: la cattedrale metropolitana, il Congresso, il palazzo presidenziale. L’appuntamento è in quest’ultimo, per mezzogiorno. Alto ed elegante, il presidente boliviano Carlos Mesa ci accoglie nel suo studio con puntualità svizzera.
Pare una persona gentile e disponibile, forse memore di essere stato un giornalista televisivo e quindi abituato ai rituali delle interviste (1).

Presidente Mesa, dal 18 ottobre 2003 lei è alla guida della Bolivia. Perché ha accettato? Non ha timore di rimanere travolto dai tanti problemi di questo paese?
«Ho accettato perché mi ritengo una persona che ha preso un reale impegno verso il paese. Sono consapevole che essere presidente della Bolivia è un compito gravoso, perché si è continuamente sottoposti a pressioni enormi, ricatti, minacce. E poi ci sono una serie di domande che si sono storicamente accumulate e rispondere a queste è realmente molto difficile. Allora – lei mi chiede – perché ho accettato la candidatura alla presidenza? Perché ho pensato che, dopo il governo di Sánchez De Lozada, potevo contribuire a ridare prestigio a questa carica, aiutato dal fatto che io non ho mai fatto politica».

Lei non ha mai fatto politica… Infatti, non ha un partito politico alle spalle, né una chiara maggioranza parlamentare che lo sostenga…
«Questo è un dato di fatto. D’altra parte, il paese ha assistito alla crisi dei partiti politici, soprattutto per quanto riguarda la loro credibilità. Quindi, era impossibile affidarsi ad essi, in particolare nella prima fase. Certamente, sul lungo periodo un governo senza partiti non riesce ad avere un orizzonte davanti a sé. L’importante è analizzare con chiarezza le cose».

In Italia si è parlato molto della Bolivia nei mesi passati a causa del problema del gas. Potrebbe spiegarci, in poche parole, i termini della questione?
«La Bolivia è un produttore molto importante di gas. La capitalizzazione (2), iniziata nel 1994, ha permesso di aumentare enormemente la quantità prodotta. C’è quindi un grande orizzonte economico di esportazione e trasformazione del gas. Quali sono i problemi? Primo una difficoltà storica iniziale, dovuta alla rivendicazione della Bolivia di avere un proprio accesso al mare. Al momento l’esportazione avviene attraverso un porto cileno senza sovranità e questa è una questione che metterò in agenda. In secondo luogo, la maggioranza del popolo boliviano non vorrebbe vendere il gas al Cile, finché questo paese non darà una risposta favorevole alla questione di un nostro sbocco al mare. Questo fatto crea problemi per l’esportazione di gas verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Più facile è esportare gas in Argentina e in Brasile, al quale già lo vendiamo.
Oltre a parlare di esportazioni, dobbiamo iniziare a beneficiare direttamente del nostro gas, utilizzandolo come fonte energetica domestica e sostituendo le macchine a benzina con macchine a gas. Tutto ciò significa incentivare una trasformazione e industrializzazione del gas in loco».

Concretamente, cosa sta facendo il suo governo?
«Stiamo studiando una nuova legge degli idrocarburi che aumenti le imposte delle imprese transnazionali in modo che la Bolivia possa beneficiare di maggiori entrate. Ripeto: è necessaria una nuova politica energetica globale per il nostro paese. Questo significa che vogliamo esportare il gas, ma anche industrializzarlo e darlo ai boliviani come fonte energetica».

Si può frenare l’invadenza e l’arroganza delle imprese petrolifere? Non è facile credo, no?
«Non è facile, perché le industrie petrolifere hanno firmato dei contratti quando vigeva la legge che noi ci stiamo apprestando a cambiare e ora pretendono che noi rispettiamo quegli impegni».

Quali sono i fondamenti sui quali volete costruire la nuova legge per gli idrocarburi?
«Quello che noi vorremmo è un sistema di imposte più giusto. Questo passa anche attraverso la sicurezza e la stabilità politica della Bolivia. Se non riusciamo a raggiungere un equilibrio, non sarà facile dimostrare alle imprese transnazionali che i contratti precedenti non erano giusti né per i boliviani, né per loro.
Stiamo presentando le nostre proposte di modifica sia alle compagnie petrolifere che al parlamento. Lavoriamo su una proposta di legge, che vuole combinare una garanzia di sicurezza per chi investe (le imprese) e un ritorno economico per il nostro paese. È una contrattazione aperta».

Le province dove si estrae il gas vogliono contare di più. Esiste un pericolo separatista in Bolivia o sono invenzioni?
«Non credo che siano tutte fantasie, ma non credo neppure che esista un vero progetto separatista. Credo invece che ci sia una forte domanda di autonomia di quei dipartimenti in modo che possano amministrare le proprie risorse, gestire le proprie politiche senza con questo rompere con lo stato boliviano. Insomma, la logica non è separatista, ma c’è un’esigenza molto forte di autonomia».

Lei non nega il problema dell’accesso al mare e la storica controversia con il Cile. È possibile risolvere questo problema? Esiste una soluzione concretamente fattibile?
«Certo che esiste una soluzione! Ed è anche molto più semplice di quello che si vuole far credere. Prima però si deve far capire al mondo che il problema esiste ed è reale. La Bolivia ha posto questo problema a livello internazionale, poiché il Cile sostiene che la questione non esiste e non ci sono rivendicazioni pendenti. Invece è un dato di fatto storico che ci siano rivendicazioni pendenti e che esista un problema di sovranità. Esiste d’altra parte la nostra volontà di arrivare a un negoziato con il Cile ed anche con il Perù, perché la Bolivia crede che debba aver un accesso libero, diretto e sovrano all’Oceano Pacifico.
D’altra parte, noi non stiamo chiedendo di avere indietro tutti i 400 Km di costa che abbiamo perso nel 1879. Semplicemente vogliamo avere un porto dal quale poter esportare i nostri idrocarburi, qualora ce ne fosse bisogno. Il tema, pertanto, si riduce ad una piccola porzione del territorio cileno. Tra l’altro, in base agli accordi del 1955, su questo tema anche il Perù ha qualcosa da dire. In conclusione, la Bolivia è disposta a dialogare e ritiene anzi che la sua pretesa attuale sia molto più modesta di quella che invece fu la reale perdita storica».

Lei gode di un buon appoggio popolare. Ora però deve affrontare una situazione economica grave, con un deficit pubblico che è quasi al 9%. Come si può risolvere questo problema senza colpire nuovamente i più poveri?
«Noi abbiamo proposto una redistribuzione della tassazione il cui obiettivo è proprio quello di non toccare i più poveri e colpire invece il settore delle transazioni finanziarie, delle banche e degli istituti di credito. In Bolivia, l’accesso alla finanza è ristretto alla classe media e a quella alta. La gente povera non ha accesso al sistema finanziario e quindi non può venire colpita in nessun modo da queste misure.
Insomma, tutte le nostre misure economiche evidenziano una forte attenzione nei confronti della popolazione più povera. Quanto al nostro deficit, contiamo anche sull’appoggio internazionale per riuscire a colmarlo».

Continuiamo a parlare di povertà, presidente Mesa. La Bolivia è un paese potenzialmente ricco, ma nelle classifiche inteazionali è immediatamente dopo Haiti nell’elenco dei paesi più poveri. Esiste una soluzione a breve?
«Una precisazione: quando si usano le statistiche, è meglio avere dati aggioati. I suoi sono un po’ vecchi, dottor Moiola. Adesso siamo davanti al Nicaragua, all’Honduras e alla pari con il Guatemala: non che questo sia un motivo di vanto, ma è giusto essere precisi.
Dunque, come implementare una politica di lotta alla povertà? Innanzitutto con il dialogo nazionale a partire dalla base, dal livello dei municipi, sviluppando il dialogo sociale. Perché la soluzione non venga solamente dal governo, ma sia il frutto della proposta di un’intera società. Il tema che è strettamente legato a questo è quello di riuscire a ridurre il peso del deficit dovuto al debito estero».

Può darci un esempio di lotta concreta alla povertà?
«Per esempio, stiamo lavorando all’implementazione del “Servizio unico materno-infantile” (Sumi), con il quale si vuole garantire alla madre e ai bambini un’assistenza minima per i primi 5 anni di vita. Stiamo lavorando a strategie di lotta alla povertà nelle aree rurali, che è il punto veramente critico. Oltre ai nostri investimenti abbiamo l’aiuto della cooperazione internazionale, che è molto importante ed apprezzabile, ma che, d’altra parte, genera una certa dipendenza. Per questo cerchiamo di orientare i loro investimenti sull’obiettivo di fomentare la produzione, perché crediamo che l’aumento della produttività possa essere una soluzione al problema».

Da anni, in tutto il mondo, si assiste ad un processo di privatizzazione portato avanti secondo i rigidi dettami del neoliberismo. Anche la Bolivia ha seguito questa strada per molti settori produttivi. Com’è andata, presidente Mesa?
«Innanzitutto bisogna precisare che la Bolivia non ha lavorato nelle privatizzazioni sulla stessa linea del Perù o dell’Argentina. Il nostro è stato piuttosto un processo di “capitalizzazione”.
In secondo luogo, il lavoro è stato fatto su 5 grandi imprese nazionali (petrolio, energia elettrica, telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo) con esiti molto diversi. Nel settore aereo, è stato un disastro e siamo arrivati sull’orlo del fallimento. Nel settore delle ferrovie, il risultato è stato buono dal punto di vista economico, soprattutto per la ferrovia dell’oriente, mentre è stato negativo sotto l’aspetto dell’offerta, in quanto alcune linee sono state chiuse e quindi la gente è stata privata del servizio di trasporto, come accaduto per la ferrovia di Potosì. Bisogna quindi ricalibrare un po’ le priorità, perché in questo settore non c’è solo un aspetto economico da considerare, ma anche un aspetto sociale. Infine, nel settore delle telecomunicazioni, la capitalizzazione è stata addirittura spettacolare: la Bolivia è cresciuta in modo impressionante in questo settore. Basti un dato: avevamo circa 300.000 linee telefoniche, adesso ne abbiamo 1,7 milioni».

Il partner di Entel, la compagnia boliviana, è Telecom Italia, giusto?
«Sì, proprio Telecom Italia. È stato realmente un risultato straordinario, considerando che si è arrivati alla copertura telefonica anche di piccoli paesi dell’area rurale. All’inizio c’è stata una salita dei prezzi, ma adesso stanno scendendo e si sta aprendo anche alla concorrenza. Per quello che riguarda l’elettricità ci sono state luci ed ombre: ci sono imprese che hanno funzionato bene, altre meno. Nel caso degli idrocarburi, l’aspetto positivo è stato di moltiplicare per 10 la quantità di petrolio estratto, ma in quanto alle entrate per lo stato la capitalizzazione non ha reso per niente. Stiamo investigando per capire cosa non abbia funzionato».

Se ho ben capito, la strada della «capitalizzazione», scelta dalla Bolivia, è uno strumento neoliberista che, al contrario delle privatizzazioni, ha funzionato. È così?
«In generale, direi che ha funzionato. Anche se, a voler essere precisi, non possiamo definirlo uno strumento neoliberalista in senso stretto. Un altro aspetto positivo è il capitale che lo stato ha incassato. Con esso abbiamo potuto costituire un fondo di assistenza per tutte le persone maggiori di 65 anni, che in base ad esso hanno diritto ad una rendita annuale» (3).

A parte la capitalizzazione, lei che cosa ne pensa della filosofia neoliberista?
«Il neoliberismo nel suo concetto ortodosso ha fallito. Questo lo si può vedere in tutta l’America Latina e la Bolivia ne è un esempio ulteriore. Siamo nel 2004 e sono 18 anni che stiamo chiedendo sacrifici ai boliviani: la gente non crede più a questo modello economico. Si tratta allora di reinserire lo stato nel ruolo di gestore dell’economia. Non solo nel senso di favorire una maggiore produttività, ma anche per lottare contro la povertà e sviluppare l’educazione».

