110 anni di missione, fedeli cambiando / Asia

Asia

Fino agli estremi confini (orientali) del mondo

Profetizzata dal beato Allamano: «Io non lo vedrò, ma forse andrete nel Giappone, nella Cina, nel Tibet», l’apertura ufficiale di una missione della Consolata in Asia dovette essere attesa per qualche decennio. Fu il VII Capitolo Generale (1981) ad iniziare a coltivare il sogno asiatico dell’Istituto che vide l’approvazione definitiva sei anni più tardi, nel Capitolo del 1987. La destinazione non fu il Giappone, né tanto meno la Cina o il Tibet, ma la Corea del Sud, alla volta della quale i primi quattro missionari, tutti giovanissimi (il più “anziano” aveva solo 35 anni) e provenienti da aree culturali diverse, partirono il 18 gennaio 1988. Inutile dire che dietro l’apertura in Corea aleggiava il sogno missionario della Cina, un desiderio destinato a rimanere tale fino ad oggi a causa degli insormontabili problemi di ordine politico e burocratico.
L’avventura asiatica rappresentava per l’Istituto una nuova frontiera missionaria dopo quella africana (a partire dal 1902, in Kenya) e, dal dopoguerra, latinoamericana. Come le due precedenti esperienze anche questa in Estremo Oriente era caratterizzata da alcuni tratti distintivi che individuavano l’originalità della nuova missione. Innanzitutto la dimensione di dialogo e di incontro. Avvicinarsi al mondo culturale asiatico significava farsi prossimi di tradizioni religiose molto più antiche della nostra e, quindi, da trattare con assoluto rispetto e con profondo atteggiamento di ascolto. In Corea si è voluto seguire questo stile di missione, dedicando anni di studio alla difficile (per noi) lingua e alla cultura del posto, un periodo di ambientamento che ha messo a dura prova la pazienza e la resistenza di molti missionari che hanno seguito negli anni le orme dei primi quattro pionieri.
A partire dal 2003, la nostra presenza in Asia si è impreziosita e completata con l’apertura della missione in Mongolia, pensata e concretizzata in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’opzione di andare in un paese grande cinque volte l’Italia e con una popolazione complessiva di circa tre milioni di abitanti (di cui poco meno di un terzo vivono nella capitale Ulaan Baatar), a grande maggioranza buddista, va esattamente nella stessa direzione della precedente esperienza coreana.
Ciò che l’Asia grida a gran voce oggi all’Istituto è un qualcosa che appartiene al nostro Dna, ma che sovente tendiamo a dimenticare: noi siamo per i non cristiani. Così ci ha voluti il fondatore, ma così deve essere in ogni caso chiunque si professa missionario ad gentes. Attraverso la loro esperienza quotidiana, fatta spesso di testimonianza isolata e silenziosa, i nostri missionari ci richiamano all’essenza della nostra vocazione.
Vivere la novità
Ciò ha fatto sì che oggi in Asia si punti a proporre uno stile differente di missione, che non sia centrata soprattutto sulle opere, quanto sull’incontro con le persone. È la gente, soprattutto i poveri, con la sua quotidianità e le sue esigenze, a dare il passo e il tempo della nostra presenza là. Più che le strutture vengono favoriti i momenti di incontro, accoglienza e scambio vicendevole di doni culturali. L’ospitalità e l’ascolto diventano allora le parole chiave di una missione che vuole essere nuova.
Inutile dire che questo stile di evangelizzazione fondato su ciò che è piccolo e fragile, come può esserlo il nostro esporci al dialogo con l’altro, richiama anche un altro punto fondante del nostro carisma: la santità di vita. La missione in Asia passa oggi attraverso la scelta di una spiritualità forte come via preferenziale della missione, nell’essere, in altri termini, dei veri contemplativi in azione.
Dietro l’angolo il sogno cinese continua a fare capolino. Sono i nostri stessi confratelli impegnati in Asia a invitare con fermezza l’Istituto a fare una scelta radicale per il continente dove più numerosi sono i non-cristiani. La Cina, col suo miliardo e mezzo di abitanti rappresenta una frontiera che non può non essere presa in considerazione. Il Capitolo dovrà quindi avere tanto coraggio e anche molto equilibrio nel valutare le possibilità che il nostro Istituto ha di lanciarsi in una nuova missione di questo calibro. A prima vista, in un’analisi della realtà basata rigidamente su calcoli di natura umana, molto consiglierebbe di lasciare perdere. Bisogna però lasciare che lo Spirito soffi, è lui che da sempre spinge i missionari ad andare a dissotterrare tesori che lui stesso ha precedentemente seminato nel cuore delle culture. E allora, con la preghiera si vedrà!

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




RICORDANDO CARLO URBANI (3): Il libero mercato non basta


La democrazia porta automaticamente alla giustizia e alla eliminazione della povertà? Perché i bisogni essenziali (cibo, salute, casa, lavoro, educazione) non sono soddisfatti per la maggioranza della popolazione mondiale?

di Sandro Calvani

Quarant’anni fa, il presidente americano J.F. Kennedy aveva già intravisto la relazione di dipendenza reciproca tra le realtà contrapposte del Nord e del Sud del mondo, tra i molti poveri e i pochi ricchi. Egli ebbe a dichiarare: «Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può nemmeno salvare i pochi che sono ricchi».
Quattro Decenni dello sviluppo delle Nazioni Unite, i cui obiettivi di giustizia globale sono sempre stati adottati all’unanimità dall’Assemblea generale, hanno tentato di avviare un cammino di restituzione Nord-Sud su quasi tutti i terreni della disuguaglianza.
Sono stati studiati, approvati e messi in pratica piani globali nel campo dell’educazione e cultura, della salute pubblica, dell’ambiente e risorse naturali, dell’alimentazione e agricoltura, dei commerci, dei diritti umani, del lavoro dignitoso e di molti altri settori ritenuti fondamentali per la giustizia e la libertà globali. Sono stati obiettivi condivisi dall’umanità intera, anche se con notevoli differenze di entusiasmo.
Una forte discriminante è la decisione di cosa va costruito prima, per esempio la democrazia o la giustizia, la sicurezza alimentare o il diritto al voto.
Nel suo recente libro di grande successo La Lexus e l’albero d’ulivo, Thomas Friedman, un brillante analista della globalizzazione, cita con approvazione alcuni dei principi di Karry Diamond, editorialista del Joual of Democracy. Diamond e Friedman osservano che ogni paese al mondo con un reddito pro capite superiore a 15mila euro l’anno è anche una democrazia (con la sola eccezione di Singapore, una città-stato dove però la democrazia si dice prossima). È certamente vero ed è un grande argomento citato da tutti coloro che vogliono accelerare la demolizione di tanti regimi non democratici più o meno dittatoriali o monopartitici.
Ma la sua osservazione ha due grossi limiti. Il primo è che non si dice che una gran parte di quei paesi sviluppati che beneficiano di una democrazia hanno avviato la loro industrializzazione e dunque anche la loro accelerazione nel progresso economico quando non erano ancora democratici.
Sei o sette secoli fa, quando le grandi epidemie scuotevano le società e le economie dell’Europa, furono gruppi di persone «illuminate» e «ispirate» a costruire prima i lazzaretti per isolare gli infetti e salvare le società ridotte numericamente del 30 o del 50%, poi costruirono gli acquedotti e le fognature in ogni città e in ogni paesino. Insegnarono l’igiene che era il primo passo della salute pubblica. I conventi e i monasteri avviarono l’alfabetizzazione dei bambini e crearono i primi collegi e le prime università. I nobili più illuminati protessero l’espansione dei commerci, la costruzione di strade, la promozione dell’arte e della cultura per il popolo.
Di democrazia, in tutte quelle prime fasi dello sviluppo, non c’era nemmeno l’ombra. Settecento anni fa, in Europa, e oggi in molte regioni povere del mondo, un padre e una madre, cui muore un figlio su due prima dei 5 anni di età, pensa prima di tutto a trovare il pane o il riso per domani; prima di pensare a lottare per la democrazia e la libertà.
La ricerca della sopravvivenza è così insita nel Dna umano che, quando essa è messa a rischio, ogni persona la cerca per sé e per i propri figli, anche per vie illegali o violente, se non c’è altro modo immediatamente a disposizione.
Non è dunque la democrazia che permette la comparsa del benessere e della giustizia, ma piuttosto è l’aver trovato risposte ai bisogni essenziali – cibo, salute, casa, lavoro, educazione – che crea un ambiente favorevole per la creazione di sistemi di stato moderno, democratico e rispettoso dei diritti umani.

