SAN PIETRO CLAVER Schiavo degli schiavi

Trecentocinquant’anni fa, I’8 settembre 1654, moriva a Cartagena de
Indias (Colombia) il gesuita spagnolo Pietro Claver, un santo che diede
la vita per il riscatto del popolo negro, umiliato e oppresso.

Escludendo il Brasile, in America Latina esistono all’incirca 15 milioni di afroamericani, concentrati in Haiti e presenti nelle zone calde dell’America di lingua spagnola. Si tratta di una minoranza razziale dimenticata ed emarginata anche dalla missione evangelizzatrice della chiesa.

LA SFIDA NERA

La situazione dei neri è stata abbordata ufficialmente per la prima volta nella Conferenza di Puebla (1979), facendovi riferimento due volte nel documento finale. Qualcosa, da allora, si è mosso a loro vantaggio; ma sono normalmente così dimenticati, da poter essere considerati come i più poveri tra i poveri americani.
Segundo Galilea, sacerdote cileno, profondo conoscitore dei problemi sudamericani, espone le ragioni di questa dimenticanza, dicendo che la razza negra non è considerata come «autonoma», ma «avventizia». E continua: «I popoli autonomi sarebbero i discendenti degli immigrati bianchi e degli indigeni… Per questo motivo si fa maggiormente sentire la consapevolezza della realtà indigena (anche nella chiesa) che non quella dei neri. Inoltre, i neri sono assenti nelle regioni più fredde; in quelle calde sono sparsi qua e là, senza formare chiaramente una unità culturale come gli indigeni».
Questa situazione (sempre secondo Galilea), avrebbe «avvelenato l’evangelizzazione della gente di colore presente fra noi, perché ha preteso di fare dei cristiani neri dall’anima bianca. Perciò, è evidente che gli afro-americani hanno perso le loro radici e identità: non formano più un popolo. Sono soltanto una minoranza etnica, priva di proprie radici culturali in America».
Questa situazione ha i suoi riflessi sulla missione. Infatti, sono pochi i sacerdoti e le religiose tra i neri ispano-americani. Fa eccezione Haiti, con la sua popolazione costituita in massa da razza morena.
E proprio qui sta la sfida, ammonisce ancora il sacerdote cileno: «Se la chiesa non è sensibile alle minoranze razziali e sociali, al settore dei poveri tra i poveri, come potrà essere più sensibile alle nuove sfide della povertà, dell’ingiustizia e dei diritti di tutti gli emarginati di questa nostra America tanto oppressa? Di più: se l’evangelizzazione non cerca di incarnare il messaggio, la catechesi, la liturgia, i ministeri, la vita consacrata in seno alle minoranze, come potrà in futuro evangelizzare “la cultura e le culture” che emergono dai rapidi cambiamenti sociali del continente, come richiede Puebla e, adesso, buona parte delle gerarchie? Le minoranze, infatti, sono il banco di prova e il luogo di elaborazione della missione».
La sfida che ci viene dal mondo dei neri riveste un certo carattere di riparazione. Nella storia della conquista e della prima evangelizzazione dell’America Latina, i missionari hanno lottato per i diritti degli indios, ma, salvo eccezioni, non hanno inspiegabilmente opposto resistenza all’importazione degli schiavi africani, né hanno difeso con identica energia la loro dignità.
Nella chiesa cattolica, a partire dal 1978, alcuni religiosi, tra i quali i missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti e anche laici hanno cercato di aiutare la chiesa ad affrontare la «sfida dei neri». Mettono in discussione l’ideologia che, per troppo tempo, ha privilegiato la razza bianca, essi cercano di far sì che l’afroamericano abbia più spazio nella chiesa e possa essere un cristiano nero. Inoltre viene sottolineato come l’afroamericano sia chiamato ad arricchire qualitativamente il cattolicesimo.
La prassi di illuminazione cristiana poggia su basi umane specifiche, dando il maggior spazio alla grazia. È, dunque, imprescindibile mettere al centro l’uomo «nero», così come egli si presenta, e riconoscere in lui un autentico soggetto capace di inculturazione cristiana.

CTTA’ EROICA E SCHHIAVISTA

Cartagena de Indias, denominata «città eroica» per la strenua difesa della sua indipendenza dal dominio spagnolo nel secolo xvii, dichiarata dall’Unesco «patrimonio culturale dell’umanità» per la sua storia e monumenti, chiamata «perla del Caribe» per le sue bellezze naturali, è stata per oltre due secoli la piazza di mercato degli schiavi africani.
Fondata nel 1533, favorita dalla posizione geografica, Cartagena divenne presto uno dei centri più ricchi dell’America spagnola. Il suo porto era il principale centro di smistamento di merci e di schiavi dalla Colombia al Venezuela, al Messico, all’Ecuador e Perú.
Il clima era pessimo per i venti freddi d’inverno e il caldo estenuante d’estate. Eppure, l’abbondanza dei giacimenti d’oro e d’argento della zona, attirava i mercanti europei assetati di ricchezze e onori.
Particolarmente intenso era però il traffico degli schiavi provenienti dall’Africa, assai redditizio per i trafficanti nonché per gli acquirenti. Perché la merce umana si potesse trovare sui mercati dell’America, si era creata una rete di organizzazioni che spingevano i tentacoli fino al centro dell’Africa.
Dai porti della Tripolitania, Marocco, Guinea, Congo, Angola, dove attraccavano le navi in attesa del carico, i negrieri si spingevano nel retroterra a intercettare «la merce». Quando il negriero riteneva di avee a sufficienza, intruppava le sue vittime, convogliandole in lunghe carovane verso i mercati del litorale, dove i bianchi attendevano. Costoro, finita la compera, cercavano d’imbarcare quanto prima gli schiavi acquistati.
Una terza parte di quelli che sbarcava in America moriva nei primi mesi dell’arrivo.
Così Alfonso Sandoval descriveva il loro arrivo a Cartagena: «Giungono alle nostre spiagge e sembrano piuttosto scheletri che uomini; vengono condotti a un gran piazzale o cortile, che si riempie immediatamente di gente, condottavi parte dall’ingordigia, parte dalla curiosità, parte dalla compassione. Tra questi, vi sono i padri della Compagnia di Gesù, che vengono per soccorrere e confortare o battezzare quelli che stanno per morire».
Tra di loro, spicca la carità eroica di Pietro Claver.

IL CONSOLATORE

Pietro Claver non era l’uomo delle denunce e recriminazioni, ma della consolazione mediante il servizio personale, tacito ed efficace testimone contro le ingiustizie del potere imperante.
La sua opera tra gli schiavi del porto di Cartagena raccolse sempre un consenso unanime, anche se si astenne dalle teorizzazioni dottrinali sul problema della schiavitù e dalle denunce dinnanzi alle autorità. Ebbe un’unica preoccupazione: la quotidiana attenzione e servizio agli africani schiavizzati. Era questa la sua vocazione: liberare con la carità, affidando ad altri il servizio della difesa giuridica.
Fra i difensori dei neri contemporanei del Claver, si distinse in Colombia padre Alfonso de Sandoval. Anche due cappuccini di Cuba, José de Jaca ed Epifanio Moirans, sostennero che la schiavitù africana era ingiusta: «I negri non si rendono liberi ricevendo il battesimo, lo sono già prima, per diritto naturale. Quindi, non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà; bensì, in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».
Ma il Consiglio di Spagna protestò, dicendo che senza la schiavitù, le Americhe sarebbero state condannate alla rovina totale. I due furono scomunicati e richiamati in patria. Purtroppo, lo sforzo fu per allora vano. In Colombia la schiavitù fu abolita soltanto nel 1830 dal presidente e liberatore Simón Bolivar.
In quel misero contesto, Pietro Claver rappresentò lo sguardo misericordioso di Dio sulla povera umanità schiava. Si era autodenominato «schiavo degli schiavi negri, per sempre»; e mantenne la promessa.
Era il 15 aprile del 1610, quando Claver s’imbarcava per raggiungere Cartagena de Indias. Aveva 30 anni ed era nato a Verdú (Lerida). Figlio di lavoratori, seguì gli studi secondo i criteri dell’epoca. Nel 1602, entrò nella Compagnia di Gesù e fece due anni di noviziato a Terragona.
Ebbe la fortuna di stringere amicizia con Alfonso Rodríguez, uomo di Dio, insignito di doni straordinari. L’anziano portinaio, con parole profetiche e sguardo luminoso, fissando l’amico, gli ripeteva: «Sì, Pedro, tu andrai nelle Indie e là farai grandi cose per le anime… Io lo so!».
E vi approdò alla fine di aprile del 1610. Durante la traversata, poté rendersi conto in che cosa consistesse la cosiddetta «febbre» degli spagnoli verso il Nuovo Mondo. Vi affluivano naviganti e mercanti, soldati e avventurieri, banditi e missionari, chi con avidità smodata e chi, come i missionari, con speranza apostolica.
Nel 1605, i gesuiti avevano aperto un centro in Cartagena, impegnandosi con fervore nei ministeri richiesti dai cittadini. Tra essi lavorava padre Sandoval, impegnato nel dramma della schiavitù, autore di varie opere e di una «Carta maxima portugaliensum» in cui erano segnalati i porti (a volte camuffati come in Cartagena) nei quali si effettuava la tratta dei negri e che veniva definita «la mappa dell’ignominia». Sandoval era anche un apostolo, che si recava personalmente dagli schiavi per aiutarli.
Quando conobbe Pietro Claver, capì che la sua opera aveva trovato un degno erede. Claver faceva le sue prime esperienze come discepolo di quell’impareggiabile maestro e completava i suoi studi a Santafé de Bogotá e Tunja. Nel 1617, Sandoval partì per il Perú e il Claver, già sacerdote, da quel momento rimase solo a svolgere quel compito.
Era l’epoca d’oro della tratta verso Cartagena; si calcola, infatti, che nel suo porto vi sbarcò più di un milione di schiavi negri, introdotti in America in sostituzione dei nativi indios per lavorare nelle miniere e in mille lavori pesanti, dove la debole struttura dell’indigeno non resisteva.

LA PAURA DEL SIGNORE

Dal galeone che avanza sul Mare dei Caraibi si può vedere il Picco della Poppa, baluardo-santuario della città di Cartagena. Lo scalo si trovava vicino all’entrata principale, all’interno della baia. Il veliero si accosta al grosso muro del forte e getta le ancore un po’ staccato dalla banchina. Il capitano fa sapere che non si può sbarcare, perché tutta l’armata è malata e manda a chiamare padre Claver, dicendo: «Stavolta non le mancherà il lavoro».
Ma non è necessario chiamarlo; egli è già in cammino, con volontari e interpreti. Appena spunta l’alba, il santo è alla finestra scrutando il mare, pronto ad accorrere prima che i rudi mercanti assalgano la nave.
Il giorno prima, ha assicurato il premio di nove messe a chi gli annunci l’arrivo; premio caro al governatore e a vari ufficiali del porto, i quali fanno a gara per conquistarselo. C’è poi un ragazzo che fa la sentinella, così bravo e lesto che non si lascia mai cogliere alla sprovvista.
Ecco allora che il Claver si presenta con il denaro, i vestiti e le vettovaglie raccolte nel solito giro per la città presso i suoi numerosi ammiratori e benefattori. Egli li anima con buona grazia, ripetendo: «Ho bisogno di cose buone; è arrivata una falange di negri».
Prima che compaiano i medici, gli agenti, gli scaricatori, il santo è sul ponte e, appena un marinaio apre la botola della stiva, s’infila e scompare nell’orrido sepolcro. Centinaia di occhi languenti e abbarbagliati da quell’improvviso sprazzo di luce cercano di fissarsi su quell’ombra che si profila contro il boccaporto. Il primo approccio tra il gesuita e gli schiavi è di dolcezza. Si tratta di vincere il terrore, l’umiliazione, che arriva anche a eliminare, nella traduzione del Credo, la parola «Signore», affinché i poveri schiavi, con la loro mentalità già spaventata, non concludessero: «Dunque anche Lui ci tratterà come cani!».
Ecco che ora, nella nave-prigione, scendono sei o sette interpreti africani, amici del gesuita, vestiti di bianco che salutano i nuovi venuti nella loro lingua e fanno loro coraggio. Il padre passa tra le file, sorridendo; fa una carezza a questo, allenta i ceppi a un altro; si interessa con particolare affetto dei bambini; stende il suo mantello su un ammalato che trema, regala a tutti qualcosa: un biscotto, un’arancia, una mela, un sorso di liquore. Uomo di consolazione, li conquista con il linguaggio della carità.