Presidente, ci dica qualcosa sulle relazioni inteazionali della Bolivia, in particolare con gli Stati Uniti e con l’Europa.
«La relazione con gli Stati Uniti è molto importante per la Bolivia, come del resto per tutti i paesi latinoamericani dal momento che siamo nella loro area di influenza. Per gli Stati Uniti è fondamentale il tema dello sradicamento delle piantagioni di coca. Questo è un tema certamente importante, ma per noi è una problematica che ha costi economici e sociali molto elevati, perché sono molte le famiglie boliviane la cui sopravvivenza quotidiana è legata alla produzione della coca (4). Gli Stati Uniti ci appoggiano nell’aspetto economico, creando un forte legame di dipendenza, ma la problematica della coca è molto più complessa.
Per quanto riguarda l’Unione europea e l’Europa in generale dobbiamo invece approfondire i nostri legami e riuscire ad instaurare relazioni più stabili, anche per riequilibrare le nostre relazioni inteazionali».

Toiamo alla politica intea, presidente. Come sono i suoi rapporti con il gruppo di Evo Morales (Mas) e Felipe Quispe (Mip)?
«Sono due relazioni assolutamente distinte dal punto di vista politico. Felipe Quispe è una persona che rappresenta un gruppo di persone molto preciso ed identificabile che proviene dall’area dell’altopiano, ha posizioni molto radicali e poco flessibili. Credo che il massimalismo sia la sua logica e, pertanto, non vedo come si possa negoziare con lui in un contesto democratico.
Evo Morales è una persona diversa. Ha una prospettiva elettorale molto ampia, vuole arrivare al governo e per questo si è inserito all’interno di un dibattito democratico. Negli ultimi mesi, ha contribuito alla gestione del governo, con un atteggiamento razionale e ragionevole. Ultimamente, in verità, mi sembra stia prendendo posizioni molto critiche rispetto alla nuova legge sugli idrocarburi. È cioè molto vicino a posizioni simili alla nazionalizzazione, creando una serie di problemi nelle relazioni inteazionali, con la cooperazione, con la stessa industria petrolifera con cui ci sono contratti firmati. In tutto questo Morales ha però mantenuto una posizione legittima, all’interno di un dibattito democratico».

Lei sembra una persona ottimista. Significa che pensa di arrivare alla fine del suo mandato presidenziale, prevista per il 6 agosto del 2007?
«Questo è quello che mi propongo. Si deve vedere, se il popolo boliviano continuerà ad appoggiare un governo che ha cercato di gestire le cose in maniera trasparente. Sicuramente affronteremo momenti difficili e la tensione sociale potrebbe aumentare un po’. Credo che il popolo però capisca che non si può chiedere tutto a un governo nato da una crisi così grave».

BOX 1

MA ALLA FINE CHI HA VINTO?

Le multinazionali petrolifere? Il governo Mesa? I boliviani?
Il risultato è incerto e la partita non è finita.

Nel referendum del 18 luglio, le 5 domande erano ambigue ed alcune di esse troppo lunghe. Comunque, circa il 60 per cento degli aventi diritto (2,7 milioni di boliviani su 4,5) è andato ad esprimere la propria preferenza e la maggioranza di essi ha optato per i «sì».
Dopo la consultazione popolare, si è iniziato a discutere il progetto di nuova legge per gli idrocarburi, progetto presentato dal governo del presidente Mesa. Ma trovare un accordo sarà un’impresa, perché sono troppe le volontà contrapposte.
Ci sono, in primo luogo, le 20 imprese petrolifere presenti nel paese. Attualmente, in Bolivia il costo di produzione è uno dei più bassi tra quelli sostenuti dalle 200 maggiori imprese petrolifere che operano in diverse regioni del mondo. Questo vantaggio si traduce in profitti enormi per le compagnie. Le quali, di conseguenza, non sembrano intenzionate a ridiscutere i contratti (un’ottantina) che hanno sottoscritto prima del referendum, ovvero in base alla legge n. 1689 del 1996. In altri termini, qualsiasi cambiamento dello status quo sarà osteggiato dalle petroleras, come le chiamano i boliviani.
Ci sono poi le diverse posizioni degli 8 partiti rappresentati nel Congresso boliviano. Intanto, il referendum ha diviso il paese, soprattutto a sinistra, considerando che la principale organizzazione sindacale (la Central obrera boliviana, Cob) e il Movimiento indigena pachakuti di Felipe Quispe hanno sostenuto il boicottaggio del referendum. Infine, ci sono le pressioni degli organismi inteazionali, con in prima fila il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Allora la domanda è questa: è cambiato (o potrà cambiare) qualcosa con il referendum del 18 luglio? Lo abbiamo chiesto a due esperti, entrambi molto stimati, ma con posizioni opposte sull’argomento. Secondo Francesco Zaratti, italiano da 31 anni in Bolivia, professore universitario ed ascoltato delegato presidenziale, «il referendum è stato positivo dal punto di vista della democrazia e della stabilità del governo, ma un po’ sterile per quanto riguarda i risultati tecnici e politici».
Molto critico è, invece, Osvaldo Calle Quiñonez, giornalista, specialista in tematiche economiche: «Il referendum del 18 luglio è stato uno dei peggiori processi di consultazione popolare mai organizzati. Tutti i 5 quesiti erano formulati in modo tale che era impossibile rispondere “no”. Ciò è stato possibile perché l’elaborazione delle domande è stata fatta da una équipe che si è basata sulle inchieste commissionate e pagate dalle petroleras, con la Total in testa. Per questo io sostengo che le imprese petrolifere sono il vero vincitore del referendum. Il presidente Mesa è stato il loro strumento ed Evo Morales, pur con qualche reticenza, si è adeguato». Osvaldo Calle ha anche denunciato la pratica delle imprese petrolifere di «comprare la benevolenza» degli esperti governativi (attraverso contratti di consulenza) e dei mezzi di informazione boliviani (attraverso la pubblicità).
Quale sarà l’immediato futuro per la Bolivia? Il professor Zaratti ha in testa un cammino preciso: «Dopo aver varato la nuova legge sugli idrocarburi, eleggeremo un’assemblea costituente che avrà il compito di riformare lo stato. Nel frattempo, con l’aiuto del gas, speriamo di stabilizzare l’economia e di modeizzare lo stato». Intanto, lo scorso 29 settembre il ministro degli esteri del Cile ha destituito il console generale a La Paz, Emilio Ruiz-Tagle, colpevole di essersi espresso a favore della richiesta boliviana di uno sbocco al mare in territorio cileno. Meglio vanno i rapporti con Buenos Aires: il 14 ottobre i presidenti dei due paesi si sono incontrati a Sucre per sottoscrivere un forte incremento delle esportazioni del gas boliviano verso l’Argentina.

Per ora la Bolivia presenta queste cifre: secondo posto, in America Latina (dietro il Venezuela), in fatto di riserve di gas, ma il 70 per cento dei suoi 8,2 milioni di abitanti continua a vivere in povertà o nell’indigenza. Come conferma anche l’ultima classifica Onu sull’indice di sviluppo umano, che colloca il paese latinoamericano al 114.mo posto (su 177 paesi considerati). Il 23 settembre, durante l’assemblea dell’Onu, il presidente Mesa non ha esitato a criticare l’ortodossia neoliberista e a parlare della necessità di combinare le forze del libero mercato con quelle dello stato regolatore. Speriamo sia di parola.


Pa.Mo.

Paolo Moiola




BATTITORE LIBEROEpulone e Lazzaro made in China

Ultima domenica di settembre, liturgicamente la 26a del tempo ordinario. Ritoo dalla messa e accendo il televisore: le prime immagini che appaiono sullo schermo parlano del gran premio di Formula 1, il primo disputato in territorio cinese.
Sarà perché in chiesa ho ascoltato la storia di Lazzaro e del ricco epulone, ma rimango molto colpita, quando una piccola e timida cinese di nome Tan Wen Ling, ospite di Rai1, poco prima del «via», riesce a dire che il suo è un paese dove un lavoratore, in media, porta a casa 1.000 (mille) dollari all’anno (circa 820 euro).
Altre fonti assicurano che nella Cina rurale le cose vanno anche peggio: un numero incalcolabile di cinesi abbandonano le campagne per trovare nelle città qualcosa che assomigli a quei mille dollari l’anno.
Penso che, se vogliamo essere missionari e dare qualsivoglia contributo all’evangelizzazione del paese con il maggior numero di non credenti in Cristo, non possiamo continuare a comportarci come se queste realtà non esistessero. Non c’è solo la Cina degli epuloni, capaci di spendere 300 milioni di euro per un circuito come quello di Shangai-Jiading, ma anche quelle centinaia di milioni di poveri Lazzaro, dove un solo vestito deve bastare per 8 persone, per cui, come ha scritto Renata Pisu, «esce di casa uno alla volta, mentre le altre se ne stanno rannicchiate sotto una coperta».
Alla Cina delle grandi metropoli, come Pechino e Shangai, dove si gira in Ferrari e il prezzo medio di un appartamento è di 800 mila dollari, alla Cina dei grattacieli e del +9% annuo di Pil, dei laghi artificiali più grandi del mondo… il cristiano veramente convertito, e desideroso di convertire chi cristiano non è, dovrebbe anteporre la Cina di tutti quei contadini poveri, per i quali anche la bicicletta è un lusso, la Cina dei lebbrosi, dei malati di Aids, di chi muore di fame e di sete, di chi quotidianamente è obbligato a fare decine di chilometri a piedi per raggiungere il rivoletto o lo stagno «giusto», perché l’acqua che scorre nei pressi della sua abitazione è talmente contaminata da non essere adatta nemmeno all’uso agricolo e industriale.

È fondamentale che i missionari siano aperti all’ecologia (come padre Benedetto Bellesi, autore del pregevole editoriale: «Conversione ecologica», in M.C. 9/04) e reagiscano con la massima decisione, ogni volta che si accorgono che della Cina si parla solo in riferimento al suo tasso di crescita economica e competitività, al suo acciaio, carbone e petrolio, potenza nucleare, calzaturifici, piantagioni di pomodori, tè e caucciù, alla sua edilizia e casinò…, senza neppure una parola per la questione ambientale.
Alziamo pure la voce, come hanno fatto recentemente alcuni vescovi e sacerdoti, contro i De Longhi, Zoppas, Zanussi e altri delocalizzatori «eccellenti»; ma alziamola anche contro la «strategia diabolica del governo e degli industriali» (parole del vescovo di Pisa, mons. Plotti, La Repubblica 11/12/02). E quando lo facciamo, non pensiamo solo ai nostri connazionali che rimarranno disoccupati, ma anche ai cinesi, che trarranno benefici solo illusori da tali delocalizzazioni e altre strategie neoliberiste, così care ai vip della politica e della finanza.
Se vogliono restare nel solco tracciato da Cristo e rinverdire la gloriosa tradizione di Matteo Ricci, Francesco Saverio, Armand David e dei membri di innumerevoli istituti missionari, annuncino a tutta la cristianità che oggi, per «farsi Cina», occorre edificare ben altri grattacieli, attingere a ben altre miniere, scegliere dei mezzi di locomozione ben diversi dalle Ferrari, Maserati, Lamborghini, Toyota, Mercedes, Bmw…
A proposito di padre Armand David, autore di tanti studi e ricerche di fondamentale importanza per la zoologia, botanica e storia naturale, fu lui a scoprire il panda gigante, simbolo dell’impegno conservazionista; fu lui a salvare dall’estinzione una rara specie di cervo che ancora oggi porta il suo nome e il bellissimo «albero dei fazzoletti», ribattezzato Davidia involucrata.
Insegnino che nessun palazzo, torre o coppia di torri potrà mai competere, non solo in bellezza, ma anche in utilità, con il piccolo Bog-do-ula, di cui Teilhard de Chardin disse che «spunta all’orizzonte come un fiore dal calice».
Insegnino ai cristiani, che si credono sapienti solo perché hanno molte proprietà e molti soldi, che la miniera di saggezza custodita dai piccoli popoli delle ultime foreste cinesi è infinitamente più preziosa e redditizia di tutte le miniere di carbone, ferro, titanio, oro, uranio, coltan. Insegnino che la competizione economica è foriera di sventure; che il vero sviluppo nasce solo da un atteggiamento di non-competizione: quello che parte dalla convinzione che Dio non ha creato concorrenti, ma fratelli e sorelle.
Nel sud della Cina, hanno riferito alcuni giornalisti del Tg2, c’è un fiume che ancora si chiama «Fiume delle perle», ma le perle non ci sono più, perché non ci sono più molluschi, né acque pulite, né vita. Insegnino i missionari che senza i panda, le tigri, gli elefanti di Xishuangbanna, i delfini lipote dello Yang-tze-kiang, le salamandre giganti, i pesci spatola e senza ambienti naturali in grado di sostenere queste e molte altre creature, ormai vicine all’estinzione, la Cina e la terra tutta saranno non solo più brutte, ma anche più povere, più fragili, più vulnerabili e sempre meno in grado di garantire all’umanità acqua, cibo e risorse energetiche.
Chiara Barbadoro