Nel mondo contemporaneo, la difesa della democrazia e dei diritti umani non raramente è la causa di maggiore disperazione e deprivazione per i più poveri.
Dure forme di embargo vengono imposte a paesi governati da regimi autocratici e da dittature. Tra i più poveri, i bambini non vengono più vaccinati dall’Unicef o non ricevono più le zanzariere antimalaria dall’Oms, non ci sono più preservativi gratuiti o a bassissimo costo dell’Unfpa per difendersi dall’Aids, perché qualche parlamentare democratico in Europa o in America ha stabilito un «embargo totale» e sanzioni economiche contro i paesi fuorilegge.
In realtà, i dittatori di quei paesi non rinunciano certo all’acqua fresca San Pellegrino o Evian o al loro champagne preferito solo perché l’embargo vieta quei prodotti nei supermercati dei loro paesi. Un cargo militare va ogni mese a Dubai a fare gli acquisti.
Un paese del Sud-Est asiatico ha subito una storica condanna dell’Ilo (Inteational labour office), e addirittura è stata sospesa la sua partecipazione a quell’organo delle Nazioni Unite, perché il regime al potere tollerava il lavoro infantile e il lavoro forzato. L’embargo economico che ne è derivato ha causato il blocco degli acquisti di tessuti e generi di abbigliamento a basso costo prodotti da quel paese, prima esportati in Europa e America. I paesi vicini hanno bloccato anche il commercio e gli acquisti di prodotti alimentari da fabbriche oltre frontiera, dove le fattorie erano sospettate, a ragione, di impiegare ragazze sedicenni e quindicenni nella catena di produzione di maiali, galline, uova ecc. Tre mesi dopo l’inizio dell’embargo e delle sanzioni economiche, decine di grandi fabbriche e fattorie non hanno potuto sostituire lavoratori ragazzi con lavoratori adulti perché tutti gli ordini erano cancellati. Hanno potuto solo chiudere e licenziare tutti i lavoratori, sia i ragazzi che gli adulti.
Le ragazze sono finite dritte nei bordelli di frontiera dove si può affittare una bambina di 15 anni per una notte a 15 euro. Non pochi adulti, divenuti disoccupati, hanno chiesto alle loro figlie di dare una mano alla sopravvivenza della famiglia. Molte hanno capito come farlo solo arrivate a destinazione, quando i trafficanti di persone hanno imposto loro la prima notte di avviamento al lavoro.
Sono vittime della mancanza di democrazia, direbbero molti avvocati della dea libertà che tutto provvede. Sono in realtà più prosaicamente «vittime dell’ignoranza». Ignoranza dell’Occidente sulla complessità dello sviluppo, vittime degli embarghi, dei diritti umani difesi solo per principio ma non nei fatti. Lo dicono quei missionari che trovano in chiesa i bambini abbandonati – dopo gravidanze accidentali – dalle mamme bambine divenute prostitute per effetto dell’embargo causato da lavoro minorile.

L’altro grande limite del credere che la democrazia basti da sola a far nascere le condizioni che creano la giustizia (invece del contrario) è che – se anche fosse vero – i poveri, gli affamati, gli analfabeti, gli ammalati, i bambini abbandonati non lo possono sapere.
Gli emarginati della Terra, abbruttiti dalle miserie e dalla disperazione, non ascoltano Voice of America, non guardano la Cnn, non leggono i libri di Friedman, non aderiscono alle catene internet per chiedere libere elezioni.
I miei professori della John Kennedy School of Govement all’Università di Harvard erano brillanti e convincenti nell’insegnare che la libertà e la democrazia creano libero mercato che crea iniziativa, lavoro, occupazione e ricchezza.
Ma mi basta guardare negli occhi, in qualunque momento della giornata, i bambini più poveri di un campo di rifugiati di Mae Sot o in una grande pozzanghera della baraccopoli di Klong Thoey, al centro della ricca Bangkok, per capire che nella relazione di causa-effetto tra democrazia ed eliminazione della povertà ci sono più eccezioni che regole.
Harvard si è dimenticata che qui di diarrea si muore in sei giorni, di overdose di anfetamine per vincere la disperazione si muore in una sola notte, di una coltellata per un’usura non pagata si muore in dieci minuti. Troppo poco tempo per costruire la democrazia e la libertà. •

Sandro Calvani




RICORDANDO CARLO URBANI (2):Il reporter di Missioni Consolata

L’incontro tra Carlo Urbani e la nostra rivista
rievocato in un capitolo del libro «Il medico del mondo».

