GLI OGM (2) Sfameremo il mondo con il cibo di Frankestein?

La «biodiversità» è in grave pericolo anche a causa delle biotecnologie e dei prodotti geneticamente modificati. Le multinazionali si appropriano
di organismi viventi e di saperi del Sud del mondo (è la pratica della «biopirateria») e li brevettano per fae commercio e profitti. Nell’Unione europea oggi è obbligatoria l’etichettatura dei prodotti Ogm. Allo stesso tempo, la Commissione Ue ha ceduto alle pressioni dell’industria togliendo la moratoria sull’importazione degli Ogm (come il mais dolce «Bt11»). Sarebbe meglio decidere: prima il business o prima le persone? (Seconda parte)

«Attualmente il 95% del nostro fabbisogno alimentare è legato a 30 piante, e tre quarti della nostra dieta si fondano su 8 colture. Il re dei Boscimani, in Sud Africa, pranza con 85 tipi di verdure selvatiche. E noi? I nostri supermercati moltiplicano le confezioni e le cosmesi di prodotti, e spacciano la “diversità ottica” per “diversità biologica”. L’uomo dei paesi industrializzati acquista involucri diversi e mangia le stesse cose» (1).
Giorgio Celli visualizza così una delle conseguenze dell’industria agroalimentare: la perdita di biodiversità, destinata ad acutizzarsi con l’introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura. Soddisfatti l’occhio e lo stomaco, ci siamo «dimenticati» di porre l’attenzione al modo in cui è stato ottenuto il cibo di cui ci nutriamo.

BIODIVERSITÀ: LA DIVERSITÀ BIOLOGICA

Per biodiversità, ossia «diversità biologica, diversità della vita», si intende sia la ricca varietà delle forme viventi che popolano il nostro pianeta sia gli ecosistemi in cui le diverse specie sono inserite.
Secondo le stime, il numero di specie viventi è compreso tra 3,6 e 100 milioni. Attualmente si conoscono circa 3.000 specie di batteri, 260.000 piante vascolari, 70.000 funghi, 500.000 virus, 45.000 vertebrati e 950.000 insetti.
L’uomo rappresenta solo una delle milioni di specie esistenti, ma l’industria agroalimentare e biotech considera tutte le altre come semplici fonti di materia prima e di profitto. Al di là degli aspetti etici e del rispetto per tutte le forme viventi, preoccuparsi esclusivamente delle specie vegetali e animali considerate «utili» all’uomo può risultare molto rischioso. Ad esempio, microbi apparentemente insignificanti giocano un ruolo fondamentale per il mantenimento di processi ecologici che permettono la vita di tutte le specie, compresa la nostra. Eppure, evidenzia Vandana Shiva, non esiste alcun movimento di opinione per la loro tutela e protezione, come c’è invece per salvare la tigre o l’elefante.
Ogni anno si estinguono circa 27.000 specie, mille volte di più di quanto avverrebbe senza il contributo umano. «L’uomo – continua la scienziata indiana – almeno nei paesi occidentali, pensa infatti di occupare il vertice della piramide della vita, anziché considerarsi un semplice tassello nel complesso teatro biologico del pianeta, dove il grande dipende dal piccolo e dove l’estinzione di una specie significa non solo perdere quella specie, ma anche creare una situazione di pericolo per le altre». Per fare un esempio, quando scompare una pianta, con lei si estinguono da 20 a 40 specie animali. Un metro cubo di terreno estratto da una faggeta in Danimarca e analizzato in laboratorio, ha rivelato la presenza di 50.000 anellidi, 50.000 fra insetti e acari, 12 milioni di nematodi. Un grammo dello stesso campione conteneva 30.000 protozoi, 50.000 alghe, 400.000 funghi e miliardi di cellule batteriche. Batteri, funghi e protozoi dell’intestino di molti animali svolgono funzioni fondamentali per la digestione: senza questi organismi microscopici i cosiddetti animali superiori non potrebbero esistere. L’ignoranza umana sulle funzioni ecologiche delle specie viventi non può quindi essere il pretesto per manipolarle a piacimento, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e, dunque, sull’uomo.
La distruzione della biodiversità è stata sicuramente accelerata dalla globalizzazione: centinaia di migliaia di ettari di foreste e terre agricole sono convertite in monocolture industriali, ossia in distese di territorio coltivate ad un’unica coltura, scalzando e distruggendo, quindi, la diversità biologica. Ad esempio, rispetto ad una foresta pluviale ricca di specie, che sostiene gli ecosistemi e i cicli ecologici, la concezione dominante privilegia le monocolture, come quella dell’eucalipto, utile all’industria della carta e della polpa di legno. Mantenute grazie all’uso intensivo di fertilizzanti chimici, energia e acqua, le monocolture distruggono la biodiversità e consumano più risorse naturali. Per fare un altro esempio, in India le varietà indigene di grano richiedono 300 mm d’acqua, mentre le varietà dell’agricoltura industriale ne usano circa 900.
Avendo come obiettivo la selezione di piante con una presunta maggiore produttività, l’estensione delle coltivazioni Ogm su tutto il pianeta rientra quindi perfettamente in questa tendenza alla monocoltura ed anzi la incentiva.

DIVERSITÀ CULTURALE

Quando i modelli di produzione e consumo della popolazione ricca del pianeta contribuiscono all’erosione della biodiversità, compromettono la possibilità dei poveri del Sud del mondo di mangiare e curarsi: per loro la biodiversità si traduce, infatti, in sopravvivenza umana.
«Per il cibo e le medicine, per l’energia e le fibre, per i cerimoniali e l’artigianato, i poveri dipendono proprio dall’abbondanza delle risorse biologiche, dalla conoscenza e dall’esperienza accumulata nel tempo sulla biodiversità – dichiara Vandana Shiva -. Tre miliardi di persone, cioè il 60% della popolazione mondiale, utilizzano le medicine tradizionali per il trattamento delle malattie». In India e in Cina l’80-90% di queste cure si basa sulla conoscenza dei principi attivi delle piante: il solo erbario officinale cinese utilizza circa 5.000 specie vegetali. In Kenya, il 40% dei principi curativi vegetali viene estratto dalle piante delle foreste native. Gli stessi chinino e morfina sono prodotti di origine vegetale: negli Usa il 40% delle prescrizioni mediche dipende ancora da principi attivi ricavati dalle risorse naturali. Anche la popolazione che vive nel mondo industrializzato ha bisogno della biodiversità per la propria economia: dal cibo, al petrolio e al carbone, al cemento, tutta l’economia dipende dalle risorse biologiche.
«Se si fa una valutazione in termini di biodiversità anziché di capitali finanziari, il Sud del mondo è ricchissimo, mentre il Nord è povero. Al contrario, il Nord ha accumulato benessere esercitando il controllo sulle risorse biologiche del Sud». Con l’avvento degli Ogm tale controllo è incrementato ed è destinato ad aumentare.

IL MITO (FALSO) DI SFAMARE IL MONDO

I fautori degli Ogm affermano che lo sviluppo delle colture transgeniche è essenziale per sfamare la crescente popolazione mondiale e per abbassare i prezzi delle derrate alimentari. Qualsiasi rischio derivante dalla tecnologia agroalimentare di ultima generazione, sostengono, non può essere paragonato ai benefici apportati da maggiore quantità di cibo a prezzo più basso (2).
Chi si oppone alle biotecnologie, offre, però, diverse argomentazioni. Innanzitutto, spiega Greenpeace, «l’insicurezza alimentare – come elegantemente viene oggi definita la fame – non si caratterizza per l’insufficiente disponibilità di alimenti, ma per la squilibrata distribuzione dei redditi e l’iniquo accesso alle risorse produttive, che rendono precario l’accesso al cibo. La produzione odiea di alimenti a livello mondiale è tale da soddisfare il consumo umano per un valore medio pari a 2.800 calorie pro capite al giorno, a fronte di 2.500 calorie ritenute la soglia media per un’alimentazione adeguata». In linea con questo punto di vista, l’economista indiano Amartya Sen, vincitore del premio Nobel nel 1998, afferma che «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare. Non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare».
In Argentina, secondo produttore mondiale di colture geneticamente modificate e unico paese in via di sviluppo che coltiva piante transgeniche su larga scala, gli Ogm hanno concentrato la ricchezza e gli introiti nelle mani di poche aziende, contribuendo all’ulteriore impoverimento dei piccoli agricoltori. «La causa principale della fame risiede in problemi di natura sociale e politica, e puri strumenti tecnologici, quali sono gli Ogm, non offrono soluzione a questi problemi. Sono troppo costosi per i contadini e non sono appropriati per il consumo locale, tanto che le colture Gm, come mais, soia, colza e cotone, vengono esportate e utilizzate soprattutto come alimento per il bestiame.
I dati mostrano, inoltre, come i raccolti transgenici stiano soppiantando alimenti che popolazioni di culture diverse usano da sempre. «L’industria si sta concentrando su raccolti non alimentari, come il tabacco e il cotone, e sulla soia che, prima d’ora, rappresentava un alimento base solo nell’Asia dell’est – incalza Vandana Shiva -. Tabacco, cotone e soia non sono alimenti base e non sfameranno gli affamati». Semmai, preoccupazioni sulla produttività dei terreni agricoli provengono dai crescenti fenomeni di desertificazione che, negli ultimi 50 anni, hanno interessato l’85% circa della superficie agricola mondiale: erosione, salinizzazione, compattamento, impoverimento dei nutrienti, inquinamenti di vario tipo.
Molta enfasi è stata data al cosiddetto Golden rice, ossia riso Gm alle popolazioni con carenza di vitamina A. Tuttavia, affinché sia fonte di vitamine per chi se ne ciba, la dieta deve contenere quantità sufficienti anche di grassi e proteine, situazione evidentemente non realistica.

IL MITO DEGLI ALTI RENDIMENTI

Il bihmal è un albero diffuso nella regione dell’Himalaya. Si tratta di una pianta «polivalente»: le foglie offrono nutrimento agli animali d’allevamento durante la stagione secca, i rami foiscono fibre per la fabbricazione di corde, combustibile per cucinare e sostanze detergenti per i capelli. Per gli esperti dell’agricoltura industriale sarebbe da eliminare, per incrementare la resa delle colture. Molte varietà agricole sono state ingegnerizzate per ottenere maggiori rendimenti in termini di chicchi, ossia solo di una parte del raccolto effettivo: la paglia idonea a nutrire il bestiame e il suolo viene invece prodotta in quantità modeste.
Ciò che si ottiene con gli Ogm è quindi un aumento del prodotto su cui c’è interesse commerciale, a spese della componente utile per gli animali, i suoli e per l’economia locale. Secondo alcuni esperti, prima fra tutti Vandana Shiva, «l’ingegneria genetica porta in realtà ad una diminuzione complessiva della produzione».
Piantare una sola coltura sull’intera superficie di un campo, come prescrive la tecnica della monocoltura, ovviamente ne accresce il rendimento; piantare diverse colture intercalate comporterà una resa minore per ognuna di esse, ma una più elevata produzione totale di cibo. «Il mito degli alti rendimenti degli Ogm è fondato sul confronto con le grandi monocolture industriali anziché con l’agricoltura biologica, che è la vera alternativa», conclude Vandana Shiva.
Se vogliamo eliminare fame e povertà è necessario conservare la diversità, biologica e culturale.

BREVETTI E BIOPIRATERIA

L’ingegneria genetica ha aperto la strada ai brevetti sulla vita, il primo dei quali è stato concesso nel 1980 alla General Electric per un batterio modificato geneticamente. Negli ultimi anni, con l’introduzione sul mercato di piante transgeniche e di organismi misti, come ad esempio il maiale serbatornio di organi da trapiantare su esseri umani, la richiesta di brevetti per vegetali ed animali ha subito un’accelerazione. All’Ufficio europeo brevetti (Epo) di Monaco sono state presentate più di 15.000 richieste di brevetti nel campo dell’ingegneria.
I sostenitori della brevettabilità degli organismi viventi affermano che la concessione del brevetto consente, al mondo scientifico ed industriale, di accedere ad informazioni importanti da utilizzare per migliorare il benessere umano.
Tuttavia, chi si oppone alla brevettabilità adduce differenti motivazioni, sostenendo che la «libertà di ricerca» viene scambiata con la «libertà di vendere». Innanzitutto, un organismo vivente non può essere considerato propriamente un’invenzione umana. «I geni non sono creati dagli ingegneri genetici che, semplicemente, li spostano da una parte all’altra – come ha sottolineato un gruppo di scienziati inglesi -. Se questo principio fosse stato applicato alla chimica, sarebbero stati brevettati anche gli elementi» (3).
I brevetti rappresentano inoltre un incentivo commerciale allo sviluppo di organismi geneticamente modificati: avendo generalmente una validità compresa tra 17 e 20 anni, esso garantisce al suo possessore i diritti esclusivi per sfruttare l’invenzione a fini commerciali. Infatti, dichiara Greenpeace, nel caso delle colture geneticamente modificate gli agricoltori devono per esempio pagare un diritto sul brevetto, delle royalties per l’uso dei semi ingegnerizzati, nonché le sementi stesse prodotte dalle piante ingegnerizzate per tutta la durata del brevetto.
I potenziali profitti derivanti dalla brevettabilità incoraggiano quindi le multinazionali a ricercare per il mondo i geni che potrebbero avere applicazioni proficue dal punto di vista commerciale. Come si è visto in precedenza, una delle ricchezze peculiari dei paesi del Terzo mondo è rappresentata proprio dalla diversità genetica: nelle foreste pluviali del Sud vive più della metà delle specie animali e vegetali del mondo. I ricercatori vengono quindi inviati in queste zone per scovare organismi o piante di valore, riportano in laboratorio i campioni, e da questi vengono isolati i principi attivi o le sequenze geniche che saranno brevettate come «proprie» invenzioni.
Come denuncia Greenpeace, l’accordo TRIPs sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade related aspect on intellectual property rights), iniziativa di una coalizione di multinazionali, non impone né che le compagnie biotech chiedano un permesso prima di accedere alle risorse biologiche, né che i proprietari dei brevetti condividano i benefici con le popolazioni che da un lato abitano le terre da cui hanno origine i geni, e che dall’altro hanno mantenuto e sviluppato la biodiversità nel corso di migliaia di anni. Anzi, in molti casi, le comunità devono pagare alle multinazionali i diritti per usare qualcosa che precedentemente era parte integrante della loro civiltà.
In India, l’albero di Neem rappresenta un classico esempio: utilizzato per migliaia di anni grazie alle sue proprietà antibatteriche ed insetticide, proprio su queste caratteristiche le multinazionali occidentali hanno ottenuto dozzine di brevetti.
Un rapporto commissionato da Christian Aid ha valutato che la biopirateria sta drenando risorse dal Terzo mondo per un valore equivalente a 45 miliardi di dollari all’anno.