Il mantello multiuso

Nelle tetre baracche dove attendono la loro sorte, gli schiavi vengono collocati in un certo ordine, prima di essere esposti al mercato e distribuiti nei campi di lavoro.
Claver non li abbandona: continua a visitarli per stringere amicizia e istruirli nella fede. Segue un buon metodo, dettato dall’esperienza: aveva imparato la lingua dell’Angola per potersi intendere direttamente con la maggior parte di quelli che arrivavano; per gli altri, si serve di interpreti.
Su una scheda prende nota dei dati di ciascuno per conoscerli meglio e non perdee le tracce. Visita con assiduità gli ammalati. A uno di questi, abbandonato nella capanna, porterà tutti i giorni cibo e cure ininterrottamente per 15 anni.
In tutti i casi penosi che si verificano in città e nelle piantagioni, interviene per infondere animo, correggere e, qualora sia necessario, redarguire i padroni per la loro crudeltà.
I suoi ammiratori sono unanimi nell’affermare che, per 40 anni, egli visse con le sue inesauribili bisacce, il rozzo bastone e il vecchio mantello «multiuso». A una persona che gli domandava, verso la fine della vita, quanti schiavi avesse battezzato, rispose che certamente erano stati non meno di 300 mila.
In effetti, tutti gli schiavi arrivati a Cartagena durante quei 40 anni (giungeva una dozzina di navi all’anno, con un carico medio di 700 schiavi ciascuna), l’avevano visto, o ascoltato i suoi insegnamenti e, se preparati, avevano ricevuto il battesimo prima di partire per altre direzioni.
Gli ultimi anni della vita di Pietro Claver furono penosi: le forze diminuivano, specialmente dopo l’epidemia del 1650, che lo colpì e paralizzò, impedendogli qualsiasi movimento per quattro anni; tempo che egli trascorse confinato in una piccola cella, dimenticato da tutti, con cure scarse e assistito malamente da uno schiavo nero. Muore all’alba dell’8 settembre 1654. Canonizzato nel 1888, nel 1896 viene dichiarato patrono universale delle missioni fra i negri da Leone XIII.

Box 1

L’IMBARCO

Il negriero Degrandpré così descrive la notte della partenza di una nave di schiavi: «La cabina del capitano è sopra la stiva e il pavimento non è di grosso spessore. Più volte egli è svegliato dal rumore e dai gemiti. Gli sventurati si vedevano sul punto di lasciare per sempre la patria. L’incertezza dell’avvenire incuteva loro sgomento di morte, poiché erano persuasi di vivere i loro ultimi istanti e si aspettavano di venire uccisi e mangiati l’indomani».
Assicura il negriero che i loro singhiozzi e canti di dolore spesso turbavano la sua anima… E padre Sandoval, missionario in Cartagena, spiegava: «Gli uomini stessi che li conducono, m’hanno assicurato che quegli esseri miserabili sono legati a sei a sei per mezzo di cerchi al collo, e a due a due con le catene ai piedi, in modo tale che sono ridotti all’immobilità. Essi vengono rinchiusi sotto il ponte, in luogo dove non penetra luce alcuna: uno spagnolo non potrebbe affacciarsi senza svenire, tanto è il puzzo, la strettezza e la miseria del loro ricovero». Gli uomini sono nudi; alle donne si concede uno straccio.

Box 2

«Un laccio» tra due culture

Esprimo la mia profonda ammirazione per questo esemplare religioso della Compagnia di Gesù, insigne colombiano nato in Spagna, di cui il mio predecessore Leone xiii disse: «Dopo il Cristo, è l’uomo che più mi ha impressionato nella storia».
Il suo messaggio ed esempio conservano un’attualità universale che distingue il vero seguace di Cristo. Si è fatto «schiavo degli schiavi negri per sempre»; per loro consacrò le sue migliori energie, per la difesa dei loro diritti come persone e come figli di Dio consumò l’esistenza e, in una prova eroica d’amore al fratello, consegnò la sua vita.
Ma Pietro Claver non limitò l’orizzonte della sua opera agli schiavi, lo estese con prodigiosa vitalità a tutti i gruppi etnici o religiosi che soffrivano l’emarginazione; prigionieri, stranieri, poveri e oppressi, schiavi al lavoro in costruzioni, miniere e fattorie ricevettero la sua visita, conforto e consolazione.
In un ambiente duro e difficile, in cui i diritti umani erano violentati senza scrupoli, alzò coraggiosamente la voce contro i dominatori, dicendo loro che quegli esseri oppressi erano uguali ai loro oppressori nella dignità, nella loro anima e vocazione trascendente.
Con profondo senso pedagogico, trasmise all’emarginato la coscienza della sua dignità, gli fece apprezzare il valore della sua persona e del destino al quale Dio, padre di tutti, lo chiamava. Così spezzò le barriere della disperazione, seminò la speranza, si adoperò per trasformare una realtà ingiusta, senza predicare vie di violenza fisica o di odio; così venne creando un laccio d’unione tra due razze e due culture…
Egli è l’uomo dell’offerta totale di sé, in una vocazione sacerdotale per gli altri. Di fronte alle necessità pressanti che scopre intorno a sé, egli non si risparmia, ma si offre interamente a tutti per tentare di alleviarli e liberarli dall’oppressione e per dare loro la dimensione completa della loro esistenza.
Vedendo i risultati stupendi conseguiti, con frutti che solo un amore illimitato e saldamente fondato in Dio è capace di raggiungere, ci accorgiamo che siamo di fronte a una vita feconda, degna di essere imitata. Vi propongo dunque questo esempio di uomo e di religioso sacerdote, affinché serva di modello a coloro che non si accontentano di piccoli ideali e vogliono realizzarsi in una generosa consegna agli altri.

Giovanni Paolo II

Brunalda Bonardo




I LUOGHI DELL’INFINITOLa casa di Mosè è in Africa

Quasi un pellegrinaggio dell’anima, dove bellezza del sito e dell’arte, solitudine e clima mistico creano una autentica e indimenticabile esperienza religiosa.
I luoghi di culto sono i testimoni nel tempo dell’intelligenza e della cultura dei popoli: monasteri, abbazie, conventi e chiese, spesso suggestivi e affascinanti, rappresentano un baluardo di fede, di storia, di realtà umane talvolta anche eroiche.
Una rinascita di ricerca spirituale o semplicemente religiosa, talvolta legata a tradizioni popolari, sembra rifiorire dalle ceneri di un mondo religioso mai sopito, anche se spesso e in vari luoghi osteggiato.
Un lungo «viaggio» tra monasteri e chiese di ogni parte del mondo cristiano farà emergere, fra antiche mura e preghiere sommesse, quell’atmosfera di fede che ci lega al passato come una mistica armonia mai dimenticata.

UN’ABBAZIA NEL DESERTO

«Keur Moussa» in lingua senegalese significa «Casa di Mosè». È uno strano nome per un monastero contemplativo fiorito dal nulla in un ambiente interamente musulmano. Il luogo scelto si chiama appunto Keur Moussa e dista dalla capitale Dakar una cinquantina di chilometri.
Non è un monastero famoso, non ci sono icone e sculture di gran pregio, ma ciò che lo rende unico nel suo genere è quello di essere una abbazia benedettina proprio come quella di Solesmes, in Francia, dalla quale provengono questi monaci.
Ma come riuscire a fondare un monastero cattolico proprio in una terra dove la fede coranica è seguita dal 92% della popolazione, mentre il rimanente è animista? La risposta dei monaci fu ed è questa: adattamento della fede cattolica alle diverse realtà locali. Un compito decisamente impegnativo per quei primi nove monaci ai quali era stato affidato questo compito: aprirsi alla cultura locale nei modi e nei tempi più opportuni. Un compito non indifferente.
La tranquilla vita di un monaco benedettino, scandita da preghiere, lavoro intellettuale, artigianale e canti liturgici, si è trasferita, quasi per incanto, nel 1963 in una terra a dir poco desolata, tra gente ostile e sospettosa, che viveva in misere capanne, dove il massimo dell’occupazione era rappresentato dall’allevamento di un piccolo gregge di capre affamate.
L’impresa di questi monaci si presentò fin dall’inizio piuttosto difficile: entrare in contatto con la popolazione non era certo come accogliere i pellegrini di Solesmes. Era necessario procedere per gradi, manifestando interesse per il luogo e la gente che, per quanto diversa nel modo di vivere, aveva pur sempre una sua cultura tutta da scoprire.
Momenti di vita, raccontati dai testimoni di quei primi anni di apostolato africano, svelano un tessuto di esperienze fatto di intuizioni, approcci, osservazioni di vario genere, quasi una strategia per assorbire meglio l’atmosfera del luogo e dei suoi abitanti. Coraggio, fede e iniziative interessanti hanno dato col tempo ottimi risultati.

KORÀ: UNO STRUMENTO CHE CONQUISTA

I monaci inoltre hanno scoperto come far leva sull’animo africano, così sensibile alla manifestazione musicale. Uno di loro, padre Catta, un tempo segretario del maestro del coro gregoriano della abbazia di Solesmes, è riuscito ad accompagnare il canto dei monaci al suono della korà, un tipico strumento musicale dell’Africa occidentale. Non era un organo, naturalmente, ma una grande cassa armonica tradizionalmente ricavata da una… zucca!
Lo strumento è più complesso di quanto si possa immaginare, data l’origine: una cassa armonica e un bastone, dal quale partono una ventina di corde inserite in un ponticello perpendicolare al piano armonico. Da questo insolito strumento esce un suono simile a quello dell’arpa, mentre la tecnica di suono è analoga a quella di una chitarra spagnola. Quel suono ha conquistato prima padre Catta, poi i confratelli e infine un compiacente cantastorie locale stupito ed entusiasta quanto quegli uomini vestiti di grigio, che volevano imparare da lui a suonare lo strumento per eccellenza della sua terra.
Il suono della korà, nella piccola chiesa dei monaci, attirò un mattino un anziano del villaggio, che vincendo sospetto e ritrosia volle assistere alla preghiera mattutina. L’impressione che ne ricavò fu non solo buona, ma decisamente rassicurante, se le parole con cui descrisse l’avvenimento alla sua gente furono: «Dio è là».
Curiosa gente, avrà pensato anche il cantastorie, sentendo cantare dai monaci dei salmi in una lingua sconosciuta, dalle parole incomprensibili, ma dal suono affascinante. L’antichissima liturgia latina era diventata una mano tesa, un linguaggio senza parole, un’intesa più forte della paura dello straniero.
Sono passati trent’anni e il repertorio musicale copre oggi ogni momento della liturgia e dell’anno liturgico.

OLTRE LA MUSICA

Ma ci può essere qualcosa di comune tra un canto in stile gregoriano e una musica africana tradizionale? Sembra di sì, se oggi i monaci non solo suonano la korà come se l’avessero sempre avuta tra le mani ma, secondo la tradizione del monastero di Solesmes, producono dischi e audiocassette che raggiungono con successo il mercato francese.
L’iniziativa di questi monaci (oggi sono più di 40, e alcuni del posto) non si è fermata lì: hanno creato un piccolo laboratorio dove ogni anno costruiscono una cinquantina di korà; hanno irrigato e coltivato quel deserto che circondava la nascente abbazia; hanno costruito una scuola primaria, un dispensario medico, un ufficio della Caritas per aiutare le famiglie, una scuola di tecnici agricoli e un laboratorio caseario dove il latte di quelle caprette affamate si trasforma ogni giorno in gustosi formaggi.
Potevano fare di più?

Liliana Pizzoi




RELIGIONI STRUMENTO DI PACESulla via di Allah (3)

Per capire gli elementi di pace e non violenza presenti nell’islam, è fondamentale comprendere il concetto del jihad (sforzo). Esso non implica la guerra, tanto meno la «guerra santa», ma non la esclude, a certe condizioni.

«O voi che credete! Entrate tutti nella Pace. Non seguite le tracce di Satana. In verità, egli è il vostro dichiarato nemico» (Corano xi,208); «Con essi Allah guida sulla via della salvezza quelli che tendono al suo compiacimento. Dalle tenebre li trae alla luce, per volontà sua li guida sulla retta via» (Cor v,16); «Allah chiama alla dimora della pace e guida chi egli vuole sulla retta via» (Cor x,25); «Fu detto: “O Noè, sbarca, sbarca con la nostra pace, e siate benedetti tu e le comunità (che discenderanno) da coloro che sono con te”» (Cor xi,48); «Colà la loro invocazione sarà: “Gloria a Te, Allah”; il loro saluto: “Pace”» (Cor x,10); «Coloro che invece credono e operano il bene li faremo entrare nei Giardini dove scorrono i ruscelli e vi rimarranno in perpetuo con il permesso del loro Signore. Colà il loro saluto sarà: Pace» (Cor xiv,23).
Non possiamo affermare tout-court che l’islam sia una religione pacifista o pacifica, ma neanche il contrario, che sia, cioè, basata sulla guerra, il qital o il harb (il jihad, in realtà, significa «sforzo» e non guerra).
Invero, il dibattito sulla natura violenta o nonviolenta dell’islam è tuttora in corso e coinvolge molti studiosi musulmani, in Oriente come in Occidente. E, in questo dibattito, fondamentale è affrontare il complesso significato di jihad.