Nel gennaio 1999, sulla rivista Missioni Consolata edita a Torino, appare una nuova rubrica, «Come sta Fatou?», curata da «Carlo Urbani, specialista in medicina tropicale».
L’incontro fra Carlo Urbani e la rivista Missioni Consolata avviene per caso. Paolo Moiola, classe 1960, abitante a Rovereto, era collaboratore della rivista – ne diventerà poi redattore capo – per i problemi del Sud del mondo. «Ho incontrato Carlo Urbani durante un viaggio nel Nord dell’India organizzato da Globetrotter di Trento nell’agosto 1988. Lui era il capogruppo. Ventidue giorni indimenticabili. Carlo era assieme a sua moglie Giuliana e come tutti noi voleva conoscere questo pezzo di terra fuori dagli schemi e dagli itinerari turistici. Di organizzato, in quel viaggio, c’erano soltanto i voli di partenza e di ritorno. Per il resto siamo andati all’avventura, su un piccolo pullman guidato da un sikh».
Ci sono piccoli episodi che restano nella mente. «Durante quel viaggio mi sono preso un’infezione alla mano, per il graffio involontario di un bambino troppo ansioso di ricevere una moneta. L’infezione si è estesa a tutto il braccio. Carlo Urbani mi ha tagliato e ripulito. Per fortuna c’era lui, in quel viaggio lontano da ospedali e sale operatorie. Da quando l’ho conosciuto, non è mai cambiato. Appassionato, ironico, generoso e anche curioso, fin troppo. Nei villaggi entrava nelle case o nelle capanne e chiedeva di assaggiare ciò che bolliva in pentola. E alla fine del viaggio si è preso la febbre tifoidea. Lo ricordo a Katmandù, davanti a un albergo, tremante di febbre. Lui era a letto, ma c’era stata una scossa di terremoto ed eravamo scappati tutti fuori. Pioveva a dirotto, cercavamo di ripararci in qualche modo. E lui cercava di sorridere. “Ecco” diceva “va tutto bene. Ho la febbre, c’è stata la scossa, sono qui che tremo. Bella vacanza”».
Già allora, anche dopo un viaggio turistico, Carlo Urbani ha voglia di raccontare la propria esperienza. Lo fa su un foglio riservato a pochi lettori, coloro che hanno partecipato ai viaggi di Globetrotter. E già in questo primo racconto (il titolo è «Da un viaggio nel Rajastan») si comprende che Carlo Urbani non riesce mai a essere soltanto un turista. (…)
L’amicizia fra Carlo Urbani e Paolo Moiola, iniziata durante quel viaggio, non è mai finita. «Quando sono entrato nella redazione di Missioni Consolata gli ho chiesto di tenere una rubrica per noi. Lui era già in giro in missione per Medici senza frontiere, ci serviva qualcuno che raccontasse i problemi della salute nel Sud del mondo. Ci abbiamo messo mesi, per trovare il titolo.
Quelli che proponevo io non andavano bene a lui, quelli che venivano in mente a lui non piacevano a me. Alla fine ha proposto: “Come sta Fatou?”, pensando al nome di un bambino africano. Io ho proposto di aggiungere, per spiegare di cosa si trattasse: “Viaggio fra malattie e sottosviluppo”, e finalmente abbiamo trovato il titolo.
Quando è partito per il Vietnam, come dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità, sulla rivista abbiamo annunciato che avrebbe continuato a scrivere la sua rubrica per noi. Ma non è andata così. Mi ha spiegato che, come alto funzionario dell’Oms, non avrebbe potuto portare avanti la sua denuncia contro le multinazionali dei farmaci, contro chi fa le proprie scelte pensando soltanto al profitto. “Non potrei essere così chiaro e netto come in passato, meglio sospendere la mia collaborazione”». (…)
Per ricordare il medico di Castelplanio, Missioni Consolata ha istituito anche un «premio annuale Carlo Urbani», per unire «la professione di medico con quella del giornalista», riservato ai laureati in medicina e chirurgia e odontorniatria. «I partecipanti dovranno cimentarsi in articoli divulgativi – cioè comprensibili da parte di tutti – su tematiche sanitarie riferite a paesi o situazioni del Sud del mondo».
I due vincitori – il mondo ha bisogno di altri Carlo Urbani – andranno a lavorare per qualche mese in ospedali africani.

“CARLO, CONRO LE INGIUSTIZIE”

«Quando verrete là» diceva «capirete di essere una nullità. Una goccia d’acqua nel deserto. Ma capirete quanto quella goccia sia necessaria». In queste parole, con cui Carlo Urbani descriveva il suo lavoro a servizio degli altri nei posti più poveri del mondo, si può concentrare il significato di questo libro. Nessuna affermazione di eroismo o di diversità, ma un’interiorizzazione completa e armonica di un mettersi al servizio degli altri.
Tutto questo in modo assolutamente normale, portando avanti insieme i rapporti familiari, il lavoro professionale, le relazioni con gli amici e una vita spirituale intensa e riservata. Una generosità straordinaria ma anche una normalità straordinaria, come dimostra la gerarchia di valori sempre presente in tutte queste pagine che illustrano la sua vita. Non vi è posto per l’esibizione (nemmeno per l’esibizione del coraggio) ma vi è sempre spazio e tempo per dedicarsi caparbiamente al proprio sogno, che è diventato missione di tutta una vita.
E questo sogno era molto semplice: «Distribuire accesso alla salute ai segmenti più sfavoriti della popolazione». Intendendo per popolazione il mondo intero. Per questo lo vediamo muoversi per l’Africa e per l’Asia, ora assistendo direttamente i malati ora organizzando le strutture necessarie per questa assistenza. Ed è anche singolare che la passione di curare direttamente gli ammalati sia accompagnata da un’uguale passione espressa per le complicate procedure necessarie alla direzione di un ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità in Vietnam o alla presidenza dei Medici senza frontiere.
Carlo Urbani non si è accontentato di dedicare tutto il suo impegno a questo scopo, ma l’ha accompagnato con una continua attenzione «politica» nella lotta contro le ingiustizie. Un’azione, questa, espressa nelle riviste che legano tra loro in modo invisibile ma indissolubile tutti quelli che si dedicano al servizio degli altri, in tutte le parti del mondo.
I reportage che leggiamo sulla rivista delle Missioni Consolata sono semplici e quasi brutali: descrivono le malattie, la loro diffusione e le conseguenze. Ma sempre ti inchiodano osservando come con la mobilitazione di una minima quantità delle risorse di cui disponiamo si potrebbero ottenere risultati straordinari. Il giudizio di condanna (che pure in alcuni momenti è durissimo, come quando denuncia il costo delle medicine nel Terzo mondo) è tuttavia sempre accompagnato dalla fiducia che si possa concretamente agire per allargare a tutti il diritto alla salute. A tutti, perché «non esiste una medicina povera per le popolazioni povere» e «l’accesso ai farmaci essenziali deve essere considerato un fondamentale diritto per tutti gli esseri viventi».
Ci si può chiedere come una visione così ampia e una ricerca di esperienze così diverse possano essere nate in un piccolo paese della provincia italiana. E forse la spiegazione viene leggendo alcuni messaggi che ci arrivano dalla vita dei genitori di Carlo Urbani, con la madre che ha affrontato da sola e in giovane età un cambiamento radicale e un padre che nel lavoro e dopo il lavoro ha sempre avuto il desiderio di cambiare esperienze. E forse la spiegazione è proprio nel fatto che questa provincia raccoglie ancora in questi casi le virtù nascoste, gli insegnamenti e gli esempi per pensare in grande e affrontae i sacrifici conseguenti.
È questa duplice eredità che ha permesso a Carlo di condividere tutta la sua vita con la moglie Giuliana e con i figli, che dovevano crescere rendendosi conto di tutti i problemi e di tutte le diversità. Carlo Urbani non era un cavaliere solitario. Sapeva che per affrontare la disperazione di una parte troppo grande del pianeta l’impegno dei singoli è necessario ma non basta. Per questo è stato presidente di Medici senza frontiere e poi dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ma avere avuto accanto a sé, nelle frontiere nascoste del mondo, la moglie e i figli, è stata forse per lui la consolazione e la gioia più grande.