IL CONSUMATORE PRIGIONIERO

«Nell’era della comunicazione – spiega Giorgio Celli – si è verificata, su una materia universale e tanto delicata come quella degli alimenti, un’imperdonabile omissione di comunicazione». Nell’era della democrazia, i cibi transgenici sono stati immessi sul mercato prima ancora che i consumatori potessero capire di cosa si trattasse. Nell’era della libertà, il cittadino non ha potuto scegliere se acquistare o meno prodotti Ogm, semplicemente perché non è stato informato che essi erano già presenti in commercio.
Nell’Unione europea, il 18 aprile 2004, sono entrati finalmente in vigore i nuovi regolamenti europei sull’etichettatura di alimenti e mangimi geneticamente modificati e sulla tracciabilità degli Ogm. Ora tutti i prodotti contenenti ingredienti o derivati da un ingrediente che contiene più dello 0,9% di Ogm dovranno essere etichettati con la dicitura «questo prodotto contiene Ogm» oppure «questo prodotto deriva da Ogm».
L’etichettatura sarà richiesta anche per i prodotti in cui il Dna degli Ogm non può più essere identificato nel prodotto finale, come oli vegetali, amidi, zuccheri, ecc., finora esclusi dall’obbligo di etichettatura. Anche mangimi e additivi dovranno finalmente essere etichettati; basti pensare che i mangimi per gli allevamenti zootecnici (pollame, suini, bovini, pesci), costituiscono l’80% degli Ogm che entrano in Europa da oltreoceano. Secondo la Fao, nei paesi industrializzati il 70% della produzione dei cereali, ed in particolare della soia, viene infatti dirottato verso l’alimentazione zootecnica.
Anche se ancora lacunosi su alcuni aspetti, i nuovi regolamenti rappresentano attualmente le misure più rigide sull’etichettatura degli Ogm su scala mondiale, e dimostrano una certa attenzione nei confronti dei consumatori. Dati resi noti nel novembre 2003 dal Censis nell’ambito delle indagini condotte dal Monitor Biomedico, svelano infatti che il 57,3% degli italiani si dichiara favorevole agli interventi di ingegneria genetica se finalizzata alla prevenzione delle malattie. Ma la situazione si ribalta quando si parla di alimentazione: il 56,6% del campione è contrario e il 30,6% è favorevole. In seguito alla pressione dei consumatori, dettaglianti e grandi compagnie del settore hanno cominciato a puntare sugli alimenti non Gm. I primi sono stati Nestlè, Unilever e Cadbury nel 1999. Nello stesso anno la Monsanto ha addirittura deciso di eliminare per quanto possibile l’impiego di soia e mais transgenici dalla propria mensa aziendale!

DILEMMI E VINCOLI DEGLI SCIENZIATI

Secondo molti studiosi, non essendo ancora in grado di padroneggiare le nuove biotecnologie, l’unico atteggiamento razionale è quello di adottare il principio di precauzione, e quindi proporre controlli rigorosi alla sperimentazione e una moratoria sulle fasi successive. Il commercio dovrebbe essere guidato dal sapere scientifico, non il contrario.
Tuttavia, mentre da un lato gran parte dei biologi favorevoli agli Ogm lavora grazie a finanziamenti privati, dall’altro le risorse economiche pubbliche sono sempre minori. Il rischio che ne deriva è che sparisca una comunità scientifica indipendente, oltre che interdisciplinare. Dice Vandana Shiva: «I costruttori di refrigeratori non sono esperti dei danni prodotti alla fascia di ozono e i produttori di automobili non sono esperti di cambiamenti climatici, così come i genetisti non sono competenti di bioinquinamento».
La protezione della biodiversità richiede alcune radicali modifiche nel nostro modo di pensare, nei nostri modelli di produzione e consumo e nelle nostre politiche. E l’Occidente industrializzato dovrà attuare dei cambiamenti ancora più radicali. «La lezione da imparare – secondo Vandana Shiva – è la cooperazione, non la concorrenza: il grande dipende dal piccolo e non può sopravvivere se lo stermina».
(Seconda parte – fine)

(1) G. Celli, N. Marmiroli, I. Verga, I semi della discordia. Biotecnologie, agricoltura e ambiente, in bibliografia
(2) Worldwatch Institute, State of the World 2004. Consumi, in bibliografia
(3) Dalton H. et al, Patent threat to research, Nature 1997.

BOX 1

L’APPELLO DI GREENPEACE: «Entra in azione!»

I consumatori hanno un grande potere, quello di fare in modo che i supermercati, i ristoranti, gli alimenti che quotidianamente vengono acquistati, rimangano NON Ogm. Adesso che nuove norme sull’etichettatura, maggiormente restrittive, sono entrate in vigore (a partire dal 18 aprile 2004), con il tuo aiuto possiamo trovare i prodotti contenenti Ogm, identificarli, evitarli e mostrarli a tutti i consumatori. Alcune aziende proveranno ad introdurre prodotti etichettati Ogm nei mercati europei. Più persone rifiuteranno questi prodotti, più facile sarà salvaguardare il nostro diritto di dire NO agli Ogm.

Informa altri consumatori
Stampa il nostro volantino informativo e fallo leggere alla tua famiglia, agli amici, ai vicini di casa. Se è possibile lasciane alcune copie in negozi, ristoranti o dal tuo medico.

Diventa un Detective di Ogm
Ogni volta che vai a fare la spesa, guarda attentamente la lista degli ingredienti. Se trovi un prodotto etichettato Ogm, prendi nota dei dettagli del prodotto, del produttore, del nome e dell’indirizzo del supermercato, della data in cui hai trovato il prodotto in questione e dell’ingrediente Ogm segnalato sull’etichetta. Informa il Responsabile della Campagna Ogm di Greenpeace e, se possibile, fai una foto del prodotto (in particolare dell’etichetta) e carica la tua foto sul nostro sito. Apprezziamo molto il tuo supporto perché è essenziale per mantenere informati i consumatori in tutta Europa.

Restituzione – sostituzione – rimborso
Se senza saperlo compri un prodotto etichettato Ogm, dovresti riportarlo indietro al supermercato dove lo hai comprato e richiedere la sostituzione di questo con uno NON Ogm. Porta anche i tuoi amici a fare la stessa cosa. Perché non ci andate tutti insieme per dare più forza alle vostre idee? Più siete meglio è!

Protesta contro i cibi Ogm
Manda una lettera di protesta al tuo supermercato o all’azienda produttrice del prodotto Ogm per chiedere cibi NON Ogm. Perché non scrivi una lettera anche ai giornali locali e non incoraggi una discussione a livello locale?

Se vuoi puoi accedere al sito di Greenpeace Inteational dove puoi anche trovare le ultime notizie su come i consumatori stanno lottando a livello europeo per il proprio diritto di dire NO agli alimenti Ogm.

Fonte: www.greenpeace.it

BOX 2

La nuova normativa: i pro e i contro

• Pro. Nuova soglia dello 0,9% per ogni ingrediente.
La soglia massima, definita come «presenza accidentale o tecnicamente inevitabile», sotto la quale non vi è alcun obbligo di etichettatura, ha subito una modifica più di forma che di sostanza: è passata dall’1% allo 0,9%. Tale soglia fa riferimento a ogni singolo ingrediente usato nel prodotto e non alla massa o volume totale; questo significa, per fare un esempio, che se la lecitina di soia contenuta in una tavoletta di cioccolato deriva da materia prima transgenica per più dello 0,9%, dovrà essere etichettata anche se la lecitina è solo l’1% del totale degli ingredienti. È importante notare che questa soglia è applicabile soltanto a quei produttori che possono dimostrare di aver adottato tutte le possibili misure per evitare tale contaminazione.

• Pro. Controllo del processo.
Fino a oggi non dovevano essere etichettati quei prodotti contenenti ingredienti di provenienza transgenica nei quali, a seguito del processo di lavorazione, non erano più rintracciabili Dna o proteine transgeniche (come ad esempio oli, amido o glucosio), anche se provenienti al 100% da materie prime transgeniche. Grazie alle pressioni dei consumatori, volte a una maggiore trasparenza e informazione, con le nuove norme non sarà più così e anche questi prodotti dovranno essere etichettati se derivanti da materie prime transgeniche.

• Pro. Mangimi, transgenici o no?
Si stima che circa il 90% degli Ogm importati in Europa siano utilizzati nella mangimistica animale e nella produzione di oli e amidi. Finalmente, grazie ai nuovi regolamenti, si comincia a porre rimedio all’assoluta mancanza di regole in questo settore per ciò che riguarda l’utilizzo di Ogm: i mangimi dovranno essere etichettati rispettando la stessa soglia degli ingredienti alimentari, 0,9%.

• Contro. Senza etichetta i prodotti derivati da animali nutriti con Ogm.
Purtroppo, vanno segnalate ancora gravi carenze. A cominciare dai prodotti derivati da animali nutriti con Ogm, tuttora non soggetti all’obbligo di etichettatura. Parliamo di uova, carne, latticini, per i quali i produttori non sono obbligati a specificare in etichetta se gli animali dai quali provengono sono stati nutriti o meno con mangimi transgenici. Anche per questo motivo Greenpeace ha scelto di continuare a informare i consumatori attraverso la guida «Come difendersi dagli Ogm», contenente notizie sull’origine dei prodotti in commercio ottenuti o meno da animali nutriti con Ogm. Le liste di prodotti che Greenpeace propone (www.greenpeace.it) sono realizzate in base alle dichiarazioni scritte ricevute dalle aziende alimentari. Queste liste non comprendono tutti i prodotti disponibili sul mercato italiano, e poiché il mercato muta costantemente, le liste sono aggiornate periodicamente.

• Contro. Ogm non autorizzati.
Altro punto dolente delle nuove regole riguarda la tolleranza, fino a un massimo dello 0,5%, concessa per quegli Ogm non ancora autorizzati che arrivano comunque sul mercato europeo. Tale soglia scadrà automaticamente dopo 3 anni; a partire dalla scadenza, è tolleranza zero per gli Ogm non autorizzati.

Fonte: www.greenpeace.it

Silvia Battaglia




IMMIGRAZIONE ITALIA”Permesso sì, permesso no, permesso forse”

Scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno cosa significa, per uno straniero, aspettare «il permesso» (ad un tempo, incubo e parola magica), trovare una casa, imparare una lingua nuova, integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola.
In questa nostra inchiesta, abbiamo dato voce agli immigrati incontrati in un Ufficio stranieri, ma anche ai poliziotti che vi lavorano. Un punto di vista diverso e interessante…

La civiltà europea è sempre stata divisa: liberi e schiavi, nobili e plebei, capitalisti e operai. Nell’Europa di oggi ci sono gli «europei» e gli «extracomunitari».
Le divisioni cambiano forma, ma non la sostanza. Invece dell’uguaglianza ci sono ancora le leggi che garantiscono la disuguaglianza, invece della fratellanza ci sono i cittadini di primo e secondo grado, invece dell’unità, alcuni paesi e popoli europei sono stati spinti, e poi lasciati marcire nella miseria e nella violenza.
Siamo nel terzo millennio. In quello precedente c’erano molte rivoluzioni, è stato sparso molto sangue, ma cosa abbiamo cambiato in sostanza?

«MA PERCHÉ VENGONO IN ITALIA?»

«Perché vengono gli stranieri in Italia?», questa è la domanda più frequente degli alunni durante i miei interventi nelle scuole superiori, come mediatrice interculturale.
Io rispondo: «Perché nei loro paesi c’è la guerra, o la miseria, o l’instabilità politica e sociale che non permette una vita serena. La maggior parte degli immigrati non lascerebbe mai il proprio paese se le condizioni permettessero una vita dignitosa lavorando onestamente. D’altra parte, ci sono paesi che hanno necessità di immigrati. Anche il nostro paese ha bisogno di operai per le costruzioni, di camionisti per i trasporti, di cameriere per gli alberghi, di badanti per gli anziani, di infermiere per i malati, ecc… e, non trovando questa manodopera tra gli italiani, deve ricorrere agli immigrati».
Poi seguono altre domande che rivelano una scarsa conoscenza e molti pregiudizi nei confronti degli stranieri. Molti pensano che gli stranieri abbiano dei vantaggi, che abbiano troppi diritti, che mettano in pericolo i cittadini italiani. Hanno paura che siano troppi e sanno poco o niente di come vivono in Italia, quali difficoltà hanno, quali disagi. A un razzista questo non interessa. Più disagio prova uno straniero, più contento è perché spera che avrà motivo di andarsene.
Ho sentito molte volte la frase: «Se non gli piace che vadano a casa loro!». Ma dov’è la loro casa? Alcuni sono rimasti senza le case, alcuni hanno la casa piena di gente che aspetta il loro aiuto per sopravvivere. Gli immigrati stanno meglio in Italia che nel proprio paese, ma sono ancora lontani dal benessere di un occidentale. I problemi, i disagi che incontra nel nuovo paese sono grandi, ma non può tornare perché sarebbe peggio.
La maggior parte degli immigrati sono costretti a scegliere il male minore. La maggior parte degli italiani non sono né razzisti né menefreghisti. Sono semplicemente disinformati. Non sanno quanta fatica fanno gli stranieri a trovare una casa, quali problemi hanno nell’integrarsi nel mondo del lavoro o della scuola, quanto è difficile imparare una lingua nuova in fretta per capire il datore di lavoro, o l’insegnante, o la pioggia di comunicazioni di vario genere. Quanto è difficile muoversi, orientarsi, in un paese dove tutto funziona in modo diverso dal proprio.

L’ESPERIENZA DI TRENTO E ROVERETO

Nella provincia di Trento, è stato fatto molto per aiutare gli immigrati: lo Sportello Cinformi è un importantissimo punto di riferimento per lo straniero, dove può avere tutte le informazioni per l’orientamento anche in madrelingua. Il Centro Millevoci offre una consulenza agli insegnanti che hanno in classe gli alunni stranieri, e ha formato molti mediatori interculturali che si occupano dell’integrazione dei figli degli immigrati nelle scuole trentine.
Ho fatto una piccola indagine, come mediatrice interculturale, nella mia cittadina, Rovereto (32 mila abitanti), per scoprire quali problemi e quali disagi incontrano adesso gli immigrati all’Ufficio stranieri del locale Commissariato di polizia.
Ho parlato con gli operatori, che hanno risposto gentilmente a tutte le mie domande.
Mi hanno spiegato come funziona il loro ufficio stranieri, i rapporti con la Questura di Trento, quali sono le difficoltà loro e quali quelle degli stranieri che chiedono il permesso di soggiorno.
Quello che segue è il risultato della mia inchiesta.