AL JIHA FI SABILI-LLAH
SFORZO SULLA VIA DI ALLAH

«Il jihad si distingue in base all’orientamento (verso l’interiorità o verso l’esterno) e al metodo (violento o nonviolento). Il jihad esteriore può essere inteso come la lotta per eliminare il male all’interno della ummah (la comunità dei credenti, ndr); jihad è il comando di Allah onnipotente e gli insegnamenti del profeta Muhammad, i quali impongono al credente una continua verifica della propria idoneità a combattere la tirannia e l’oppressione – il continuo adeguamento dei mezzi all’obiettivo di realizzare la pace e inculcare la responsabilità etica»1.
Satha-Anand, docente presso la facoltà di scienze politiche all’università di Bangkok, in Thailandia, pacifista, musulmano, seguace di Gandhi, impegnato nella nonviolenza, analizza i concetti di salam, pace, e di jihad, sforzo, nel Corano giungendo alla convinzione che quest’ultimo significhi «lottare contro oppressione, dispotismo, ingiustizia nel nome degli oppressi, qualunque essi siano».
A sostegno della sua tesi cita le sure ii,190: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono»; ii,191: «Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla santa moschea, fino a che essi non vi abbiano aggrediti. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti»; viii,39: «Combatteteli finché non ci sia più politeismo, e la religione sia tutta per Allah. Se poi smettono… ebbene, Allah osserva quello che fanno»; iv,75: «Perché mai non combattete per la causa di Allah e dei più deboli tra gli uomini, le donne e i bambini che dicono “Signore, facci uscire da questa città di gente iniqua”».
Inoltre Satha-Anand afferma che jihad indica uno «sforzo o tensione verso la giustizia e verità, che non necessariamente implica violenza»2.
La radice di jihad è jhd, che, nella prima forma verbale jahada, significa letteralmente «cercare, sforzarsi, tentare, impegnarsi, battersi, lottare, affaticarsi»; nella terza «sforzarsi, tentare, cercare, impegnarsi, lottare». Ma numerose sono le sue accezioni nell’islam e gli ambiti di utilizzo. Il primo è quello afferente all’individuo e alla sua natura più intima e profonda, composta da negatività e positività. Il contrasto contro le forze «oscure» dell’essere, quali la collera, avidità, animalità, violenza, potere, può essere inteso come jihad, sforzo sulla via del miglioramento, della «rivoluzione umana».
Tale jihad viene definito jihad an-nafs, «sforzo dell’essere, dell’anima». Esso è il cuore della spiritualità islamica perché rappresenta la lotta continua tra bene e male indirizzata all’autocontrollo, all’evoluzione verso livelli di spiritualità superiori e alla ricerca di Dio.
Un altro significato è quello dell’impegno bellico, che viene definito nei termini di al-qital. La logica che muove il principio del jihad an-nafs è qui applicata sul piano comunitario e socio-politico: lo sforzo contro la propria natura oscurata diventa lo sforzo di resistenza alle aggressioni estee che colpiscono la comunità. Si leggano, al proposito, i già citati versetti della sura ii,190-1913 e il ii, 216: «Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che, invece, è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva».
Scrive ‘Ali M. Scalabrin nel suo sito4: «Allah, nel Corano, non ammette la guerra per scopi politici, o altro che esuli dalla legittima difesa; in tutti gli altri casi viene considerato un omicidio, naturalmente, proibito, nell’Islam, come continuità dei 10 comandamenti della Torah. “Oh voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso, e non uccidetevi da voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi” (Cor iv,29).
“Il credente non deve uccidere il credente, se non per errore. Chi, involontariamente, uccide un credente, affranchi uno schiavo credente e versi alla famiglia (della vittima) il prezzo del sangue, a meno che essi non vi rinuncino caritatevolmente. Se il morto, seppur credente, apparteneva a gente vostra nemica venga affrancato uno schiavo credente. Se apparteneva a gente con la quale avete stipulato un patto, venga versato il prezzo del sangue alla sua famiglia e si affranchi uno schiavo credente. E chi non ne ha i mezzi, digiuni due mesi consecutivi per dimostrare il pentimento verso Allah. Chi uccide intenzionalmente un credente, avrà il compenso dell’inferno, dove rimarrà in perpetuo. Su di lui la collera e la maledizione di Allah e gli sarà preparato atroce castigo” (Cor iv,92-93). “La sua passione lo spinse ad uccidere il fratello (Caino e Abele). Lo uccise e divenne uno di coloro che si sono perduti. Poi Allah gli inviò un corvo che si mise a scavare la terra per mostrargli come nascondere il cadavere di suo fratello. Disse: Guai a me! Sono incapace di essere come questo corvo, sì da nascondere la spoglia di mio fratello? E così fu uno di quelli afflitti dai rimorsi.
Per questo abbiamo prescritto ai figli di Israele, che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I nostri Messaggeri sono venuti con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra” (Cor v,30-32). “A chi crede in Allah e nel giorno del giudizio è vietato procurare alcun male al proprio prossimo; gli è, invece, fatto obbligo di essere gentile, specialmente con gli stranieri e di dire la verità ed astenersi dalla menzogna” (Hadith profeta Muhammad)».

GIUSTIZIA E PERDONO

L’islam si è sviluppato da un bisogno radicato di giustizia, ‘adl 5: «Oh voi che credete, attenetevi alla giustizia e rendete testimonianza innanzi ad Allah, fosse anche contro voi stessi, i vostri genitori o i vostri parenti, si tratti di ricchi o di poveri! Allah è più vicino (di voi) agli uni e agli altri.
Non abbandonatevi alle passioni, sì che possiate essere giusti. Se vi distruggerete o vi disinteresserete, ebbene Allah è ben informato di quello che fate» (Cor iv,135); «Oh voi che credete, siate testimoni sinceri davanti ad Allah secondo giustizia. Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo. Siate equi: l’equità è consona alla devozione» (Cor v,8); «Chi commette una mancanza o un peccato e poi accusa un innocente, si macchia di calunnia e di un peccato evidente» (Cor iv,112); «In verità Allah ha ordinato la giustizia e la benevolenza e la generosità nei confronti dei parenti. Ha proibito la dissolutezza, ciò che è riprovevole e la ribellione. Egli vi ammonisce affinché ve ne ricordiate» (Cor xvi, 90).
Si è inoltre indirizzato, sin dall’inizio, verso la lotta all’oppressione, all’ingiustizia, alla tirannide dei potenti.
Sottolinea ancora Scalabrin: «L’islam proibisce l’attacco di civili innocenti. L’islam è religione di giustizia, di perdono. L’islam è una religione che garantisce la libertà del credo e della fede di tutti. Amare il prossimo tuo come te stesso per la causa di Allah».
Il jihad fi sabili-llah è lo sforzo, l’impegno sulla via di Allah. Secondo la shari’a (legge islamica), si tratta di un obbligo della collettività della comunità musulmana (nell’espressione araba di giurisprudenza islamica: fard kifaya, è sufficiente che siano solo alcuni membri della comunità a compiere jihad)».
Su un’analoga linea interpretativa si colloca Tariq Ramadan6: «Il termine jihad è uno dei più abusati e meno compresi dagli stessi musulmani. Molti di essi non resistono alla tentazione di usarlo per obiettivi politici propri, mentre molti non musulmani misinterpretano il termine per ignoranza o per screditare l’islam e i musulmani.
In realtà, è stato ben specificato dai più eminenti studiosi della religione che il jihad rappresenta un mezzo di difesa contro l’aggressione e non è mai sinonimo di “attacco offensivo”. Il jihad non è uno strumento di guerra contro innocenti, né un mezzo per mostrare i muscoli o tiranneggiare i deboli e gli oppressi.
La parola jihad significa, piuttosto, “sforzo” e più precisamente sforzo interiore, lotta per raggiungere un determinato obiettivo, di norma spirituale. Il termine, nella sua accezione più vasta, ma anche più semplicistica, indica uno sforzo serio e sincero che il credente compie in una duplice direzione, quella personale e quella sociale, per rimuovere il male, l’indolenza e l’egoismo da se stessi, l’ingiustizia e l’oppressione dalla società. La giustizia, nell’ottica islamica, non si raggiunge attraverso la violenza o la prevaricazione, ma attraverso lo sforzo interiore e personale di ciascuno, con mezzi leciti e istruttivi che possano spingere alla conoscenza, alla perfezione, per quanto è possibile a esseri imperfetti quali gli uomini. Lo sforzo è, dunque, sociale, economico e politico. Jihad significa lavorare molto per realizzare ciò che è giusto: il Corano lo nomina 33 volte, e ogni volta esso ha un significato differente, ora riferito a un concetto come la fede, ora al pentimento, alle azioni buone, all’emigrazione per la causa di Dio. Nell’accezione più vera e completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve compiere per riuscire a conformare il proprio comportamento alla volontà di Dio».
Il jihad non è una guerra, dunque, ma può diventarlo se la situazione di pericolo lo richiede. Continua Ramadan: «L’islam è una religione di pace, ma ciò non vuol dire che accetti l’oppressione, o che chieda la passività o una generica presa di distanza di fronte all’ingiustizia. L’azione è importantissima, ma l’islam ci insegna a fare il possibile per eliminare tensioni e conflitti, e per lottare contro il male e l’oppressione attraverso mezzi pacifici e non violenti fino a quando sia possibile. Il termine jihad, in questo contesto, indica anche lo sforzo materiale teso a difendere se stessi, la propria famiglia e paese da attacchi estei e lo sforzo morale per rafforzare il proprio carattere ed essere pronti anche al sacrificio estremo pur di raggiungere quell’obiettivo. La guerra è permessa, nell’islam, ma solo quando i mezzi pacifici, quali dialogo, trattati e negoziati siano falliti: essa deve essere evitata con tutti gli strumenti possibili. Il suo scopo non è convertire con la forza, né colonizzare o rubare terre e risorse altrui. “Il migliore – disse il profeta – è dire una parola di condanna contro un governante ingiusto”».

GUERRA SANTA

Quando si parla di jihad, in Occidente, è facile equivocare o fraintendere, o forse leggere, adattare i «significanti» di altre culture con i propri «significati» e tradizioni storiche, con i riferimenti alla civiltà di appartenenza. Così il jihad viene, in qualche modo, assimilato alle crociate, alla «guerra santa».
Nel mondo occidentale ci è stato presentato questo termine secondo il significato completamente diverso e negativo di «guerra santa».
Le ragioni di questa manipolazione del vero significato vanno ricercate nella storia. Le numerose guerre di conquista territoriale dei primi califfi arabi post-islamici che arrivarono a espandere il dominio arabo (quindi musulmano) fino alla Spagna e il parallelo ipotetico fra queste guerre e le crociate dello stato-chiesa, nella contesa fra cristiani e saraceni della città benedetta di Gerusalemme hanno indotto i mass-media occidentali a tradurre il termine jihad, molto usato dagli arabi per reclamare giustizia, con guerra santa.
Tale interpretazione ha fatto e fa, tuttora, molto comodo all’informazione occidentale per parlare di «guerra di religione», quando si parla negativamente dell’islam, associando tale affermazione alla presunta arretratezza mentale (a sentir loro) dei paesi islamici.
Non si esclude, comunque, che possano esistere, in talune applicazioni giuridiche dell’islam di alcuni stati, significati diversi e contorti della stessa parola jihad, ma la ricerca e lo studio informativo sull’interpretazione della parola di Dio contenuta nel Corano e sulla vita di Muhammad ci hanno dato segni inequivocabili sui reali e molteplici significati della parola jihad 7.
I primi anni di vita della comunità islamica sono stati contrassegnati da persecuzioni a cui i musulmani hanno risposto in modo passivo. Solo con la loro «emigrazione» a Medina, con il proseguire e aumentare delle ostilità nei loro confronti, essi riceveranno l’autorizzazione, da parte di Dio, a difendersi. Ma a determinate condizioni: legittima difesa, situazione di oppressione, violazione della proprietà, aiuto ad altri che vivono in analoghe situazioni.
Il jihad, dunque, rappresenta una forma di resistenza. Ai musulmani non è consentito infatti fare la guerra per impadronirsi delle ricchezze altrui, di territori o del potere. O per far opera di proselitismo: il Corano afferma che «non c’è costrizione nella religione».
«Se nel corso della storia ciò è potuto accadere – spiega Ramadan -, quelli sono stati dei casi ma non la regola, e ad ogni modo, queste pratiche erano in contraddizione con gli insegnamenti islamici. La Pace è uno dei nomi di Dio e anche del paradiso. Tuttavia, l’islam ci insegna a non essere naif: gli esseri umani sono inclini al conflitto, al punto che l’equilibrio del mondo sembra passare attraverso l’equilibrio delle forze: “Se Iddio non respingesse gli uni per mezzo degli altri” la terra sarebbe perversa, spiega il Corano. Vuol dire che bisogna restare vigili e sapere che gli uomini sono capaci di fare il peggio, se nulla si oppone alla loro volontà di potenza. Nell’avversità, il Corano ci incoraggia a rivaleggiare in bontà, ma ci intima di non confondere la pace e la bontà con la rinuncia e il lassismo di fronte all’ingiustizia. Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza resistenza agli oscuri disegni della volontà di potenza e di potere. Di fronte all’invasione culturale dell’Occidente e al famoso “scontro” di civiltà, la maggior parte dei movimenti islamici non risponde con le armi e non pensa in termini di guerra armata. Per loro c’è ovviamente il jihad, ma questa resistenza passa attraverso la promozione dei loro valori, della loro identità, attraverso l’educazione, l’impegno sociale, l’iniziativa economica. Nel cuore delle nazioni soffocate dal peso della dittatura e del sottosviluppo, resistono lottando continuamente per il pluralismo, la libertà d’espressione e la solidarietà. Essi parlano veramente di jihad ed è proprio di questo sforzo e resistenza che si tratta»8.