Chiara Barbadoro




BATTITORE LIBEROCare le due Simone…

O ra che siete tornate sane e salve e tacciono le fanfare strumentali che volevano ricatturarvi, vorremmo dirvi due piccole parole, una per ogni Simona. Non vogliamo né possiamo (e come potremmo?) accodarci agli ignobili tentativi di quanti hanno cercato di rifarvi prigioniere, per usarvi come tromboni processionali nella marcia trionfale del governo libertador. Voi avete spiazzato tutti, siete rimaste voi stesse e avete detto che è vostro desiderio ritornare in Iraq, in mezzo al popolo iracheno.
Avete avuto l’obbrobrio di chiedere che finisca la guerra e di affermare che siete contro il terrorismo, ma non contro coloro che resistono all’invasione del loro paese. Avete ringraziato anche il popolo iracheno e ricordato i morti e le sofferenze che vi sono da quelle parti, non esposte in tv, perché fastidiose alla pudica vista degli occidentali.
Nella visita al papa, lo avete ringraziato, emozionate e commosse di essere stato vicino a voi e «al popolo iracheno», dimostrando così che avete preso per sempre e senza possibilità di cura, il «mal d’Iraq», come Annalena Tonelli e tante altre come lei hanno preso «il mal d’Africa».
Nonostante la prigionia, nonostante siate state riscattate come antiche schiave, nonostante il vostro paese sia in guerra proprio contro quelli che vi hanno rapito, voi continuate a essere estranee a una logica di guerra e non vi siete convertite alla rovescia: dalla pace alla guerra d’aggressione o almeno, come ci si aspettava, alla guerra di vendetta. Al contrario, siete andate dietro alla vostra anima, alla vostra vita, stando ferme e fisse sulla stella polare della pace con coerenza e verità, come Virgilio chiede a Dante di non lasciarsi distrarre dai «pispigli della gente» che oggi osanna e immediatamente dopo crocifigge:
«Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti» (Purg. V,12-15).

L o stuolo dei cortigiani governativi, senza conoscere nulla di voi, vi avevano modellato già a immagine e somiglianza dell’interesse del governo, che voleva «vendervi» come merce di pregio, nonostante voi foste contro la guerra (come potevate essere a favore?). Non lo avete consentito e quindi siete state degradate sul campo a ingrate e complici dei terroristi. Non fateci caso. Notoriamente i palazzi del potere non tollerano due ragazze che possano vivere senza vendersi ad alcuno, con una coscienza autonoma, come voi avete dimostrato.
Care le 2 Simone, avete deluso le aspettative degli eunuchi di regime. Pazienza! Quando tutti erano andati via, eravate contro la guerra e siete rimaste dentro la guerra con la gente, siete state rapite, avete coinvolto il mondo intero in una trepidazione globalizzata, avete fatto il miracolo di unire destra e sinistra in Italia, siete state riscattate, avete portato il premier a parlare al Parlamento, dopo tre anni di assenza ingiustificata e snobbante… insomma, non pretendete anche che Libero, Il Gioale, La Padania e altri rimasugli dell’inciviltà italiota vi acclamino come eroine! Poffarbacco! Voi sapete bene che solo la guerra genera eroi e liturgie eroiche per gli inutili morti in guerra! Simona Pari e Simona Torretta, voi siete colpevoli di essere rimaste in vita, di essere state trattate «con rispetto», di essere tornate come eravate prima di essere rapite. La condanna è senza appello.
Noi siamo felici di questa condanna e vorremmo condividerla con voi, perché siamo lieti che voi siate così e vi preghiamo di restare come siete: semplicemente voi stesse, amanti di quel popolo sventurato che con generoso cuore avete servito e ancora servirete.

Se possiamo darvi un consiglio piccolo, piccolo, è questo: per favore, non cadete nel tranello della notorietà, delle interviste, delle riviste, delle memorie… sarebbe la vostra vera fine e deludereste i piccoli e i semplici che in voi hanno vissuto un’avventura d’amore, senza se e senza ma. Toate, come già state facendo esemplarmente, al silenzio di quell’amore che vive e parla solo nel servizio. Toate ad essere le due ragazze che amano la vita senza sconti per nessuno, in Italia come, presto, in Iraq.
Paolo Farinella

Paolo Farinella




IRAQIl braccio religioso dell’impero americano

Aggressivi nelle parole e nei fatti, convinti di essere gli unici depositari della verità, ricchi di sovvenzioni e di lobbies potentissime all’interno del congresso Usa, gli evangelici americani sono arrivati in Iraq al seguito dei marines per tentare l’assalto all’islam. In realtà
potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza della comunità cristiana, già provata dagli attentati.

John Llano viene da Houston (Texas) e nella primavera del 2004 era il cappellano militare del V Corpo d’Armata americano nella base di Camp Bushmaster, vicino a Najaf, nonché incaricato della gestione di una riserva d’acqua di quasi 2000 litri che pensò bene di far fruttare se non in termini di soldi in termini di anime.
Il baratto era semplice: il soldato di ritorno da un tuo avrebbe potuto trovare sollievo alla propria fatica e togliersi di dosso la finissima polvere del deserto iracheno con l’acqua del cappellano, ma in cambio avrebbe dovuto accettare di essere battezzato. Al cappellano John non interessava sapere quanti di quei neo battezzati fossero mossi da soli motivi igienici, per lui, in ogni caso, il sistema era giusto perché, con machiavellico convincimento, affermava la necessità di essere aggressivi per avvicinare la gente a Dio.
Le parole di Llano, che si definisce un evangelista battista del sud, a prima vista possono sembrare frutto di spregiudicatezza di carattere e di disinvoltura nel trattare un argomento delicato come l’eventuale conversione, ma in realtà sono spie di un atteggiamento generalizzato e fatto proprio dalle diverse confessioni evangeliche americane che sono arrivate in Iraq al seguito dei marines, e che va ben oltre l’eventuale avvicinamento a Dio dei soldati statunitensi (1).

IL MONDO PERDUTO
Lo scopo ufficiale di queste organizzazioni (tra le quali spicca per attivismo la Inteational Mission Board, legata alla chiesa battista del sud) è quello di dare un conforto materiale agli iracheni; quello ufficioso, però, parrebbe essere diverso: la conversione dei musulmani d’Iraq.
Per capirlo basta esaminare accuratamente i siti internet di queste organizzazioni e scoprire, ad esempio, come i fedeli islamici siano considerati parte del cosiddetto «mondo perduto» (2), quel mondo che a causa della sua fede deve essere aiutato ad avvicinarsi a Dio, al vero Dio.
Quel mondo che per avverse condizioni storico-geografiche non ha ancora beneficiato della Sua parola, e che sta «al di là del muro» o, più precisamente, nella zona chiamata «fascia resistente» o anche «finestra 10/40», alludendo a quell’area del globo che si estende dal 10° al 40° di latitudine a nord dell’equatore e che include la maggior parte dei musulmani, per non parlare degli induisti e dei buddisti, anch’essi da annoverare tra i popoli perduti.
Che lo scopo delle organizzazioni evangeliche americane sia quello di convertire le popolazioni non cristiane, nel caso specifico i musulmani, non è storia nuova, anche se gli ultimi decenni hanno visto crescere notevolmente questo sforzo. Alla metà degli anni ’80, ad esempio, i missionari battisti operanti nella finestra 10/40 erano l’1 per cento del totale mentre nel 2003 erano già diventati il 27%. In molti paesi sono arrivati come normali operatori umanitari, in altri invece, quelli effettivamente «resistenti» alla loro presenza, approfittando di eventi eccezionali che hanno convinto, o costretto, i governi a chiudere un occhio e ad accoglierli. È il caso dell’ultimo terremoto che ha distrutto un’intera regione iraniana o, appunto, della guerra all’Iraq.

LE GUERRE DEL GOLFO
Il primo tentativo di «avvicinamento dolce» alla regione mediorientale fatto in concomitanza con un periodo bellico risale al 1990-’91, al tempo della prima guerra del Golfo contro l’Iraq, quando l’icona dell’evangelismo americano d’assalto, il reverendo Franklin Graham varò l’operazione Dear Abby, con la quale invitò gli americani a spedire lettere di incoraggiamento ai soldati al fronte.
Tale iniziativa si rivelò una copertura utilizzata dai seguaci di Graham per spedire ai soldati 200.000 scritti di matrice cristiana in arabo con il chiaro, anche se non dichiarato, intento di diffonderli tra gli abitanti del luogo. Malgrado l’opposizione dell’allora capo di stato maggiore della coalizione anti-Saddam, il generale Norman Schwarzkopf, e del suo pari grado saudita, il principe Khaled Bin Sultan, l’operazione continuò per mano di alcuni cappellani militari che più che ai loro superiori risposero alla chiamata di Graham (3).
Eppure Baghdad rimaneva lontana. Un decreto governativo degli inizi degli anni ’80 aveva ristretto la presenza delle confessioni cristiane a quelle già esistenti, e neanche nei periodi più neri del paese, quando, piegati dalle sanzioni economiche e dal regime, gli iracheni morivano o fuggivano a milioni, gli evangelici riuscirono a mettervi piede con la scusa di fornire aiuti materiali. Con la caduta della statua del ra’is, nell’aprile 2003, la situazione è cambiata e si è aperta la «finestra d’opportunità» per la quale, come ha dichiarato John Brady, responsabile della branca mediorientale e nordafricana della Imb, i battisti del sud avevano a lungo pregato (4) e che ha permesso finalmente agli evangelici di «bagnarsi nelle acque di Abramo».
Una finestra di opportunità che però, come essi stessi riconoscono, sta per richiudersi. Non si fanno illusioni gli evangelici americani: sanno che, se in Iraq dovesse prevalere, come tutto fa per ora pensare, un governo di forte orientamento islamico, la loro presenza nel paese diventerebbe sgradita.
Eppure neanche con una finestra d’opportunità più lunga si sarebbe potuto ragionevolmente pensare di convertire i musulmani e togliere l’Iraq dalla lista dei paesi perduti. Certo, è possibile che qualche fedele di Maometto, al pari del soldato affaticato e sporco, abbia barattato un pasto ed una coperta per una lettura del Nuovo Testamento, ma la sempre maggiore influenza sciita non ha sicuramente contribuito al fenomeno. Se nell’Iraq «ufficialmente» laico di Saddam vigeva il reato di apostasia, il divieto cioè per ogni musulmano di convertirsi ad altra fede, niente fa pensare che tale reato possa venire abrogato, ed è dubbio, quindi, che folle di islamici possano desiderare di rischiare passando «dall’altra parte».