LAVORARE ALL’UFFICIO STRANIERI

Romano è un uomo alto e biondo, che ascolta con molta attenzione e pazienza le innumerevoli domande che pongono gli stranieri. Non smette di essere gentile neanche quando lo fermano nel corridoio. Lavora in quest’ufficio da quasi un anno. Mi spiega che l’ufficio è aperto dalle 9 alle 12.30 tutti i giorni (il giovedì anche nel pomeriggio) tranne il sabato e la domenica. Di solito ricevono 20 persone circa, tutte le mattine, tranne il giovedì quando ci sono 60 – 70 persone che aspettano il proprio tuo, dopo aver ritirato il numero all’entrata. È il giorno in cui si danno le informazioni e si ritirano i permessi di soggiorno.
«La maggiore difficoltà che trovo nel servizio è la mancanza di contatto con Trento, il fatto che non ci sono direttive ben precise».
E per gli stranieri cos’è la cosa più difficile?, chiedo. «Riuscire a portare tutta la documentazione. C’è un elenco di documenti che lo straniero deve portare». Romano mi mostra i fogli con l’elenco dei documenti, che sono diversi a seconda che si chieda un permesso di soggiorno nuovo o di rinnovarlo, o si domandi la carta di soggiorno. L’elenco cambia anche in relazione al tipo di permesso di soggiorno richiesto (motivi di turismo, di lavoro, di ricongiungimento familiare, ecc…).
«Durante il periodo di 2-3 mesi dal momento in cui il cittadino straniero riceve l’elenco e presenta la documentazione – continua a spiegarmi il funzionario -, può capitare qualche variazione, allora deve portare qualche certificato che non era incluso nell’elenco».
Come mai si aspetta così tanto? «Mancanza di personale e il lavoro si accumula».
Cos’è più fastidioso nel suo lavoro? «Quando la mia richiesta di rispettare la legge viene interpretata come razzismo. Per esempio, in caserma è vietato entrare con il volto coperto. Questa legge c’era da sempre e non è stata inventata per colpire i musulmani, ma per la semplice ragione che chi entra in un ufficio di polizia deve essere riconoscibile, identificabile. Questa legge non è cambiata, e il nostro dovere è di rispettarla. Non può entrare in polizia un ragazzo con il casco sulla testa, e per lo stesso motivo non può entrarci una donna musulmana con il velo sulla faccia. Ma quando io dico alla donna di togliersi il velo è un dramma. Anche le foto per i documenti con la testa coperta non sono accettate. Noi trattiamo tutti allo stesso modo e facciamo solo il nostro dovere. Io capisco che è difficile quando la legge dello stato non è conforme alla legge religiosa, ma il mio dovere non è cambiare la legge ma adempierla».
Gabriella è una bella poliziotta con capelli lunghi, raccolti in una coda e gli occhi blu. L’uniforme le dà un aspetto severo. In questo ufficio lavora da 4 anni. Per lei è più difficile spiegare le ragioni delle richieste che fanno tornare una persona più volte allo stesso sportello.
«È vero, si richiedono molti documenti. Mi dispiace quando leggo disperazione negli occhi di chi non riesce a procurarsi qualche certificato che si chiede. Ma non siamo noi che chiediamo certificati, è la Questura di Trento: noi controlliamo solo se c’è tutto prima di mandare loro la pratica».
Anche a Gabriella dà fastidio l’arroganza o i modi grezzi e poco rispettosi da parte di alcuni stranieri. Alcuni sfogano la propria insoddisfazione e rabbia. Chiedo se questo succede perché lei è una donna, ma lei nega dicendo che gli arroganti sono arroganti anche con i colleghi uomini. «Ma per fortuna di solito i rapporti sono normali e tranquilli», conclude sorridendo.
Romana lavora nell’Ufficio stranieri dal 2000. È una poliziotta molto giovane, con la pelle chiara, capelli lunghi, occhi azzurri, e un bel sorriso che fa vedere poco, perché c’è poco da sorridere davanti ai problemi della gente che incontra nel suo lavoro. Risuona la sua voce, per far sentire e far capire cosa serve, quando e perché, e non si stanca mai di ripetere sempre le stesse cose.
Non si capisce se non vogliono capire o non capiscono per davvero quello che diciamo. So che non è facile: non conoscono la lingua, e in alcuni casi non sanno dove andare a cercare i documenti richiesti. So che non è facile accettare che non si può rinnovare un permesso di soggiorno se manca una carta sola di tutte quelle richieste. Noi non siamo indifferenti. Gli stranieri non sono per noi solo i numeri o i fascicoli. Cerchiamo di andare loro incontro, di essere pazienti, ma quando una cosa non si può fare, è inutile insistere. Noi dobbiamo applicare la legge, non è una questione personale. Mi dispiace se una persona non può presentare il certificato che serve, ma io non posso farci niente. Ogni paese ha le sue leggi. Mi fa arrabbiare l’arroganza, la maleducazione e la mancanza di rispetto per le leggi del paese in cui sono arrivati da parte di alcune persone. C’è la gente che viene molte volte per una stessa cosa e io non capisco se non hanno capito quale documento devono portare, o non vogliono capire che io non posso mandare la pratica a Trento senza quel documento.
Rino lavora da poco presso questo sportello. È molto cordiale e comprensivo, ha una pazienza infinita e ascolta tutti quelli che lo fermano anche nel corridoio. Per lui il problema maggiore è la comunicazione.
«Quel problema non viene superato con la conoscenza della lingua – dice -. Con la conoscenza dell’italiano la comunicazione migliora, ma restano ostacoli di tipo culturale». Secondo Rino sarebbe utile la presenza del mediatore interculturale per rimuovere completamente tutti gli ostacoli di comunicazione. Aggiunge che il loro lavoro è diventato più facile e sereno da quando è aperto lo sportello presso il comprensorio di Rovereto dove si prendono gli appuntamenti. Loro adesso raccolgono la documentazione, prendono le impronte digitali e mandano tutto a Trento. Poi consegnano il permesso o la carta di soggiorno allo straniero.
«I tempi di attesa sono lunghi – continua Rino -. Anzi, sempre più lunghi: 2 – 3 mesi solo per prendere un appuntamento, un altro mese per finire la pratica e farla arrivare in questo ufficio. Nel frattempo, lo straniero non può lasciare l’Italia. Deve aspettare che arrivi il permesso di soggiorno per andare in ferie o andare a trovare la famiglia nel paese d’origine».
Abbiamo parlato sempre delle difficoltà. Che cosa è bello nel suo lavoro? «Io sono molto contento quando le persone riescono a prendere il permesso di soggiorno prima delle ferie. Tutti fanno le ferie nei paesi d’origine, vanno a trovare le famiglie, dei parenti e mi dà molto fastidio quando sono impediti di partire a causa delle lunghe attese per il rinnovo».
E lei, cosa si aspetta dagli stranieri? «La comprensione. Che comprendano le nostre difficoltà e i nostri limiti come noi cerchiamo di comprendere loro».
Quanto agli stranieri, sono tutti d’accordo che bisogna essere in regola con il permesso di soggiorno, ma non tutti sono d’accordo con le condizioni necessarie per ottenerlo. La legge è dura, e per molti (quelli che non potranno mai adempiere alle condizioni che lo stato impone) è crudele.
Inoltre, nessuna delle persone si dice contenta che, avendo le condizioni richieste per ottenere il permesso di soggiorno, occorra aspettare molti mesi per averlo.

«PERMESSO», INCUBO O PAROLA MAGICA?

La parola permesso la capiscono tutti. Usano questa parola italiana anche quando parlano in madrelingua. È una parola magica che apre o chiude molte porte nel nuovo paese.
Un algerino, in Italia da 15 anni, con la moglie e la figlia di due anni ha la carta di soggiorno. Lavora in fabbrica e vive con la sua famiglia in un appartamento di 60 metri quadrati. Per il momento non ha nessun problema. Lavora solo lui, la moglie sta a casa con la bambina, è contento in Italia. Ma se nasce un altro figlio, come lui e la moglie vorrebbero, potrà perdere la carta di soggiorno. Per rinnovarla, dovrà trovare un altro appartamento, più grande, non perché questo in cui è adesso per lui sarebbe piccolo, ma è piccolo per lo stato. La nuova casa non sarà facile da trovare, e anche se la trova, le case più grandi costano di più e poi non resta più niente per vivere.
Un altro algerino, pieno di rancore e delusioni, racconta che in Algeria ha la moglie e tre figli. È qui dal ’98. Dice che lavora in fabbrica, spende tutta la forza delle sue braccia per guadagnare onestamente lo stipendio, ma chissà se, e quando, potrà portare qui la sua famiglia. Tutta la sua permanenza ha accompagnato l’incubo del rinnovo del permesso di soggiorno: gli appuntamenti, le carte, le attese, la paura per le assenze dal lavoro. Per l’ultimo rinnovo, ha preso l’appuntamento a novembre per febbraio dell’anno dopo. Da febbraio, ogni mese rinnova il tagliando. Il permesso di soggiorno non è ancora pronto. E sono 8 mesi che non vede sua moglie e i suoi figli.
Un signore pakistano è arrivato in Italia 14 anni fa, con la moglie. In Italia sono nati i suoi tre figli. Ha la carta di soggiorno ma i suoi problemi non sono finiti. Per inserire un nuovo dato nella carta di soggiorno bisogna fare tutto da capo e aspettare. Lui è commerciante e deve viaggiare per il suo lavoro. Mentre aspetta, il lavoro si ferma. È solo lui che lavora. Succede che deve aspettare anche sei mesi il rinnovo.
Non chiediamo che cambi la legge – dice il pakistano -. Chiediamo solo di non aspettare così a lungo. Basterebbe aprire più sportelli che fanno le pratiche, assumere gli operatori quanti ne servono finché i tempi di attesa diventino ragionevoli.
Un albanese, in Italia dal ’93 con la famiglia (moglie e tre figli maggiorenni), mi racconta arrabbiato: «Per un errore amministrativo io non ho ancora la carta di soggiorno. Dopo 11 anni in Italia, ancora ho 5 permessi di soggiorno da rinnovare in continuazione, e questo mi costa soldi, tempo e nervi. Non è giusto che devo perdere tutto questo tempo e assentarmi dal lavoro. Non è giusto che non possiamo andare in ferie in Albania».
Una bella signora alta, con gli zigomi sporgenti e capelli biondi raccolti in una coda, in Italia dal ’95 dice: «L’informazione è migliorata molto, e le persone che lavorano presso gli sportelli informativi sono gentili, accoglienti, pazienti. Ma l’organizzazione che riguarda le pratiche è peggiorata. C’è qualcosa che non va e non può andare avanti così».
Questa nostra inchiesta dimostra che la critica è fondata: è aumentato il tempo di attesa; il numero di persone che aspettano; il numero di quelli che si chiedono fino a quando il datore di lavoro avrà pazienza di sopportare le assenze; il numero dei bambini che non possono passare l’estate dai nonni.
Nessuna persona di buon senso desidera che le leggi calpestino la dignità degli immigrati e i sentimenti dei loro bambini, futuri cittadini italiani ed europei. Sicuramente c’è una soluzione. Bisogna cercarla assieme.

BOX 1

IMMIGRATI «BUONI», IMMIGRATI «CATTIVI»

Vent’anni fa, quando arrivai a Rovereto, davanti all’Ufficio stranieri non c’era nessuno ad aspettare. Tutte le informazioni relative al mio permesso di soggiorno me le diede il signor Gabriele. Toai in quell’ufficio un paio di volte per delle informazioni, ma anche perché era piacevole fare due chiacchiere con il commissario che era simpatico e sempre di buon umore.
Adesso lui è in pensione e lo vedo quasi tutti i giorni nel centro della città, sempre negli stessi posti, a chiacchierare con i suoi amici. Adesso ha una faccia seria, sorride poco, non è più in uniforme ma è sempre vestito elegante e non ha perso niente del suo fascino di vent’anni fa. Ha accettato volentieri di parlare con me degli stranieri.
«Una volta era più semplice – mi spiega – e le pratiche si facevano più in fretta, perché la Questura di Rovereto era autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno, e perché c’erano meno stranieri. Adesso mandano tutto a Trento».
Come? Quando ce n’erano pochi, ogni Questura faceva le proprie pratiche, adesso che sono tanti le fa una sola. Non è assurdo? «È così. Adesso nell’Ufficio stranieri di Rovereto si raccoglie la documentazione, poi si manda tutto a Trento. Solo Trento è autorizzata a rilasciare il permesso di soggiorno».
Ricordo che, quando ci conoscemmo, a Rovereto c’erano 4 serbi e 1 croata, adesso invece ci sono centinaia di famiglie. Questa piccola città del Trentino ha cambiato il suo volto. È diventata una città variopinta: visi bianchi, neri e gialli; vestiti occidentali ed orientali; si sentono per strada i suoni di lingue sconosciute.
Chiedo all’ex funzionario come vive lui questi cambiamenti. «Conosco molti stranieri – mi dice -, che sono proprio brave persone. Ma altri non mi piacciono: gente volgare, arrogante, violenta, quelli che sputano per strada, che pretendono quello che nel loro paese non avrebbero mai».
Ma loro – obietto io – sono qui proprio per avere quello che nel proprio paese non possono avere. «D’accordo, ma non lo devono pretendere. Neanche ai cittadini italiani è stato regalato niente, ma hanno ottenuto tutto con anni di lavoro. A nessuno dà fastidio se loro mantengono gli usi e costumi del proprio paese, ma devono rispettare anche i nostri».
È vero. La mancanza di rispetto dà fastidio a tutti, agli italiani come agli stranieri.
«Infatti – continua il mio interlocutore -, molti stranieri sono persone che lavorano, cittadini onesti che meritano ogni rispetto, ma quelli che non rispettano le nostre leggi, i nostri usi e costumi, le nostre abitudini, io credo che dovrebbero andare via».
Molti italiani la pensano così. Purtroppo, succede che vengano mandati via anche i «buoni» e nelle prigioni finiscono anche gli innocenti. Succede. Perché i «buoni» e i «cattivi» sono mescolati fra di loro, in tutti i popoli e in tutti i luoghi del mondo.

S.Petrovic

Snezana Petrovic




ISRAELEL’incredibile storia di Mordechai Vanunu

Nel 1986, il tecnico Mordechai Vanunu rivelò ad un giornale che Israele disponeva di un sofisticato sistema nucleare. Fu rapito dai servizi segreti
del Mossad a Roma ed incarcerato in Israele. Mordechai Vanunu è uscito lo scorso 21 aprile, dopo 18 anni di detenzione.
In questo articolo, ripercorriamo la sua storia da brividi. E ci poniamo qualche (ingenua) domanda: come mai Israele può detenere testate nucleari senza che nessuno (di importante) se ne preoccupi? Perché mai per Tel Aviv non si parla di ispezioni inteazionali come, ad esempio, per il vicino Iran?

La vicenda che vogliamo raccontare prende le mosse dalla liberazione dal carcere, dopo 18 anni di detenzione, di un tecnico nucleare israeliano, nato in Marocco da famiglia sefardita. La sua colpa era di aver rivelato informazioni segretissime sull’armamento atomico di Israele.
Dopo aver cercato inutilmente di entrare nello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, Mordechai Vanunu – questo il nome del protagonista – all’età di circa vent’anni venne assunto al centro di ricerche nucleari di Dimona, nel deserto del Negev in Israele. Questo impiego segnò il suo destino successivo.
Prima di ricordae le vicende, vale però la pena di esaminare con un minimo di dettaglio la storia dell’impianto, interessante ed esemplificativa di come le alleanze politiche e militari tra stati cambino radicalmente nel tempo e portino a risultati inattesi e talora imprevedibili.

L’ENERGIA NUCLEARE: MA PER QUALI SCOPI?

Dopo la seconda guerra mondiale la prospettiva di un uso diffuso e importante dell’energia nucleare ebbe sostenitori entusiasti ovunque, dato che in essa si vedeva la fonte energetica del futuro: potentissima, abbondante, economica. I benefici di questa fonte si auspicava fossero universali e a questa filosofia si ispirò il presidente americano Eisenhower quando, l’8 dicembre 1953, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, propose il programma Atomi per la Pace, mirato a fornire assistenza tecnica ai paesi che desideravano impegnarsi nel campo dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare.
In Israele la Commissione per l’energia atomica era nata un anno prima e si caratterizzò subito per una stretta collaborazione con gli ambienti militari, in ciò seguendo le direttive di uno dei padri dello stato sionista: David Ben Gurion. L’anno dopo gli israeliani riuscirono a mettere a punto un processo efficace per estrarre l’uranio presente nel deserto del Negev, nonché un nuovo metodo per produrre acqua pesante. Con questi due materiali i progetti atomici del paese potevano procedere, innanzitutto costruendo un reattore nucleare.
Per la complessa progettazione e realizzazione dell’impianto, Israele ebbe bisogno di assistenza. La cercò (e la ricevette) in Francia, che a quel tempo era fortemente impegnata a cercare di sconfiggere il movimento indipendentista algerino.
In quel periodo, Parigi si contrapponeva al mondo arabo (in primis all’Egitto, contro cui, nel 1956, Francia, Gran Bretagna e Israele combatterono la cosiddetta guerra di Suez) e quindi era interessata a sostenere uno stato mediorientale «naturalmente antiarabo». All’interno della collaborazione che ne scaturì, Israele ricevette pure assistenza militare diretta, sotto forma di aerei e altri armamenti sofisticati. Il pilastro fondamentale su cui reggeva questa tacita alleanza era comunque rappresentato dalla rivolta algerina e quando la nazione maghrebina ottenne finalmente l’indipendenza nel 1962 iniziò un lento processo di normalizzazione tra Parigi ed i vari stati arabi, che man mano vide il parallelo raffreddamento dei rapporti con Tel Aviv.
La centrale di Dimona venne realizzata alla fine degli anni ’50, in gran segreto. Ma gli Stati Uniti si accorsero che qualcosa di insolito stava succedendo. Effettuando dei sorvoli con gli aerei spia U2 nacque in loro il sospetto che Israele avesse ambizioni nucleari militari, tanto che espressero la loro preoccupazione in merito. Alla fine la natura nucleare dell’impianto fu ammessa apertamente da Ben Gurion, ma solo nel 1960, quando lo descrisse come «struttura di ricerca a scopo pacifico». Negli anni successivi Israele ribadì più volte che non sarebbe stato il primo a introdurre armi nucleari nel Medio Oriente.
L’impianto venne visitato negli anni ’60 da ispettori americani, che però non riuscirono a farsi un’idea chiara di quel che in esso avveniva, anche perché, secondo alcune fonti, gli israeliani camuffarono abilmente le installazioni, realizzando delle false sale controlli e addirittura murando intere sezioni, specialmente quelle sotterranee. Gli ispettori si fecero peraltro l’idea che non esistessero motivazioni scientifiche o civili sufficienti per giustificare un reattore nucleare di tali dimensioni – e ciò aumentò i sospetti che Israele avesse intenzione di farsi segretamente la bomba atomica – ma nemmeno trovarono prove di attività chiaramente mirate alla produzione di ordigni nucleari.
Si giunse così al 1968, quando la Cia americana concluse che Israele aveva iniziato a realizzare bombe nucleari. Negli anni successivi vi fu molta incertezza; non sull’esistenza, ma solo sulle dimensioni dell’arsenale atomico israeliano.
Risulta sorprendente l’incapacità ed il disinteresse mostrato a questo riguardo dal mondo intero: sia gli stati occidentali, come anche e soprattutto le nazioni arabe e l’Urss se ne restarono quieti relativamente all’armamento atomico israeliano. Questo tema non assunse mai grande importanza, né venne mai discusso pubblicamente ed Israele non subì particolari pressioni perché accettasse ispezioni inteazionali e rinunciasse ai propri programmi di armamento nucleare. Anche i principali leaders arabi avallarono questa «politica dello struzzo», evitando di sollevare la questione a livello internazionale. Forse per paura di non poter più utilizzare a fini interni l’infiammante retorica che auspicava la totale distruzione dello stato sionista.

