I LUOGHI DELL’INFINITOLa casa di Mosè è in Africa

Quasi un pellegrinaggio dell’anima, dove bellezza del sito e dell’arte, solitudine e clima mistico creano una autentica e indimenticabile esperienza religiosa.
I luoghi di culto sono i testimoni nel tempo dell’intelligenza e della cultura dei popoli: monasteri, abbazie, conventi e chiese, spesso suggestivi e affascinanti, rappresentano un baluardo di fede, di storia, di realtà umane talvolta anche eroiche.
Una rinascita di ricerca spirituale o semplicemente religiosa, talvolta legata a tradizioni popolari, sembra rifiorire dalle ceneri di un mondo religioso mai sopito, anche se spesso e in vari luoghi osteggiato.
Un lungo «viaggio» tra monasteri e chiese di ogni parte del mondo cristiano farà emergere, fra antiche mura e preghiere sommesse, quell’atmosfera di fede che ci lega al passato come una mistica armonia mai dimenticata.

UN’ABBAZIA NEL DESERTO

«Keur Moussa» in lingua senegalese significa «Casa di Mosè». È uno strano nome per un monastero contemplativo fiorito dal nulla in un ambiente interamente musulmano. Il luogo scelto si chiama appunto Keur Moussa e dista dalla capitale Dakar una cinquantina di chilometri.
Non è un monastero famoso, non ci sono icone e sculture di gran pregio, ma ciò che lo rende unico nel suo genere è quello di essere una abbazia benedettina proprio come quella di Solesmes, in Francia, dalla quale provengono questi monaci.
Ma come riuscire a fondare un monastero cattolico proprio in una terra dove la fede coranica è seguita dal 92% della popolazione, mentre il rimanente è animista? La risposta dei monaci fu ed è questa: adattamento della fede cattolica alle diverse realtà locali. Un compito decisamente impegnativo per quei primi nove monaci ai quali era stato affidato questo compito: aprirsi alla cultura locale nei modi e nei tempi più opportuni. Un compito non indifferente.
La tranquilla vita di un monaco benedettino, scandita da preghiere, lavoro intellettuale, artigianale e canti liturgici, si è trasferita, quasi per incanto, nel 1963 in una terra a dir poco desolata, tra gente ostile e sospettosa, che viveva in misere capanne, dove il massimo dell’occupazione era rappresentato dall’allevamento di un piccolo gregge di capre affamate.
L’impresa di questi monaci si presentò fin dall’inizio piuttosto difficile: entrare in contatto con la popolazione non era certo come accogliere i pellegrini di Solesmes. Era necessario procedere per gradi, manifestando interesse per il luogo e la gente che, per quanto diversa nel modo di vivere, aveva pur sempre una sua cultura tutta da scoprire.
Momenti di vita, raccontati dai testimoni di quei primi anni di apostolato africano, svelano un tessuto di esperienze fatto di intuizioni, approcci, osservazioni di vario genere, quasi una strategia per assorbire meglio l’atmosfera del luogo e dei suoi abitanti. Coraggio, fede e iniziative interessanti hanno dato col tempo ottimi risultati.

KORÀ: UNO STRUMENTO CHE CONQUISTA

I monaci inoltre hanno scoperto come far leva sull’animo africano, così sensibile alla manifestazione musicale. Uno di loro, padre Catta, un tempo segretario del maestro del coro gregoriano della abbazia di Solesmes, è riuscito ad accompagnare il canto dei monaci al suono della korà, un tipico strumento musicale dell’Africa occidentale. Non era un organo, naturalmente, ma una grande cassa armonica tradizionalmente ricavata da una… zucca!
Lo strumento è più complesso di quanto si possa immaginare, data l’origine: una cassa armonica e un bastone, dal quale partono una ventina di corde inserite in un ponticello perpendicolare al piano armonico. Da questo insolito strumento esce un suono simile a quello dell’arpa, mentre la tecnica di suono è analoga a quella di una chitarra spagnola. Quel suono ha conquistato prima padre Catta, poi i confratelli e infine un compiacente cantastorie locale stupito ed entusiasta quanto quegli uomini vestiti di grigio, che volevano imparare da lui a suonare lo strumento per eccellenza della sua terra.
Il suono della korà, nella piccola chiesa dei monaci, attirò un mattino un anziano del villaggio, che vincendo sospetto e ritrosia volle assistere alla preghiera mattutina. L’impressione che ne ricavò fu non solo buona, ma decisamente rassicurante, se le parole con cui descrisse l’avvenimento alla sua gente furono: «Dio è là».
Curiosa gente, avrà pensato anche il cantastorie, sentendo cantare dai monaci dei salmi in una lingua sconosciuta, dalle parole incomprensibili, ma dal suono affascinante. L’antichissima liturgia latina era diventata una mano tesa, un linguaggio senza parole, un’intesa più forte della paura dello straniero.
Sono passati trent’anni e il repertorio musicale copre oggi ogni momento della liturgia e dell’anno liturgico.

OLTRE LA MUSICA

Ma ci può essere qualcosa di comune tra un canto in stile gregoriano e una musica africana tradizionale? Sembra di sì, se oggi i monaci non solo suonano la korà come se l’avessero sempre avuta tra le mani ma, secondo la tradizione del monastero di Solesmes, producono dischi e audiocassette che raggiungono con successo il mercato francese.
L’iniziativa di questi monaci (oggi sono più di 40, e alcuni del posto) non si è fermata lì: hanno creato un piccolo laboratorio dove ogni anno costruiscono una cinquantina di korà; hanno irrigato e coltivato quel deserto che circondava la nascente abbazia; hanno costruito una scuola primaria, un dispensario medico, un ufficio della Caritas per aiutare le famiglie, una scuola di tecnici agricoli e un laboratorio caseario dove il latte di quelle caprette affamate si trasforma ogni giorno in gustosi formaggi.
Potevano fare di più?

Liliana Pizzoi

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