MECCA E MEDINA

I riferimenti alla «guerra», cioè al harb (da haraba, essere furioso, fare la guerra, combattere), al qital (qatala, uccidere, combattere, fare la guerra) si ritrovano nel sopracitato periodo medinese9, quando Muhammad, capo di un gruppo o comunità, assume il compito di leader politico e non solo più religioso, e deve pertanto occuparsi anche degli aspetti temporali, organizzativi.
Scriveva Edgar Weber10 nel 1990: «La comunità di Medina deve rispondere a bisogni ben precisi mentre la lotta contro i politeisti della Mecca si fa sempre più decisiva. Il vocabolo che tradurrà chiaramente questa lotta è il verbo qatala. La lotta che il profeta ha ingaggiato contro i suoi detrattori, siano essi ebrei e cristiani o politeisti e abiuri, è presente ben 170 volte nel Corano nella radice qtl (uccidere), sia in forma verbale sia nominale. Dall’esame di questi versetti si impone una prima conclusione: Muhammad predica la guerra santa non astrattamente, come una verità assoluta, ma in condizioni particolari determinate sia dall’opposizione della Mecca o araba, sia dagli ebrei di Medina. La violenza raccomandata dal Corano è quindi occasionale e relativa».
Mecca e Medina segnano due periodi storici essenziali anche per la comprensione del significato dei termini jihad, harb, qital e della loro contestualizzazione storico-politica, contrassegnata dal passaggio di Muhammad da capo spirituale a politico e dalla lotta contro i nemici della comunità islamica (esteamente, politeisti della Mecca, ebrei, cristiani; internamente, ipocriti, rinnegati). Quindi, da una forte esigenza di autodifesa.
«La rivelazione coranica, dunque, ingiunge ai credenti di fare la guerra e uccidere, ma, non lo si ripeterà mai abbastanza, bisogna precisare il contesto e le circostanze che hanno motivato questi versetti. Infatti, presi isolatamente, essi possono apparire di una violenza scioccante. È dovere dei commentatori ricollocarli nel contesto per non travolgee il vero senso. Disgraziatamente oggi gli uomini di religione non hanno questa preoccupazione, ma si impadroniscono dei versetti coranici per giustificare un’azione ispirata più dall’ideologia che dalla dimensione spirituale dell’islam secondo il pensiero del profeta. Se si legge bene il Corano, il jihad non appariva affatto nel primo periodo della predicazione, al contrario»11.

LA PACE

Il periodo meccano, infatti, era contrassegnato da una visione più spirituale, meno operativa e politica dell’islam. Qui i riferimenti alla «pace», salam, sono molti: essa viene citata 25 volte, come augurio, invocazione, speranza, promessa.
Ma è anche vero che la piccola comunità non era ancora così visibile e pericolosa per il mantenimento dello status quo da scatenare la persecuzione dell’oligarchia meccana, detentrice di un vasto potere economico e politico.
«Possiamo notare invece che se l’islam primitivo, quello della Mecca, ignora la guerra e il ricorso alla violenza, è perché il profeta non si è ancora realmente confrontato con gli abitanti della Mecca. La sua predicazione monoteista non rappresenta ancora un pericolo per il vecchio ordinamento sociale. È a partire dal momento in cui il monoteismo diviene una visione sociale che l’opposizione si fa concreta. Predicare il monoteismo in un ambiente politeista era, in un certo senso, rivoluzionario. Muhammad diventava così vittima di una violenta opposizione alla quale egli credeva bene di rispondere con la medesima violenza, restando in tal modo fedele alla legge del deserto, che tutti i beduini ben conoscevano sotto la forma della razzia. Il jihad infatti non può essere totalmente separato dal suo modello preislamico: la razzia»12.
Dunque il jihad non costituisce una novità all’interno dello sviluppo dell’islam, bensì è un prestito dell’epoca precedente, quella preislamica.

LIMITI NELL’USO DELL’HARB

Violenza e guerra, per un musulmano, devono essere eticamente orientate. La violenza indiscriminata che colpisce bambini, donne, vecchi, case, campi, luoghi atti alla produzione di risorse vitali per una nazione, vendetta, stupro, ecc. sono vietate dal Corano: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, che Dio non ama gli eccessivi» (xi,190).
In occasione di una spedizione militare, il primo califfo Abu Bakr, fece il seguente discorso, riportato in Sahib Muslim: «Non commetterete slealtà, deviando dal sentirnero della rettitudine. Non mutilerete i corpi di coloro che avrete ucciso. Non ucciderete il fanciullo, né la donna, né un anziano. Non danneggerete la vegetazione, né brucerete le piante, specialmente quelle che producono frutti. Non sgozzerete le greggi del nemico: risparmiatele perché siano cibo per voi stessi. Quando incontrerete persone che hanno consacrato la loro vita alla missione monastica, passate oltre e non turbatele». E ancora: «Dio non cerca vendetta, nemmeno contro gli idolatri che adorano molti dei, la cui colpa è molto grave. Egli non permette la mutilazione neppure contro la manifesta infedeltà. Non praticare la mutilazione, perché è una pena molto grave. Dio ha preservato l’islam e i musulmani dall’odio e dall’ira incontrollata. Ricordati che caddero nelle mani del messaggero di Dio quei nemici che l’avevano rabbiosamente perseguitato, cacciandolo dalla sua casa e portando la guerra contro di lui, ma egli non permise che fossero inflitte loro mutilazioni».

TEORIA E PRATICA

Vediamo bene quale distanza corra tra quanto qui prescritto e la prassi di gruppi terroristici che hanno deviato, come sostengono molti studiosi e ulama (eruditi) dall’islam, per creare una via meramente politica e ideologica che strumentalizza la religione per propri fini. Guerra di difesa, quindi, e non di offesa, contro oppressione e ingiustizia.
Alla luce di ciò, non solo il terrorismo, dirottamenti, bombardamenti indiscriminati, ma anche l’uso delle armi nucleari o di sterminio di massa sono contrarie all’islam, perché consentono l’uccisione di migliaia di persone innocenti, la distruzione di case, campi, mezzi di produzione e sostentamento.
‘Ali Scalabrin afferma: «C’è anche un’interessante interpretazione su un hadith (discorso) del profeta, il quale vieta completamente l’uso del fuoco come arma contro le genti, secondo cui, riportato ai giorni nostri, ogni arma da fuoco sarebbe proibita nell’islam. Ciò probabilmente è vero, ma basare oggi un sistema difensivo senza armi da fuoco, contro dei nemici che sicuramente le usano è praticamente impossibile.
Sono quindi permessi estremi rimedi nel tentativo di salvarsi la vita, bene estremamente prezioso che Dio ci ha donato»13.

Box 1

CHI SONO I MARTIRI?

Chi è il muhajid, colui che si sforza sulla via di Dio?
«Coloro che partecipano alla lotta sulla via di Allah sono chiamati mujahidin: in vita hanno un’ottima considerazione e vengono spesso presi come esempio; nell’altra vita saranno tra i più vicini al Signore. E non possono essere considerati “morti”, quando vengono uccisi in battaglia. E non dite che sono morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Allah, che, invece, sono vivi e non ve ne accorgerete» (Cor II,154). «Non considerate morti quelli che sono stati uccisi sul sentirnero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per sua grazia, concede» (Cor III,169-170)14.
Ma la condizione è che questi musulmani abbiano opposto una resistenza «dignitosa» ad attacchi ingiusti, e che siano «morti in combattimento o dando la loro vita per colpire i loro persecutori per sola legittima difesa e senza eccedere». Solo costoro hanno diritto ad essere chiamati shuhùd, testimoni o martiri nell’islam. L’azione di «ribellione» alla persecuzione deve essere halal, lecita agli occhi di Dio, perché, se ritenuta haram, proibita, come l’uccisione di persone innocenti (vecchi, donne, bambini), o l’aver scatenato una reazione violenta contro un pericolo o una persecuzione non vera, è destinata a ricevere la punizione di Dio e non il compenso.
Sottolinea al riguardo Ramadan: «Il jihad non è terrorismo. L’aggressione verso civili innocenti è illecita nell’islam e non rappresenta jihad ma fasad, un’azione proibita e grave. Anche in guerra, i non-combattenti e gli innocenti hanno il diritto di essere salvaguardati nella vita, onore e proprietà. L’islam vuole stabilire un ordine mondiale in cui tutti gli esseri umani – musulmani e non musulmani – possano vivere con giustizia e pace, armonia e buona volontà. È nostro preciso dovere, come musulmani, sforzarci di comprendere di più la nostra religione, per poterla trasmettere agli altri in forma positiva. Nel contesto delle società occidentali in cui viviamo, è oggi questo il nostro jihad»15.

Angela Lano




COSTA D’AVORIOLa fine di un sogno

Il paese più ricco dell’Africa dell’Ovest
è all’impasse. La crisi scoppiata a fine 2002 non sembra risolversi.
Per la gente comune dopo i massacri ora
la difficoltà è mangiare. Testimonianze dal basso…

Abidjan. La capitale economica del paese, un tempo modello di sviluppo per tutta l’Africa occidentale, è oggi irriconoscibile. La gente ha fretta: è sospettosa. La sera tutti spariscono e i posti di blocco militari taglieggiano i pochi tassisti. I quartieri popolari sono blindati; i gruppi etnici si sono raggruppati tra loro e tentano, con improvvisate ronde, di garantire la propria sicurezza.
Al Plateau, la Manhattan africana, nel centro di Abidjan, la vita tra i grattacieli pulsa di giorno, ma al contrario di un tempo, si spegne presto la sera, così come sono ormai chiusi ristoranti e locali nottui.

I DUE PAESI

La guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002 ha spaccato territorio e società della Costa d’Avorio, creando divisioni tra la gente in base all’etnia e provenienza.
Il paese è diviso in tre: a nord il 40% è controllato da Forze nuove: militari e milizie che presero le armi contro il presidente Laurent Gbagbo, gli ex ribelli; il sud è in mano alle forze legaliste: le Fanci (Forze armate nazionali della Costa d’Avorio). Queste sono fiancheggiate e appoggiate dalle milizie del presidente, pericolosissime perché sfuggono a ogni controllo. In mezzo, la terra di nessuno: una striscia di terra larga decine di chilometri, che taglia il paese in due da est a ovest. È definita zona di «fiducia», controllata da 4 mila soldati francesi, equipaggiati con le più modee tecnologie (la missione Licoe) e dai caschi blu della Onuci, la missione delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio. Questi ultimi, alla fine dello spiegamento, saranno in 4.600.
Il popolo è sempre di più diviso: ci sono le etnie fedeli al presidente (beté, geré, athié, dida), quelle del nord (dioula, senoufo), gli immigrati stranieri (burkinabè, maliani, guineani, che sono circa il 26% della popolazione e hanno fatto la fortuna del paese, lavorando nelle piantagioni), le etnie che il potere sta cercando di «conquistare», come i baulé, legati al partito di Henri Konan Bédié (Pdci).
Ad alimentare la divisione c’è un disegno preciso del clan del presidente. Ma le radici della divisione sono da cercare più nel passato, quando alla morte di Houpouet Boigny (1993), il presidente Bédié inventò il concetto di ivorité, un nazionalismo pronto all’uso per fini politici (cfr MC ottobre 2003).
«Il paese è caduto in disgrazia – dice un tassista ad Abidjan, dal forte accento del nord -: come si può dire che è tranquillo se vengono in casa tua e ti ammazzano?». «Il paese è calmo – secondo la segretaria di uno studio di professionisti della capitale -; all’estero continuano a dire che qui è rischioso, si sta male: non è vero niente; vengano a vedere! È pieno di nordisti che vengono a fare i loro affari». Due punti di vista di persone di origine molto diversa.
La Francia, a vari livelli implicata nella crisi in Costa d’Avorio (circa 200 società francesi di medie e grandi dimensioni sono nel paese, senza contare quelle piccole), ha patrocinato la soluzione negoziale, portando tutte le parti alla firma dell’accordo di Marcoussis (presso Parigi), nel gennaio 2003. Accordo che ha visto la creazione di un governo di unità nazionale a cui sedevano tutti i partiti e i tre gruppi ribelli (Mpci, Mjp, Mpigo) riuniti sotto la sigla di Forze nuove. Goveo, che avrebbe dovuto risanare le ferite aperte della crisi: la legge fondiaria, la nazionalità, smilitarizzare gli eserciti ribelli e portare il popolo avoriano alle elezioni nel 2005.

SITUAZIONE BLOCCATA

Ma il processo di pace si è arenato: dall’inizio del marzo scorso, partiti di opposizione e movimenti ex ribelli si sono rifiutati di partecipare alle riunioni del consiglio dei ministri. «Gbagbo ha da subito reso impossibile ai ministri di opposizione di governare – confida una fonte – impedendo loro di nominare i direttori generali e dando lui direttamente gli ordini a questi ultimi».
Le Forze nuove (Fn) non si fidano di un presidente che puntualmente contraddice, con le azioni, le dichiarazioni e le firme degli accordi; quindi decidono di non deporre le armi. Guillaume Soro, segretario generale delle Fn, e ministro nel governo di unità nazionale, ha dichiarato nuovamente, il primo maggio scorso, che solo se il presidente lascerà il potere, si riuscirà a organizzare elezioni libere; il disarmo, fino ad allora, non ci sarà.
Il gioco si è fatto ancora più duro e la paura è cresciuta nella capitale dopo i massacri del 25 e 26 marzo. L’opposizione aveva in quei giorni indetto una manifestazione e il governo aveva proibito ogni raggruppamento di popolazione. Il presidente temeva che le forze ribelli si sarebbero potute infiltrare e prendere la capitale.
All’alba del 25, reparti militari, di polizia e «milizie parallele» bloccarono i manifestanti prima ancora che potessero organizzarsi, continuando la repressione per tutto il giorno seguente: il governo dichiarò 37 morti; il rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani parlò di almeno 120 morti, 274 feriti e 20 dispersi; il Movimento avoriano dei diritti umani di 300-400 vittime.
«Ci sono stati molti assassini ad Abobo. I dioula hanno sgozzato due gendarmi. È entrata in azione l’aviazione; altri militari sono entrati nelle case, uccidendo la gente e portato via i corpi. Non si sa dove li portassero, ma li facevano sparire» racconta una fonte (non dioula), del quartiere popolare Abobo, abitato da molti «nordisti» e immigrati.
«Sono sparite centinaia di persone in meno di 48 ore. Voci insistenti parlano di due fosse comuni, che prima o poi, salteranno fuori» afferma un funzionario della Commissione europea, da anni presente nel paese e con molti amici nei quartieri popolari.
Il dettagliato rapporto Onu chiama in causa, come responsabili, «alte cariche dello stato» e ciò ha fatto infuriare il presidente: è iniziata una campagna di discredito nei confronti delle Nazioni Unite, condotta con ogni mezzo (mass media fedeli al potere, studenti, milizie del presidente). La situazione politica e militare è di stallo; i due blocchi si stanno a guardare.