LE «TESTATE» DI ISRAELE

Quando entrò in gioco Mordechai Vanunu? Egli rimase a lavorare a Dimona per quasi un decennio, fino al 1985. Licenziatosi, andò dapprima in Australia, ove si convertì alla religione anglicana. Spostatosi in Gran Bretagna, nel 1986 svelò al giornale britannico Sunday Times l’esistenza del segretissimo programma di armamento nucleare del suo paese. Grazie alle informazioni foite da Vanunu e alle 60 fotografie che egli era riuscito a scattare di nascosto nell’impianto (materiale vagliato e convalidato da noti esperti, come il fisico Frank Baaby), la comunità internazionale scoprì che l’arsenale di Israele era di tutto rispetto: 100 se non forse addirittura 200 testate atomiche.
Ci si sarebbe attesi che la notizia scatenasse un putiferio. Improvvisamente si affacciava sulla scena mondiale una sesta potenza, comparabile con Francia, Gran Bretagna e Cina. Gli stati arabi avrebbero potuto usare questa novità per mettere in cattiva luce lo stato sionista, incolpandolo di aggravare le tensioni nell’area e di introdurre -contrariamente a tutte le dichiarazioni pubbliche precedenti – armi di distruzione di massa dalle conseguenze imprevedibili. Invece nulla accadde e presto tutto finì nel dimenticatornio.
Ma non per Mordechai Vanunu, che per aver divulgato queste notizie dovette pagare un prezzo altissimo.

L’EFFICIENZA DEL MOSSAD E L’ITALIA

Israele si attivò subito e Vanunu cadde nella trappola preparatagli. Una trappola antica, ma sempre valida. Gli venne fatta incontrare una donna – agente segreto di Tel Aviv – di cui egli si invaghì. Da lei fu indotto a venire in Italia e precisamente a Roma. Giunto nella nostra capitale, fu immediatamente rapito, drogato, messo su una nave che aspettava al largo della costa e condotto illegalmente in Israele, ove nel 1988 venne processato e condannato a 18 anni di carcere per tradimento e spionaggio.
L’operazione dei servizi israeliani era chiaramente illegale e infrangeva tutte le leggi italiane e inteazionali. Sta di fatto che il rapimento venne eseguito con tale professionalità che nessuno si accorse di nulla. Ancora una volta il Mossad aveva mostrato la sua leggendaria efficienza.
Il fattaccio venne alla luce solo più tardi, quando Vanunu, durante un trasferimento in auto tra il carcere e il tribunale ove veniva processato a porte chiuse, riuscì a far arrivare ai giornalisti un messaggio. Con grande inventiva Vanunu aveva scritto sul palmo della propria mano poche righe in cui denunciava di essere stato rapito a Roma e la mostrò ai fotografi che stazionavano fuori del tribunale. La notizia fece il giro del mondo, ma ancora una volta la questione non suscitò grandi reazioni nel nostro paese.
Solo la magistratura fece qualcosa: il pubblico ministero Domenico Sica aprì un’inchiesta, ma questa fu presto archiviata con la motivazione che non c’era nessuna prova. L’Italia usciva così dalla vicenda in maniera vergognosa e inetta.
Viene da chiedersi perché i servizi israeliani scelsero di non agire contro Vanunu in Gran Bretagna, attraendolo invece in Italia. Dovevano avere fiducia nella nostra incapacità di intralciare i loro piani e nella mancanza di una reazione degna di una nazione civile. In quella occasione, anziché da democrazia attenta a salvaguardare la propria dignità e i principi di legge, l’Italia si comportò come una impotente «repubblica delle banane».

PERCHÉ LO FECE?NON PER DENARO

Sui motivi che hanno spinto Vanunu a denunciare le attività nucleari militari del proprio paese si è discettato molto. Prima di questa decisione egli aveva certamente vissuto un periodo difficile dal punto di vista psicologico, culminato con la crisi religiosa che lo aveva portato ad abbandonare la fede ebraica per quella cristiana anglicana. In ogni caso il suo ripensamento sulla «bontà» del programma nucleare israeliano doveva risalire a ben prima, dato che si era adoperato a scattare numerose immagini dell’impianto di Dimona e a trafugarle all’esterno. Sicuramente era anche conscio dei rischi cui si esponeva nel rivelare i segreti atomici israeliani, ma questo non gli impedì di agire, accettando la possibilità – come poi avvenne – di venir arrestato e pagare duramente per il suo gesto.
Da quel che si sa appare certo che egli non abbia agito per denaro, ma per motivi etici e morali. Vanunu decise di far sapere al mondo intero che il suo paese si era dotato dei più terribili ordigni di morte, introducendo nel Medio Oriente un elemento fortemente destabilizzante, che avrebbe potuto accrescere i rischi di un disastro totale.
Alcuni, ad esempio lo scrittore israeliano A. Yehoshua, sostengono come l’arsenale atomico israeliano giochi in realtà un ruolo favorevole per le prospettive di pace nel Medio Oriente. Esso permetterebbe infatti alle colombe israeliane di avanzare con maggiore efficacia proposte di rinuncia ai territori occupati e ad altre concessioni, a fronte della garanzia foita dalla presenza delle bombe atomiche, che dovrebbe essere in grado di dissuadere ogni stato arabo da un eventuale attacco finale. Un esempio di questo efficace ruolo di deterrenza viene individuato anche nell’improvviso arresto della notevole avanzata militare di egiziani e soprattutto di siriani nei primi giorni della guerra del Kippur nel 1973; «una sconfitta troppo bruciante avrebbe potuto spingere Israele a far uso delle sue armi letali».
Supponendo, per ipotesi, che il possesso delle bombe atomiche favorisca davvero i moderati israeliani, non si può certo dire che questi abbiano avuto grande successo politico negli ultimi anni!

NELLE CARCERI ISRAELIANE

Il trattamento carcerario in cui è stato tenuto Vanunu è stato spietato. Ha trascorso oltre 11 anni in isolamento completo, senza che gli fosse consentito alcun contatto umano, se non sporadici colloqui con i familiari, il suo avvocato e un prete. Durante questi incontri egli era peraltro sempre separato dai suoi interlocutori da una grata metallica. Fino a tempi recenti non gli venne nemmeno concessa l’ora d’aria, come a tutti gli altri detenuti.
I numerosi appelli inteazionali per la sua liberazione, o almeno per un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, vennero sempre rifiutati dalle autorità israeliane. Per loro Vanunu aveva tradito la patria e come tale andava trattato in modo severissimo.
Nonostante questo trattamento disumano, Vanunu non è impazzito e a fine aprile di quest’anno, scontata la sua lunghissima pena, è stato rimesso in libertà.

«LIBERO» E SENZA DIRITTI

L’odissea di Mordechai Vanunu non è purtroppo terminata. Come denuncia Amnesty Inteational, lo stato di Israele continua a violare i diritti fondamentali di Vanunu, anche ora che è uscito di prigione. Gli vengono imposte restrizioni assolutamente arbitrarie; ad esempio non gli viene rilasciato il passaporto e, per la durata di un anno, non potrà nemmeno lasciare il paese (come invece egli desidererebbe).
Inoltre, gli è proibito entrare in contatto con cittadini stranieri, se non con uno specifico permesso; non può visitare nessuna ambasciata di stati esteri (in un primo tempo gli era stato imposto di non avvicinarvisi nemmeno); non può rilasciare interviste.
Questa sembra una vera persecuzione, anche perché Vanunu afferma di non essere in possesso di nessun ulteriore segreto atomico. Ciò nonostante non gli è permesso discutere con nessuno (nemmeno per telefono o per posta elettronica) di argomenti nucleari, e gli è anche vietato ripetere le affermazioni già pubblicate nel 1988 dal Sunday Times.
Tutto questo va contro quanto previsto dall’articolo 12 dell’accordo internazionale sui diritti politici e civili. Questo accordo (ratificato anche da Israele, che quindi sarebbe tenuto a non violarlo) recita che «chiunque si trovi legalmente all’interno di uno stato, avrà – all’interno di quella nazione – diritto alla libertà di movimento e la libertà di scegliersi la propria residenza» e «ognuno sarà libero di lasciare qualunque paese, incluso il proprio». Inoltre i diritti alla libertà di espressione e di associazione sono garantiti dagli articoli 19 e 21 dello stesso accordo.
Secondo Amnesty Inteational, «Vanunu non deve essere sottoposto a restrizioni arbitrarie e a violazioni dei suoi diritti fondamentali, sulla base di pretesti o di sospetti nei riguardi di ciò che egli potrebbe fare nel futuro».

ISRAELE: «STATO CANAGLIA»?

La questione Vanunu non è importante solo per l’aspetto umano, ma ha una valenza ben più ampia.
Si è fatta la guerra contro l’Iraq motivandola con la supposta presenza di armi di distruzione di massa, mai rinvenute. Libia, Iran e Corea del Nord erano state inserite tra gli «stati canaglia» perché sospettate (peraltro a ragione) di voler sviluppare armamenti nucleari.
Di Israele e delle sue centinaia di bombe nucleari non si dice invece nulla, incuranti del fatto che questo arsenale, mai dichiarato ufficialmente, sia all’origine delle ambizioni atomiche di molti governi della regione mediorientale.
Stupefacente appare l’uso di due pesi e di due misure e l’incapacità della stampa e dei media liberi inteazionali di evidenziare i problemi posti dall’arsenale israeliano. Nel caso della stampa nazionale e dei maîtres à penser nostrani, suscita inoltre tristi riflessioni l’assoluta mancanza di autocritica nei confronti di come il rapimento di Vanunu sul suolo nazionale sia stato gestito.
Ulteriore punto importante riguarda la mancanza di clausole di protezione, sia nella legge italiana che in quella internazionale, per chi decida di divulgare informazioni che sono sì segreti di stato, ma che è invece utile siano noti alla collettività internazionale, in primo luogo nel settore della realizzazione di bombe atomiche. Chi lo fa è in tal modo abbandonato alla vendetta dei governi, che spesso hanno molto da nascondere. Questi misconosciuti benefattori dell’umanità non godono nemmeno del trattamento riservato ai prigionieri politici. Pensiamo a quel che succederebbe se uno di questi coraggiosi personaggi si presentasse un giorno alle nostre frontiere, chiedendo asilo politico dopo aver divulgato ai media notizie riservate sul conto del proprio paese. Sarebbe rispedito in patria e abbandonato alla vendetta delle autorità, come è stato per Vanunu?
Si impone, a livello internazionale, un’iniziativa di protezione di queste persone e sarebbe auspicabile che l’Italia e l’Europa si facessero parti attive a questo riguardo.

L’INSEGNAMENTO DI MORDECHAI

Vogliamo chiudere con le parole di speranza espresse da Mordechai Vanunu poco prima del suo rilascio dal carcere: «Siamo riusciti a superare questo lungo periodo di silenzio. Grazie a tutti gli attivisti e ai sostenitori che hanno lavorato in molte nazioni. Siete stati la mia voce, la mia coscienza. (…) Sarò lieto di incontrarvi e di condividere con voi le mie esperienze, le mie opinioni e di lavorare (…) per l’abolizione delle bombe nucleari in tutto il mondo (seguono varie parole censurate). Quella è la nostra missione e il nostro obiettivo futuro. Ci fermeremo solo nel momento in cui si avrà un nuovo accordo internazionale che metta al bando e abolisca tutti i tipi di bombe nucleari. (…) Crediamo che ciò sia possibile e che potremo vedere questo momento nel corso della nostra vita, proprio come è successo con la fine della guerra fredda. Il nostro messaggio è: “la fine delle bombe nucleari è possibile!”».

Mirco Elena




TOGOLa spesa dello stregone

In Africa occidentale le religioni tradizionali sono molto radicate. La cosmogonia è complessa e cambia per ogni etnia.
Divinità, curatori, oracoli e oggetti sacri di ogni tipo
mostrano una grande ricchezza e varietà di queste tradizioni.
Da profani, visitiamo un centro di vendita, rinomato in tutta la regione.

CCapitale ordinata e pulita, Lomé si apre come un ventaglio sul golfo di Guinea. La sua bellezza è nel litorale, le lunghe spiagge di sabbia chiara, punteggiate di palme. Il mercato centrale è colorato di frutta e vestiti della gente; le vie sono invase da banchetti di venditori di ogni genere, che indossano cappelli di paglia per ripararsi dal sole. Le auto cercano di passare in mezzo alla folla brulicante.
Prendiamo una delle grandi vie asfaltate che, a raggiera, portano fuori città. Cerchiamo il quartiere d’Akodessewa, verso nord-est. La strada taglia in due una laguna: il panorama è particolarmente bello. La gente è gentile e cerca di spiegarci come raggiungere la nostra meta.
Arriviamo al grande mercato di quartiere, ma non è quello che stiamo cercando. Un giovane ci si avvicina, incuriosito dagli stranieri. Ha un viso pulito, parla tranquillo in un francese stentato. Gli spieghiamo cosa stiamo cercando: «Il mercato dei fétiches, è qui?».