Romano Prodi

Jenner Meletti




RICORDANDO CARLO URBANI (1): Le malattie dimenticate


Nei paesi del Sud del mondo l’accesso alla salute – farmaci, acqua, alimentazione, servizi igienici, istruzione – è ancora un miraggio per la maggioranza della popolazione. In favore di questo diritto negato ha lavorato ed è morto Carlo Urbani.

Nel 2001 nel mondo 18,4 milioni di persone sono morte per malattie infettive/parassitarie, malnutrizione e cause perinatali, la maggior parte di queste nei paesi in via di sviluppo. La maggioranza di queste morti sono dovute a patologie prevenibili e curabili con farmaci e precauzioni igieniche che in Italia sono accessibili a tutti.
È uno scandalo che nel 2003 ancora 1 milione e mezzo di persone siano morte di malaria nonostante ci siano farmaci antimalarici efficaci, e che su 6 milioni di persone affette da Aids nei paesi in via di sviluppo, solo 400.000 abbiano accesso alle cure appropriate. L’accesso alla salute non è solo accesso ai farmaci essenziali: significa anche accesso ad acqua potabile, a latrine e servizi igienici, a scuole ed istruzione, alle cure materno-infantili, ad un’alimentazione sufficiente.
Le disuguaglianze dei paesi con limitate risorse pesano sulla coscienza di tutti: meno del 50% della popolazione ha accesso ai farmaci essenziali, i medici sono al di sotto di dieci per 100.000 abitanti (in Italia sono più di 500), meno dell’uno per mille della popolazione ha accesso ad Inteet (in Italia sono più di 250); il costo dei farmaci nei Paesi poveri, a parità di potere di acquisto, è più elevato che nei paesi industrializzati; la mortalità infantile e quella matea sono 100 volte più alti.

Carlo Urbani ed i medici tutt’ora impegnati nello sviluppo della salute pubblica nei paesi del sud del mondo hanno scelto di lavorare in questa realtà. È uno scenario che è riduttivo descrivere, fatto di sensazioni forti, di silenzi e di spazi immensi, di colori violenti e di odori, di insanabili contrasti, di fatica quotidiana, di contatto continuo con morte e malattia, di ritmi e valori spesso dimenticati nella nostra vita frenetica, consumistica e stressante. Sono sensazioni che solo se vissute e condivise possono essere comprese. Dopo la prima esperienza in Africa sub-sahariana ricordo di aver sofferto della impossibilità di comunicare impressioni, momenti di lavoro, e rapporti umani che hanno profondamente cambiato la mia vita.
Condizione primaria del lavoro in quei paesi, e non solo in ambito sanitario, è sapersi distaccare in maniera critica dalla nostra società occidentale, spesso creduta impropriamente depositaria di cultura superiore e di regole tali da poter essere imposte a gente «sottosviluppata». Lavorando nel terzo mondo ci si accorge che invece l’Occidente oggi è pervaso da una cultura del piacere «facile», volta ad ottenere molto in tempi brevi, prodiga di sicurezze, dove si ha troppo del superfluo, dove il tempo è sempre tiranno, e dove si è condizionati a produrre incuranti del prodotto, senza avere il tempo di guardarsi intorno, di ascoltare e capire in quale direzione stiamo camminando.
Nei paesi in via di sviluppo anche la realtà della morte è vissuta nel senso dello scorrere del tempo ed è mitigata da una grave serenità e da una grande partecipazione al lutto della famiglia allargata. La percezione della morte nella civiltà dei consumi è invece carica di angoscia, è un tabù che si cerca di esorcizzare attraverso paradisi artificiali e cure per l’eterna giovinezza.
Fondamentale diventa poi la dimensione dell’ascolto, il saper condividere il ritmo lento e rilassante, ma non pigro, della vita africana, saper percepire la ricchezza nascosta nella semplicità degli affetti, nel valore dell’ospitalità e della dignità umana. E, d’altra parte, ci si rende conto di essere dei privilegiati, di avere la pelle di un colore che crea una barriera spesso insuperabile nei rapporti con la gente locale.
Bisogna sapere accettare questa differenza ed essee consapevoli per non offendersi della discriminazione, a volte pesante, della gente del luogo dettata da anni non troppo lontani di colonialismo e sfruttamento, e dal neocolonialismo attuale impersonato dall’immagine del ricco turista italiano che va in vacanza in un villaggio turistico di Zanzibar o delle Maldive con l’arroganza della superiorità dettata dal potere economico e con l’ignoranza della cultura locale.

La professione del medico comporta competenza, pazienza, creatività e disponibilità umana, doti che dovrebbero essere applicate in qualsiasi ambulatorio medico di una grande città industriale, ma che in Africa vengono riscoperte come valori essenziali, senza i quali è impossibile svolgere il proprio lavoro.
Si riscopre il valore della visita accurata del paziente, imposto dall’assenza della gran parte di esami diagnostici disponibili nella medicina occidentale. Si deve «costruire» a volte una diagnosi credibile, e bisogna saper gestire con abilità i pochi farmaci disponibili. Si lavora in condizioni logisticamente disagiate: spesso senza disponibilità di acqua corrente, e con scarsa e saltuaria elettricità. Ci si adatta con lampade a cherosene, quando possibile con generatori, si utilizza acqua di pozzo o piovana raccolta in cistee.
Spesso ci si scontra con dubbi e domande alle quali non si riesce a dare una risposta. La disponibilità limitata di risorse porta a confrontarsi con scelte di priorità anche dolorose in cui l’etica professionale viene messa a dura prova. Devo utilizzare risorse per fare operare al cuore un bambino cardiopatico con un intervento salvavita, oppure lasciarlo e curare invece, con le stesse, mille suoi coetanei esposti alla malaria?
L’interesse si sposta dalla medicina individuale, curativa, alla medicina di comunità, soprattutto preventiva. Si interagisce con sistemi sanitari dotati di un grande potenziale e si sente di avere il potere di incidere sulle politiche sanitarie locali. Inoltre si ha la potenzialità di insegnare la professione medica al personale sanitario locale, con attenzione ed adattamento alla realtà e alle risorse del luogo, promuovendo l’uso di tecnologie appropriate e interventi di controllo delle malattie avendo come primo obiettivo il minor rapporto costo/beneficio. La formazione del personale locale è il cardine della sostenibilità di un intervento sanitario di cooperazione che deve essere sempre rivolto a creare una condizione di indipendenza e di autonomia.
Queste sono le immense soddisfazioni professionali che gratificano e largamente compensano la rinuncia a tante sicurezze, a molte comodità, al sacrificio di affetti familiari, al rischio di malattie o incidenti pagati in prima persona. Non si raccontano quasi mai i momenti di profonda solitudine, le lacrime di rabbia, la frustrazione nello scontro con la corruzione, l’ignoranza e l’indolenza umana. Sono però anche questi aspetti ingredienti che, come il sale, danno un sapore più vero all’avventura degli operatori sanitari nei paesi in via di sviluppo.