SE I PREDICATORI
CAMBIANO OBIETTIVO

«In America, la gente è libera di essere cristiana o musulmana, ma in Iraq chi decidesse di lasciare l’islam per convertirsi al cristianesimo verrebbe ucciso dalla sua stessa famiglia in applicazione della legge islamica», afferma a proposito il reverendo Ikram Mehanni, pastore di una chiesa presbiteriana di Baghdad, una delle chiese presenti in Iraq da circa un secolo.
Frustrati in questo tentativo gli evangelici potrebbero quindi rivolgere le loro attenzioni verso un obiettivo più a portata di mano: la conversione dei cristiani iracheni. Essi sono già «dall’altra parte», non rischierebbero nulla, e potrebbero essere affascinati dall’attivismo e dall’aggressiva retorica dei predicatori della bibbia, che tanto contrasta con il basso profilo che, in passato, le chiese autoctone sono sempre state costrette a tenere per non attirare sui propri fedeli inopportune attenzioni del governo ed ora quelle di chi le vuole legate, per comunanza di fede, ai nuovi crociati invasori.
I cristiani potrebbero sentirsi più «protetti» da queste nuove chiese evangeliche, almeno quelli che interpretano gli attacchi alle chiese del primo agosto (e del 16 ottobre) come un fallimento della politica del dialogo perseguita dalle proprie gerarchie ecclesiastiche.
Percentualmente, quindi, gli evangelici potrebbero avere più successo tra i cristiani che tra i musulmani, e la cosa non può non far paura alle chiese già esistenti preoccupate di preservare l’integrità delle loro piccole comunità. Una preoccupazione basata su dati obiettivi, come confermano le parole del reverendo Ikram Mehanni: «Queste chiese vogliono dividere la cristianità: il loro numero aumenta, ma i cristiani no».
Che ci stiano riuscendo è indubbio: a Baghdad ci sono già 26 nuove chiese evangeliche, ed almeno una di esse, la Evangelical Holiness Revival Church, come afferma il suo pastore, il reverendo Wissam Jamil, ha raccolto fedeli provenienti da altre chiese visto che il proselitismo tra i musulmani è vietato.
«Gli evangelici si concentrano nelle aree cristiane della città perché più sicure per loro, ed evitano quelle musulmane in cui sarebbero attaccati dalla popolazione – dice monsignor Matti Shaba Mattoka, vescovo siro-cattolico -. Perché distribuiscono bibbie e vangeli in arabo ai cristiani, pensano forse che essi non conoscano Gesù Cristo? Perché non vanno a distribuirle nei quartieri musulmani?».
«L’aggressività caritatevole» che contraddistingue gli evangelici potrebbe inoltre rafforzare l’idea che la guerra mossa all’Iraq, oltre che per motivi geostrategici ed economici, sia stata mossa per motivi religiosi in una sorta di riedizione delle crociate. Un pericolo messo in luce anche dallo sceicco sciita Fatih Kashif Ghitaa che ha sottolineato come già gli iracheni vedano l’occupazione americana del paese come una guerra di religione, e che ha riferito di un incontro tra capi sciiti e sunniti per valutare l’opportunità di emettere una fatwa di condanna nei confronti dei missionari cristiani.

QUEGLI AIUTI «FIRMATI»
I ripetuti riferimenti al divino fatti dal presidente Bush, ma soprattutto le stesse affermazioni dei capi evangelici che, come Graham hanno definito l’islam «una religione malvagia», non sono passati infatti inosservati ed i cristiani iracheni temono di essere confusi con loro.
Un punto di forza delle chiese autoctone rischia di vacillare: esse rappresentano solo il 3% della popolazione, ma nessuno può negare loro il primato delle origini che risalenti alla predicazione dell’apostolo Tommaso nel I secolo d.C. anticipa di secoli l’arrivo dell’islam in Mesopotamia.
«Rubando» i fedeli alle chiese del luogo, tentando l’assalto all’islam, usando linguaggi e comportamenti aggressivi, gli evangelici stanno quindi diventando un pericolo per gli stessi cristiani e stanno svelando il loro vero volto di «braccio religioso» dell’impero americano.
Se il loro scopo fosse stato veramente solo quello di aiutare la popolazione irachena senza tentare di convertirla sarebbe stato sufficiente convogliare gli aiuti verso le organizzazioni umanitarie, laiche o religiose, già operanti in Iraq da prima della guerra, ma in quel caso le scatole di aiuti inviate dalla Inteational Mission Board non avrebbero dovuto riportare le parole di Giovanni (1:17): «La legge fu data attraverso Mosè e la grazia e la verità furono realizzate attraverso Gesù Cristo». Firmato: «Un dono d’amore dalle chiese battiste americane».
Un dono che alla lunga rischia di risultare sgradito e persino pericoloso.

BOX 1

Intervista: «Sono chiese d’affari»

«Sono arrivate a seguito dei marines ed hanno iniziato a stabilire le loro sedi nelle zone abitate dai cristiani, e comunque vicino alle chiese. Il loro scopo è attirare i fedeli cristiani facendo leva sulle ingenti somme di denaro a loro disposizione, un metodo che ci mette in imbarazzo e in difficoltà. Nel natale dello scorso anno, ad esempio, è stato difficile spiegare ai bambini della mia parrocchia perché i loro pacchi dono erano poca cosa in confronto a quelli distribuiti dagli “americani.” Gli adulti sono attirati dai posti di lavoro e dai salari che queste chiese garantiscono, i giovani dal fatto che in esse trovano computers e collegamenti internet gratuiti.
Noi possiamo far leva sulla tradizione, sulla fede comune che ci ha permesso di resistere uniti in tutti gli anni di sofferenze, ma non so per quanto ancora. Il popolo iracheno (ed i cristiani non fanno eccezione) si risolleverà, perché il nostro è un paese ricco ed il petrolio, prima nelle mani di Saddam ed ora degli americani, prima o poi toerà a noi. Per ora, però, cibo, medicine, giocattoli e tecnologia sono ancora un buon sistema per “comprare” la fede».
«Certo, queste chiese d’affari non conquisteranno tutti, ma potrebbero diventare un pericolo. La mia parrocchia, la chiesa di Mar Mari (nella zona nord-est della città) contava all’inizio degli anni ’90, 350 famiglie. Oggi, la fuga verso il nord o verso l’estero le ha ridotte a 120, e la situazione instabile del paese, ed il suo trovarsi al confine dell’enorme quartiere sciita di Sadr City, roccaforte dell’integralismo islamico pronta a scoppiare, potrebbe ridurre ulteriormente questo numero. Se a ciò aggiungiamo l’eventuale conversione a queste nuove chiese, il conto è presto fatto: nel futuro la nostra chiesa potrebbe non avere più fedeli, e magari essere chiusa».
«La presenza delle chiese evangeliche, inoltre, ci mette in imbarazzo nei confronti dei musulmani che non apprezzano, ad esempio, le loro grandi croci luminose che spuntano un po’ d’ovunque. Quando capita di parlare con gli sceicchi delle moschee, che conosciamo da sempre, ed il discorso cade sulle nuove chiese, la nostra posizione si fa difficile e ci ritroviamo tra due fuochi. Da una parte non possiamo “sconfessarle”, perché, anche se le sappiamo “diverse” e non ne apprezziamo il dogma (che non prevede la centralità di Cristo ma solo della bibbia), ciò potrebbe portare ad una sorta di “via libera” per chi volesse attaccarle, mettendo a rischio anche la “nostra gente”. Sconfessare altri cristiani, poi, sarebbe agli occhi dei musulmani un segno di debolezza su cui eventualmente far leva per dividerci e toglierci i pochi spazi rimasti. Se, d’altra parte, le difendessimo a spada tratta presto anche noi, cristiani iracheni, presenti nel paese da prima dell’arrivo dell’islam, saremmo accomunati a loro, percepiti come i nuovi crociati».

Lu.S.

Luigia Storti




HANDICAPDiversamente abili

Durante il 2003, dichiarato «Anno europeo delle persone disabili», furono messi in luce i diritti alla partecipazione, all’uguaglianza
e alla dignità delle persone portatrici di handicap. I loro problemi rimangono; l’impegno civile nei loro riguardi deve continuare.

Non è per cavillosità, né per porre questioni oziose che mi soffermo sul termine handicap. Il nome è un suono-simbolo, attribuito alle cose nel momento stesso in cui le collochiamo dentro un definito sistema di riferimento, che siamo soliti chiamare cultura, tradizione, civiltà.
Non sono poche le difficoltà per la creazione di una reale cultura dell’handicap; tuttavia, per capire il senso di questo termine che con troppa faciloneria affibbiamo ad alcune (o forse troppe) persone, è importante cogliere il sistema di riferimento di cui fa parte.
Con questo vocabolo, pronunciato per lo più tra la compassione e il disprezzo, si intende una persona «diversa» dalle altre, nel senso che la si ritiene inferiore, dal momento che la persona che ne è affetta, è impedita nello svolgimento delle sue normali funzioni di vita sociale o professionale.
Il vocabolo di origine anglosassone, entrato nel gergo sportivo, indica una regola di gioco che, per compensare disparità e disuguaglianze, attribuisce a ciascuno dei contendenti vantaggi e svantaggi a seconda delle loro qualità.
Riferita all’uomo, la parola handicap vuol significare la parte, per definizione e per principio, non vincente dell’umanità nella competizione della vita, in stato di infermità, di limite. Ma è bene richiamare l’attenzione sulla distinzione che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) fa tra «menomazione», «disabilità» e «handicap», specificando che ognuno di questi termini è onnicomprensivo di tutti gli altri, quali invalido civile, di guerra, per servizio, ecc.
Secondo la Classificazione internazionale degli handicap, emanata dall’Oms nel 1981, nell’ambito delle evenienze inerenti alla salute è menomazione qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica; per disabilità si intende qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano; con il termine handicap viene indicata una condizione vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o disabilità, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio di quella persona, e ciò in base a età, sesso, fattori culturali e sociali.
In sostanza, l’handicap rappresenta la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e, come tale, riflette le conseguenze culturali, sociali, economiche e ambientali che per l’individuo derivano dalla presenza della disabilità.

STORIA E CULTURA OGGI
Nel secolo xviii era ancora radicata la tendenza alla segregazione, soprattutto in grandi ospedali. Ma sotto l’influsso dell’illuminismo e della rivoluzione francese, il problema ha avuto modo di svilupparsi gradualmente, grazie a un maggior interesse medico scientifico. Oggi c’è più interesse per l’aspetto legislativo, ma rimangono inalterati criteri e atteggiamenti discriminanti. Nel contempo, è altresì diffusa l’opinione che considera le menomazioni come conseguenza di gravi colpe da parte dei familiari.
Questa situazione, particolarmente pesante e difficile è aggravata dalla cosiddetta «cultura d’oggi», ovvero il mito del bello e della produttività, che crea sempre nuovi soggetti handicappati: la persona che non rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza viene emarginata. Ma la persona con handicap, comunque, proprio perché è anch’essa umana e non di «un’altra specie», costituisce sempre un caso a sé, unico e non standardizzabile.
Con il passare degli anni il problema ha assunto, soprattutto dal dopoguerra in poi, importanza mondiale con la Dichiarazione dei diritti degli handicappati, adottata nel 1975 dall’Assemblea generale dell’Onu, e con la Risoluzione del 1980 che proclamava il 1981 Anno internazionale dell’handicappato.
Sono testi che sottolineano il diritto del fanciullo minorato a ricevere un’educazione, al pari dei suoi coetanei cosiddetti «normodotati». Per diversi anni, queste iniziative costituirono solo lo spunto per petizioni di principio, senza possibilità di concretizzarsi.

LE STATISTICHE
Attualmente vi sono nel mondo 500 milioni di disabili fisici, mentali e sensoriali, di cui circa 300 milioni in paesi in via di sviluppo. Nella Comunità europea i disabili sono quasi 40 milioni, mentre in Italia mancano cifre attendibili sulla «vera» consistenza numerica delle persone colpite da minorazione fisica o psichica. Lo scandalo dei «falsi invalidi» di alcuni anni fa, ne ha alterato il numero e l’attendibilità. Tuttavia, anche se un vero e proprio censimento non è mai stato fatto, si può ipotizzare che le persone con disabilità ammontino a circa il 4-5% dell’intera popolazione.
Essendo queste cifre di carattere approssimativo, è evidente l’impossibilità di stabilire con esattezza il numero delle persone disabili presenti nella Ue; e ciò è dovuto anche alla diversa definizione che gli stati membri danno dell’handicappato. Si è formata così una sorta di «lista di attesa» di circa 20-25 milioni di vittime di guerra, infortunio, malnutrizione, oltre che di patologie varie.
Secondo l’Oms, almeno una persona su dieci risulterebbe colpita da turbe della sfera psichica a un certo periodo della propria esistenza. Gli incidenti che si verificano nell’ambito domestico sono oltre 20 milioni; oltre 100 mila persone rimangono invalide permanentemente; mentre in Italia nascono ogni anno 15-20 mila bambini con malformazioni congenite, in alcuni casi per tardiva o errata diagnosi.
Il «pianeta handicap» è un fenomeno che non accenna a diminuire; anzi, secondo gli esperti sembrerebbe in espansione. Eppure, alla luce delle conoscenze odiee, oltre il 65% delle malformazioni potrebbe essere abbassato con accorgimenti tali da contribuire a evitare, o almeno ridurre sensibilmente, la nascita di bambini handicappati.

SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA E
«DOPO DI NOI»

Circa il 15% delle famiglie italiane è direttamente interessato al problema della disabilità. Per il disabile grave, come per ogni altra persona con problemi di salute, la vita con i genitori può risultare efficace e più completa la soluzione dei bisogni assistenziali. Ma molte di queste famiglie hanno spesso bisogno di concreti sostegni, soprattutto quando i genitori dei disabili invecchiano o a loro volta si ammalano.
Il problema che più li «preoccupa» è l’incertezza del «dopo»: dopo la nascita di un bambino disabile; dopo un trattamento riabilitativo, dopo la scuola, dopo la formazione, dopo la morte dei genitori… In queste famiglie, per non poter avere una «certa» sicurezza relativa alle varie tappe esistenziali che il proprio figlio dovrà affrontare, si fa strada un senso di sfiducia nei confronti dei servizi, ma anche di viva preoccupazione. Si rende quindi utile attivare appropriati programmi di integrazione, per garantire la presa in carico e per giungere ad individuare e mettere in atto politiche a sostegno della famiglia e del «dopo di noi».
Secondo il Programma di azione del governo riguardante le politiche dell’handicap per il quadriennio 2000-2003, sono state previste alcune azioni: sperimentare programmi d’intervento precoce verso il bambino disabile e a sostegno della famiglia; creare opportunità dirette e indirette per potenziare le risorse e il loro utilizzo per favorire l’adattamento positivo della persona handicappata; semplificare le procedure di accertamento dell’invalidità civile; avviare il riordino delle provvidenze economiche necessarie secondo determinati principi.
Per quanto riguarda la residenzialità si rende opportuna la programmazione di un apposito progetto che preveda ulteriori opportunità per una vita extra familiare, anche come bisogno esistenziale del disabile, mantenendo un sistema di autonomia con i suoi stessi genitori.
A tale scopo possono essere utili interventi come la destinazione del 2% di alloggi residenziali ai disabili e dell’1% ai servizi sociali degli enti locali, alle strutture di riabilitazione, alle Rsa (Residenze sanitarie assistite); la definizione delle strutture di rilevanza sanitaria e sociale; l’istituzione di almeno una Rsa (20 posti) o piccola comunità (residenza protetta) ogni 50 mila abitanti; realizzazione di progetti di residenzialità programmata a carattere socio-assistenziale ed educativo…
Ulteriori interventi previsti dal Programma di azione del governo riguardano il problema della mobilità, ovvero luoghi e mezzi senza barriere, affinché la persona disabile possa muoversi agevolmente e con maggiore autonomia possibile. Particolari suggerimenti prendono in considerazione azioni volte al miglioramento del trasporto pubblico e privato; ampi interventi riguardano la realizzazione di maggiori opportunità nell’accesso allo sport, alle attività culturali e turismo.
Una legge del 1998 ha assegnato al ministro per la Solidarietà sociale di promuovere e cornordinare il sistema d’informazione sull’handicap, sui servizi e soluzioni tecnico-organizzative, nonché la promozione di indagini statistiche e conoscitive sull’handicap.

Eesto Bodini




SIRIA-ITALIAIl complotto

Perseguitato per le sue idee politiche e religiose, Elias, cristiano della Siria, riesce a fuggire in Grecia con moglie e figli.
Lui solo riesce a raggiungere Venezia, mentre i suoi familiari spariscono nel nulla.

Il lavoro di mediatrice culturale mi porta spesso a contatto con uomini e donne costretti a lasciare la propria terra, perché continuamente perseguitati per la loro religione e per le loro idee dai governi al potere, come è successo a Elias, 75 anni, siriano, originario di Damasco.
Rientrava in un programma di accoglienza per richiedenti asilo gestito dal comune di Venezia. Ma dopo 9 mesi dal suo ingresso in Italia, nessuno era ancora riuscito a sapere il motivo per cui era scappato dalla Siria e per cui chiedeva asilo all’Italia. Non parlava, rifiutava di studiare l’italiano, stava quasi sempre ritirato in camera, non aveva instaurato legami con nessuno degli altri ospiti del centro di accoglienza.
La responsabile del centro mi aveva contattata, ritenendo che le mie conoscenze sulla società araba e la lunga permanenza in Siria potevano essere dei buoni elementi per creare un legame con Elias e aiutarlo ad aprirsi e a confidarsi.
Il nostro primo incontro fu nella sua camera, tranquilla e soprattutto ordinata. Non amava ricevere i suoi ospiti nella sala da pranzo, come era di norma fare nell’istituto: troppe persone presenti, troppa confusione.
Mi accolse molto amichevolmente. Mi aveva preparato una colazione, come si è soliti fare in Siria: pane, olive, pistacchi, dolci e tè nero molto zuccherato.
Rimase sorpreso e al tempo stesso entusiasta nel sentirmi parlare in arabo. Per me, ma soprattutto per lui, fu una cosa inaspettata scoprire che a Damasco avevo abitato proprio nel quartiere dove era nato e cresciuto. Fu piacevole per entrambi ricordare luoghi e persone che avremmo potuto avere in comune.
«Qui a Venezia mi trovo bene, ma mi manca molto la Siria, Damasco. Mi manca la confusione dei suq, l’odore delle spezie, il nostro cibo, soprattutto la mia gente». Senza rendersene conto iniziò a parlare di sé, della sua vita in Siria.
«Fino a tre anni fa conducevo una vita normale: casa, lavoro, famiglia, amici. Ero direttore di banca. Questa aveva rapporti commerciali con vari paesi europei, per questo parlo inglese, francese, tedesco e russo. Ho imparato tante lingue perché amo studiare: è il mio passatempo preferito. Alla sera, dopo cena mi ritiravo nel mio studio a leggere e studiare. Le lingue straniere sono sempre state la mia passione».
Elias continuava a parlare della sua casa, della sua famiglia, dei suoi libri e di Damasco. Io non lo interrompevo; lo ascoltavo e lo lasciavo parlare. Mi rendevo conto che era una cosa che voleva fare da molto tempo. Il suo viso era disteso, felice di vedere che lo capivo, che potevo condividere i suoi ricordi, perché conoscevo bene la sua città, la sua gente.
«Ho tre figli. Due gemelli di ventinove anni, un maschio e una femmina, e un’altra femmina di 37 anni, Habsa. Si è sposata quattro anni fa e si è trasferita in Canada. Gli altri due figli sono ancora in casa con me e mia moglie. Il ragazzo è ingegnere, la ragazza avvocato».

Seguirono molti altri incontri, nell’istituto e fuori, per fare una passeggiata o bere un caffè. Contrariamente a quanto mi aveva riferito la responsabile dell’istituto, Elias era riuscito a instaurare a Venezia varie amicizie, che incontrava quasi quotidianamente. Aveva conosciuto alcuni iracheni ed egiziani che risiedevano a Venezia; frequentava assiduamente una chiesa nel centro della città, dove partecipava alle varie attività di un gruppo di preghiera.
«Faccio molta fatica ad esprimermi e a comprendere l’italiano, ma sono riuscito a conoscere persone che parlano inglese e francese» mi diceva, spiegando il motivo per cui non si trovava bene al centro e preferiva mantenere una vita ritirata.
«In questo centro sono ospitate persone provenienti da vari paesi, con cultura, religione e estrazione sociale diverse. La maggioranza è musulmana. Inoltre, sono la persona più anziana, gli ospiti sono quasi tutti giovanissimi. Il nostro ritmo di vita è molto diverso. Io ho bisogno di tranquillità, soprattutto di dormire la notte. Purtroppo questo è impossibile. Alle sette di sera i responsabili del centro se ne vanno. Non c’è nessun guardiano: per tutta la notte c’è gente che va e che viene. Ci sono stati anche dei furti. In teoria è proibito far entrare amici o parenti, ma non essendoci controlli tutto è permesso. Poco tempo fa c’è stato il mese di ramadan, il mese del digiuno musulmano, ogni notte veniva organizzata una festa, come è tradizione per i musulmani. Musica alta e danze fino alle tre, le quattro del mattino.
Non riesco ad adattarmi alle abitudini dei vicini di stanza. Mi sento molto vecchio in confronto a loro. Tuttavia non dico niente, non voglio avere problemi con nessuno. Me ne resto ritirato nella stanza in attesa di essere convocato al più presto a Roma, presso l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), con la speranza che mi venga concesso l’asilo. Se questo dovesse avvenire, potrei lasciare questo istituto, avrei la possibilità di lavorare, di guadagnare e permettermi una casa. Mi piacerebbe usare i miei risparmi per aprire un ristorante insieme alla mia famiglia, se Dio lo vorrà!».

Elias era molto devoto; molte le immagini sacre presenti nella sua stanza. Le sue letture preferite erano la bibbia e il vangelo. Mi mostrava il libro del vangelo, un’edizione molto bella, logicamente in arabo, che teneva esposto sopra uno scaffale, con davanti una candela accesa. «Quando ho lasciato la Siria, questo libro è stata la prima cosa che ho messo nella mia piccola valigia», continuava, dicendomi che nel vangelo trovava conforto e aiuto. E mi lesse alcuni passi, salmodiandoli come è tradizione nelle chiese cristiane d’Oriente.
Ormai si era instaurato un rapporto amichevole. Era arrivato il momento di chiedergli il motivo della sua fuga dalla Siria, per aiutarlo a presentare all’Acnur la richiesta d’asilo.
«Sono cristiano da generazioni. Il mio credo religioso e le mie idee politiche sono stati la causa della fine della mia vita. Appartenevo al partito comunista, partito d’opposizione al Ba’th, tutt’ora al potere in Siria.
Quattro anni fa sono stato incarcerato con l’accusa di complottare contro lo stato. Non avevo fatto e detto niente, ma in Siria solo il fatto di essere cristiano e per di più comunista crea sempre problemi.
Ho perso il lavoro. Sono stato in carcere, senza rendermi esattamente conto del motivo. L’accusa era di tramare contro l’islam.
Sono uscito dal carcere dopo tre anni e ho cercato di riprendere la mia vita, anche se non avevo più il mio lavoro. Cercavo di stare attento, evitando di parlare di politica. Ma non si è mai troppo prudenti.
Una settimana dopo la tragedia dell’11 settembre, mi trovavo con alcuni carissimi amici musulmani in un nadi, un club privato. C’era molta gente. I miei amici iniziarono a parlare della strage delle torri di New York. Io ascoltavo i loro discorsi. Parlavano di Berlusconi, di Bush: dicevano che entrambi erano contro l’islam e volevano cancellarlo dalla terra. Addirittura arrivarono a giustificare l’atto dei terroristi.
A quel punto non riuscii più a stare zitto. Mi limitai a dire che in quelle due torri morirono persone che non c’entravano niente, non solo cristiani, ma anche ebrei e musulmani.
Dal tavolo vicino si alzarono due uomini. Appartenevano alla mukabarat, la polizia segreta dello stato. Iniziarono a gridare: “Sei un kafir (infedele), stai complottando contro lo stato siriano, contro gli arabi e l’islam”. Mi presero, mi misero su un’auto e mi portarono alla prigione di Tadmur, sei ore da Damasco, una delle più dure carceri siriane.
Mia moglie e i miei figli non furono avvertiti. Iniziarono a cercarmi ovunque, ma nessuno gli diceva dove mi avevano portato. Solo dopo 50 giorni, durante una perquisizione nella mia casa, mia moglie venne a sapere che ero rinchiuso nella prigione di Tadmur, che ero vivo, ma non potevo ricevere visite».
Mentre mi raccontava questa storia, Elias aveva le lacrime agli occhi, ma volle continuare il suo racconto. «Ero chiuso in una cella di due metri per due. Ero solo e senza luce. Ogni due settimane potevo fare una doccia, per dieci minuti e alla presenza di due guardie. Una volta alla settimana avevo la possibilità di prendere 30 minuti d’aria, ma senza poter vedere il cielo. Ogni sera un po’ d’acqua e una zuppa mi venivano introdotte da un piccolo sportello. Vietati i colloqui con parenti e amici. Mi picchiavano perché dicessi i nomi dei cospiratori.
Tadmur è una prigione molto dura per prigionieri politici. Ma la maggior parte dei carcerati è cristiana. Dopo tre mesi fui mandato a casa, con l’obbligo di una firma al giorno presso la polizia del quartiere».