Stregoni africani

I féticheurs, coloro che utilizzano i fétiches, in una traduzione approssimativa, si potrebbero chiamare «stregoni». Mezzi medici e mezzi maghi, in Africa sono coloro che detengono l’arte dell’uso delle erbe, ma anche dei talismani, delle cure tradizionali e della capacità di parlare con gli spiriti. Alcuni sono più indovini, altri più curatori. È tramite loro che si tramanda la spiritualità degli antenati: in pratica i sacerdoti animisti.
Foiscono su richiesta i gris-gris, amuleti personalizzati, che hanno molteplici scopi: allontanano i malefici o esaltano le forze (nei diversi campi) di chi li possiede.
I fétiches (feticci) sono oggetti sacri che proteggono case o villaggi e comunicano direttamente con le divinità ancestrali, o meglio: ne sono la rappresentazione fisica. In questa regione ogni etnia (ce ne sono centinaia) ha il suo pantheon di spiriti, il proprio animale totem, i geni protettori e tutte hanno una sorprendente varietà di feticci.
Ci era stato detto che proprio a Lomé esiste una specie di supermercato degli stregoni, dove un «iniziato» può trovare tutti gli strumenti del mestiere, tutto ciò di cui ha bisogno per poter praticare.
Moise, il nostro nuovo amico, annuisce: «È qui vicino. Posso accompagnarvi io». Cammina lentamente, per la strada polverosa. Supera il grande mercato ed entra in profondità nel quartiere. Ad un tratto si apre un piccolo spiazzo, sul quale sono allineate file di bancarelle. Da lontano sembra un qualsiasi mercatino locale, ma appena ci avviciniamo notiamo che la mercanzia esposta non annovera pomodori e cipolle.
Vediamo file di gusci di tartarughe, con l’animale essiccato al suo interno, uccelli di tante specie diverse, anche loro imbalsamati, montagne di teschi bianchi che riflettono il sole…
Prima di riuscire ad avvicinarci, ecco che un ometto ci viene incontro e confabula con Moise. «Questo è il mercato dei fétiches di Akodessewa – annuncia solennemente dopo averci salutati -; qui è consuetudine, per gli stranieri, avere una guida». Naturalmente acconsentiamo: non bisogna mai andare contro le abitudini africane. E così siamo al secondo accompagnatore.

Supermercato dell’impossibile

Il signor Calixte Ganyehesson ci guida alla visita di questo mercato incredibile e talvolta raccapricciante. I banchetti, uno in fila all’altro sono colmi di teschi di scimmie, coa di animali vari, ratti squartati e sapientemente essiccati, rane e pesci gatto che hanno subìto una sorte simile. Ciuffi di peli e piume sono un po’ ovunque. Ma i pezzi più ricercati sono una grossa zampa di ippopotamo, con pelle e tutto il resto, quella di un elefante; un’intera testa di cavallo, teste di giaguaro con le fauci aperte. In un banchetto sono sovrapposte, con estremo ordine, decine di teste di coccodrillo di diversa dimensione.
«Tutte queste cose – spiega Calixte – sono materiali e ingredienti molto importanti per i curatori tradizionali e i féticheurs delle nostre parti. Solo qui si riesce a trovare tanta varietà. Ci sono pezzi, come quel teschio di elefante (e indica un ammasso di grosse ossa) che arrivano direttamente dalla Nigeria».
Andiamo avanti. I banchetti di grezze assi di legno qui li chiamano «stand» e portano delle insegne, dipinte a mano, con scritte del tipo: «Guedenon Christian, guérisseur en médicine traditionnelle, stand n. 11» (guaritore in medicina tradizionale). O ancora: «Herboriste – guérisseur, docteur en médicine traditionnelle»; oppure: «Terapeute traditionnel». Tutti accompagnati dal numero di stand, di telefono ed eventualmente di cellulare.
Tecnologia e tradizione convivono alla perfezione, come spesso accade oggi in Africa. Un po’ inquietante l’insegna con la scritta: «Membre de sciences occultes des forces vodous africaines»; in realtà, ci sembra preparata apposta per i turisti stranieri.

Dal Benin al mondo

Calixte ci spiega che tutti i venditori-curatori di questo mercato sono di origine beninese. Il Benin, paese confinante, è la culla di alcuni riti africani molto importanti, classificati come vudù ed esportati anche nelle Americhe, attraverso la tratta degli schiavi. Riti originari di queste zone e con molti tratti comuni oggi sono praticati in Brasile, Cuba, Haiti e altre isole dei Caraibi. Differenti riti vudù sono originari della Nigeria.
In un angolo vediamo alcuni scatoloni pieni di materiale appena arrivato e ancora da sistemare: pipistrelli secchi, camaleonti e uccelli di varia dimensione.
Il nostro accompagnatore ci mostra delle statuette di legno, alcune addobbate con piccole conchiglie cauris (pronuncia corì), un tempo moneta in tutta l’Africa occidentale e oggi strumento importante di veggenti e guaritori. Gettate a terra con un certo rito, esse permettono all’indovino esperto di leggere il futuro del cliente che gli sta davanti. Ce ne sono in gran quantità in tutti i mercati di questa regione.
«Sono semplici statue, non sono fétiches, ma potrebbero diventarlo con un rito» precisa Calixte. Sono anche esposte e ben allineate sculture in legno di organi maschili: «Servono per riti e cure contro l’impotenza» spiega il nostro accompagnatore.
In effetti, in questo supermercato dei curatori tradizionali, ogni pezzo, per quanto strano o truculento possa sembrare a un osservatore straniero (soprattutto se animalista), ha un significato e un utilizzo ben preciso. Il buon tradi-terapeuta o stregone, sa in che occasione dovrà usare il guscio di tartaruga, il dente di coccodrillo o la pelle di camaleonte.

Un amuleto per…

Per un non africano è difficile credere ad alcune pratiche di questi popoli. Eppure qui possono risultare molto importanti e molto «presenti» nello spirito della gente. Alcune persone sono iniziate, altre consultano il guaritore quando hanno piccoli o grandi problemi; altre ancora dicono e pensano di non crederci, ma in fondo quasi tutti ne sono influenzati.
Il nostro accompagnatore vuole farci vedere qualcosa di più. Ci porta in una baracca ai margini del mercato. «Qui – sostiene – se volete potete incontrare un féticheur. Si tratta del figlio di un grande, che ha ereditato alcuni poteri».
Entriamo nella piccola capanna fatta di bastoni di legno. È buio. Venendo da un ambiente con il sole splendente, le pupille dei nostri occhi impiegano qualche minuto prima di allargarsi. Finalmente riusciamo a vedere: davanti a noi, nell’angusto stanzino, compaiono statue di diverse dimensioni, alcune a due teste, altre con una sigaretta in bocca, altre immerse nella cenere o con piume che fuoriescono da orifizi. Il tutto ricoperto di una polvere che fa sembrare le cose più vecchie, in un’atmosfera misteriosa e mistica. Ci troviamo di fronte a un gruppo di veri fétiches.
Il giovane stregone ci propone degli amuleti. Degli oggetti che ci possono servire nella nostra vita quotidiana, ma che devono essere «benedetti» da lui, alla presenza dei fétiches. Un nocciolo di karité da mettere sotto il cuscino la notte serve per aumentare la memoria; una minuscola statuetta per avere un buon viaggio; un sacchettino di erbe da appendere al collo per essere protetti dal male; un altro oggetto per avere fortuna con il proprio amato.
Ogni gris-gris, posto in un guscio di tartaruga vuoto, subisce un rituale di fronte a un feticcio e con la partecipazione del destinatario. Ma attenzione, una volta a casa gli amuleti devono essere accuditi.
Il tutto, a noi scettici, sembra una sceneggiata per turisti. Di fatto è una procedura semplificata di quello che normalmente si fa con chi crede a questo tipo di riti. Il momento è comunque carico di solennità e capiamo che siamo in un contesto reale. Solo noi, stranieri a questa cultura, siamo l’unica cosa fuori posto. Anche questa è l’Africa e non deve essere banalizzata. •

Marco Bello




ESPERIENZA ITALIA: Novizi fuori le mura

Sei novizi dei missionari della Consolata, tre italiani e tre coreani, si «allenano» alla missione ad gentes, cioè ad andare al di là delle frontiere, discriminazioni, condizionamenti politici e sociali, dentro il cuore
della gente… 15 giorni a Platì
è parte di tale allenamento.

La vita del novizio, si sa, ha una programmazione ben precisa e strutturata. Tuttavia, i sei giovani del noviziato di Rivoli, tre italiani e tre coreani, hanno aperto una breccia nel muro «protettivo» e, accompagnati dal loro formatore, si sono recati nella Locride (Calabria), più precisamente a Platì, ai piedi dell’Aspromonte.
Per 15 giorni sono vissuti accanto a due missionari della Consolata, i padri Enrico Redaelli ed Emanuele Maggioni, per apprendere «il mestiere» e sperimentare se stessi in quella vita alla quale si stanno preparando giorno dopo giorno: la missione.
Hanno visto, sentito, toccato con mano. Da veri discepoli, hanno camminato accanto a missionari già sperimentati. A Natile Nuovo sono stati alloggiati in una casa – quella di Maria Zagaglia – che sembrava un prolungamento della casa di Betania, dove il maestro Gesù era accolto con calda ospitalità.
Si sono trovati immersi nella religiosità popolare, nelle sue espressioni più dense del triduo pasquale: si sa, «il religioso» esprime la radice più arcaica e le vibrazioni più sacre di un popolo.
Quindici giorni sono pochi, ma è un «assaggio» per apprezzare, incuriosirsi, dialogare, e, soprattutto, ascoltare. Sì, ascoltare, quell’atteggiamento di stupore, che sa di riverenza, di «stare-accanto», mediante il quale si crea un’osmosi d’intesa, di rispetto, travasamento di persone a partire dalla loro più profonda interiorità.
Un’esperienza di «missione» che lasciamo raccontare ai protagonisti.

Missione è… uscire dalla propria casa. Abituati all’ordine e puntualità, a prevedere ogni dettaglio della vita comune e programmare con scrupolo il da farsi per non girare a vuoto, l’esperienza di Platì, ci ha fatto piombare di colpo nella «programmazione da affanno». Sono saltati e quasi schizzati appuntamenti, orari, agende.
Si è realizzato tutto e anche più del previsto. Ma ognuno di noi si è sentito chiamare in causa per dare il meglio di sé, estrarre dal profondo motivazioni e convinzioni, adattarsi alla realtà presente e non cercare quella immaginata e preventivata.
In questo bagno improvviso di adattabilità, fuori dalla pace e quiete del noviziato e dei ritmi comunitari, è stato necessario «arrangiarsi» per strappare spazi di preghiera, silenzio interiore e formazione personale, per «ricaricare» le pile che fanno girare la missione. L’imprevisto sembrava il tessuto quotidiano e bisognava farvi fronte… uscendo di casa!
Che cosa mi ha maggiormente impressionato? La gente. La ricchezza di Platì è la gente; i bambini soprattutto. Li abbiamo visitati nelle scuole e incontrati a frotte per le strade. Sono simpaticissimi, vivacissimi, di una abbordabilità e amicizia fresca e istantanea.
Amano lo scherzo. Se accetti un giretto in motorino, ti strapazzano, correndo a tutto gas per le viuzze del paesino, che conoscono come se avessero antenne da pipistrello. Poi, alle tue grida isteriche, «fammi scendere, sto’ male…», finalmente mostrano compassione e ti scaricano in parrocchia. Quella sera, di certo, salti la cena.
A scuola, per intrattenerli, facevamo domande tra cultura varia e curiosità. Una ragazzina di quinta elementare, la domanda ce la pone lei: «Che cosa pensate di quello che scrivono i giornali su Platì?».
Siamo colti impreparati. Ma con prontezza di spirito uno di noi risponde con un proverbio: «Prima di giudicare una persona bisognerebbe mangiarci assieme un chilo di sale». La ragazzina afferra il significato e si apre a un sorriso di pace.
Nella classe, però, si fa un attimo di silenzio, facile da interpretare: è amarezza e speranza insieme; passato che si vorrebbe seppellire e futuro da inventare. Il loro sguardo sa di volontà di riscatto, per qualcosa che non fa onore; ma esprime tanti valori che non fanno rumore sui mass media, che però esistono realmente e sono onestà, sudore, dignità mai barattata, ma troppe volte imbrattata; e vorrebbero fosse loro pubblicamente restituita!
Sono istanti che ci fanno rivivere il loro dramma, in quella notte del 13 novembre 2003: circa 1.000 carabinieri circondarono il paesino, penetrarono a forza nelle case, strapparono dal sonno uomini, donne, anziani, giovani. In quella notte da incubo, come spesso succede, il dramma nel dramma: si voleva colpire qualcuno legato alla malavita e si fece d’ogni erba un fascio tra grida e lacrime di innocenti… e banalità da parte di qualcuno con addosso la divisa dell’arma.
Le conseguenze di quella notte si sono protratte per lunghi mesi, aumentando il già diffuso senso di sfiducia nel loro futuro. Ma un’alba nuova sembra che cominci a dissipare incubi, paure, sospetti.
L’ospitalità dei platiesi è al di là del pensabile. È straordinaria. Ci hanno invitato nelle loro case, ci hanno riempiti di regali: pane, formaggi, salami, olio d’oliva…
Una sera fummo invitati dalla signora Maria, suocera di Antonio, proprietario di una tabaccheria in paese. Alla fine della serata, quasi per sfogarsi, la signora ci racconta come era Platì fino a 30 anni fa: un paese attivo nell’alta sartoria e artigianato; esportava pipe ed altri prodotti in tutto il mondo. Con orgoglio ci racconta dell’attivismo politico di suo padre, il quale partì da Platì nel 1943 per unirsi ai partigiani e combattere contro la dittatura.
Denys

Missione è… solidarietà. L’esperienza a Platì è coincisa con il tempo pasquale, i giorni in cui riviviamo il mistero del Dio solidale con noi fino alla morte. Tale coincidenza ci rese più coscienti del messaggio di cui siamo portatori, al di là delle nostre persone.
Accanto ai missionari, negli incontri con gli alunni delle scuole e i giovani impegnati nelle attività parrocchiali, nell’ospitalità delle famiglie… abbiamo sentito la sfida di dovere scoprire e mostrare il «Dio che salva», a «sostenere la speranza», a impegnarci per ricevere dal Padre la pace e per costruire un mondo di giustizia, libertà e frateità.
Alimentare la speranza significa risvegliare le coscienze, testimoniare e proporre cammini di liberazione e promozione umana. Per questo abbiamo presentato alla gente di Platì una proposta di solidarietà, chiedendo l’appoggio alla campagna Nós Existimos.
Il primo passo nel cammino della solidarietà è la conoscenza; perciò, dove ci è stato possibile, abbiamo cercato di ampliare gli orizzonti di interesse e fatto conoscere la situazione di Roraima, le sfide e gli obiettivi di tale iniziativa.
Il gesto in cui si è espressa la solidarietà, semplice ma personale, che non impegna il portafoglio ma muove la coscienza, è stato apporre il proprio nome sulla scheda per la raccolta delle firme di sostegno alle rivendicazioni dei popoli emarginati di Roraima.
Qualcuno ha fatto un passo in più: si è interrogato sul valore, conseguenze, potenzialità di tale gesto. Ha capito che apporre una firma per sostenere una campagna internazionale è un atto di responsabilità di fronte a ciò che capita nel mondo, uno strumento efficace per cambiarlo, anche a livello locale.
La storia di popoli diversi, con problemi ed esigenze differenti, ma accomunati da esclusione e sfruttamento, uniti dalla comune speranza in un futuro migliore, in lotta per il rispetto dei propri diritti e dignità, ha costretto la gente a guardare in casa propria.
Ed è in quest’ottica «locale» che i bambini di Platì hanno partecipato a una maratona per le vie del loro paese, indossando una maglietta su cui campeggiava la scritta: Nós Existimos. Quel grido di popoli lontani è diventato il grido di Platì: anche noi esistiamo; ci siamo anche noi; anche noi vogliamo contare qualcosa!
Corrado