Vivere nel mondo delle malattie dimenticate è, per chi accetta questa sfida, un’esperienza professionale ed umana che apre, a volte dolorosamente, gli orizzonti; che cambia chi ha il coraggio di esporsi; che fa innamorare di questo mondo chi sceglie di lavorarci e particolarmente i medici che più di altri hanno il privilegio di constatare, capire, testimoniare e, qualche volta, alleviare o risolvere l’assenza di salute. •

“CARLO, AMICO E COLLEGA”

Carlo Urbani è l’autore del libro, che Feltrinelli mi ha chiesto di curare. Non è una biografia: sono i suoi scritti e le sue riflessioni sviluppati negli ultimi 10 anni di lavoro e di viaggi.
Con questo lavoro ho avuto l’opportunità di restituire la memoria di Carlo per quello che lui era veramente: un uomo e un medico capace e generoso. Il libro raccoglie riflessioni sulla povertà e assenza di salute delle comunità nelle quali Carlo lavorava, soddisfazioni professionali, descrizioni di luoghi e di persone incontrate, di emozioni provate. Carlo era anche un ottimo fotografo ed un discreto scrittore (come dimostrano anche gli articoli pubblicati in Come sta Fatou?, la rubrica da lui inventata per la rivista Missioni Consolata). Aveva il talento di saper comunicare la sua passione attraverso parole ed immagini; leggendo le sue lettere si ha l’opportunità di apprezzae l’entusiasmo, la curiosità, l’intelligenza e sensibilità, la capacità di individuare problemi e proporre soluzioni. Ne emerge la sua voce e, posso dire con soddisfazione, un’immagine molto vicina a quella dell’amico e collega che ho perduto, sicuramente diversa da quella del «martire della Sars», immagine mitizzata e per un certo verso riduttiva, che i media ci hanno trasmesso quando la sua curiosità ed il suo entusiasmo sono stati fermati da un incidente di percorso.
La Sars (una malattia in realtà non troppo contagiosa, un’epidemia assai meno importante in termini di mortalità – solo 800 morti – rispetto per esempio all’epidemia di «spagnola», che molti ancora ricordano, o alla malaria e tubercolosi che fanno ciascuna ancora 1 milione e mezzo di morti all’anno) ha acceso i riflettori sull’epilogo della vita di un uomo non comune. Quell’«incidente» ha fatto sì che gli venisse rivolta, pur tardivamente, l’attenzione che da anni meritava per il suo lavoro silenzioso di lotta alle malattie «dimenticate», per garantire il diritto alla salute anche alle popolazioni dei paesi più poveri. I suoi scritti permettono di capire un po’ di più del lavoro e del punto di vista di molti altri, medici e non, che ben al di là della retorica considerano una priorità ragionare e cimentarsi con le scandalose disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo.

Un altro motivo che mi ha spinto ad accettare di curare questo libro è stata la possibilità di divulgare anche ai non addetti ai lavori, le problematiche di salute pubblica e di medicina sociale che Carlo, molti altri colleghi ed io stesso affrontiamo, per stimolare l’interesse alla conoscenza di questi argomenti e possibilmente la condivisione di queste sfide.
Scegliendo e mettendo in ordine gli scritti di Carlo mi sono reso conto di quanto la sua storia personale si sia arricchita progressivamente. La sua vita professionale inizia in medicina generale in un paese di provincia, Castelplanio. Infettivologo e tropicalista, viaggiatore si appassiona a problemi di salute internazionale. Lavora poi come medico ospedaliero e volontario in brevi missioni sul campo, sino alla scelta definitiva di intraprendere la carriera internazionale come responsabile nel Sud-est asiatico del controllo delle malattie trasmissibili. L’epilogo della storia di Carlo è segnato sia dalla sua passione originaria per la medicina individuale che dalle sue doti di medico di sanità pubblica: non è una coincidenza che proprio lui sia stato chiamato a consulto al letto di un paziente con polmonite atipica, sul quale intuirà il potenziale di quella malattia sconosciuta. Lascerà temporaneamente il suo ufficio all’Oms di Hanoi, i suoi parassiti e le malattie per noi dimenticate per infilarsi il camice e dedicarsi con intelligenza e curiosità alla nuova malattia della quale riuscirà in brevissimo tempo a capire abbastanza da bloccarne l’epidemia trascurando, nell’entusiasmo, di pensare anche a salvaguardare la sua persona. Non per rischio calcolato ma per coerenza a saldi principi di etica e passione scientifica. Carlo era fatto così. Dalle sue lettere emergono riflessioni su temi scottanti e di grande attualità (la globalizzazione, il diritto e l’accesso alla salute, i farmaci essenziali, il dovere di lotta alla povertà, la ridistribuzione delle risorse, la tolleranza, le diseguaglianze – non solo di salute – tra il Nord ed il Sud del mondo).

Il libro parte dalla prima esperienza in Mauritania, nel 1993, dove io incontrai Carlo per la prima volta. Era l’epoca dei suoi viaggi in Africa occidentale, durante i quali, con occhio esperto e sensibile, aveva individuato la possibilità di intervenire per arginare un’epidemia di parassiti intestinali e malaria che si era manifestata in seguito alla costruzione di una diga sul fiume Senegal. Carlo coinvolse subito il ministero della sanità del paese e richiese il sostegno tecnico all’Oms. Contemporaneamente coinvolse il suo ospedale e propose un gemellaggio con le scuole del suo paese.
Segue la sua esperienza di lavoro in Cambogia per Medici senza frontiere (Msf), dove era responsabile del controllo della schistosomiasi, trasmessa dalle acque del fiume Mekong.
Al rientro in Italia, nell’ospedale di Macerata dove era aiuto di malattie infettive, Carlo diventa presidente di Msf, lavorando per incrementare la collaborazione tra il mondo ricco occidentale e quello povero. Esempi di questa attività extraospedaliera sono la campagna per l’accesso ai farmaci essenziali e la lotta alle multinazionali del farmaco che badano al profitto invece che alla salute della gente. Va ricordato che 3.000 persone al giorno muoiono di malaria e 8.000 di Aids solo perché non hanno accesso a terapie disponibili in qualsiasi paese occidentale.
Altro esempio di ricerca di contatto tra Nord e Sud è il corso avanzato di medicina tropicale organizzato a Macerata nel marzo 2000, a cui parteciparono una quarantina di medici ed infermieri, la metà dei quali provenienti da paesi del Sud del mondo. Questa esperienza (straordinaria anche perché indipendente dalle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche e dalle università) ci ha permesso di gestire borse di studio ottenute da privati per merito del carisma di Carlo; borse che hanno permesso la partecipazione e la formazione di medici che poi sono tornati ad operare nei rispettivi paesi.