UN VICINO PERICOLOSO

Ma al di là dei giochi e dichiarazioni politiche, continuano le sofferenze della gente comune. David Bêhi Touamin, che ha vissuto la guerra là dove è stata più cruenta, ad ovest del paese, ai confini con la Liberia, acconsente a raccontarci la sua esperienza.
Tecnico agricolo, lavorava per un organismo non governativo prima della crisi; ma alla fine del 2002, in seguito agli scontri di settembre e la divisione tra nord e sud del paese, nell’ovest nasceva il Mpigo (Movimento popolare ivoriano del grande ovest).
«Quando i ribelli presero Danané, pensammo che si trattasse di qualcosa di politico. Ma subito ci accorgemmo che questa gente attaccava tutti quelli che avevano dei beni: ong e funzionari. L’accusa di aver nascosto armi o persone bastava per dar inizio al saccheggio. Chi si opponeva era morto.
Erano liberiani, ma anche sierraleonesi, già attivi nelle lunghe guerre civili dei loro paesi e nell’est della Guinea. Giovani sfaccendati yacuba (etnia della zona) erano con loro e indicavano dove c’era da saccheggiare: sparavano in aria ed entravano nelle case della gente».
«Presi i grandi magazzini e le attività commerciali, restava la popolazione. Quella che ancora non era scappata. Hanno cominciato ad attaccare i villaggi: Kavalé, Toulepleu, Giglò, nella zona dei geré. Questi, che non volevano i liberiani, hanno cercato di respingerli, ma sono stati massacrati. E poiché tra i liberiani c’erano i yacuba, è iniziato un conflitto tra le due etnie». Problema che persiste.
Ma gli avvenimenti più sanguinosi si ebbero quando le forze nazionali (Fanci) cercarono di riprendere la zona. «Le Fanci erano composte da quattro gruppi: militari, gendarmi, milizie geré e liberiani. I geré venivano a vendicarsi per gli attacchi subiti dai yacuba e recuperare il bottino. Attaccarono Zouan-Hounien, sparando a vista, senza domandare nulla. Fortunati chi incontrava prima i militari o i gendarmi: i yacuba venivano arrestati, con l’accusa di aver aiutato i ribelli».
I liberiani di cui parla David sono di etnia affine a quella geré e in opposizione a quelli che costituivano il Mpigo, milizie mercenarie assoldate dal presidente Gbagbo per «liberare» l’ovest. «L’arrivo di questi liberiani fu il momento peggiore – conferma un padre cappuccino che dovette evacuare la zona -. Mostrarono una ferocia senza precedenti».
«Ci sono stati molti morti – continua David -. Li ho visti prima di fuggire: in certi punti c’erano cataste di cadaveri. Hanno riempito i pozzi di corpi (inquinando così le falde e creando focolai di epidemia, ndr.), altri sono stati gettati sul bordo della strada. Nella casa dove vivo adesso, c’erano vari corpi nascosti. Non sappiamo chi e quanti sono morti: è impossibile conoscee il numero».
Una volontaria italiana che lavorava nella zona racconta storie truculente, riportate dai sopravvissuti: «Un uomo fu ucciso e fatto a pezzi davanti alla moglie e ai figli. Poi, i liberiani, obbligarono la donna a cucinarlo e in seguito a mangiarlo e a bere il suo sangue…».

COSTRETTI A SPOSTARSI

David, minuto, non più giovane, è yacuba e, come molti altri nella zona, è dovuto sfollare con la famiglia ad Abidjan. Dati delle Nazioni Unite contano un milione gli sfollati interni a causa della crisi, metà dei quali non sono ancora rientrati. La maggior parte è stata ospitata presso famiglie e conoscenti, gonfiando i quartieri di alcune città come Giglo, Abidjan, Yamoussoukro. L’ovest è stato il più colpito.
«Ho fatto quattro mesi ad Abidjan, cercando lavoro, ma senza successo. Quando sono arrivati i militari francesi, la situazione si è stabilizzata e siamo ritornati – continua David -. Oggi le cose sono cambiate anche nell’ovest: non ammazzano non saccheggiano più. Ma c’è molta fame. Le case sono state bruciate, la gente si è dispersa, ha perso tutto e non ha potuto coltivare. I campi sono abbandonati, tornati a savana incolta. Ma rimane la paura. Molta gente non vuole restare nei campi».
Anche l’ovest è tagliato in due: a nord Danané e Man; a sud Zouan-Hounien, Blolequin, Guiglo. Le prime sono in mano agli ex ribelli dell’Mpci; le seconde ai governativi; in mezzo i militari francesi.
Le milizie liberiane di entrambi i fronti sono state ributtate nel loro paese e la Licoe pattuglia la frontiera per evitare infiltrazioni. David dice che adesso è possibile passare i vari posti di blocco e spiega qual è il business oggi: «Io riesco ad andare a Danané e ritorno in giornata, pagando qualcosa ai posti di blocco. Ma non posso portare bagagli. Oggi tutti cercano di fare affari con il commercio; ma solo i dioula possono farli. Per questo la situazione deve essere mantenuta calma e i soldi devono poter girare, anche fisicamente».
I grossi commercianti e capi ribelli si stanno arricchendo: importano beni di consumo dai paesi del nord (Mali, Guinea, Burkina Faso) e vi esportano caffè e cacao comprato a basso prezzo. Portare mercanzie dalla zona ribelle verso Abidjan è ancora molto complicato.
«Adesso la gente sta rientrando. C’è anche una parte della popolazione della zona occupata dai ribelli che viene da noi perché ha paura. Non c’è legge nel nord, se non quella di chi ha le armi. Qui la guerra ha toccato anche i villaggi. Molte case sono state bruciate. Non si sa ancora chi è morto, chi è vivo ed è scappato. Per questo molti occupano le case ancora in piedi di chi è sparito; mentre può capitare di vedere le proprie cose, saccheggiate nei mesi precedenti, a casa di qualcun altro».
La sanità è in emergenza in entrambi i lati. Le scuole stanno riprendendo anche nel nord, ma i pochi insegnanti non hanno nessun controllo. «Ma il problema più grave è la mancanza di cibo – conclude David -. I commercianti dioula vendono il riso a 200 franchi (30 centesimi) al chilo, anziché a 260, ma la gente non ha i soldi per comprarlo».

Marco Bello




AL SUPERMERCATO DELLE RELIGIONIBusiness ecologia magia

DAMANHUR: una sètta
abbastanza recente e che ha,
come caratteristica, quella di stupire a tutti i costi.

Chi l’avrebbe mai detto che la Valchiusella, verdissima e selvaggia, a circa 50 km da Torino, fosse il centro dell’universo? È certamente un bel posto, con un torrente ricco di pregiate trote, siti archeologici di un certo interesse e boschi che in autunno regalano profumatissimi funghi porcini.
Un tempo, la valle fu uno dei tanti serbatorni operai del canavese, la silicon valley italiana ai tempi ruggenti dell’Olivetti; ma dopo il tracollo della fabbrica è divenuta famosa per la presenza della comunità Damanhur, fondata nel 1976 da Oberto Airaudi, carismatico personaggio che, attraverso un lunghissimo percorso, ha creato un vera «nazione» o, come preferiscono definirla i damanhuriani, una «città stato» o «città della luce», con una propria costituzione, un governo, una moneta (intea), una scuola privata (fino alla terza media).
«Damanhur è un esperimento sociale volto a dimostrare che, solo attraverso una vita giorniosamente mistica e comunitaria, è possibile oggi salvare l’umanità dal disastro morale ed ecologico cui l’attuale società post-industriale sta portando ineluttabilmente il nostro mondo. Damanhur sarà la città santa del futuro, la prima porta, il primo gradino, tramite il quale si potrà accedere ai grandi spazi della mente e dello spirito»1.
E ancora nella costituzione Damanhur si legge: «… tutti si adoperano a evitare qualsiasi forma di inquinamento o spreco nella vita quotidiana o nell’agricoltura».
Il riferimento alla crisi ecologica post-industriale, che negli anni ’70 veniva irrisa un po’ da tutti, ma ancora adesso, purtroppo, come è ben evidenziato dalla rubrica «Una sola madre terra» pubblicata su questa rivista, si può considerare l’elemento innovativo e di grande successo che ha portato i Damanhur a essere un punto di riferimento anche politico per la vita sociale di tutta la Valchiusella.
Non è un caso infatti che l’esplosione di adesioni sia avvenuta all’insorgenza della crisi Olivetti e dell’acutizzarsi dei problemi ambientali presenti sul territorio.
Molti erano rimasti delusi dalle promesse capitalistiche, senza lavoro e preoccupati per l’avvenire delle generazioni future: su questo zoccolo duro, molto pragmatico, si è innestata la visione esoterica, magica e sincretica voluta dall’Airaudi, che ha reso le sirene damanhuriane ancora più originali e affascinanti.

N egli anni ’80 i Damanhur sfruttarono perfettamente la scoperta di una nuova nicchia, solo lontanamente imparentata con la New Age, con dimostrazioni estreme, come il vivere nei boschi in totale isolamento, oppure con la nascita dell’agricoltura biologica (i primi in Italia) e ancora con le horusiadi, giochi nei quali si sviluppa l’ampliamento della percezione umana, volte a catturare l’attenzione della popolazione locale.
La piccola comunità divenne importante non solo nel numero di cittadini, ma anche negli affari, dato che le attività economiche, artigianato di altissima qualità e costo ebbero un vero boom.
Il continuo ingegnarsi portò alla quasi totale autonomia della comunità, anche in aspetti molto pratici, come la produzione di energia elettrica, fabbisogno alimentare, vestiti. Infine, nacque il filone della medicina naturale, anche in questo caso tra i primi in Italia, e fu l’ennesimo successo.
Nel 1992 i Damanhur vennero alla ribalta a livello nazionale con la scoperta del «Tempio dell’Uomo»: un gigantesco mausoleo di eccezionale valore ingegneristico e artistico, costruito in circa 15 anni all’interno di una montagna e nella totale segretezza.
Ma nel 1996 un fuoriuscito parlò alle autorità civili dell’esistenza di tale edificio, che rischiò di venire soppresso; ma dopo numerose petizioni, fu condonato il flagrante abuso edilizio e il tempio damanhuriano fu addirittura dichiarato «opera d’arte collettiva» dal Ministero dei beni culturali.
In quell’anno, la popolazione di Damanhur arrivò a 500 persone, distribuite a macchia di leopardo sul territorio della valle. Attualmente si possono contare circa 2 mila adepti in tutta Italia.
La scolarità dei cittadini è di livello superiore al livello nazionale e il fenomeno della fuoriuscita dalla comunità risulta molto marginale.
Come sopravvive, anzi, prospera e si espande la comunità Damanhur? Ristoranti cari, prodotti biologici extra lusso, migliaia di visitatori che ogni anno visitano il «Tempio dell’Uomo», corsi di medicina alternativa sono le maggiori voci.

I l credo damanhuriano è contenuto nel libro La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur, tramite Oberto Airaudi.
Ottimismo e consapevolezza della limitatezza della percezione umana sono le parole d’ordine, insieme ovviamente alla sostenibilità.
Tutto è in divenire secondo la filosofia damanhur: per raggiungere e sperimentare i tanti mondi in cui è immerso, l’uomo deve sperimentare e ricercare in continuazione.
A differenza del buddismo, che prevede la distruzione del karma come liberazione del dolore, i damanhuriani teorizzano come meta finale la «coscienza», cioè la partecipazione viva a tutte le forme di vita.
«Tale risultato, ovviamente, non si raggiunge con una vita sola, bensì attraverso una serie di nascite ripetute non solo nella forma uomo, ma anche in quella animale vegetale»2.
Il pensiero diventa complesso e alquanto ermetico, quando si teorizza la presenza degli «spiriti della natura», ovvero i veri signori della terra, con i quali si dovrebbe incessantemente trovare un contatto su piani sottili, ovvero luoghi che l’uomo per sua limitatezza inizialmente non riesce a percepire, a differenza delle piante e degli animali. Per riuscire in questo, l’uomo può utilizzare la magia, elemento doppio che raccoglie in sé fattori spirituali e tecnologici.
Si tratta di un pensiero piuttosto stravagante, con teorie ermetiche e fortemente sincretiche, in cui sono mescolate tutte le credenze religiose e filosofiche dell’umanità, dell’antica religione egizia alla mitologia classica, dalla religione celtica a quelle orientali, dalla modea ricerca scientifica all’ecologia e libero mercato…
Come dimostrato dai maggiori studi antropo-sociologici, il fattore rituale rappresenta un cardine delle nuove sètte: i Damanhur non fanno eccezione; anzi, la vita comunitaria, per molti aspetti fortemente spersonalizzata, trova legittimazione intea nella partecipazione ai più importanti riti. Solstizi ed equinozi, la commemorazione dei defunti, il rituale dell’uomo sono momenti in cui vengono date spiegazioni cosmogoniche che definire originali è assolutamente riduttivo.
Cerimonie rituali, preghiere, esperienze medianiche, giochi, assemblee, evocazione delle forze cosmiche si svolgono generalmente nel tempio all’aperto. Tale tempio non è dedicato a una divinità in particolare; tutti gli déi sono ben accolti, come segno di tolleranza e pluralismo religioso e filosofico. Tuttavia a Pan, un dio dell’antica Grecia, è riservato un culto particolare, poiché indica le forze vitali della natura che ora sono compromesse dall’inquinamento ambientale.