Missione è… incontrare l’uomo dove vive. In un paese di montagna il bar costituisce un importante luogo di ritrovo. A Platì ce ne sono per tutti i gusti: per juventini e reggini (le due tifoserie, ci tengo a dirlo, non sono in conflitto), per giovani e meno giovani.
Ne abbiamo frequentato un paio anche noi. Ottima è stata l’accoglienza, non solo perché le consumazioni sono state sempre offerte. Nei bar abbiamo condiviso un po’ di vita dei platiesi, la loro storia, il presente, le speranze e le attese.
Siamo venuti a sapere che a Platì ci sono una decina di foi, il cui pane arriva fino a Reggio e Catanzaro. È un pane particolare, a lievitazione naturale. Lo abbiamo mangiato anche noi ed è davvero ottimo; si mantiene fresco per diversi giorni. A Platì si produce anche dell’ottimo formaggio di latte vaccino e caprino.
Al bar abbiamo incontrato soprattutto i giovani. Con loro si è scherzato tanto, ma hanno pure manifestato molto interesse per la nostra scelta di vita missionaria, per il nostro voto di castità, così distante dal loro modo di pensare. Almeno così ci è parso di intendere. È stata un’impresa trovare il modo più semplice per spiegarlo.
Camminando per le strade di Platì, ci si scopre avvolti da grande cordialità. È molto importante fermarsi, salutare, dare e chiedere la propria fiducia attraverso i gesti che la buona educazione ci ha insegnato: un cenno, un sorriso, una stretta di mano per i platiesi sono forme di rispetto molto importanti.
Abituati all’anonimato cittadino, all’inizio ci sembrava strano questo «dover salutare tutti». Eppure, dopo poco tempo si è scoperto che non era un atto dovuto, ma semplicemente un segno di riconoscenza verso l’accoglienza che continuamente ricevevamo. Tanti ci hanno invitato a entrare nelle loro case per un caffè, una chiacchierata, accompagnata da qualche dolce tipico che, se non lo finivamo, dovevamo portare a casa.
Marco

Missione è… inculturazione. Platì è una cittadina bella e simpatica; ma all’inizio abbiamo dovuto abituarci e superare quell’impressione di «facce dure», specialmente quelle mascoline!
Fatto questo sforzo ti accorgi che la gente è tanto buona, accogliente e generosa, come le persone semplici della nostra Corea del Sud.
Per noi coreani, trapiantati in Italia da poco più di un anno e alle prese con la lingua, con cui riusciamo appena a farci capire, l’approccio con la gente, specialmente con i simpaticissimi bambini, è stato duro: tutti parlavano il dialetto a una velocità mozzafiato. E questo ci ha resi più consapevoli di una delle più grandi difficoltà della vita missionaria: la lingua della popolazione alla quale saremo inviati.
Nonostante ciò, gli incontri nelle strade, nelle scuole elementari e medie sono stati una bellissima esperienza che conserveremo sempre nel profondo: in Corea, a Platì o in qualunque altra parte del mondo, i bambini sono sempre uguali: si fanno amare, sono semplici; ti danno tanto e non ti fanno sentire straniero.
I ragazzi più cresciuti e i giovani sono un po’ diversi: corrono sulle moto sparati e senza casco; si esibiscono in temerarie prove di bravura, per mostrare in qualche modo la personalità emergente. Peccato che non investano tale personalità, così ricca e originale, in una professione o nello studio.
Questo non vuole essere un giudizio: abbiamo intravisto quante difficoltà ci sono in questo campo, dovute a mancanza di lavoro e di prospettiva. L’unica strada aperta, da tanti già imboccata, è quella dell’emigrazione. Ad eccezione dei bar, questi giovani non hanno punti di incontro per stare insieme e passare il tempo libero, per dare spazio alla propria cultura e creatività.
Le ragazze, poi, nella loro vita tanto ritirata, sembrano ancora più penalizzate. Il fatto che si sposano così giovani (18-20 anni) ha suscitato una certa meraviglia in noi coreani. Al di là di cultura e tradizione, forse lo sposarsi presto è causato anche dalla mancanza di lavoro, alla necessità di emigrare. Nonostante la fatica per adattarci alla lingua e scoprire la cultura della gente, abbiamo vissuto con intensità il nostro soggiorno a Platì. Non abbiamo capito tutto, ma di una cosa siamo certi: Platì ha tanta voglia di speranza e una nuova stagione della sua storia sta già lievitando.

Martino, Pietro, Giuseppe

Novizi missionari IMC




DOSSIER IMMIGRAZIONE (3)Insieme per la casa

E’ UN PROGETTO che ha come scopo la ricerca di soluzioni possibili per affrontare il grave problema abitativo a Torino. La filosofia dell’intervento si ispira alle riflessioni maturate nel corso del convegno «La chiesa dialoga con la città», voluto dal cardinale Severino Poletto nel giugno del 2000.
Tante sono le problematiche che Torino deve affrontare: è necessario che tutte le forze sane della città sappiano mettersi in dialogo per trovare soluzioni rispettose delle persone, della storia, della tradizione culturale, dell’economia e società civile nel suo complesso.
I due uffici dell’arcidiocesi, Caritas diocesana e Pastorale del lavoro, si sono concentrati sul disagio abitativo, soprattutto focalizzando nel mercato della locazione una delle esperienze necessitanti un rilancio significativo, a beneficio delle persone e dell’economia del territorio. Il cammino di riflessione ed elaborazione è stato lungo; ma ha consentito di introdurre positive sinergie sia tra enti di ispirazione ecclesiale sia tra altre realtà: Ufficio Pastorale Migranti, Società San Vincenzo De Paoli, gruppi di volontariato vincenziano, Il Riparo, Federabitazione Confcornoperative Piemonte, Sicet, Patronato provinciale Acli, Cicsene e Cooperativa sociale «Tenda Servizi», ivi compreso il Comune di Torino (concedendo tra l’altro il patrocinio), la Compagnia San Paolo, la Fondazione CRT.
L’unità di intenti intende rilanciare il mercato locativo, offrendo ai proprietari seri incentivi e garanzie, coniugando azioni di accompagnamento degli inquilini. Il fabbisogno di case spinge ad ipotizzare misure più incisive e radicali, poiché la domanda si presenta con volti diversi e richiede risposte diversificate.
A Torino infatti non abbiamo solo gli sfrattati, i casi sociali, le fasce deboli, ma anche nuove forme di emergenza abitativa: e, cioè, quella relativa alle giovani coppie, alle donne sole e con bambini, a giovani famiglie, agli anziani, agli immigrati; tutte persone che regolarmente lavorano e che necessitano di una casa. La città ha il dovere di occuparsene.

L’iniziativa «Insieme per la casa» renderà possibile l’utilizzo di nuovi strumenti, oltre a quelli già sperimentati dal Centro Servizi per la locazione foiti dal Comune di Torino. Gli strumenti offerti da «Insieme per la casa» sono:
1. fondo di garanzia per eventuali morosità da parte degli inquilini;
2. assicurazione in caso di danni causati all’alloggio per mal comportamento dell’inquilino;
3. disponibilità di alloggi «transitori», utilizzabili per situazioni di emergenza e/o sfratto.
Inoltre «Insieme per la casa» assicura:
– accompagnamento nel dialogo e nei rapporti con inquilini, amministratori e condomini;
– accompagnamento ed assistenza tecnica per lo svolgimento di pratiche presso gli uffici pubblici;
– assistenza per contratti di locazione e compravendita;
– reperibilità di operatori per il confronto su questioni tecniche;
– monitoraggio continuo delle persone prese in carico dal progetto con visite domiciliari.
Il progetto nel primo semestre di attività ha inserito circa 60 famiglie, ma tantissime sono le richieste, in lista d’attesa, di persone italiane e straniere.

Vuoi aiutarci?
Sei un proprietario, hai un amico che ha un alloggio vuoto, sei un agente immobiliare? Contattaci. Senza alcun impegno, ti illustreremo nei dettagli tutte le garanzie che siamo in grado di offrirti.
I nostri recapiti sono:
• Comitato tecnico gestionale / Cicsene 011/74.12.435; cicsene@cicsene.org
• Cooperativa sociale «Tenda Servizi»
insiemeperlacasa@libero.it
Wally Falchi

Wally Falchi




DOSSIER IMMIGRAZIONE (2)Donne cinesi

Fra gli extracomunitari, i cinesi di Torino costituiscono un caso speciale. I primi cinesi (esclusivamente uomini) vi giunsero prima della seconda guerra mondiale con l’intenzione di lavorare per qualche anno e poi ritornare in patria con una discreta disponibilità economica. Ma i guadagni, ottenuti con la vendita ambulante e abusiva di cravatte (ricordate il richiamo «clavatte, clavatte»?), furono molto scarsi.
Alla fine della guerra pochissimi ritornarono in Cina per rivedere i famigliari, di cui non avevano più notizie. Gli altri, che non avevano neppure la possibilità di affrontare le spese del viaggio, rimasero a Torino. Continuarono le loro vendite, estendendole però ad articoli di pelletteria che incominciarono a produrre a basso costo.
I piccoli imprenditori cinesi, con l’aumento della produzione, assunsero delle ragazze italiane. Furono costretti ad imparare la nostra lingua; nacquero i primi scambi culturali; si incominciò a superare le diffidenze reciproche, grazie anche a qualche matrimonio misto.
Negli anni ’50 si ebbe un nuovo flusso migratorio di cinesi, che potevano contare sull’aiuto dei connazionali, già residenti, per casa e lavoro. Nel 1960 arrivarono le prime donne cinesi, per unirsi ai rispettivi mariti. La disponibilità economica permise a molti di intraprendere attività nel campo della ristorazione e, in seguito, della confezione di abbigliamento.
A scoltiamo Ni Tianxiu o «Stella», per semplificare, come subito dice lei stessa. Laureata in Cina, mediatrice culturale di Alma Mater e vicepresidente dell’Associazione culturale cinese, Stella dichiara: «Attualmente a Torino vivono un migliaio di donne cinesi; lavorano industriosamente, partecipano allo sviluppo sociale dell’Italia e contribuiscono a colorare la cultura globale multietnica. Tranquille, silenziose e chiuse, rispetto ad altre comunità quasi non si notano. Come mai?».
Stella si scusa per la sua pronuncia; legge la sua relazione con difficoltà. Ma gli occhi le brillano; è vivacissima, allegra e contenta di essere fra noi. Il suo riso spontaneo ci conquista.
La lingua italiana, per le donne cinesi, è il più grande ostacolo all’inserirsi ed integrarsi nella nostra vita. La difficoltà di «convertire» la mente da un linguaggio di ideogrammi ad uno alfabetico scoraggia, a tal punto che le donne rinunciano alla vita sociale, si isolano e preferiscono lavorare come api operose e lasciare ai loro figli la possibilità di andare a scuola.
Spesso i figli (anche bambini) fanno da interpreti alle loro mamme nei negozi, negli uffici pubblici e ovunque sia necessario (persino nei consultori medici).
L’altro grave problema delle cinesi è la pianificazione familiare. In Cina, con l’imposizione della politica del «figlio unico» del 1979, le coppie hanno evitato di avere più di un figlio; però in Italia la maggioranza ne ha più di due. Spesso le donne cinesi si trovano nuovamente incinte 3-4 mesi dopo il parto.
A queste situazioni non facili contribuiscono varie cause; con un po’ di aiuto e collaborazione dall’esterno potrebbero essere scongiurate. Purtroppo alcune credenze, comunicate da altre donne (per esempio, l’impossibilità di rimanere incinta durante il puerperio), prevalgono sulle informazioni corrette, sovente completamente assenti. Non conoscendo la lingua, tante cinesi rinunciano alle visite specialistiche e alle cure: sarebbe per loro troppo complicato andare a Milano (dove operano ginecologhe e ostetriche cinesi), oppure attendere a lungo a Torino per avere un appuntamento con un’interprete a disposizione.
Inoltre l’obbedienza-sottomissione al marito (anche se non usa il preservativo) e la mentalità tradizionale (secondo la quale i maschi sono l’orgoglio della famiglia) fanno sì che le donne cerchino di avere figli maschi anche se hanno già partorito tante volte e la loro vita è pesantissima. Spesso sono addirittura i genitori del marito a decidere per un’altra gravidanza…
Così le donne cinesi sono costrette a stare in casa ad accudire i figli, perdendo ogni opportunità di imparare. Hanno un grande bisogno di aiuto.
Per loro Stella chiede a voce alta la possibilità di imparare l’italiano, con metodi bilinguistici semplici ed efficaci, nonché la presenza di mediatrici cinesi nelle istituzioni.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (1)E se non ci fossero loro?

A Torino sono presenti ufficialmente
circa 15 mila donne extracomunitarie:
rappresentano il 39% del totale degli immigrati
e il 2% delle donne torinesi.
Marocchine, somale, camerunesi, nigeriane,
ecuadoriane, filippine, cinesi, ecc.
ma anche dall’Albania, Romania e Ucraina.
Sono impegnate soprattutto nei «lavori di cura».
Però non mancano sorprese.

GRAZIE (NONOSTANTE IL RITARDO)
«Lavoro di cura»: ecco una nuova espressione, entrata di recente nella lingua italiana, per indicare l’occupazione nell’assistere malati, anziani e bambini, oltre che il lavoro domestico. È un’espressione che, come un’eco, risuona in varie lingue e allude ai numerosi lavori delle donne che li esercitano: donne che provengono da tanti paesi diversi, ma accomunate tutte in uno stesso destino…
Oggi non sono puntuali le donne migranti, che giungono all’edificio della Facoltà di teologia di Torino per intervenire al «loro» incontro-dibattito su: «Le donne migranti si confrontano con la città». Il convegno è organizzato dall’ufficio Pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Torino e dall’associazione Alma Terra. Inoltre vi partecipa la Commissione pari opportunità uomo-donna della Regione Piemonte.
Il ritardo si dimentica presto grazie al caloroso saluto iniziale di don Fredo Olivero: «Grazie! Da voi abbiamo imparato tanto. Abbiamo imparato, soprattutto, un modo più sereno di affrontare la vita».

COLPO D’OCCHIO MULTICULTURALE

Funziona un servizio di accoglienza dei bambini. Pertanto le mamme entrano nella sala del convegno libere e rilassate; si salutano con calore nella loro lingua o in italiano e prendono posto vestite con i loro abiti migliori, rigorosamente europei. Vengono da nazioni extraeuropee: Perù, Ecuador, Marocco, Somalia, Nigeria, Camerun, Filippine, Cina… ma anche Albania, Romania ed Ucraina. Sono presenti, per lo più, donne che vivono in Italia già da alcuni anni, di età compresa fra i 25 e 40 anni. Ma intravediamo qualche signora decisamente più anziana.
Ci sarà, infatti, confermato che ultimamente si è registrato un innalzamento dell’età; per cui negli arrivi più recenti si trovano spesso persone di 40-50 anni, venute in Italia per lavorare e mantenere o far studiare i figli. Sono originarie specialmente dell’Est europeo; data l’età, anche se trovano lavoro, sono mal pagate, sfruttate e si esigono da loro tanti altri servizi.
Non vi sono solo addette a «lavori di cura», ma anche commesse, infermiere, cameriere e un’impiegata di banca. Scopriamo che numerose sono laureate all’università nei loro paesi d’origine. Oggi lavorano a Torino come interpreti, traduttrici e mediatrici culturali.
«Mediatrice culturale»: ecco una nuova figura professionale, già da alcuni anni operante in Italia (nelle istituzioni pubbliche, negli uffici per stranieri, nel terzo settore, nell’associazionismo); si va anche diffondendo nelle scuole e ovunque si presentano problemi che esigono una «mediazione» fra le «culture altre», per una buona convivenza.
A questo proposito, molti sono gli extracomunitari già inseriti che, nel tempo libero, si prestano (senza alcun compenso) per servizi di prima accoglienza nei riguardi di altri stranieri. Si va diffondendo pure un’altra forma di volontariato; riguarda mamme extracomunitarie di bambini che vanno a scuola: alcune hanno accolto l’invito di prestare qualche ora alla settimana per aiutare i bambini stranieri (della loro stessa lingua), appena giunti in Italia, a superare le prime difficoltà di inserimento.