L’ultimo capitolo del libro tratta della scelta definitiva che Carlo Urbani fa nel 2000: accettare l’incarico di esperto di malattie parassitarie dell’Oms ad Hanoi, in Vietnam. In questa scelta coinvolge tutta la famiglia, a dimostrazione di un progetto di vita ampio che ha risvolti importanti sull’impostazione dell’educazione e della vita dei figli. Ad Hanoi, come alto funzionario delle Nazioni Unite, si rende conto di avere l’opportunità di incidere sulle politiche sanitarie nazionali per migliorare lo stato di salute di intere popolazioni con interventi strategici a basso costo. Carlo ha grandi soddisfazioni nel suo nuovo lavoro e si applica con la consueta passione ed impegno. Il 28 febbraio 2003 viene chiamato a visitare il signor Chen, paziente affetto da polmonite atipica, poi riconosciuta come Sars, che infetta ospiti e collaboratori dell’ospedale francese di Hanoi dando inizio all’epidemia. Carlo intuisce la gravità della situazione e lancia l’allerta mondiale. Scrive lucide e dettagliate relazioni per Ginevra e Atlanta. Convince le autorità vietnamite a chiudere l’ospedale, ad istituire la quarantena e a bloccare i voli ed il rilascio del visto, pur in presenza di pesanti risvolti economici per il paese. Contrae la Sars. L’11 marzo viene ricoverato a Bangkok, dove muore 18 giorni dopo. È il 29 marzo del 2003.

Marco Albonico

I dati delle malattie dimenticate (2001)

Malattia: DALYs* N. Morti

Aids 88.500.000 2.900.000
Cause perinatali 98.400.000 2.500.000
Diarree 62.500.000 2.000.000
Elminti Intestinali 39.000.000 135.000
Filariasi 5.600.000 0
Infezioni respiratorie
acute 94.000.000 4.000.000
Malaria 42.000.000 1.500.000
Malnutrizione 33.000.000 500.000
Morbillo 26.500.000 750.000
Schistosomiasi 4.500.000 200.000
Tubercolosi 36.000.000 1.600.000

* Disability-adjusted life years (numero di anni di vita «in salute» persi)
Tabella riportata in «Le malattie dimenticate», Feltrinelli 2004.

Marco Albonico




GLI OGM (1)”Metti un gene nelle fragole”

Piante resistenti a climi avversi, prodotti che non marciscono, frutti senza semi, miglioramenti qualitativi e quantitativi… i risultati dell’ingegneria genetica sembrano entusiasmanti, ma i lati oscuri della medaglia sono tanti, a cominciare dagli impatti sulla salute umana e sull’ambiente. Per questo scienziati
ed organizzazioni inteazionali chiedono l’adozione di un «principio di precauzione», che però pare soccombere davanti alle regole del profitto dettate dalle multinazionali e dai loro potenti sponsors. (Prima parte)

Miglioramento genetico delle piante, sviluppo agricolo sostenibile, salvaguardia delle risorse naturali, contributo significativo a soddisfare la crescente domanda mondiale di derrate alimentari, miglioramento della qualità, della sicurezza e del valore nutrizionale degli alimenti (1): questi gli scopi della biotecnologia applicata al settore agricolo-alimentare secondo i fautori degli Organismi geneticamente modificati (Ogm o Gmo, dall’inglese Genetic modified organisms); miti da sfatare, al contrario, per gli oppositori.
Su quali termini, concetti e fatti si basa il dibattito sugli Organismi geneticamente modificati? La controversia coinvolge esclusivamente conoscenze scientifiche, oppure è strettamente connessa anche ad aspetti economici e commerciali non sufficientemente dichiarati? La complessità dell’argomento è un limite oppure un’opportunità utilizzata come pretesto per un’informazione parziale, o addirittura assente, nei confronti del cittadino- consumatore?

COSA SONO GLI OGM
Il termine «biotecnologia» deriva dalla congiunzione di biologia, intesa come studio degli esseri viventi e delle leggi che li governano, e tecnologia, intesa come studio dei processi e delle apparecchiature necessarie a produrre determinati beni e servizi.
Con biotecnologia si indica qualsiasi processo produttivo che preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule, o loro prodotti. Le sue origini sono molto antiche: basti pensare alle tecnologie fermentative applicate nella produzione di alimenti (ad esempio, del vino e della birra) e alle tecniche di selezione e reincrocio utilizzate in agricoltura e zootecnia. Solo negli ultimi decenni l’aumento delle conoscenze scientifiche e il progresso tecnologico hanno fatto intravedere nuovi orizzonti sperimentali e applicativi, in particolare nel campo della medicina, del disinquinamento ambientale e dell’agricoltura. Tecniche di ingegneria genetica quali la ricombinazione del Dna, la fusione di cellule animali e vegetali, l’introduzione diretta di Dna in una cellula, costituiscono le basi delle biotecnologie avanzate.
Gli organismi transgenici o, più propriamente, gli Organismi geneticamente modificati sono appunto gli animali, i vegetali, i miceti, i lieviti e i batteri nel cui genoma viene incorporato artificialmente un gene estraneo, chiamato transgene.
In campo agricolo, lo scopo è quello di inserire, nel Dna della pianta che si vuole modificare, uno o più caratteri (geni) che conferiscano alla pianta modificata le caratteristiche desiderate. Tali geni possono essere ottenuti da altre piante, da microrganismi oppure anche da animali: le tecniche di ingegneria genetica rendono cioè possibili incroci che sono impossibili in natura. Ne è un esempio la nota introduzione di geni di pesci (passera di mare) nelle fragole per aumentae la conservabilità, in base all’assunto che il gene che consente al pesce di sopravvivere in acque ghiacciate conserverebbe le fragole.
Un Ogm è «un organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura mediante incrocio o ricombinazione genetica naturale» (D.Lgs. 3.3.93, n.92). Se l’organismo transgenico è fertile, il gene estraneo potrà essere trasmesso alle successive generazioni, dando origine ad una «linea di organismi geneticamente modificati».
Attualmente sul mercato sono presenti soprattutto varietà Ogm di mais, soia, colza, pomodoro, cotone, patata, zucca e tabacco. Le principali modificazioni genetiche già in commercio o in fase di sperimentazione riguardano la resistenza agli erbicidi e ai parassiti, il controllo della fioritura della pianta, la produzione di frutti senza semi, la resistenza a stress (al freddo, alla siccità, alla salinità del terreno, ecc.), la ritardata marcescenza.
Le ragioni addotte per la diffusione degli Ogm in agricoltura sono essenzialmente due:
• aumenterebbero la produzione del raccolto, contribuendo così alla sicurezza alimentare;
• ridurrebbero l’uso delle sostanze chimiche, contribuendo così alla protezione ambientale.

