EDITORIALEScuola di assassini

Di fronte alla polemica sull’utilizzo della tortura sui prigionieri iracheni e la ripetitiva presentazione di immagini truculenti di tali fatti, non posso non riandare con la memoria all’esperienza vissuta sulla mia pelle negli anni ’70, mentre ero in Uruguay.
In quegli anni tutta l’America Latina era praticamente un enorme campo di concentramento, gestito da dittature militari che imponevano modelli sociali e politici che prevedevano l’abolizione della democrazia e l’instaurazione di regimi totalitari, al servizio delle multinazionali.
Insieme ai sacerdoti novaresi e a tutti i missionari italiani che lavoravano in quegli anni nell’America Latina, ci toccò la sorte di condividere il dolore e la sofferenza di tante famiglie innocenti, profondamente toccate dalla detenzione dei loro cari, della tortura e in diversi casi anche del dramma dei desaparecidos.
Per una serie di circostanze imprevedibili, mi trovai coinvolto nella vicenda giudiziaria e detenzione di don Pierluigi Murgioni, integerrimo sacerdote bresciano Fidei donum, incarcerato e ripetutamente torturato: lo vedevo una volta al mese durante i colloqui che i detenuti avevano con i familiari e gli amici; tramite lui entrai in contatto con l’umanità dolente dei prigionieri politici e delle loro famiglie ferite e umiliate dalla barbara pratica della tortura.
La cosa più sconcertante fu la scoperta che la tortura era una prassi abituale non solo per estorcere informazioni, ma per creare terrore e soggezione fra i prigionieri.
I raffinati artisti della tortura si laureavano alla famigerata School of Americas (Soa), fondata nel 1946 a Panama e trasferita nel 1984 a Fort Benning, in Georgia (Stati Uniti). In 58 anni di vita ha insegnato a più di 60 mila soldati latinoamericani, tecniche di repressione, guerra d’assalto e psicologica, spionaggio militare e tattiche per interrogatori. Tra di loro, è certo, passarono anche ministri e responsabili di governo di vari paesi del Centro e Sud America.
Tra le centinaia di migliaia di latinoamericani torturati, assassinati, massacrati, fatti sparire o costretti a fuggire ad opera dei «diplomati» della Scuola delle Americhe (soprannominata «scuola di assassini») ci sono educatori, sindacalisti, studenti, personale religioso, preti e frati, come il domenicano Frei Betto, che, in Battesimo di sangue (1983), ha raccontato l’odissea patita da lui e dai suoi confratelli nelle carceri brasiliane, dove furono ripetutamente torturati da squadre speciali, addestrate quasi in maniera scientifica a spezzare lo spirito di resistenza dei prigionieri.
Pur riacquistando la libertà (furono esiliati in Francia), alcuni di loro non riuscirono più a liberarsi dallo spettro dei torturatori: uno di questi domenicani, Tito de Alencar Lima, si suicidò, lasciando scritto su un pezzo di carta: «È meglio morire che perdere la vita!».

T utte queste cose venivano ampiamente raccontate nei periodici rientri in Italia, ma restava sempre un’amarezza profonda: spesso e volentieri non si era creduti.
In clima di guerra fredda, nella contrapposizione Usa-Urss, il regno del male da combattere era da una sola parte: gulag, prigioni della Lubianka, efferatezze del Kgb, epurazioni e crudeltà staliniste. Ogni volta che si raccontava delle nefandezze incontrate sulle strade dell’America Latina, si era tacciati di essere al soldo dei bolscevichi; anche la più cristallina testimonianza veniva rifiutata: l’ottusità mentale di molti benpensanti era incapace di percepire che anche il sistema di potere americano generava mostri identici.
Con la dissoluzione dell’impero sovietico si credeva che la tortura fosse sparita. Invece le immagini del carcere di Abu Grahib (Baghdad) sono su internet alla portata di tutti. Ci sia consentito di dissentire e denunciare, oggi come ieri, per costruire con biblica speranza e rinnovato vigore un mondo dove queste cose non succedano più.
don Mario Bandera

Mario Bandera

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