D alle ceneri della New Age sono nati centinaia di movimenti esoterici, la maggior parte dei quali sono scomparsi. Ma la comunità di Damanhur, a oltre 25 anni dalla nascita, gode di ottima salute e si può considerare in piena espansione, forse grazie alla ricetta che prevede occidente e oriente, tecnologia e spiritualità, creatività artistica e crescita economica, classici elementi New Age, ma rivisitati in salsa non fondamentalista.
I Damanhur non sono rivoluzionari; preferiscono definirsi «diversi». Anche per questa ragione le attività nella vita pubblica sono accresciute notevolmente, evitando così il rischio dell’elitarismo.
Ultimamente Damanhur ha dato grande prova di vitalità con l’acquisto di alcuni capannoni ex Olivetti, riutilizzati con scopi artistico-culturali e aperti alla popolazione tutta. Investimenti di notevole portata finanziaria, segno della solidità economica del gruppo, ma anche della voglia di interagire con l’esterno.
Pur considerandosi «nazione autonoma» o, secondo un rapporto di polizia, «un’organizzazione che ambisce ad assumere le caratteristiche di stato nello stato», alle ultime votazioni amministrative in Valchiusella i damanhuriani hanno avuto un grande successo, riuscendo ad eleggere un sindaco e 21 consiglieri comunali.
Note
1- Da: La via Horusiana. La strada verso la conoscenza secondo la scuola di Damanhur attraverso Oberto Airaudi, edizioni Horus, p. 29
2- Da: Costituzione damanhuriana, art. 5.

Maurizio Pagliassotti




RWANDAQual machete che nessuno fermò’

Un milione di morti sotto gli occhi
del mondo. Cosa causò quella tragedia? Conflitti etnici, retaggi della dominazione coloniale o altro? A 10 anni di distanza ancora ci si interroga. Mentre
la situazione nella regione dei «Grandi laghi» rimane altamente instabile.

Dieci anni fa il cuore dell’Africa sanguinava per la tragedia del Rwanda. Circa un milione di tutsi (ma anche molti hutu moderati) furono trucidati a colpi di machete in tre mesi, tra aprile e luglio del 1994. L’odio etnico, che da sempre ha strutturato i rapporti sociali tra i due maggiori gruppi etnici, ha raggiunto un atroce parossismo con la «soluzione finale» teorizzata e meticolosamente messa in pratica dagli estremisti dell’hutu power. In Africa e nella regione dei Grandi laghi tornavano a materializzarsi le peggiori previsioni degli «afropessimisti» che scommettevano sull’inevitabile deriva del continente. Il genocidio era un evento traumatico, un dramma storico che segnava uno spartiacque tra l’Africa di prima e quella del dopo genocidio.
La tragedia rwandese del 1994 è stata un’opera di sterminio tra le peggiori avvenute nel secondo dopoguerra. È quindi doveroso interrogarsi su come si sia arrivati ad una simile esplosione di violenza.
Il ruolo del colonialismo nella definizione delle identità etniche è ormai ampiamente accertato. Le autorità coloniali della Germania prima e del Belgio poi non hanno favorito sempre gli stessi gruppi sociali od «etnici».
In un primo tempo, le autorità coloniali avevano individuato nei tutsi i propri referenti di fiducia. Successivamente, negli anni Cinquanta, vennero invece preferiti gli hutu. Il momento di svolta nella scelta degli europei del proprio personale politico ed amministrativo di fiducia coincide con un mutamento nell’atteggiamento della chiesa cattolica. E con la scomparsa di una forte personalità e di un capace organizzatore come monsignor Classe (esponente di rilievo del movimento missionario francese del primo Novecento): «La morte di monsignor Classe, avvenuta nel gennaio del 1945, aveva concluso l’esperienza di una generazione di missionari “monarchici” cresciuti nel quadro del cattolicesimo francese del XIX secolo, rigido e conservatore». La nuova generazione di missionari, vicini al cristianesimo sociale belga, vedeva gli hutu come gli oppressi da aiutare. Così, «una contro-élite hutu si formò nelle scuole cattoliche e nei seminari» ed assunse ben presto ruoli politici, emarginando definitivamente i tutsi con la «rivoluzione sociale» del 1959. Il regime rwandese divenne sempre più autoritario ed oppressivo, mentre i tutsi emigrati all’estero per sfuggire alle persecuzioni costituivano le proprie organizzazioni politiche e militari per rientrare in Rwanda. Si arriva così all’epilogo del massacro nel 1994, ultimo capitolo dell’agire genocidario, esito di una sequela di avvenimenti storici e non più inspiegabile esplosione di violenza.
La «questione etnica» in Rwanda parte dalla comprensione del formarsi dei contrasti tra hutu e tutsi. I nodi della questione sono fondamentalmente tre: se sia più corretto affermare che si tratti di contrasti etnici o di contrasti socio-politici, e come ha agito il colonialismo sulla società rwandese nel definire le identità etniche.
Per quanto riguarda la prima questione, alcuni studiosi sostengono la tesi che la divisione hutu-tutsi sia essenzialmente sociale, riprendendo le analisi di Claudine Vidal secondo cui l’ubuhake (il contratto di vassallaggio feudale secondo il quale un proprietario di bestiame prestava alcuni capi ad una persona che così assumeva nei suoi confronti obblighi servili), «contrariamente a quanto affermato dalla visione “classica”, non si concludeva esclusivamente fra tutsi ricchi e hutu poveri ma, verosimilmente, fra due lignaggi tutsi di differente livello socio-economico». Inteso in questo senso, come afferma l’abbé Alexis Kagame, si può definire «tutsi chiunque possiede più capi di grosso bestiame anche se non di razza hamita».
Una lettura del conflitto come sociale anziché razziale è fondamentale, ma difficile da accertare con sicurezza, basandosi su fonti orali raccolte all’inizio dell’epoca coloniale. Molto più convincente invece l’analisi del secondo importante nodo della questione, ovvero l’impatto del colonialismo nella definizione delle etnie. Per analizzare tale problematica si può infatti ricorrere ai classici metodi dell’indagine storica, disponendo di numerose prove documentarie: gli archivi coloniali, i diari degli amministratori e dei missionari, ogni sorta di documenti riguardanti l’azione delle autorità coloniali. «Lo scopo principale delle milizie armate nel passato era proteggere Kigali dall’assedio del Fronte patriottico rwandese. Da quando è arrivata l’Unamir, gli è stato ordinato di censire tutti i tutsi che vivono a Kigali. Il nostro informatore sospetta che ciò venga fatto in previsione del loro sterminio».
L’11 gennaio 1994, con una nota riservata, il capo canadese dei Caschi blu inviati in Rwanda, generale Roméo Dallaire, avvertì l’Onu di quanto stava per accadere nel paese africano. Nessuno si mosse. Tre mesi dopo, il 6 aprile 1994, l’omicidio di Juvenal Habyarimana, capo di stato rwandese di etnia hutu, diede il via allo sterminio dell’etnia tutsi: stando a prove documentali, i morti furono 937 mila.
È necessario ripartire dalla storia del colonialismo e l’indipendenza del Rwanda, raccontando la salita al potere di Habyarimana e i primi scontri tra le due diverse etnie in cui si divide il paese: la maggioranza hutu e la minoranza tutsi.
Nel suo saggio Daniele Scaglione narra l’intervento delle forze di interposizione dell’Unamir e l’esplodere delle violenze. Infine, descrive i tentativi di ricostruire il paese e di consegnare gli autori dell’eccidio alla giustizia. Particolarmente drammatica risulta l’analisi del modo inadeguato con cui l’Onu preparò la missione dei 2.500 soldati dell’Unamir. Il generale Dallaire si trovò a gestire una truppa i cui uomini provenivano da 20 paesi differenti, tra cui Bangladesh, Ghana e Belgio. Per motivi di bilancio e per la sottovalutazione della situazione, i soldati furono male equipaggiati: la dotazione si limitò a veicoli leggeri di fabbricazione russa e a segnalatori luminosi privi di batterie, mentre mancò del tutto l’artiglieria. Inoltre, il generale dovette affrontare il difficile rapporto con Jacques Roger Booh, rappresentante dell’Onu in Rwanda, la cui tendenza era a minimizzare quanto stava avvenendo. Scaglione, nel suo lavoro, afferma: «Sul Rwanda l’Onu ha completamente fallito per responsabilità personale di funzionari, dirigenti e responsabili di governo. Se il Consiglio di sicurezza non è stato adeguatamente informato di ciò che accadeva è perché Boutros Ghali, Kofi Annan e i loro collaboratori hanno liberamente scelto di non farlo». L’insuccesso della missione fu vissuto da Dallaire anche come una sconfitta personale. Dalla narrazione emerge l’umanità del generale che, dopo l’ordine da New York di abbandonare il paese, scelse di restare con pochi soldati fidati. «Roméo Dallaire si è ammalato e a distanza di ormai quasi nove anni ancora non è del tutto guarito. Il suo corpo, la sua mente, non hanno saputo accettare quello che ha vissuto».

BOX 1

BUTARE CHIAMA, GENOVA RISPONDE

A seguito degli avvenimenti del 1994, un notevole numero di artigiani dell’area di Butare (a circa 3 ore d’auto dalla capitale Kigali), che facevano riferimento al «Centro dei mestieri», creato nel 1990 dalla cooperazione tedesca, non risultavano più essere attivi. I motivi principali di ciò dipendevano dal loro essersi rifugiati nei paesi limitrofi, oppure di essere scomparsi (morti o imprigionati). Senza contare che il Centro, luogo fisico di attività e identità degli artigiani, era andato distrutto.
Per rilanciare l’attività degli artigiani dell’area nel settembre 1996 è sorto un progetto sostenuto dalla Gtz (Cooperazione Tecnica Tedesca) che ha permesso la costituzione, nell’agosto del 1997, della Copabu (Cooperativa dei produttori artigianali di Butare), con i seguenti obiettivi:
• promuovere la vendita dei prodotti artigianali dei suoi membri
• fare conoscere i diversi mestieri presenti sull’area
• sostenere gli artigiani affinché venga fissato il miglior prezzo possibile alle loro merci
• organizzare fiere periodiche.
La Copabu è attualmente il riferimento locale per 954 artigiani della prefettura di Butare, 324 uomini e 630 donne. Di questi 99 sono soci individuali, mentre gli altri sono associati alla Copabu attraverso 35 associazioni di villaggio. A loro volta queste associazioni sono distinguibili perché esclusivamente femminili (sono 19 quelle associate alla Copabu), o maschili (7) o ancora miste (9).

Il gemellaggio
Dopo il genocidio, la Caritas Italiana era intervenuta in Rwanda con un programma d’urgenza che ha permesso di riabilitare quasi il 50% del settore sanitario. Un’équipe di operatori fino a tutto il 1999 è stata presente nel paese per sostenere attività in favore dei bambini di strada, dei carcerati (oltre 130.000) e piccoli progetti agricoli, d’allevamento e di costruzione di case. Nel 1998, grazie alla presenza a Kigali di Maurizio Marmo, referente del «Programma Grandi Laghi» della Caritas Italiana ed esponente del mondo del commercio equo e solidale, è stato possibile avviare il contatto che si sarebbe poi concretizzato nel progetto di gemellaggio.
Una prima missione nel febbraio del 1999, grazie anche al contributo del Comune di Genova, ha reso possibile la conoscenza reciproca tra La Bottega Solidale di Genova e la Copabu di Butare e la stesura di un primo documento d’accordo finalizzato a facilitare l’accesso ad un nuovo mercato estero per i prodotti degli artigiani e delle artigiane della Prefettura. Nell’ottobre 1999: arriva il primo container di prodotti rwandesi, reso possibile dalle prenotazioni di circa 70 botteghe del mondo di tutta Italia. Per la Copabu un aumento di fatturato del 60% rispetto all’anno precedente, per i consumatori delle botteghe una nuova opportunità di acquisto di prodotti africani e di informazione attraverso il materiale informativo che accompagna gli oggetti.
Ci sembra importante richiamare, nelle motivazioni del progetto, quanto scritto dalla giornalista Colette Braeckman: «Ogni volta che hutu e tutsi lavorano fianco a fianco, facendo sorgere dalla terra un’altra casa, è anche il nuovo Rwanda che si costruisce». E ancora, tratto da uno scritto di André Sibomana, sacerdote direttore della rivista Kinyamateka, scomparso nel marzo 2004: «Dobbiamo riapprendere a vivere insieme. Alcuni diplomatici – pensando senza dubbio che non saremo mai più capaci di coabitare – hanno suggerito la creazione di un Hutuland e di un Tutsiland. Questa idea non è soltanto stupida; è assai nefasta. Al di là del fatto che questa divisione dei rwandesi sarebbe una magnifica vittoria degli apostoli del razzismo, credo che non sia dividendo o spostando i problemi che li si risolve. Al contrario».
Il progetto ha anche questa ambizione: sostenere la sfida voluta dagli artigiani di Copabu e da coloro che si impegnano a livello locale per promuovere incontri tra le vedove del genocidio e le donne i cui mariti sono incarcerati. Una sfida difficile, ma possibile.
L.Rolandi

Luca Rolandi




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (quarta puntata)

VENEZUELA 2004 (quarta puntata)

Abbiamo visitato tre quartieri popolari (molto popolari) di Caracas:  La Dolorita, 23 de Enero, El Manicomio. Le persone incontrate ci hanno parlato di miserie umane (disoccupazione, violenza, droga, omicidi), ma anche di speranza in un futuro diverso.