L’INVASIONE SILENZIOSA
Secondo il rapporto del Servizio internazionale per l’acquisizione delle applicazioni agrobiotecnologiche (Isaaa), le coltivazioni di piante geneticamente modificate (Gm) aumentano in tutto il mondo, con una superficie complessiva pari a 67,7 milioni di ettari e con una crescita, nel 2003, pari al 15% rispetto al 2002. Aumentano le colture Gm anche in Europa, in particolare in Romania, Bulgaria, Spagna.
Gli agricoltori che nel 2003 hanno utilizzato sementi geneticamente modificate sono diventati 7 milioni, un milione in più rispetto al 2002, e la maggior parte di essi (l’85%) vive in paesi in via di sviluppo; proprio in questi paesi si trova quasi un terzo della superficie mondiale coltivata con piante Gm, rispetto al 25% circa registrato nel 2002. Brasile e Sudafrica si sono aggiunti ai principali coltivatori di prodotti agricoli gm, ossia Stati Uniti, Argentina, Canada e Cina. Gli altri 4 paesi che coltivano superfici geneticamente modificate superiori ai 50.000 ettari sono Australia, India, Romania e Uruguay.
Nei paesi dell’Unione europea, invece, dopo una rapida crescita e raggiunto il massimo nel 1997, i rilasci di Ogm si stanno rapidamente contraendo. Le sperimentazioni sono state infatti scoraggiate dalla moratoria e dalla regolamentazione imposte su scala europea, e hanno subito un declino rilevante soprattutto in Francia e in Italia, i due paesi nei quali si erano più concentrate (rispettivamente il 29% e il 16% del totale europeo). Le diverse specie interessate, più di 70, riguardano principalmente le colture industriali quali mais, colza, barbabietola e patata (2).
Essendo una tecnologia coperta da brevetto, gli Ogm sono monopolizzati da un numero estremamente ridotto di multinazionali. La maggior parte del mercato delle sementi e dei prodotti fitosanitari è controllato da tre colossi: la Monsanto (gruppo Pharmacia), la Syngenta (già Novartis), e Aventis (creato dalla Hoechst e dalla Rhone-Poulenc e acquisito dalla Bayer nell’ottobre 2001 (3).

ALLERGIE ED ALTRI
IMPATTI SULLA SALUTE

Il dibattito affrontato dai media sugli Ogm riguarda soprattutto i possibili effetti sulla salute dei consumatori. I sostenitori degli alimenti Gm dichiarano che l’introduzione di cibi manipolati nella nostra dieta non possa causare rischi di nuove allergie. Come esempio, viene spesso citata l’introduzione del gene di banana nel pomodoro.
Secondo l’associazione Greenpeace, da sempre contraria all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura, i biotecnologi omettono di precisare che l’esempio riportato considera cibi consumati abitualmente. «L’ingegneria genetica, però, riguarda spesso geni, e dunque proteine, che non fanno parte del consumo alimentare tradizionale: i rischi non sono prevedibili se il gene “trapiantato”, ad esempio nel grano, con cui facciamo pane, pasta ecc., proviene da uno scorpione o da una petunia o da altri organismi finora mai utilizzati nell’alimentazione».
La società Pioneer, prima compagnia mondiale nella produzione di semi, ha prodotto una soia più ricca di metionina (amminoacido essenziale che il nostro organismo non sa produrre) grazie ad un gene proveniente dalla noce brasiliana nota per la sua forte potenzialità allergenica (cioè molte persone sono allergiche a questo alimento). Test indiretti di laboratorio, finalizzati proprio a valutare la possibile insorgenza di nuove allergie, avevano dato tutti esito negativo. Un test allergologico ha invece dimostrato che persone allergiche alla noce brasiliana, ma non alla soia normale, erano allergiche anche alla soia manipolata della Pioneer, la cui commercializzazione è stata bloccata in extremis. Il problema è che la maggior parte degli Organismi geneticamente modificati può essere sottoposta solo a test di tipo indiretto, la cui affidabilità è messa in discussione.
Inoltre, negli Ogm viene inserito un gene resistente agli antibiotici, definito «marcatore», che permette di identificare le cellule in cui è riuscito il «trapianto» dei geni; successivamente esso non svolge più alcuna funzione, ma la sua eliminazione sarebbe troppo costosa e difficile.
Ecco perché c’è chi teme che la resistenza agli antibiotici possa trasferirsi all’uomo, rendendo inefficaci gli antibiotici comunemente assunti. Anche se il problema sembra superabile con nuove tecnologie che non prevedono l’utilizzo di geni marcatori, non ci si può non chiedere come mai, nonostante una tale eventualità, sia stata consentita la commercializzazione di tali prodotti. L’impatto sulla salute, tuttavia, non è il solo aspetto preoccupante che riguarda la diffusione degli Ogm.

I GENI COME
VITI E BULLONI

Se i fautori degli ogm sostengono che da sempre l’uomo ha modificato le piante, i critici ribattono che non tutte le modifiche sono equivalenti dal punto di vista ecologico e non tutte hanno impatti analoghi. I biotecnologi hanno dato infatti origine a nuovi organismi nati dall’ibridazione di specie diverse, che mai si sarebbero incrociati in natura.
«L’assunto è che una caratteristica possa essere trasferita da una specie all’altra semplicemente spostando un gene. In realtà, spostando geni da una specie all’altra produrremo effetti imprevedibili», dichiara Brian Goodwin, uno dei maggiori teorici della biologia. Mentre i sostenitori dell’ingegneria genetica dichiarano che questa tecnica è più precisa e prevedibile rispetto ai metodi tradizionali di ibridazione, la nota fisica indiana Vandana Shiva, insieme ad altri scienziati più cauti sull’argomento, pone l’accento sul fatto che «indipendentemente da come il transgene viene introdotto, c’è una totale impossibilità di prevedere quale sarà l’esatta collocazione del gene nel cromosoma», e continua affermando che «il luogo comune secondo cui l’ingegneria genetica è precisa e prevedibile è falso. Di fatto, non si tratta di vera ingegneria». Inoltre sottolinea come la selezione tradizionale non prevede affatto il trasferimento di geni da batteri e animali alle piante, ma incrocia «il riso con il riso e il grano con il grano».
Anche se molti scienziati iniziano a vedere i geni non più come semplici viti e bulloni di una macchina, che possono essere spostati o riordinati a piacere, proprio questa visione è invece la base fondante delle nuove biotecnologie, della nuova industria delle scienze della vita e del nuovo commercio genetico.

IL PRINCIPIO
DI PRECAUZIONE

Come ricorda il biologo Giuseppe Barbiero dell’Università di Torino, la comparsa degli ogm ha accelerato significativamente il processo di selezione naturale, in quanto si svolge in un periodo di tempo molto ridotto e in condizioni del tutto differenti rispetto alla selezione artificiale utilizzata tradizionalmente in agricoltura e zootecnia. La comunità scientifica sembra oggi riconoscere che è necessario approfondire le conoscenze prima di commercializzare gli Ogm, per evitare una sorta di esperimento globale su scala planetaria. Non sono pochi, infatti, gli esperti che ritengono insufficienti le attuali conoscenze scientifiche sull’argomento.
Ci troviamo cioè in «condizioni di ignoranza», di fronte a fenomeni complessi e non prevedibili come quelli biologici, in presenza del rischio reale di commettere errori gravi da cui non si può tornare indietro e, soprattutto, in una situazione in cui nessuno sa come eventualmente correggere gli errori: in questo contesto dovrebbe valere il «principio di precauzione», ossia un approccio prudente al problema (4). Per questa ragione l’etichettatura dei prodotti agrobiotecnologici, il rispetto dei protocolli di sicurezza, l’adozione di particolari cautele finalizzate a non compromettere l’equilibrio ecologico danneggiando la biodiversità sono alcune delle misure che dovrebbero essere considerate sempre necessarie, in quanto, in caso di errore, è più facile risalire alle cause e porvi rimedio in tempi ragionevoli. «Tuttavia – continua Barbiero – anche il rispetto più rigoroso dei protocolli di sicurezza non ci garantisce contro il rischio intrinseco delle nuove biotecnologie, dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza riguardo la fisiologia del genoma. Siamo allora di fronte a un nodo ineludibile: la comunità scientifica deve dare segni di disponibilità e rimettere in discussione l’intera filiera che dalla ricerca porta alla commercializzazione dei prodotti delle nuove biotecnologie».
La necessità di adottare il principio di precauzione non è evidente solo alla luce delle possibili conseguenze sulla salute umana, ma anche dei potenziali, e in alcuni casi già effettivi, impatti sull’ambiente.