Negli ultimi 20 anni, molte famiglie cristiane hanno lasciato la Siria. Prima dell’arrivo del Ba’th al potere, la comunità cristiana godeva di maggiori libertà, era parte dello stato siriano alla pari di quella musulmana. Il nuovo governo ha introdotto varie restrizioni e limitazioni.
Elias sentiva che la sua vita in Siria non era più sicura: decise di fuggire con moglie e figli, che acconsentirono. Vendette la casa e altre proprietà; pagò una persona che, per 2 mila dollari, li aiutò a passare la frontiera tra Siria e Turchia e li condusse a Istanbul. Da lì raggiunsero Atene, dove un suo cugino viveva da 35 anni.
«È stato un viaggio molto duro: eravamo nascosti dentro un camion, senza poterci muovere e parlare -continua Elias -. Quando raggiungemmo Atene, avevo la febbre alta. Non potevo andare da nessun dottore, perché in Grecia i clandestini non hanno diritto alle cure mediche. La moglie di mio cugino riuscì a procurarmi delle medicine con il suo tesserino sanitario. Ma avevo bisogno di un medico, di essere ricoverato in un ospedale. Per questo mio cugino mi consigliò di venire in Italia, dove tutti, anche i clandestini, hanno diritto all’assistenza medica».
Con gli ultimi soldi rimasti riuscì a pagare degli uomini che lo aiutarono a raggiungere Venezia.
«A Venezia fui immediatamente ricoverato in ospedale, dove rimasi per una settimana. Ho problemi al cuore, devo stare sotto controllo, la mia pressione è molto alta».
I suoi familiari avrebbero dovuto raggiungerlo in Italia, ma non ci riuscirono. Si sentivano ogni tanto al telefono, li chiamava lui.

Erano passati 10 mesi dall’arrivo di Elias a Venezia. Da alcune settimane non era più riuscito a mettersi in contatto con la moglie e i figli. Temeva che fosse successo qualcosa. Sapeva che avevano lasciato la casa del cugino ad Atene e si erano diretti sulla costa, in attesa di trovare un passaggio su una nave per clandestini.
Nell’ultima telefonata lo avevano informato di avere pagato 4 mila dollari a uno scafista, per essere condotti a Bari, ma costui era scomparso con il denaro. Da allora non li aveva più sentiti.
Elias non aveva mai raccontato a nessuno questa storia, aveva paura che a Venezia ci fosse qualcuno in contatto con la polizia segreta siriana; temeva di compromettere la sua vita e, soprattutto, quella della sua famiglia. Solo quando fosse stato convocato a Roma, avrebbe raccontato tutto.
Nonostante i suoi timori, ritenne importante fidarsi di me; ma non so fino a che punto l’abbia fatto, e non lo saprò mai. Elias, infatti, abbandonò il centro. Mi lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica, dicendomi che sarebbe andato a cercare la famiglia. Aveva bisogno di lui.
A una settimana dalla sua partenza, trovai un altro messaggio, in cui, piangendo, mi annunciava che i suoi familiari erano scomparsi. Aveva saputo che erano riusciti a imbarcarsi per Bari; a Bari non erano mai arrivati, ma non li credeva morti.
Mi disse che sarebbe andato a cercarli. Non rivelò dove; non mi lasciò un numero di telefono né un recapito. La responsabile del centro mi spiegò che aveva rinunciato al programma di accoglienza e che non aveva potuto obbligarlo a restare.

Elisabetta Bondavalle




DOSSIER KENYASete di acqua, pace e giustiziaPace con latte e miele

Le secolari tensioni tra samburu, turkana e pokot sono sfociate in lotte che sfiorano il genocidio.
Con i suoi missionari, mons. Virgilio Pante,
vescovo di Maralal, sta facendo opera
di riconciliazione tra queste popolazioni.

Da sempre i popoli pastori delle savane dell’Africa si rubano il bestiame a vicenda. Gli etnologi spiegano che sono comportamenti normali: si tratterebbe della legge di sopravvivenza dei più forti, della lotta per avere più bestiame, pascoli, acqua, donne e figli.
Non è affatto normale per i missionari, che non possono rassegnarsi alla legge della giungla, perché fa a pugni con il vangelo, che è cultura di pace e uguaglianza tra gli uomini, perdono dei nemici e condivisione delle risorse, di un Dio padre di tutti.

IL LEONE E L’AGNELLO
«La pace è il termometro per capire fino a che punto il vangelo ha messo radici nella cultura e nella storia di un popolo – afferma mons. Pante, da tre anni vescovo di Maralal -. Mi vengono i brividi quando penso a ciò che accadde 10 anni fa in Rwanda, dove hutu e tutsi si scannarono a vicenda, dopo aver celebrato la pasqua insieme.
Grazie a Dio, nella diocesi di Maralal non si registrano tali eccessi di genocidio; tuttavia, specie negli ultimi 15 anni, si sono moltiplicati gli episodi di razzie tra i nostri pastori samburu, turkana e pokot, con numerosi morti e sfollati. Si respira ancora nell’aria paura e diffidenza reciproche. Si sono create vere distanze, anche fisiche, tra le varie etnie, che una volta si mescolavano tra loro mediante i matrimoni».
Una volta razziatori e difensori degli armenti si affrontavano con le lance: al massimo ci scappava qualche ferito; raramente il morto. Oggi, invece, hanno fucili e mitragliatori automatici: in ogni scontro, numerosi sono i morti.
Alle razzie, poi, si aggiunge la vendetta per la morte dei congiunti, con una spirale di odio che provoca autentiche carneficine di vecchi, donne e bambini, costringendo interi villaggi a sfollare dalla propria terra per cercare rifugio in luoghi più protetti. Senza contare che, con le armi, crescono il banditismo e l’insicurezza in tutta la regione.
«Appena nominato vescovo, prima ancora dell’ordinazione episcopale – continua mons. Pante – decisi di visitare in motocicletta il territorio della mia futura diocesi. Mi si stringeva il cuore al vedere villaggi, scuole, chiesette, pascoli completamente abbandonati. Per chilometri non c’era anima viva. Respiravo paura. Il progresso sociale era tornato indietro di 20 anni. Mi domandavo cosa avrei potuto fare, come pastore della chiesa, per guarire quelle ferite e tanto odio. Più che sulle strutture materiali, avrei dovuto puntare sulla costruzione di una controcultura di pace e riconciliazione».
Da quel viaggio mons. Pante trasse ispirazione per lo stemma episcopale: gli venne in mente un passo di Isaia, dove il profeta descrive un messia che porta la pace cosmica: «Il lupo dimorerà assieme all’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; vitello e leoncello pascoleranno insieme» (Is 11,6-7).
«Disegnai subito un leone sdraiato accanto a un agnello, mentre la colomba dello Spirito della pace aleggia su di loro. E poi la scritta: “A servizio della riconciliazione”» continua il vescovo.
Tre mesi dopo l’ordinazione episcopale, nel territorio della diocesi ci fu un evento eccezionale: nel Samburu Park, una leonessa adottò il cucciolo di gazzella: lo allattava e custodiva come se fosse il proprio figlio. I cristiani ne rimasero fortemente impressionati: sembrava la realizzazione dello stemma episcopale. Andarono dal vescovo e gli dissero: «Vedi, gli animali della savana si riconciliano; ora toccherà a noi uomini fare altrettanto».

LA MALEDIZIONE DELLE DONNE
Alle orecchie del vescovo quelle parole suonarono come una sfida. Ma che cosa fare? In ogni situazione di tensione, il vescovo accorreva, con la sua motocicletta, per calmare gli animi. Ma le parole non bastavano. Occorrevano gesti concreti. Ma quali? La risposta venne dalle donne.
«Nel maggio del 2003 – continua il vescovo -, mentre celebravo la festa delle donne nella missione di Morijo, alcune mamme samburu si lamentarono perché agli incontri di pace invitavo sempre e solo uomini: perché non coinvolgevo anche loro?».
E suggerirono una sorprendente iniziativa: portare un dono alle donne turkana del villaggio di Marti, rimaste senza latte, perché samburu e pokot avevano rubato tutto il bestiame. Un incontro tra samburu e turkana, in una zona come Marti, dove l’odio tribale si taglia a fette, sembrava una pazzia. «Gli uomini fanno la guerra, ma le donne possono essere strumenti di pace da non sottovalutare» osserva il vescovo.
Dopo essersi autotassate, le donne samburu comprarono due vacche e una decina di capre e le portarono alle donne turkana. Ci fu una grande festa, che ristabilì l’amicizia infranta dai loro uomini. La consegna del dono fu accompagnata da preghiere, benedizioni e una imprecazione: «Chi ruberà questi animali sia maledetto!».
Poco tempo dopo i razziatori, forse pokot, tornarono a Marti e rubarono il bestiame: alcuni furono presi, altri finirono all’ospedale con le pallottole nelle gambe. Vacche e capre furono subito restituite. «La maledizione delle donne mette paura» sorride mons. Pante.

NELLA TANA DEL LEONE
«L’incontro di dialogo e preghiera tra gruppi etnici che si considerano nemici si rivelò efficace per un cammino di riconciliazione – continua il vescovo -. Decidemmo di ripetere l’esperienza a Loteta, con i pokot, l’etnia più ostica, dedita impunemente al banditismo».
Questa popolazione, che vive nella zona infuocata della Rift Valley, è totalmente dimenticata dal governo, isolata dalla vita del paese, senza strade, né pozzi, né scuole, né medicine. Nessuno si azzarda a entrare in quel territorio impenetrabile; neppure la polizia osa inseguire i razziatori: la zona è raggiungibile solo con gli elicotteri.
«Era il mese di luglio 2003 – continua il vescovo -. Insieme a padre Aldo Vettori, siamo scesi nella tana del leone. C’erano con noi anche il commissario e l’ufficiale del distretto: per la prima volta i pokot videro un’autorità governativa.
Con padre Aldo promettemmo di aiutarli, di costruire una scuola, poiché ignoranza e povertà producono violenza. Anche le autorità s’impegnarono (almeno a parole) di fare qualcosa per toglierli dall’isolamento e farli sentire cittadini del Kenya. Quindi abbiamo letto la bibbia, pregato e cantato insieme, senza la celebrazione della messa, dato che i cristiani sono ancora rari.
I pokot ci hanno fatto capire che non avrebbero più attaccato i “nemici”: ma se questi li avessero assaltati, si sarebbero difesi. Non è molto, ma è già un passo avanti».

TURKANA DANZANO CON I POKOT
Il terzo incontro avvenne a Morijo, tra pokot, turkana e samburu. A un certo punto, però, la situazione rischiò di degenerare. Mons. Pante puntò il dito dicendo: «Voi giovani siete quelli che fanno la guerra; non sono i vecchi e le donne. Ora confessatevi a vicenda, tutti insieme».
L’intenzione era che, riconoscendo torti e malefatte reciproche, ne scaturisse una catarsi, una purificazione. Ma dopo poche battute, l’emotività prese il sopravvento: ognuno puntava il dito contro l’altro, finché intervennero gli anziani: «Adesso basta! Vi siete sfogati abbastanza: ora datevi la mano e fate la pace».
Dopo la benedizione da parte degli anziani, i giovani promisero di non usare le armi se non per difesa, facendo questa preghiera: «O Dio, tu vedi cosa stiamo facendo, sei testimone del nostro impegno: devi benedirci. Ma se mancheremo alla promessa, non esitare a colpirci».
La quarta festa di riconciliazione, avvenne all’inizio del 2004, a Barsaloi, dove alcuni mesi prima, di notte, c’era stata una razzia di bestiame. Gli assalitori non si erano limitati a rubare gli animali, ma avevano sparato contro le capanne, col chiaro intento di uccidere la gente che stava dormendo. Per fortuna, a fae le spese furono solo gli arredi delle abitazioni, come zucche e altri recipienti dove i popoli pastori conservano l’acqua e il latte.
«Prima della messa, celebrata all’aperto sotto gli alberi – racconta mons. Pante -, avevo posto sull’altare un contenitore per il latte, crivellato dalle pallottole, e alcuni bossoli vuoti, raccolti dopo quell’assalto. La gente guardava incuriosita. “Questo contenitore e i bossoli sono la prova del nostro peccato – dissi loro -. Voi ne siete testimoni. Giuriamo davanti a Dio che queste cose non le faremo più”. Alla fine della messa abbiamo fatto la cerimonia della pace: ci siamo unti a vicenda sulla fronte con il latte e miele».
I bambini fecero una specie di teatro, descrivendo una razzia: guerrieri nascosti, che avanzano e attaccano il villaggio; donne che piangono, bambini che strillano e fuggono… Finché i piccoli attori si rivolsero ai genitori: «Voi adulti ci volete veramente bene? No! Siete voi che avete fatto queste guerre; noi siamo dovuti scappare dalle scuole e perdere l’insegnamento. Voi avete distrutto la pace, l’ambiente e il nostro futuro: ora ci odiamo a vicenda».
«Ho visto alcune persone che si soffiavano il naso e si asciugavano qualche lacrima: una scena inusuale tra i duri popoli della savana» conclude il vescovo.
E poiché senza cibo non c’è festa, tutto fu concluso con un piatto di riso, un po’ di carne e tè in abbondanza. In lingua samburu non si dice fare festa, ma «mangiare» la festa.
Al ritorno da Barsaloi, il camion che portava a casa i pokot fu fermato a Marti, dove questi, in passato, avevano più volte rubato mucche e pecore ai turkana. Ci fu un momento di paura. Invece, i passeggeri furono fatti scendere e invitati a bere il tè. Poi tutti si misero a ballare. «Rimasi strabiliato. Vedere turkana e pokot danzare insieme fu una scena commovente» racconta padre Aldo, che accompagnava il camion.