«POVERI DI DENARO,
MA RICCHI DI CUORE E DI MENTE»

Nessuno nega i problemi, ma è bello vedere negli occhi il luccichio della speranza.

Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città. Caracas, «23 de Enero». All’uscita della metropolitana ti compare dinanzi uno di quei «bloques». È talmente grande, anzi incombente, che sembra ti debba cadere addosso da un momento all’altro. Non sono belli questi condomini di cemento armato, geometrici come alveari, ma non differiscono molto da quelli che popolano le nostre città.
«Ci abitano migliaia di persone», ci spiega Ramón Castillo, mentre su una vecchia auto raggiungiamo il cuore del «23 de Enero», un quartiere (qui si dice parroquia, a sua volta divisa in barrios e sectores) che conta circa 300 mila abitanti.

Il «23 di Gennaio» gode di una gran brutta reputazione. Anche per questo la gente che vi abita si è organizzata. Sono nati vari organismi di autogestione: le cornoperative di consumo e di trasporto, i periodici comunitari, i comitati di autodifesa, i gruppi sportivi e culturali, le comunità dei condomini (juntas de condominio), le associazioni dei vicini (asociaciones o asambleas de vecinos).

UN PRESENTE
DI DISOCCUPAZIONE

Con Ricardo, Cesar e Ramón saliamo ai piani alti di un condominio. La gente ci accoglie con una cortesia che non ha nulla di formale. Ci mettiamo a parlare su un balcone, dal quale si vede bene quanto il «23 di Gennaio» si estenda su questo cerro (collina) della capitale.

Chiediamo come funzionino le associazioni di vicini. «Sono organizzazioni – risponde Ramón – nate per risolvere i problemi di una comunità: l’acqua che non arriva, la strada da sistemare, il lavoro che non c’è. Il problema della disoccupazione è gravissimo. Il governo ha fatto qualche sforzo, ma il capitale privato non vuole contribuire a creare un nuovo Venezuela. Questa mancanza di lavoro colpisce soprattutto i giovani che, per questo, diventano facile preda di chi promette loro rapidi guadagni».

Ramón si riferisce alla piaga del narcotraffico che, pur se meno rispetto ad un recente passato, continua a fare vittime.

«Le organizzazioni di vicini cercano di fare in modo che la vita e la sicurezza delle persone estranee alle attività illegali siano garantite. Anche per questo favoriscono le attività di svago, culturali e sportive. Oggi, per esempio, c’è una festa…».
Con la mano ci indica il luogo, dove si sta svolgendo una festa con musica e partite di pallavolo e baseball. Lasciamo il condominio e ci incamminiamo verso la festa.

UN PASSATO
DI VIOLENZA E DROGA

Al centro sportivo incontriamo Alexis Pinto Valera, uno dei responsabili del Frente de resistencia popular Tupamaro.

«Ma – ci interrompe – sono anche membro dell’Asociación Civil Amigos de los Niños de Monte Piedad, un’organizzazione che come recita il nome si occupa di bambini. Noi pensiamo che ci siano delle attività che portano a migliorare lo spazio dove si abita. Ad esempio, il lavoro culturale, sportivo ed educativo con i membri più piccoli della nostra comunità».
Chiediamo perché il «23 di Gennaio» sia noto soprattutto per i problemi di droga.

«È vero – ammette Alexis -: negli anni ’90 abbiamo avuto una forte presenza del narcotraffico all’interno della nostra zona. Ma è qualcosa che ci hanno portato da fuori, per distrarre un po’ i gruppi sociali che si stavano consolidando. Guarda caso, il consumo e la vendita di droga iniziarono sotto il governo di Carlos André Perez.

Prima arrivò la marijuana, poi cocaina ed eroina; in questo momento c’è il crack, basuko o la piedra, droghe che uccidono soprattutto tra i giovani».
Molte persone del «23 di Gennaio» sono cadute in questo giro perverso. Tra queste anche Martin, fratello del nostro interlocutore, ucciso dai narcotrafficanti.
«Nel periodo peggiore – racconta – nel bloque dove abito su 150 appartamenti almeno 40 avevano un consumatore di droga. Questa situazione creava un ambiente di grande insicurezza ed aggressività con furti, sequestri, rapine all’interno della nostra comunità.
In molti luoghi c’era anche il cobro de peaje, cioè un gruppo di giovani bloccavano l’accesso e tu dovevi pagare per passare di lì.

Spesso la violenza non era soltanto per la strada, ma anche in casa. C’erano famiglie con gravi problemi, perché avevano 2 o 3 consumatori di droga; altre che avevano avuto i figli uccisi da armi da fuoco in scontri tra bande».

Com’è oggi la situazione?, chiediamo. «Ora siamo riusciti a minimizzare il fenomeno. Siamo riusciti a sanare molte zone, a volte scontrandoci noi stessi con i venditori di droga».

Che tipo di scontri? «A volte scontri armati… Questi trafficanti, avendo molto denaro, hanno la possibilità di pagarsi guardaspalle, sistemi di comunicazione sofisticati. Ma con il coinvolgimento della comunità siamo riusciti a respingerli e adesso possiamo dire che li controlliamo».

MAYLIN,
UNA STORIA ESEMPLARE

Lasciamo la festa, per dirigerci a piedi verso una zona residenziale diversa. I condomini lasciano il posto ad abitazioni con due o tre piani. Le strade si restringono fino a farsi vicoli. Seduti attorno ad un tavolino, alcuni uomini giocano a domino.

I nostri accompagnatori salutano tutti quelli che incrociamo. Ed ogni volta fanno le presentazioni. «Salite, salite a bere una birra» ci dicono alcuni giovani da un balcone. Una scala estea ci porta al primo piano. L’interno è essenziale: al posto delle porte ci sono tende, i mobili sono ridotti al minimo, ma i locali sono puliti e dignitosi.

Maylin è una bella ragazza di 25 anni, caagione caffelatte, capelli neri raccolti a coda di cavallo. E una grinta invidiabile.
«La nuova situazione politica – ci spiega sorridente – ha permesso alle donne di prendere coscienza e partecipare di più alle decisioni della comunità. Oggi abbiamo realmente maggiori opportunità. Io ho una figlia e questo mi spinge ancora di più a partecipare.
Le donne oggi svolgono un ruolo molto importante: sono uscite dal guscio nel quale erano relegate, costrette a pulire la casa e avere cura dell’uomo. Ora ci siamo rese conto che possiamo partecipare, a fianco degli uomini, a qualsiasi lotta. Credo che ci siano molte donne che la pensano come me».

Maylin parla con un entusiasmo contagioso. Sembra scortese farle domande critiche. Per esempio, su questi organismi di autogestione che affronterebbero di petto qualsiasi problema.

«Sì, è vero. Ci organizziamo di fronte a qualsiasi problema. Se c’è qualcuno che vende droga, che causa comunque un turbamento nella comunità, noi ci riuniamo e convochiamo la persona che sta commettendo lo sbaglio e cerchiamo di farla recedere dall’errore. Se non collabora, allora ricorriamo all’azione legale. Siamo molto forti come cittadini, come famiglie che si impegnano nella comunità; se non ci piace qualcosa che sta succedendo, interveniamo, anche per il bene dei nostri figli. Non abbiamo ancora dovuto ricorrere alle vie legali: la soluzione l’abbiamo sempre trovata come comunità».
Comunità, una parola ripetuta continuamente in questo quartiere e dai chavisti in generale.

«Che cosa vogliamo? Qualcosa di pulito: una repubblica che permetta la partecipazione di tutti i venezuelani, senza discriminazioni. E, comunque, vogliamo garantire un futuro ai nostri figli, pulendo tutto quello che per anni i politici avevano sporcato».

«FINALMENTE,
ORA TOCCA A NOI»

I cambiamenti non sono mai facili, soprattutto quando sono bruschi e non graduali. Com’è successo in Venezuela, con la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chávez. Che ha portato il paese sull’orlo della guerra civile.

«Perché stupirsi? – si chiede Maylin -. Non per tutti è facile accettare che ci troviamo in un processo di transizione, nel quale ci sono molti cambiamenti che talvolta non piacciono ad una classe sociale e sono, invece, bene accolti da un’altra. Però il paese aveva bisogno di cambiare».

L’opposizione dice che il presidente Hugo Chávez è un dittatore e che i suoi seguaci vogliono eliminare i nemici…
«La mia percezione è che quelli dell’opposizione hanno paura di confrontarsi con una massa tanto grande di persone. Noi siamo poveri economicamente, ma di cuore e di mente siamo molto ricchi e questo fa paura, anche alla Coordinatrice Democratica che sta sobillando odio per giustificare le proprie azioni.

La verità è che noi abbiamo dovuto sopportare sacrifici per molti anni; durante i governi passati abbiamo dovuto rinunciare finanche al nostro pane quotidiano. Oggi rivendichiamo partecipazione ed uguaglianza. Io dico all’opposizione: voi avete sempre avuto tutto, permetteteci di avere anche noi qualcosa.
Noi non cerchiamo di dividere il paese. Al contrario, vogliamo più unione. Tutti debbono essere partecipi dei sacrifici e tutti dovranno essere beneficiari dei risultati».

Come molte altre persone con cui abbiamo discusso, anche Maylin parla con una competenza giuridica inusuale.

Spiega: «È merito di questo governo che ci ha permesso di conoscere quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Molte volte dicevamo: ho diritto a… ma quali erano i nostri doveri come cittadino per poi avere dei diritti? Non lo sapevamo. L’abbiamo imparato ora, grazie alla costituzione bolivariana».

IL SOGNO DI UNA VITA

Ne ha parlato l’economista peruviano Heando de Soto, ci sta lavorando il Brasile di Lula; nel Venezuela di Hugo Chávez è già una realtà.

Si chiama «Ley especial de regularización de la tenencia de la tierra en los asentamientos urbanos populares»: è l’attribuzione legale della terra occupata abusivamente nelle sterminate periferie urbane. Anche molte case del «23 di Gennaio» rientrano nella casistica. Gli inquilini dell’abitazione in cui siamo ospiti (Maylin e la sua famiglia più altre due) hanno ottenuto i certificati di proprietà da pochi giorni.

Curiosi, chiediamo di poter vedere le carte dell’assegnazione. Maylin va a prenderle. Quando torna, ha la figlioletta in braccio e alcuni fogli in mano.
«Ecco, questo è il documento dell’assegnazione». La sua felicità non ha segreti: si manifesta in un sorriso totale e coinvolgente.

«Questo è un passo veramente importante per il nostro futuro. Mia nonna ci raccontava che, quando tirò su la casa, qui non c’era nulla. All’inizio la sua abitazione fu una baracca con 4 pareti e un tetto di lastre di zinco. Queste case non vengono mai edificate secondo un progetto prestabilito, ma si ingrandiscono a poco a poco.

Era una situazione molto precaria, dato che chiunque poteva reclamare quella terra, magari per farci passare una strada. Oggi, invece, abbiamo il nostro certificato di proprietà. Abbiamo fatto molti sacrifici per comperare mattone su mattone, adesso però possiamo dire: questo è mio, questo mi appartiene. Lo stato non sta regalando la terra; la vende, anche se la cifra che paghiamo è irrisoria, quasi simbolica».

Le procedure di assegnazione della terra richiedono una organizzazione comunitaria. Al «23 de Enero» (come in altri quartieri popolari) sono stati organizzati i «Comitati per la terra urbana». Ogni richiedente deve attestare da quanti anni vive sulla terra di cui chiede la proprietà.

Interviene anche Pedro Armando: «Mia madre e mia zia sono morte entrambe quando non avevano neppure 50 anni. Erano due grandi lavoratrici, ma non ebbero mai la possibilità di risparmiare qualcosa per noi. Oggi sarebbero molto felici di vedere che noi siamo diventati padroni della terra su cui avevano edificato la loro casa.
Non importa il valore in denaro di questa casa; per me ha un enorme valore sentimentale, perché io sono cresciuto come individuo dentro di essa. Sfortunatamente ci sono persone che non sono d’accordo con questo; chiaro che ognuno ha il proprio punto di vista, ma questo governo ci ha permesso di soddisfare il sogno di una vita».

«LA NOSTRA ARMA
È LA COSTITUZIONE»

Il Venezuela ha perso gran parte della propria classe media,
mentre grossi gruppi industriali agiscono come partiti politici.
La rinascita del paese passa
attraverso la nuova Costituzione bolivariana.

Caracas, «El Manicomio». Nonostante la scarsa illuminazione, sul muro di cinta la targa si legge ancora: «Scuola bolivariana Giovanni Battista Alberti».
La Giovanni Battista Alberti è una di quelle scuole che vennero chiuse lo scorso dicembre dal sindaco metropolitano Alfredo Peña, noto avversario del presidente Chávez. Ma la comunità del quartiere riuscì a riaprirla. «Ci siamo appellati all’articolo 102 della Costituzione, che dichiara l’educazione un diritto umano fondamentale e quindi intangibile come il diritto alla vita».