“LAVORO DI CURA” MA NON SOLO

Dall’intervento di Mercedes Cáceres, rappresentante del gruppo «lavoro di cura» di Alma Terra, possiamo seguire il processo di integrazione della donna immigrata: dall’iniziale bisogno di lavoro fino alla necessità di riconoscimenti e gratificazioni, che vanno oltre la sopravvivenza economica.
In Italia fenomeni demografici come l’allungamento della vita e il calo delle nascite, uniti al cambiamento del modello familiare tradizionale, con la donna sempre più occupata fuori casa, hanno portato ad un bisogno crescente di delegare ad altre persone l’assistenza di anziani, malati e bambini, nonché i lavori domestici.
Quindi le donne migranti, arrivate nel nostro paese, trovano abbastanza facilmente una prima occupazione nei suddetti settori. Questo offre, nello stesso tempo, anche una possibilità di integrazione, che permette l’apprendimento della lingua, degli usi e dei costumi delle famiglie italiane. In tale contesto spicca l’azione di alcune donne torinesi, che si offrono per insegnare alle neoarrivate a cucinare, ad usare gli elettrodomestici e i detersivi, a gestire quotidianamente casa e famiglia.
Però la sussistenza non è l’unico significato che la donna immigrata vuole dare al suo lavoro. Essa ricerca, in misura più o meno accentuata, la realizzazione personale e professionale, un posto attivo nella società come lavoratrice consapevole dei suoi diritti e doveri.
In particolare: «il lavoro di cura», in un primo momento soluzione immediata del problema economico, si rivela in un secondo tempo un impegno di grande responsabilità, che stimola le persone coinvolte nel loro essere più profondo ed autentico. Aiutare un bambino a crescere, accompagnare un anziano nella sua malattia (spesso fino alla morte), dà alle assistenti la possibilità di contribuire all’armonia di una famiglia, ponendo sempre al centro la persona.
Di conseguenza le «badanti», consce dell’importanza della loro figura professionale e del valore sociale della loro azione, chiedono giustamente il riconoscimento economico, sindacale e curriculare delle proprie prestazioni circa retribuzioni, orari, tempi di riposo e possibilità di avere un figlio senza perdere il posto di lavoro.

LA CRISI INDUSTRIALE DI TORINO

Silvia Avila, sposata con una figlia, laureata in economia e commercio, proviene dall’Ecuador dove lavorava come contabile. A Torino è passata dal lavoro domestico alla ristorazione, alla metalmeccanica e, attualmente, è mediatrice culturale presso l’ufficio Pastorale dei migranti. Da lei apprendiamo che numerose «badanti» spesso hanno una buona cultura (anche a livello universitario); talora conoscono 3 o 4 lingue. Accettano questo tipo di lavoro solo perché sanno che non vi sono altre possibilità.
È quindi comprensibile che, nelle loro richieste, vi sia anche il bisogno di momenti di formazione e qualificazione per sostenere la loro speranza di nuovi progetti di vita. Essenziale è il ruolo delle istituzioni, che dovrebbero offrire delle possibilità, ma senza gravare sulle famiglie datrici di lavoro.
Apprendiamo che in Torino, negli ultimi tre anni, la richiesta di «lavoro di cura» è diminuita. Questo è dovuto alla crisi industriale del capoluogo piemontese e alle conseguenti minori disponibilità economiche delle famiglie, che spesso si vedono costrette a ridurre gli orari o a rinunciare all’aiuto esterno, cercando soluzioni più economiche anche per gli anziani.
D’altro canto, aumentano, sfortunatamente, le donne giunte con il marito o figli per il ricongiungimento familiare, poi abbandonate dal coniuge, unica fonte di sostentamento: si ritrovano sole, senza lavoro e senza casa, costrette spesso a rimandare i bambini dai parenti al paese d’origine.
Frequenti sono i casi di maltrattamento, ed enorme è la necessità di ascolto e di sostegno psicologico, oltre all’aiuto materiale.

CERCARE CAPIRE SAPERE

«Vi ho creati da un uomo e da una donna e ho fatto di voi dei popoli e delle tribù perché vi conosciate…».
Con questo versetto del Corano si è concluso l’intervento di Fatima Khallouk. Proveniente dal Marocco, laurea in biochimica conseguita in Francia e diploma di traduttrice, è particolarmente impegnata nei problemi dell’integrazione e del dialogo interreligioso e culturale. Lavora come consulente aziendale, traduttrice, interprete e collabora con l’Ufficio Stranieri della Cisl e con Radio Torino Popolare.
Abbiamo seguito con attenzione il suo appassionato intervento sul dialogo. Il modo più semplice e il ponte più «corto» per comunicare è capirsi. Ogni migrante porta con sé come unica e non effimera ricchezza la sua cultura, acquisita nelle famiglie e società dove è vissuto assimilando storia, tradizioni, letteratura, arte, musica, religione. Nell’incontro con l’«altro» tali valori possono unire senza scontri; ciascuno può mantenere la sua identità e, nello stesso tempo, arricchire la propria personalità.
Cercare i punti comuni delle rispettive religioni, trovare altri terreni d’incontro socioculturali, capire le differenze e promuovere il mutuo rispetto… sono tutti elementi che devono affiancare la politica di integrazione giuridica degli stranieri. Naturalmente, alla base di tutto, ci deve essere l’istruzione, poiché solo una solida base culturale rende il dialogo e l’accordo sui valori fondamentali facile e naturale.
Lingua, lavoro, casa, servizi sociali
Aisha Asli, marocchina di 40 anni, laureata in giurisprudenza, nubile, fa parte del settore che si occupa di accoglienza nell’ufficio della Pastorale dei migranti. Con entusiasmo ci illustra il suo lavoro, che considera gratificante perché aiuta ed orienta gli altri e, contemporaneamente, costituisce un continuo arricchimento culturale per se stessa. L’accoglienza è il punto di riferimento fondamentale, quando lo straniero arriva. Non è un puro inserimento di dati nel computer, ma un accompagnamento della persona nei suoi primi passi in Italia.
I problemi più urgenti da affrontare sono tre: l’apprendimento della lingua (senza la quale uno straniero non può muoversi), la ricerca di lavoro e la sistemazione abitativa. Poi viene l’orientamento nei servizi sociali, scolastici, sanitari e amministrativi, unito all’ascolto dei problemi e delle sofferenze con il sostegno psicologico di esperti, quando è necessario.
Vivienne Maradas, della Repubblica Centrafricana, sposata con due figli, diplomata, si occupa in particolare del problema della casa. È un settore dove l’immigrato, debole e vulnerabile sotto tutti gli aspetti, finisce in molti casi per essere sfruttato dai proprietari di alloggi o da altri immigrati che subaffittano. Le difficoltà maggiori sono rappresentate dai prezzi troppo alti, dalla diffidenza razziale e dalla disinformazione sulle possibilità esistenti e sui diritti in materia di contratti.
Si lamenta, soprattutto, la mancanza di cornordinamento fra i servizi che danno informazioni; inoltre dovrebbero essere più accessibili nelle lingue d’origine e sempre aggioati. Con campagne di sensibilizzazione rivolte ai proprietari si dovrebbe reperire alloggi a prezzi calmierati, garantendo i proprietari.
Una parziale risposta al problema «casa» arriva nell’intervento di Malvina Cagna, rappresentante del Cicsene (Centro italiano di collaborazione per lo sviluppo edilizio delle nazioni emergenti), che dal 1990 ha iniziato un monitoraggio habitat sul territorio nell’ambito di un progetto nazionale.
Poiché lo straniero sta diventando appetibile nel mercato della casa, le agenzie immobiliari hanno intrapreso degli studi sull’argomento. Oltre a forme di sfruttamento abitativo e di subaffitto (senza che gli stessi inquilini ne siano al corrente), ci sono i problemi di discriminazione, a seconda dei paesi di provenienza, e si sta allargando la forbice tra qualità e prezzo.
Occorrono finanziamenti per la ristrutturazione e riqualificazione degli alloggi (che comportano minori guadagni), oltre a fondi di garanzia e bonus di entrata per i proprietari che accettano di affittare a stranieri e che necessitano di assicurazioni per il futuro. Con un occhio alle sanzioni previste dalle leggi sulla discriminazione razziale, è necessario un cornordinamento efficace dei servizi di informazione e controllo e regolarità dei contratti.

IN UFFICIO E DIETRO UNO SPORTELLO

Varie donne migranti, da qualche anno in Italia, superati i primi problemi, hanno la capacità di guardare oltre lo stretto orizzonte di un lavoro domestico. A Torino si parla già di «secondo inserimento» o «seconda fase», con progetti per venire incontro a queste esigenze.
Grace Bassey, nigeriana, da 14 anni nel nostro paese, ci illustra il progetto «Dedalo». In tale ambito il Ministero degli Affari Sociali, anni fa, promosse dei corsi (comprendenti settimane di stage) sia per l’avviamento ad un lavoro autonomo, in collaborazione con la Conferesercenti, sia per l’inserimento in uffici pubblici.
Recentemente 12 donne extracomunitarie fanno parte del personale bancario, grazie al progetto «Percorsi contro l’esclusione sociale e per l’autonomia delle donne», nato dalla collaborazione fra banche, ministeri e Alma Mater.
Ce lo riferisce Rosine Noubissie, giunta in Italia 8 anni fa dal Camerun per studiare. Prima ha lavorato come badante e babysitter per mantenersi agli studi; poi è riuscita ad entrare nei «Percorsi contro l’esclusione», superando tests attitudinali e di lingua italiana, per essere ammessa ad un corso di formazione comprendente stages pratici con i clienti. Grazie al permesso di soggiorno per studi universitari e alla convenzione fra università e banche, oggi lavora presso l’Istituto San Paolo con un contratto part-time di 4 ore per 5 giorni settimanali. Così può continuare gli studi.
Rosine parla dei suoi rapporti con i colleghi e clienti, di come abbia dovuto superare la paura di sbagliare e di essere giudicata secondo il colore della sua pelle. Ma è entusiasta della sua esperienza e si augura che altre donne possano usufruire di tali possibilità.

DARE VOCE A CHI NON HA VOCE

Enrica Recanati, responsabile del servizio Drop in del Gruppo Abele, si definisce nel contesto del Convegno «una voce fuori del coro». Infatti si occupa di migranti in tali situazioni dove, probabilmente, l’integrazione nel contesto italiano non avverrà mai.
Si tratta di donne (e uomini) provenienti dall’Est europeo (Romania, specialmente), ma anche dalla Nigeria e Sierra Leone: spesso non più giovanissime e con problemi di salute, chiedono asilo politico.
Il servizio loro dato è «a bassa soglia», cioè facilmente accessibile: una prima accoglienza come a persone senza dimora, affinché il vivere in strada si arresti, si prevengano i rischi di barbonizzazione e si tuteli la salute
Innanzitutto si mira a soddisfare i bisogni primari (igiene, vestiario e accoglienza nottua) delle persone sprovviste di permesso di soggiorno, che non possono cercare lavoro e casa e alle quali sono negati tutti i diritti. Ci sono anche donne laureate, senza riconoscimento del titolo di studio, che fanno la fila per lavarsi, avere un pasto caldo o un vestito pulito.
Hanno bisogno di ricevere informazioni sui servizi cittadini e sulle leggi che le riguardano, ma soprattutto di socializzare, di essere considerate persone, essere ascoltate e stimolate, perché (nonostante tutto) mettano in campo le proprie risorse e non cadano in una condizione di disagio cronicizzato.
Si cerca di riempire il loro tempo vuoto con varie attività, quali un laboratorio teatrale, un esercizio culturale, un giornalino interno, corsi di italiano e computer. Allora emergono le risorse e potenzialità personali, che strada e disagi hanno intorpidito. Con l’accoglienza e le relazioni personali può avvenire quel cambiamento che porta donne (che sembravano non chiedere nulla) ad esprimere un forte bisogno di riconoscimento della propria dignità.
E questa «voce fuori del coro» ha una nota di speranza.

Silvia Perotti




DOSSIER IMMIGRAZIONE (0)Introduzione

Perché tanti convegni?

L’ufficio Pastorale Migranti (UPM) è un organismo costituito dall’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, il 1° marzo 2001 in sostituzione del servizio «Migranti Caritas», per favorire l’evangelizzazione degli emigrati in casa nostra: così recita lo statuto. In verità l’UPM svolge molteplici attività in favore degli stranieri: accoglienza, informazione, consulenza, sostegno psicologico.
L’UPM collabora con la Regione Piemonte, la Provincia di Torino e i Comuni su progetti specifici, che possono essere cofinanziati. Partecipa a tre cornordinamenti: quello di Caritas e Migrantes nel nord Italia, quello della Caritas sulla «Tratta delle donne immigrate» (prostituzione) e quello europeo «Diritto di vivere in famiglia». Inoltre, in appoggio alla scuola pubblica, svolge corsi di lingua e cultura italiana e, con riguardo alla formazione professionale, si impegna a ricercare opportunità lavorative e a verificare gli inserimenti di donne, vittime della tratta, e di minori soli in tutela.
Ha progetti specifici per donne: ospitalità nottua e accoglienza in case di madri con bambini; lotta contro «la tratta femminile» per sfruttamento sessuale, sia locale che nazionale, con cammini formativi, iniziative di recupero, tutela e inserimento lavorativo in collaborazione con la compagnia San Paolo e la presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 2001 l’UPM organizza il convegno «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza», relativo ai problemi delle donne migranti, cadute nella «tratta».
Due anni dopo, il 15 marzo 2003, l’UPM promuove un nuovo convegno: «Le donne migranti si confrontano con la città». L’incontro può considerarsi una tappa successiva a quello del 2001, però con una novità significativa…

L’ Alma Mater è un Centro interculturale di donne, nato nel dicembre 1993 per l’impegno comune di alcune signore italiane e straniere e grazie al sostegno del Comune di Torino, della commissione regionale per «le pari opportunità» e di varie associazioni femminili. Il Centro è gestito dall’associazione «Alma Terra», costituita ad hoc. Si tratta di uno «spazio», dove l’accoglienza della migrante è al primo posto.
Il Centro è il frutto della progettualità e delle aspirazioni di innumerevoli donne che vi hanno lavorato per costruirlo e di molte persone che continuano a lavorarvi condividendo le responsabilità. Molteplici sono le attività e i servizi che mette a disposizione delle donne migranti e non.
Nel convegno del 2001 «Da vittime a cittadine. Dall’illegalità alla cittadinanza» le destinatarie sono state le donne migranti, in particolare africane, vittime della «tratta». Il convegno ha parlato di loro con studiosi ed esperti. Si sono riportati dati quantitativi e qualitativi sui percorsi di «uscita» e sugli «inserimenti lavorativi». Ma al tavolo dei relatori le donne straniere non c’erano. C’erano solo persone delle istituzioni pubbliche e associazioni del volontariato italiano.
È stato espresso un certo rammarico sulla mancata visibilità, a quel convegno, delle donne immigrate.
Ecco quindi il proposito di un nuovo incontro, realizzato nel 2003, dove le donne migranti hanno potuto parlare direttamente di sé, delle loro esigenze e difficoltà, delle loro aspettative e progetti. C’è stato anche un confronto-dibattito con le donne «della città»: le donne delle istituzioni locali, delle associazioni imprenditoriali, del terzo settore e dell’associazionismo… per favorire la conoscenza tra donne di provenienze e storie diverse, ma tutte operanti a Torino.
L’auspicio è di continuare, sul territorio, il dibattito sull’accoglienza, il lavoro, la casa, i servizi, l’integrazione sociale e culturale.
La finalità è di pervenire a una convivenza migliore, più solidale, più consapevole dei reciproci diritti e doveri, più rispettosa dell’identità e delle competenze di ciascuna: premessa necessaria per una società più giusta e per una cultura di pace.

Il presente dossier rilancia i contenuti del convegno di Torino del 2003: contenuti comuni ormai a tutte le città d’Italia.
Antonella Pavan

Antonella Pavan




RUSSIACittadini russi e profughi ex sovietici

«Dov’è la propiska, la cittadinanza?».
È la domanda che milioni di ex cittadini sovietici
si sentono rivolgere, per poter vivere in pace
e con un minimo di garanzie.
Ma a cui non possono rispondere.
Nascono così le nuove ondate di «migranti forzati»dentro la propria patria. Senza un futuro.