ECUMENISMO PRATICO
La quinta festa fu «mangiata» il 23 giugno scorso a Nachola, nella missione di Baragoi, preparata con un lavoro indefesso dai padri Lino Gallina e Aldo Vettori, insieme ai cristiani delle loro missioni. Sotto l’ombra fresca di enormi acacie spinose, vestiti con oamenti tradizionali, oltre 2 mila tra samburu e turkana gareggiavano nelle danze in mezzo a un polverone soffocante. Durante la messa, però, i vari cori cantarono e danzarono più compostamente.
«Più che feste, i nostri sono incontri di preghiera – continua il vescovo -. A Nachola, mescolati ai cattolici (circa la metà), c’erano alcuni protestanti e musulmani, il resto di religione tradizionale: tutti, però, hanno pregato con orazioni spontanee secondo la propria lingua e religione. Sembrava una nuova pentecoste. Lo stesso Dio era invocato con nomi diversi: Nkai, Akuj, Mungu, Allah… E Dio li ascolta tutti. La pace non conosce le divisioni religiose.
Quando arrivò il momento, turkana e samburu si chiesero perdono a vicenda; quindi tutti i presenti furono benedetti con abbondanti aspersioni di latte misto a miele. Tra i presenti c’erano anche alcuni famosi killers, maestri di razzie da tutti temuti. Mi domandavo: “Questi leoni, potranno davvero diventare agnelli? Quanto durerà questa pace? Stiamo facendo teatro? È tutto troppo bello per essere vero”.
Mi aggiustai la mitra di pelle di capra, ricoperta di perline, dono dei cristiani di Baragoi, e feci una breve predica (almeno mi sembrava tale). Le parole mi venivano dal cuore. Dissi che Dio può fare miracoli; che anche se i suoi tempi sono lunghi, il nostro cammino è iniziato e dovrà continuare; che Dio solo può cambiare il nostro cuore di sasso in un cuore di carne; che la nostra speranza di pace non deve mai arrendersi, anche di fronte agli insuccessi».
Dopo la messa ripresero le danze, seguite da discorsi, quasi tutti uguali: «Sarò breve… Oggi è un giorno storico: l’inizio di un’era di pace… Lasciamo che i fucili facciano la ruggine… Interprete, traduci!».
«Tutti dicono che l’incontro di Nachola è stato un successo. I telefoni senza fili ne sparsero la notizia per tutta la savana. Sappiamo che la pace è un cammino lungo, ma stiamo facendo insieme piccoli passi» conclude il vescovo.

PROVANDO E RIPROVANDO
«Dimenticavo che a Nachola non c’erano i pokot, neppure uno. Tutti notarono la loro assenza – riprende mons. Pante -. Una settimana prima, infatti, essi avevano rubato il bestiame a un villaggio samburu del Malaso, nella missione di Morijo».
Era capitato che, all’inizio di giugno, i samburu avevano comprato 4 fucili dai pokot; ma al momento dello scambio gli acquirenti scapparono via senza pagare. Per rifarsi, i pokot rubarono ai samburu alcune vacche, ma senza uccidere nessuno. Il giorno dopo, seguendo le tracce del bestiame, i derubati inseguirono i ladri: nello scontro due samburu rimasero uccisi. Per questo i pokot disertarono la festa di Nachola.
«Parlando di tale assenza con gli anziani – conclude il vescovo -, abbiamo deciso che il prossimo incontro di preghiera e riconciliazione sarà proprio al Malaso, località a 2.400 metri di altitudine, da cui si vede la Rift Valley. Chiameremo i samburu e pokot che si sentono in colpa, perché bisogna mettere il dito dove c’è la piaga; quindi benediremo tutta la vallata dove normalmente vengono nascosti gli animali rubati.
Il risultato non è scontato. Se necessario, tenteremo ancora, sempre nello stesso luogo: a forza di ripetere queste feste qualcosa rimarrà. Se non altro, quelli che vi partecipano tornano a casa con un briciolo di speranza».

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Una generazione infame

Monsignore, in passato si parlava di genocidio tra samburu e turkana: è esagerato?

La tradizione di rubarsi il bestiame è molto antica, c’è sempre stata; ma oggi con la presenza di fucili e mitra capitano disastri. Inoltre, qualche politico ha soffiato sulle tensioni etniche, incitando al tribalismo o vendendo armi. Queste vengono dal mondo occidentale: kalashnikov dalla Russia, G3 dalla Germania, M16 dall’America… Anche noi siamo responsabili del disastro.

Sono molte le armi in mano a queste etnie?
Secondo i giornali, i samburu, che sono circa 150 mila, possiedono 16 mila fucili: praticamente uno su 10; ogni famiglia ha uno o due mitra. Ed è un calcolo per difetto. I pokot ne hanno di più; i turkana più dei pokot. Ci sono tre eserciti potenziali.

Sono tutte armi di contrabbando?
Una trentina di anni fa, il governo concesse ad alcuni, pochi in realtà, di avere un fucile per difendere il bestiame dagli attacchi degli scifta (predoni somali). Ma poi si sono armati tutti illegalmente e alcuni giovani hanno cominciato a usare le armi per rubare di tutto e dappertutto: soldi, cibo, vestiti ai turisti, commercianti e missionari.

È così facile procurarsi le armi?
Con 4 mucche si ha un fucile automatico, importato dal Sudan, Uganda, Etiopia o Somalia, tutti paesi belligeranti confinanti col Kenya. Ancora più facile è procurarsi le munizioni: a Eldoret c’è una fabbrica di pallottole, voluta dall’ex presidente Moi.

Il governo non fa nulla per disarmare la popolazione?
Non è facile. Se si usa la forza, la maggioranza nasconde le armi o, più sovente, si ribella, come è capitato alcuni anni fa: due poliziotti sono entrati in un villaggio per requisire le armi, ma sono stati uccisi. Bisognerebbe convincere la gente a rivenderle al governo, dietro un giusto rimborso. Prima, però, il governo dovrebbe dimostrare di essere capace di difendere i propri cittadini, per cui i fucili sarebbero inutili. Ma questo non avviene: raramente la polizia è intervenuta per recuperare il bestiame rubato. È logico, quindi, che la gente cerchi di difendersi da sola.

È ancora rischioso viaggiare nel territorio della tua diocesi?
La situazione è leggermente migliorata. L’attuale prefetto del distretto sembra molto serio: affronta i problemi con forte senso di responsabilità e, quando avviene un furto, manda soldati e poliziotti a indagare, chiede la collaborazione del prefetto dall’altra parte della valle. Da quando è al governo il presidente Kibaki, sembra che ci siano maggiori controlli nel commercio delle armi e più collaborazione da parte delle popolazioni, fino ad ora abbandonate.

Quale futuro?
Quest’anno, tra i samburu, si chiude una generazione e ne inizia una nuova. Un evento che avviene ogni 14 anni. I giovani circoncisi nel 1990 e che quest’anno terminano il loro status di lmuran (guerrieri), entrando nella classe degli adulti, passano alla storia con il nome infamante di lmooli, coloro che calpestano le tradizioni. È la classe che ha avuto le armi e le ha usate male, fino ad uccidersi tra loro per inesperienza nel maneggiarle. L’ho ricordato nella festa celebrata a Nachola e ho augurato alla nuova classe di giovani di diventare una generazione pacifica.

Benedetto Bellesi




DOSSIER KENYASETE DI ACQUA, PACE E GIUSTIZIATratta di esseri umani

Mete turistiche rinomate a livello internazionale, Malindi, Mombasa e altre città della costa del Kenya sono teatro del sordito commercio di esseri umani, esportati anche… in Italia.

Appena tramonta il sole, su Malindi scende la confusione. Nel resto del paese, la gente si affretta verso casa per godersi il meritato riposo, qui si sveglia per la seconda volta.
Città della costa kenyana, con circa 300 mila abitanti, sfacciatamente ricca, Malindi può essere scambiata facilmente per un distretto a luci rosse di un’affaccendata e spensierata città europea, come Amsterdam.
Quanti turisti, sdraiati sulla spiaggia, fissano il cielo come se stessero aspettando che le stelle portino loro un messaggio da casa! Bambini che si rincorrono sulla sabbia, sotto la pallida luce della luna. Ragazzi scarsamente vestiti, abbordano i turisti con cenni fin troppo allusivi. Le ragazze sfrecciano da una strada all’altra come in pieno giorno. Cosa fanno? Non è difficile scoprirlo.
Come una luce nell’oscurità attira a sé gli insetti, lo splendore di questa città costiera, attira gente da ogni dove. Ricchi turisti fioccano per le vacanze; piccoli e grandi investitori, locali e stranieri, vengono per fare affari… e i poveri si affollano per raccogliere le briciole.
Queste ragazze che si crogiolano nell’affascinante notte di Malindi fanno parte dell’ultimo gruppo. Non hanno soldi per alloggiare in albergo, tanto meno da investire in affari, vengono per vendere se stesse.
Oltre alle donne, ci sono i cosiddetti «ragazzi di spiaggia». Molti di essi vengono da comunità pastorali: non vendono souvenir, né si esibiscono in danze tradizionali per rallegrare la vita nottua degli alberghi. Sono pronti a procurare ragazze su richiesta, a procacciare avventure esotiche a donne straniere o diventare essi stessi un brivido di giovinezza per vecchie e ricche turiste d’oltremare.

LUCCIOLE
Padre Linus Jappani, incaricato del turismo presso la Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, accusa la povertà che regna lungo la costa e nelle regioni circostanti: è questa che spinge le ragazze alla prostituzione.
Oltre a organizzare la celebrazione della messa in diverse lingue, per i turisti cattolici presenti negli alberghi della costa, padre Jappani ha il compito di togliere tali ragazze dal marciapiede. Il suo lavoro non è un letto di rose, dice: «Convincere le ragazze ad abbandonare tale vita non è un compito facile, perché non ho nulla da offrire come alternativa, una volta uscite dal giro».
Durante l’intero anno in cui egli è uscito per parlare alle ragazze, è inciampato in varie realtà. La maggior parte di queste ragazze non sono del posto, ma vengono dalle regioni intee del Kenya; molte di loro sono state raggirate, ingannate e spinte alla prostituzione. Sono poche le donne che battono tale strada volontariamente per arricchire in fretta; moltissime quelle che ci cadono per inganno.
Suor Lucy Kerubo, della Commissione giustizia e pace della diocesi di Malindi, tenta di chiarire le loro origini: dice che queste ragazze vengono da ambienti poverissimi, per lo più da zone rurali. Solo un quarto di esse sono locali (dell’etnia giriama). Molte vengono da Kitui, nel Kenya orientale, zona famosa per la sua disperata povertà.
È chiaro che qualcuno ci guadagna su questa disperazione, sempre pronto a rifornire il mercato di ragazze per qualsiasi occorrenza. La clientela è abbondante: l’afflusso di turisti lungo la costa, le navi militari straniere che attraccano a Mombasa fanno andare gli affari a gonfie vele.