A parlare è Carlos Parra, già professore di matematica all’Università Simón Bolívar, oggi responsabile dell’Editorial Galac, una piccola ma quotatissima casa editrice. «Però – precisa subito -, tutto il tempo che mi resta lo dedico a promuovere il processo rivoluzionario, a farlo conoscere alla gente. Per esempio, nell’assemblea di questa sera dobbiamo informare la comunità di una serie di iniziative a livello urbano».

«POLAR» E «CISNEROS»:
DALLA BIRRA ALLA POLITICA

La riunione avviene nell’aula magna della scuola. Ci sono molte donne e qualche bambino che scorrazza attorno al palco. La serata è riempita con tanti discorsi dai toni pacati.

All’uscita assumiamo l’antipatico ruolo dei guastatori e facciamo notare ai nostri accompagnatori che forse non bastano delle riunioni con la gente per risolvere una situazione economica fattasi molto preoccupante.
«Il fatto è – ci spiega Carlos con una pazienza da insegnante – che, negli ultimi 25 anni, questo paese è stato distrutto. Ma, se noi riuscissimo a coinvolgere i milioni di venezuelani che hanno a cuore lo sviluppo, l’educazione, la qualità della vita, tutto il paese ne guadagnerebbe».

Le statistiche dicono che in Venezuela la classe alta si mantiene attorno al 5% della popolazione, mentre la percentuale della classe media è in continua regressione: tra il 1983 e il 1998 è passata dal 27% al 17%. Questo ha significato il contemporaneo aumento della massa dei poveri.

«Uno dei nostri obiettivi di politica economica – spiega Parra – è proprio l’accrescimento della classe media. Come ha detto il presidente Chávez: un paese con una importante classe media agevolerebbe la trasformazione di un modello economico che oggi è basato su una monoproduzione (di petrolio) ed è dominato da alcuni grandi gruppi monopolistici».
In Venezuela i gruppi industriali più potenti sono due: Polar e Cisneros. Il primo produce l’omonima birra (la più venduta del paese), nonché tutta una serie di prodotti alimentari, dal burro alla pasta. Il secondo produce un’altra birra, ma soprattutto è a capo di un impero televisivo (Venevision).

Questi gruppi hanno capeggiato gli scioperi degli scorsi mesi e poi il lungo (e costosissimo) stop a Pedevesa, l’industria petrolifera di stato. E non è tutto. Secondo il settimanale statunitense Newsweek, il magnate Gustavo Cisneros, amico dell’ex presidente George Bush, fu a capo del fallito golpe dell’11 aprile 2002.

LE «ARMI»
DEI CIRCOLI BOLIVARIANI

La scuola Giovanni Battista Alberti è stata riaperta grazie al locale Circolo bolivariano.
I circoli sono diffusi in tutti i quartieri popolari. La spiegazione che ne viene data è soprattutto di ordine pratico.

«I circoli bolivariani – ci spiega Rafael – sono associazioni di persone che volontariamente si incaricano di lavorare per la comunità, cercando di risolvee i problemi: dalla rete fognaria agli altri servizi urbani». Ma c’è anche una loro definizione più politica.
«Sono cellule molto importanti del processo rivoluzionario, che hanno la loro base ideologica nella costituzione, dato che questa promuove la democrazia partecipativa».

A proposito dei circoli, giornali e televisioni hanno scritto e detto di tutto: che sono organizzazioni sovversive, che nascondono armi, che i loro membri vanno alle manifestazioni dell’opposizione per creare disordini.

«Noi – ci spiega Rafael – siamo proprio il contrario di quello che dicono. Non solo non abbiamo armi, ma la maggioranza di noi non le sa neppure utilizzare. Per capire l’assurdità delle accuse è sufficiente visitare qualche circolo: chiunque si rende immediatamente conto che gli iscritti sono gente normalissima».
«La verità è molto semplice: la nostra sola arma è la Costituzione, l’arma più efficace che sia mai esistita in questo paese».

«È di questa che l’opposizione ha paura», chiosa Carlos, mentre saliamo sul suo vecchissimo fuoristrada.

«LA RIVOLUZIONE
NON PUO’ DIMENTICARE L’EDUCAZIONE»

Troppi giovani, riuniti in bande contrapposte, si perdono
in un’esistenza segnata dalla violenza.
Un gruppo di docenti reclama una scuola (pubblica) di qualità
come uscita da una vita senza futuro.

Caracas, «La Dolorita». Partiamo da Petare con un vecchio autobus stipato all’inverosimile. Il mezzo procede lentamente lungo la ripida strada. Quando raggiungiamo la destinazione, alla fermata delle corriere, nei pressi della piazza, sono ad attenderci alcune persone: Héctor, Omar, Julio, Cristian, Luis e Carmen, tutti membri del locale circolo bolivariano «Patria Buena».

A prima vista, La Dolorita si merita il proprio nome. Il quartiere appare dimesso, molto diverso da quelli visitati in precedenza. La maggioranza delle case sono incomplete; le strette vie che si inerpicano per la collina sono costellate da troppe immondizie.

La casa dove siamo ospiti sta in posizione panoramica. Dalla terrazza si vede La Dolorita con al centro due grandi edifici. «Sono – ci viene spiegato – la scuola elementare Jermán Ubaldo Lira e il liceo Mariscal». Ovvero l’oggetto della discussione di oggi.
Julio, Héctor, Carmen sono docenti, tutti preoccupati ed arrabbiati per la situazione in cui versa l’educazione scolastica in questo quartiere dimenticato. «Ma – precisano – La Dolorita non è altro che un esempio di quello che sta succedendo a livello nazionale».

BASTA CON
LA SCUOLA«MERCENARIA»

Seduti attorno al tavolino del soggiorno, Julio ci mostra la dettagliata denuncia presentata al ministero. «Una rivoluzione dovrebbe sempre avere nell’educazione uno dei pilastri portanti».

Precisa Carmen: «La nostra preoccupazione deriva dal fatto che la qualità dell’insegnamento è pessima e i nostri bambini partono già svantaggiati. La mancanza di qualità produce un altro grave problema, quello della bassa autostima: “Non riesco, non sono capace”. Occorrerebbe lavorare molto per infondere nei bimbi la consapevolezza che anch’essi possono raggiungere degli obiettivi».

Come quasi sempre accade, una cattiva scuola pubblica significa più spazio per la scuola privata.
«Alla Dolorita – precisa Carmen – esistono 12 scuole private dove la maggior parte dei docenti non sono neppure insegnanti. I bambini sono stipati in 50 in un’aula di 4 metri per 4 metri. Eppure si pagano 60 mila bolivares al mese».

Chiediamo ai nostri interlocutori che ci spieghino cos’è una scuola «bolivariana» e come mai non sia ancora decollata.
«La scuola bolivariana è un tipo di scuola che educa in modo integrale, che promuove la formazione del pensiero nell’ambito della nuova repubblica. È un cambiamento che investe tutto il processo educativo e riguarda anche vari aspetti pratici, come l’ampliamento dell’orario scolastico e la mensa (indispensabile in un paese dove la malnutrizione è molto diffusa).
Lo stato ha investito molto per creare le scuole bolivariane, ma non ha formato gli insegnanti che sono gli stessi di sempre».

Sull’esposto che ci è stato dato si parla delle due grandi scuole statali de La Dolorita, quelle che si vedono dalla casa.

«Il liceo Mariscal – spiega Julio – ha più di 1.500 iscritti, ma non funziona. C’è traffico di droga, di armi; c’è prostituzione. Ogni anno la percentuale di gravidanze tra le ragazzine è altissima, altissima la percentuale di abbandono scolastico per la cattiva conduzione. Quando poi questi giovani escono dalla scuola e provano ad entrare all’università, falliscono perché non sono preparati. Quelli che ce la fanno è perché sono entrati in qualche istituto specifico per colmare le lacune. Ma pochi si possono permettere di prepararsi privatamente, è ovvio.

Risultato? Nelle Università entra un ragazzo nostro ogni 20, tutti provenienti dalla classe media e alta».
Julio, Héctor e Carmen non sono, come si direbbe in Italia, insegnanti di ruolo. «È vero, non lavoriamo per lo stato. Nessuno di noi tre è laureato, ma abbiamo almeno 10 anni di esperienza nel campo dell’educazione elementare e media. E continuiamo a studiare per laurearci.

In ogni caso, siamo convinti che l’educazione debba rispondere agli interessi della comunità, mentre finora è avvenuto esattamente il contrario: l’educazione ha risposto a non si sa quale interesse o forse all’interesse di chi vuole che restiamo somari o al massimo buoni operai manovrabili. Per ora la scuola ha funzionato come ente mercenario della classe dominante. Dopo la vittoria della rivoluzione bolivariana, noi ci battiamo per una scuola che sia pubblica e di qualità».

IL VALORE DELLA VITA

Ci spiegano che ogni zona de La Dolorita ha la sua banda: ci sono 33 zone e quindi 33 bande. Una banda può essere costituita di 5, 10, 15 ragazzi che controllano la «loro» zona e la gente che vi abita.
Le lotte tra queste bande giovanili sono molto frequenti. Per il potere sul territorio o per il controllo del traffico di droga. A La Dolorita ogni settimana ci sono 5-6 morti a causa della delinquenza comune. Le armi di cui essa dispone sono superiori a quelle della (corrottissima) polizia.

«Ogni gruppo per potersi riunire nella propria strada deve essere armato, perché in qualsiasi momento può passare un gruppo antagonista. Nelle sparatorie che ne seguono vengono spesso colpite persone innocenti, come un bambino affacciato alla finestra della propria casa o una persona che si trova a passare».

Sapete di qualche morto questo fine settimana?, chiediamo. «Sì, uno di fronte alla chiesa, questa notte. Stava lì, quando è arrivato un tale che gli ha sparato. La settimana scorsa uno si è preso un colpo al petto e tre in faccia, ma non è morto. È stato un ragazzo di 13 anni che ha sparato ad uno di 19».

Obiettiamo: dunque, la rivoluzione bolivariana ha fallito nel campo della sicurezza…
«Ma la delinquenza comune è una conseguenza delle male politiche del passato. Quando poi, lo scorso aprile, ci fu il tentativo di golpe, molti delinquenti furono assoldati dall’opposizione per creare caos».
Purtroppo, di anno in anno l’insicurezza sembra peggiorare e questo è un dato di fatto che ci viene confermato.

«Io ricordo che vent’anni fa, quando ammazzavano una persona, poi per 3-4 mesi non succedeva più nulla. C’era un diverso impatto della morte sulla coscienza individuale. Oggi questi gruppi, se gli si uccide un compagno il venerdì, al sabato sono già riuniti all’angolo della via come se non fosse successo nulla. Non c’è più la paura della morte: il valore dell’esistenza si è perso».

Tutti sembrano condividere l’analisi. «Sta passando una cultura che non valorizza la vita, la quale vita vale pochissimo per una quantità di gente. C’è un problema di stima sociale molto serio. Te ne rendi conto anche quando cammini per strada, in mezzo all’immondizia».
«Noi pensiamo che questo modo di vivere si possa cambiare solo con l’educazione. Ovvero si esce da questa situazione nella misura in cui la gente viene educata, si appropria e si fa carico dei problemi. Per questo stiamo cercando di creare una presa di coscienza da parte delle persone, un coinvolgimento che stimoli il desiderio di migliorare quello che ci sta intorno».
Crisi sociale, crisi economica, crisi educativa: come pensate di uscie? Su questo punto i nostri ospiti rispondono compatti: «Noi investiamo molto sulla rivoluzione per dare soluzione a tutti questi problemi. Abbiamo grandi aspettative al riguardo».

«LA RIVOLUZIONE?
UNA TORCIA NEL BUIO»

Violenti, comunisti, castro-comunisti, addirittura terroristi: gli epiteti affibbiati ai seguaci di Chávez si sprecano.

«La nostra rivoluzione è senza armi; andiamo avanti utilizzando il pensiero di Bolivar e la costituzione bolivariana. Vinceremo anche se non possiamo contare sui mezzi di comunicazione di cui dispone l’opposizione. È come se Chávez avesse acceso una torcia sul buio del Venezuela. Io mi sento realmente rivoluzionario e voglio fare in modo che la rivoluzione prosperi. Siamo persone del popolo che vogliono vivere meglio e progredire assieme alla propria famiglia e al paese».

«Mi danno del comunista? Non sono mai stato un militante comunista, come credo non lo siano i miei compagni di lotta. Le nostre idee sono quelle di Simon Bolivar e di Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo è stato comunista, allora io accetto anche questo termine».
Interviene Carmen. «Come donna – dice – io penso che, nei limiti del possibile, dobbiamo cercare di fare una rivoluzione pacifica. Ho molta fiducia nel mio presidente ed approvo come ha agito fino a questo momento. Mio padre partecipò alla guerra civile in Spagna e quello che mi ha raccontato è orribile: non vorrei che succedesse lo stesso nel mio paese».
«Noi abbiamo molti valori e sono con questi valori che vogliamo affermare la nostra rivoluzione. Non vogliamo una guerra, ma se ci obbligano ad usare altri mezzi lo faremo. In questo processo ci stiamo giocando la vita e il futuro dei nostri figli.

(quarta ed ultima puntata; le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio-agosto)

Paolo Moiola