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.

<b<IMMIGRATI UNA RISORSA NECESSARIA

Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.

SENZA PERSONE, NESSUN PROBLEMA!

Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.

I NUOVI SCHIAVI

Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.

LO STATO ASSENTE

Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

Ascolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

BOX 1

POLLI DA SPENNARE

Stavo raccogliendo materiale sui senzatetto in Russia e contattavo diverse organizzazioni umanitarie. «No, non ci occupiamo di senzatetto – mi sentii rispondere dall’altro capo del filo – ma di profughi». «Profughi a Mosca? Ceceni, probabilmente» azzardai io. «Non solo». Non indagai oltre in quell’occasione, ma lo feci in seguito. Si parla di 5, addirittura di 8 milioni di persone che hanno varcato i confini della Russia dai primi anni Novanta.
L’Urss ha smesso di esistere il 31 dicembre 1991. La mattina del 1° gennaio 1992, gli ormai ex-cittadini sovietici si risvegliarono abitanti di diversi paesi. Fuori dei confini della neonata Federazione Russa rimasero circa 25 milioni di persone, che vivevano nelle altre repubbliche dell’Unione Sovietica e che, fino al giorno prima, avevano avuto una posizione di preminenza, non solo dal punto di vista politico. Di punto in bianco essi si ritrovarono cittadini di seconda categoria rispetto agli indigeni, la cosiddetta «etnia titolare».
Diventarono gradualmente oggetto di discriminazione: impossibilità di fare carriera, licenziamenti, requisizione di alloggi, obbligo di utilizzare solo la lingua locale. Si cominciò a chiudere le scuole russe, giornali, radio: un desiderio di rivalsa nei confronti di quella che per secoli era stata la nazione dominante.
Tale reazione, presente non solo in tutta l’area ex-sovietica (eccetto in Armenia e Bielorussia), ma anche nell’Est-Europa, può essere, fino a un certo punto, comprensibile, sebbene mai giustificabile. Meno comprensibile è, invece, il fatto che la Russia faccia ben poco per difendere gli interessi dei russi delle repubbliche, nonostante abbia tutte le possibilità di esercitare pressioni in tal senso su quegli stati, assai inferiori a lei per peso politico ed economico. Non solo non li difende, ma crea ostacoli al loro rientro in patria, rendendo arduo l’iter per ottenere la cittadinanza.
immigrati:
una risorsa necessaria
Caterina Belugina si era trasferita dalla Russia in Uzbekistan con la famiglia nel 1975; qui aveva terminato gli studi e iniziato la carriera di giornalista. Poi, nel 1992, aveva preso la cittadinanza uzbeka, per non essere costretta ad abbandonare immediatamente il paese.
Qualche tempo fa ha dovuto difendersi dall’accusa di diffamazione a seguito di un articolo, in cui denunciava il comportamento di un alto funzionario statale. Tutto il processo si è tenuto in uzbeko, che Caterina non conosce, e si è concluso con la sua condanna. Ha capito, allora, che quello non era più posto per lei e, come molti altri, si è rivolta al consolato russo per fare domanda di cittadinanza, primo passo per rientrare in patria con tutti i diritti.
«Era chiaro che non ne avrei cavato niente. Al consolato russo c’erano file di tre giorni, la gente dormiva fuori. Anche se fossi riuscita ad avviare la pratica, ci sarebbero voluti due anni e mezzo per ricevere la cittadinanza». Caterina non ha voluto aspettare tanto. È venuta a Mosca dalla sorella, abbandonando quasi tutti i propri averi.
«Avevamo un grande appartamento, l’abbiamo venduto per due soldi. Accade sempre così. Si sa che i russi sono costretti ad andarsene e devono accettare il prezzo che è loro offerto. Non ho portato con me quasi niente. Le tasse doganali erano troppo alte». L’amarezza maggiore Caterina la esprime nei confronti del proprio paese: «La Russia non aiuta i propri figli. C’era da noi un’invalida d’origine tedesca: la Germania non solo le ha dato la cittadinanza, ma le ha mandato una sedia a rotelle e l’ha aiutata a trasferirsi. Anche gli ebrei ricevono assistenza. Di noi, nessuno si occupa. Al contrario. Il nostro consolato a Tashkent chiede il pagamento delle spese consolari in dollari, quando tutti sanno che il possesso di valuta straniera è illegale in Uzbekistan e attira l’attenzione delle autorità».
Tutti gli stati occidentali sono messi in serie difficoltà dalla pressione degli immigrati stranieri sui propri confini; ma nel caso della Russia l’immigrazione è costituita principalmente dagli stessi russi (circa il 77%); e poi, il paese ha un gran bisogno di nuova energia, di braccia e cervelli; d’altri abitanti, insomma.
La catastrofica situazione demografica sta minacciando l’economia e la sicurezza dello stato. Il numero di coscritti al servizio di leva è già considerato insufficiente, tanto che nel dicembre 2003 il distretto militare di Mosca ha organizzato vere e proprie retate per le strade della capitale, fermando e arruolando a forza i giovani, senza dare loro nemmeno la possibilità di avvertire la famiglia.
Se l’emorragia non s’arresta, ci sarà presto penuria di forza lavoro e la necessità d’importare lavoratori e specialisti da altri paesi. Ed ecco che milioni di persone tornano a casa, hanno voglia di lavorare, sono disposte a fare di tutto, pur di ritrovare una vita dignitosa e sfamare la propria famiglia. Sono persone che hanno spesso alle spalle una solida esperienza professionale e anni di convivenza con altre culture, da cui sono stati arricchiti. Inoltre provengono da regioni di cultura musulmana, quindi non hanno abitudine al bere: una qualità assai preziosa per una nazione che paga un alto costo per l’eccessivo consumo di alcolici.
senza persone,
nessun problema!
Stando ai dati del Ministero per le nazionalità e politiche migratorie, in Russia ci sono circa 900 mila persone con regolare status di Forced migrants (Fm) o di rifugiati. Sono cifre molto al di sotto della realtà. Basti pensare che dei 100 mila afghani arrivati durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan e rimasti anche dopo il 1989, solo 513 hanno ottenuto tale status; gli altri sono considerati illegali.
È indubbio che l’arrivo di tanta gente pone allo stato notevoli problemi. Affrontarli adeguatamente comporterebbe un grosso impegno, intelligenza, lungimiranza e lo stanziamento di appositi fondi. Nessuno ha ancora smentito il noto aforisma attribuito a Stalin: «Se c’è la persona, c’è il problema; se la persona non c’è, non c’è il problema». Si spiega così la riluttanza delle autorità a concedere lo status di Fm o profugo. Il rifiuto può essere motivato da ragioni formali, come il non rispetto dei termini di presentazione della domanda che molti, tra l’altro, ignorano; oppure può non essere motivato affatto.
Senza lo status i profughi sono considerati come stranieri arrivati di propria volontà e giuridicamente trattati di conseguenza, senza obblighi particolari. Ma anche verso i profughi ufficialmente riconosciuti come tali, le risorse messe a disposizione sono di gran lunga insufficienti a far fronte ai due bisogni fondamentali: casa e lavoro. Negli ultimi anni, tra l’altro, queste risorse si sono andate continuamente riducendo. Il 2002 ha visto drastici tagli delle spese sociali, e non solo in questo campo.
I migranti registrati presso i Servizi immigrazione vengono raccolti in centri dove possono vivere per anni in baracche precarie, senza servizi. Si cerca di mandarli in aree rurali, indipendentemente dal loro ambiente di provenienza e professione. Il principio è di ripopolare le zone che si stanno svuotando.
Di loro si occupano anche organizzazioni umanitarie inteazionali, in primis l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), che in Russia è molto presente, e lo Iom (Inteational Organization for Migration). «Anche i migranti registrati hanno difficoltà a ricevere assistenza medica a causa del cattivo funzionamento del servizio sanitario statale – spiega Edwin McClain, responsabile Iom per la Russia -. Per questo abbiamo allestito ambulatori nelle zone di raccolta dei migranti. Purtroppo, abbiamo risorse limitate; quindi, ci rivolgiamo soprattutto alle categorie più vulnerabili: madri sole, handicappati, anziani. Abbiamo anche avviato un programma di microcredito».
Il vantaggio di essere un «migrante ufficiale» non sta solo nel ricevere gli aiuti statali (comunque miseri), ma nel vedersi più facilmente riconosciuti alcuni diritti fondamentali della persona che si tende, invece, a negare agli altri migranti, contrariamente ai dettami della costituzione.
Un espediente utilizzato per escludere intere categorie di persone da servizi destinati a tutti è quello della propiska, o registrazione del luogo di residenza (vedi Missioni Consolata, giugno 2001), che in Russia non è, nella pratica, la semplice constatazione di un dato di fatto, come vorrebbe la costituzione, dove viene sancita la libertà di movimento.
i nuovi schiavi
Per la registrazione, le autorità regionali introducono pre-requisiti di cui non si parla nelle leggi federali: c’è chi condiziona la registrazione alla presenza di familiari che già vivono sul posto da 5-10 anni; chi chiede garanzie di lavoro e alloggio da parte di aziende locali, o il pagamento di tasse non previste dalla legge; chi adduce criteri di ampiezza dell’alloggio, chi richiede particolari certificati medici, chi introduce quote d’ingresso nella regione e chi, addirittura, nega la registrazione a interi gruppi di persone, ad esempio, ai ceceni.
Il primo e più grande beffeggiatore della costituzione è il comune di Mosca, che respinge migranti e profughi da scuole, luoghi di lavoro, ospedali. Si è così creata una situazione alquanto paradossale. Al Cremlino è insediato il presidente Putin, massima autorità della Federazione, garante supremo delle sue leggi, al municipio di Mosca, c’è il sindaco, il sig. Luzhkov, che di queste leggi se ne fa un baffo.
«Per essere registrata presso mia sorella a Mosca ho dovuto procurarmi documenti che dimostrano il nostro legame di parentela». È ancora Caterina Belugina che racconta. A lei è andata bene. Quando ci siamo incontrate la prima volta, era appena rimpatriata e disoccupata, ma, grazie alla sua esperienza di giornalista, ha trovato lavoro presso il «Forum delle unioni dei migranti». Ha iniziato solo qualche mese fa, ma ha già tante storie da raccontare.
«Sergej viveva con la madre in Kazakistan. All’età di 14 anni decise di venire ad abitare dal padre a Mosca. Da allora, sono passati diversi anni, ma non è riuscito ad ottenere né la registrazione, né la cittadinanza, perché… non è cittadino russo. Vedono dal documento che è nato in Kazakistan e lo spediscono all’ambasciata kazaka. Lì gli spiegano che, non essendo più residente in Kazakistan e non avendovi svolto il servizio di leva, non gli possono dare la cittadinanza. Il militare, Sergej l’ha fatto in Russia, con la promessa che ciò gli avrebbe dato diritto alla cittadinanza, ma non ha ottenuto nulla».
Senza registrazione Sergej è un fuorilegge. Come lui a Mosca sono migliaia. Vivono senza garanzie sociali, né assistenza medica gratuita, né un lavoro regolare, poiché è vietato assumere persone prive di registrazione. Chiuse le possibilità di un impiego legale, le autorità moscovite aprono le porte al lavoro nero e al commercio illegale, innescando un meccanismo perverso: gli «illegali» sono costretti a corrompere la polizia; tale pratica porta alla criminalizzazione della polizia e via di seguito.
«Profughi e migranti sono fonte di guadagno per le autorità locali e la polizia – continua Caterina – che li trattano, tra l’altro, come persone di seconda categoria. E la popolazione, ne assimila il disprezzo». La condizione di senza-diritti in cui i migranti si vengono a trovare li rende oggetto di ogni possibile arbitrio e genera nuove forme di schiavitù.
È il caso di Tat’jana: in Kazakistan lavorava in un centro di ricerca come geologa. Ora fa la mungitrice in una fattoria; vivono in quattro nel gabbiotto del custode. Il figlio è andato ad arruolarsi al distretto militare; la propiska non gliela danno lo stesso; ma almeno riceve cibo e vestiti.
O il caso di un gruppo di migranti, tiranneggiati dal presidente di un kolchoz della regione di Mosca. Tra di loro c’è una famiglia venuta dal Kirghizistan: si ammala il figlioletto di pochi mesi; per tre giorni lo tengono in ospedale senza pagare, ma poi chiedono loro una retta di 300 rubli al giorno, perché non hanno la cittadinanza. Ma soldi non ne hanno: il kolchoz non li paga da mesi e non si possono rivalere perché sono irregolari.
Per lo stesso motivo ai Bogonenko, arrivati dal Kirghizistan, ci è voluto un anno per iscrivere all’anagrafe il loro nuovo nato. Dov’è la propiska? chiedevano i funzionari. Così molti non ci provano neanche a denunciare la nascita di un figlio. Neppure i matrimoni vengono riconosciuti, se uno dei fidanzati non ha la cittadinanza.
Lo stato assente
Lo stato non solo fa poco o nulla per sostenere i migranti, ma crea condizioni tali che rendono ancora più difficile e disperata la loro posizione e ostacola i tentativi di una soluzione autonoma dei problemi.
Alcune organizzazioni non governative russe assistono i migranti e li aiutano a difendersi dall’arroganza dei pubblici funzionari. Al «Comitato di assistenza civica» di Mosca ho incontrato Khava Sultanovna, una profuga cecena addetta ai problemi sociali. Anche per lei, come per Caterina, trovare lavoro presso una Ong è stata una benedizione. «Abbiamo gente dalle 10 del mattino alle 10 di sera. Anche quando siamo chiusi, c’è sempre qualcuno di tuo per i casi urgenti.
Distribuiamo una piccola somma di denaro mensile e vestiario a chi ne fa richiesta, ma soprattutto offriamo assistenza legale. I nostri avvocati spiegano cosa bisogna fare nel caso di angherie da parte della polizia o venga rifiutato lo status di profugo. Io aiuto i genitori a stendere richieste, perché i figli vengano ammessi a scuola. Scriviamo agli ospedali, alle questure, spiegando la loro situazione. Le risposte sono quasi sempre positive. D’altra parte, un rifiuto per iscritto è sempre più impegnativo».
Le Ong che prendono le parti dei cittadini ce la mettono tutta. «Come fate a sostenervi? Chi vi dà i soldi?» domando a Khava. «Locali, stipendi ed equipaggiamento ci sono offerti dall’Acnur. È molto, ma non basta, così chiediamo soldi a tutti. Lo stato non dà niente; sponsors russi non ne troviamo. Due anni fa, un miliardario ceceno ci ha dato 3 mila dollari, ma si era giusto prima delle elezioni. Per il momento rimangono solo gli sponsors stranieri».

A scolto, ma non riesco a rallegrarmi per tali successi, perché altre considerazioni s’impongono. Amare considerazioni. Dunque, quando non possono fare altrimenti, i funzionari agiscono secondo la legge. Quando i cittadini si riuniscono per far valere i propri diritti, quando c’è qualcuno dietro di te a darti man forte o tu stesso, cosciente di quello che ti spetta, non ti lasci intimorire… qualcosa si riesce ad ottenere.
Ho un amico che vive da sempre a Mosca senza propiska. Le autorità lo sanno, ma non osano toccarlo, perché è un tipo che si sa ben difendere. Però sono ancora troppo pochi coloro che sanno o vogliono difendersi; così chi ha in mano il potere, grande o piccolo che sia, ha buon gioco. La sottomissione, l’inerzia e, purtroppo, anche la mancanza di solidarietà tra la gente, finiscono per corrompere il potere che diventa sempre più sfacciato, se non trova argini nella società civile.

Bianca Maria Balestra