TRAFFICO UMANO
L’Onu definisce il traffico umano come «reclutare, trasportare, trasferire, alloggiare una persona per mezzo di minacce o uso della forza o altre forme di coercizione, rapimento, frode, inganno, abuso… a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento include la prostituzione altrui, lavoro forzato, schiavitù, rimozione di organi».
I paesi di tutto il mondo hanno sperimentato differenti livelli di traffico di esseri umani. I casi più grandi sono negli Stati Uniti, dove ogni anno, secondo il Catholic Relief Services (Crs), oltre 2 milioni di persone (per lo più donne e bambini) sono oggetto di traffico.
A riguardo dell’Africa, si è parlato di bambini uccisi e i loro organi asportati e venduti al mercato nero internazionale; di ragazze portate in Europa, Americhe e nei paesi asiatici ricchi per essere ridotte a schiave del sesso; di giovani venduti e costretti a lavorare nelle lucrative piantagioni di vari paesi africani; altri sono rapiti per combattere nelle numerose guerre che continuano a insanguinare il continente.
Dopo il quasi collasso dell’economia, la perdita del lavoro e la crescente povertà nelle aree rurali e urbane, molti kenyani sono stati costretti a stili di vita inimmaginabili. I trafficanti ne hanno approfittato, facendo promesse di impieghi ben remunerati e buone condizioni di vita: disperazione e false promesse fanno molte vittime.
Ottenere notizie dettagliate sul traffico umano in Kenya è praticamente impossibile, poiché l’affare è condotto in estrema segretezza. Molte organizzazioni hanno cercato di seguire varie piste; ma molte tracce finivano nel nulla. «Nessuno parla del traffico umano e di prostituzione in piena luce; avere dettagli è un’impresa difficile» dichiara Juma Kamau, un operatore sociale della diocesi di Mombasa.
Tuttavia, i rapporti dell’Associazione delle religiose del Kenya (Aosk), della Commissione giustizia e pace delle diocesi di Malindi e Mombasa, di Solwodi (Solidarity with women in distress, organizzazione ecclesiale che cerca di riabilitare le ragazze dalla prostituzione) hanno raccolto alcune informazioni, ancora alquanto nebulose, sul traffico di donne, specialmente di ragazze.

UNA RETE PERVERSA
La rete coinvolta in questo lurido commercio serpeggia lungo una strada che dalle spiagge penetra nei villaggi rurali del Kenya, anche lontanissimi, come quelli della regione di Kakamega, nell’ovest del paese. Donne mature si recano in questi villaggi e convincono i genitori di ragazze con promesse di impieghi ben pagati nei grandi alberghi della costa.
Gli accordi sono fatti con tale astuzia che le ragazze, spesso analfabete, sono incaricate di gestire modei congegni, difficili da maneggiare con efficienza. Quando questi si rompono, le giovani sono ricattate e costrette ad assumere un altro compito che il datore di lavoro offre loro per ripagare il debito.
Padre Jappani fa capire che le mafie coinvolte nel traffico umano operano da diversi bordelli, camuffati da case residenziali o ville lungo le città costiere di Malindi, Kilifi, Watamu e Mombasa. I proprietari di queste case, spesso locali donne d’affari con connessioni ad alto livello, impiegano buttafuori: guai a chi tenta di ficcarci il naso. «Visitare qualsiasi di questi sospetti bordelli è un suicidio: non se ne ritorna vivi» ammonisce.
Quando non ci sono clienti, le padrone costringono le ragazze a lavorare nei saloni per massaggi o di parrucchieri. Questi luoghi diventano una passerella, per mostrare le ragazze in vendita.
Queste padrone, inoltre, assumono intermediari che vanno sulla spiaggia e accolgono i turisti appena mettono piede negli alberghi, per poi portarli nelle case dove le disperate ragazze sono ormai disposte a tutto per sopravvivere.
La signora Emma Ndonye, della Commissione giustizia e pace di Mombasa crede fermamente che queste ragazze sono state usate per scattare film poografici per il mercato internazionale.
Alcuni turisti, poi, hanno iniziato attività alberghiere in Kenya e attirano i propri concittadini con l’offerta di ragazze. In prossimità della stagione turistica, essi ricorrono a inserzioni pubblicitarie per offerte di lavoro. «Perché arruolano ragazze sprovvedute, invece di esperte intrattenitrici?» domanda la signora Emma. «Di fatto, è evidente perché alcuni di questi turisti, che possiedono case residenziali nel paese, impiegano tanti domestici proprio quando aspettano i visitatori».

PER VIE TRAVERSE
Se un turista vuole una ragazza da portare in patria, gli basta solo sborsare un po’ di denaro e il proprietario di un bordello organizza un frettoloso matrimonio con il personale che lavora nel suo locale.
Così la ragazza finisce sui marciapiedi europei, spesso sotto gli stessi padroni che operano in Kenya. La strada per l’«esportazione» varia a seconda della destinazione. In Italia esse arrivano con voli diretti, oppure sono trasportate furtivamente, passando per l’Egitto. Quando i trafficanti sospettano di essere seguiti, passano per differenti paesi, in modo da far perdere le tracce, prima di atterrare in Italia.
Altre destinazioni sono la Germania e l’Olanda. Una volta nella nuova terra, donne e ragazze sono costrette a prendere nuovi nomi, poiché i trafficanti confiscano i loro documenti. Quelle che riescono a tornare a casa, raccontano atroci storie di sofferenze e agonia.

POVERTÀ E MOLTO PIÙ
La povertà è la causa principale della prostituzione; ma anche i genitori sono colpevoli, negando ai loro figli l’appoggio morale di cui hanno bisogno o, addirittura, spingendoli praticamente sulla strada.
«A volte sono i genitori stessi a comandare ai figli di uscire a procurare cibo e denaro per gli altri membri della famiglia» lamenta la signora Emma. E racconta la storia di una ragazza di Kilifi: fu venduta a 9 anni; tornata a casa dopo la morte della madre per Aids, diventò la concubina del suo genitore; dopo pochi mesi morì anche il padre; dovendo sostenere i suoi fratellini, la ragazzina continuò a prostituirsi, finché la sua tenera vita fu barbaramente stroncata: per il disaccordo sul pagamento con un cliente, fu assassinata e il suo corpo buttato sul ciglio della strada.
Un agiato dentista di un paese europeo, era solito vantarsi con i suoi coetanei di avere quattro giovani sorelle tutte per sé quando era in vacanza a Malindi. La prima ragazza la ottenne dopo aver pagato al padre una certa somma di denaro; poi, aumentando la cifra, ebbe la seconda figlia; quindi la terza e la quarta: tutte con il consenso dello sciagurato genitore.
Nelle città lungo la costa la situazione sembra essere andata fuori controllo: l’ingannevole fascino della ricchezza facile e in fretta ha intrappolato perfino coppie sposate. Pur di fare soldi, alcuni mariti concedono alle mogli di andare a caccia di turisti. A Kilifi capita pure il contrario, racconta la signora Emma; alcune mogli permettono ai mariti di cercarsi una donna facoltosa. «Mariti che portano un’altra donna nel letto matrimoniale è parte delle storie che le donne di etnia mijikenda si raccontano alla fontana» lamenta.

SPERANZA DI RIABILITAZIONE
Il timore che i genitori trasmettano tale modello di vita ai propri figli ha indotto la diocesi di Mombasa a lanciare il progetto Solgidi (Solidarity with girls in distress, emanazione di Solwodi) per aiutare le bambine nate da genitori dediti alla prostituzione, affinché non seguano i loro passi. «Cerchiamo di far sì che i genitori non trascinino i loro figli nel loro sistema di vita notturno, sponsorizzando le ragazze in scuole piuttosto lontano dai loro genitori» dice Agnes Maillu, direttrice del programma Solgidi.
Padre Linus, la cui commissione si occupa della riabilitazione delle ragazze spinte in tale commercio da circostanze fuori del loro controllo, dice che molte ragazze sono disposte a smettere e avere una vita più decente; ma insistono perché, prima di cambiare, si procuri loro un’alternativa per poter sopravvivere. «Qualcosa sta muovendosi – continua padre Linus -. Varie persone ci aiutano in tale riabilitazione, collaborando con la diocesi di Malindi».
Rimane ancora il problema delle ragazze imprigionate in ville e residenze private. La signora Emma ha raccolto varie idee, per liberarle e trovare lavori alternativi, ma per ora è impossibile realizzarle, conclude amaramente: «Tutti sanno che quelle case sono zone proibite».

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«MANI PULITE» MADE IN KENYA

Lo sapevano tutti, ma non si osava parlarne in pubblico. Sui giudici circolavano i nomignoli coloriti: iena imparruccata, bigliettaio, kifagio (spazzino), raccatta palle, sticky fingers (dita adesive), toga puzzolente, mani unte, casello daziale… La gente diceva: «Non sprecare i soldi con gli avvocati. Paga il giudice».
Ma bisogna dare atto al governo di Kibaki, per avere avuto il coraggio di rivelare in pubblico il marciume accumulato negli ultimi 25 anni del regime di Moi.
Le due inchieste in corso, Goldenberg e quella sui giudici corrotti, sono solo una parte delle tragiche vicende occorse in Kenya sin dall’indipendenza, come i casi Ouko, Kaiser, Kariuki, Mboya, Pinto, Muge, Julie Ward, Boyles, Makenzie, Mbai e altri assassinati. E poi scontri tribali, con l’espulsione d’intere popolazioni; torture di Nyayo House, saccheggio degli enti parastatali, banche fatte fallire, elezioni truccate, appalti fraudolenti.
Per fare giustizia sui casi annoverati, occorrerebbe una pletora di costose commissioni. Per il momento, ci si può accontentare di portare avanti quelle in corso, dando atto al governo del coraggio dimostrato per metterle in atto.
Limitandoci alle vicende dei giudici corrotti, riportiamo le «tariffe» medie richieste dai giudici, a partire dai gradi più alti: giudice Corte d’Appello 166.600 euro; giudice dell’Alta Corte 16.600 euro; magistrato ordinario 1.660 euro; impiegato legale 56 euro.
Poi ci sono tariffe per i servizi speciali: 555 euro per la remissione per offese minori; 6 mila per l’assoluzione per offese gravi; 11 mila per il proscioglimento dalla pena capitale. Infine tanti servizi minori: rilascio sotto cauzione (110 euro), rinnovo della cauzione (220 euro); variazione delle condizioni di cauzione (145 euro); agevolazione generale nella sentenza (555 euro); procurare una condanna falsa (890 euro).
Inoltre, magistrati corrotti domandano una tangente del 10-30% per ogni risarcimento monetario concesso in casi d’assicurazione, incidenti ecc. Non tutte le «tangenti» sono basate su soldi contanti. Alcuni domandano favori sessuali, o doni materiali, da qualche bottiglia di whisky a un bue grasso a seconda delle disponibilità del cliente.
Mentre i magistrati di bassa categoria sono pagati una miseria, ossia circa 320 euro al mese, quelli delle alte sfere, che sono anche i più corrotti, vengono adeguatamente rimunerati: un giudice della Corte d’Appello percepisce da 2.100 a 4.750 euro al mese, a seconda della anzianità raggiunta, senza contare altri benefici di cui godono: autovettura con autista, guardia del corpo, alloggio sussidiato con personale di servizio, indennità varie in contanti, assicurazione, ferie generose ecc.
Attualmente, oltre una ventina di magistrati sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. Tuttavia l’operazione «mani pulite made in Kenya» durerà a lungo.
Dulcis in fundo: è appena arrivata la notizia che non tutti i giudici sono succubi alla tentazione delle «mazzette» in contanti. Altri cedono a lusinghe di carattere più umano o perfino sentimentale. Una giovane donna magistrato, mentre conduceva una causa di divorzio, s’invaghiva dell’uomo in questione, tanto da andarvi a coabitare insieme prima ancora del termine del processo. La sentenza fu emanata speditamente.
G. Ferro (da Eldoret, Kenya)

Omwoyo Omwoyo