AGRICOLTURA BIOLOGICA O
RIVOLUZIONE «GENETICA»?

In molti sostengono che l’incremento dei raccolti registrato negli ultimi 50 anni, con la cosiddetta «rivoluzione verde», non sia dovuta ad una migliore gestione delle risorse locali, bensì all’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, all’allevamento industriale di animali, e ad altre pratiche di agricoltura intensiva che hanno generato importanti conseguenze per l’uomo e per l’ambiente.
Oggi, le stesse aziende che si sono procurate una pessima fama con l’utilizzo di sostanze chimiche nelle produzioni agroalimentari, stanno proponendo una nuova «soluzione»: la cosiddetta «rivoluzione genetica», ossia l’utilizzo di semi modificati geneticamente, che ridurrebbe la dipendenza dai dannosi pesticidi di loro stessa produzione.
La maggior parte degli Ogm viene prodotta con caratteristiche che li rendano resistenti agli erbicidi; anziché comportare una diminuzione dell’uso degli erbicidi stessi, alcune stime dimostrano che ciò implica invece un aumento dell’utilizzo di tali sostanze.
Secondo Greenpeace, «che il meccanismo serva a far vendere più erbicidi lo prova il fatto che negli Usa le sementi transgeniche vengono vendute con un contratto, nel quale si stabilisce che gli agricoltori che utilizzano erbicidi che non siano della ditta produttrice della semente manipolata, possono essere perseguiti legalmente. Lo stesso contratto vieta agli agricoltori di conservare i semi provenienti dal raccolto per riseminarli l’anno successivo».
Ad esempio, la soia manipolata della Monsanto resiste a dosi massicce di Roundup, un erbicida prodotto dalla Monsanto stessa. In generale, una coltivazione di piante Gm di questo tipo può essere trattata con l’erbicida a dosi tali da uccidere le piante infestanti: sopravviverà soltanto la pianta Gm che è resistente. «Che poi – puntualizza Greenpeace – essa possa contenere dosi più o meno elevate di veleni chimici, è un fatto che non preoccupa l’industria chimica».
Tra gli «effetti collaterali», secondo i critici, anche lo sviluppo sia delle cosiddette «super-erbacce», in grado di invadere le altre specie presenti e causa di un ulteriore utilizzo degli erbicidi stessi, sia di «insetti super-infestanti».
L’utilizzo di prodotti chimici si estenderà inoltre in aree del mondo in cui attualmente non si fa uso di tali sostanze.
Alcune piante sono modificate geneticamente, invece, per produrre da sole i propri pesticidi: ciò provocherebbe fenomeni di resistenza a tali sostanze col conseguente aumento del loro utilizzo. Senza contare che l’inserimento di una tossina in una pianta rischierebbe di aumentare la tossicità della stessa e la sua diffusione nell’ecosistema.
«Ad oggi – continua Greenpeace – ciò che l’ingegneria genetica ci nega è la scelta delle tecniche genuine dell’agricoltura sostenibile sviluppate dalla modea agricoltura biologica. Ingegneria genetica e agricoltura biologica sono incompatibili».

IL BIO-INQUINAMENTO
L’agricoltura si caratterizza per la complessità di saperi, tecniche e coltivazioni evoluti con le caratteristiche dei territori e delle popolazioni che li abitano: si è così sviluppata una moltitudine di sistemi agrari complessi e diversificati, da cui si sono sviluppate specifiche culture alimentari e gastronomiche.
Questa diversità è oggi a rischio: come evidenzia Greenpeace, la dispersione nell’aria del polline, il trasferimento dei transgeni dalle colture Gm alle erbe spontanee, la dormienza dei semi che li può portare a germinare a distanza di qualche stagione, l’alterazione dei microrganismi del suolo, possono rappresentare un pericoloso mezzo di dispersione degli Ogm e di inquinamento genetico. Una volta rilasciato in natura, un nuovo organismo creato dall’ingegneria genetica potrebbe essere in grado di interagire con altre forme di vita, riprodursi, trasferire le sue caratteristiche e mutare in risposta alle sollecitazioni ambientali. Addirittura «è possibile che colture trasformate per produrre farmaci o altri composti di interesse industriale possano fecondare piante destinate all’alimentazione umana, con l’inevitabile risultato di trovare nuove sostanze chimiche nella catena alimentare umana» (5).
A tutt’oggi non è infatti possibile prevedere le conseguenze dell’immissione di Ogm in un ecosistema. L’elemento preoccupante è che il materiale genetico possa trasferirsi da un organismo all’altro al di fuori del controllo umano. Ad esempio, è stato verificato che i geni «trapiantati» possono velocemente passare dalla colza Gm a piante affini, infestanti e non. Ricerche condotte in Germania hanno mostrato che il gene per la resistenza al glufosinato può trasferirsi, mediante il polline, in piante distanti 200 metri e dati più recenti indicano che l’inquinamento genetico può avvenire anche a distanze maggiori. La commercializzazione di mosche, zanzare e vermi, ingegnerizzati in laboratorio per diversi scopi, porterebbe ad una loro rapida diffusione nell’ambiente.
L’evidenza ha dimostrato l’alta frequenza ed entità delle contaminazioni non solo in campo aperto, ma anche nelle fasi di stoccaggio e trasporto. «Le attuali strategie di contenimento genetico non possono funzionare in modo affidabile in campo aperto. Possiamo ragionevolmente attenderci che gli agricoltori ripuliscano meticolosamente i propri macchinari agricoli, tanto da rimuovere tutti i semi geneticamente modificati?» (6).
«Poiché il bioinquinamento si verifica quando gli Ogm non sono confinati in ambiente chiuso, gli scettici degli Ogm vorrebbero sospendere i test sul campo e le coltivazioni Gm, non le medicine ottenute tra le mura di un laboratorio», chiarisce Vandana Shiva (7).
(Fine prima parte – continua)

BOX 1 Le iniziative anti OGM di regioni e comuni

• Il 13 ottobre 2003, in seguito alla semina illegale di mais Ogm nel comune di Sant’Elpidio a Mare (AP), la regione Marche ha avviato le operazioni di smaltimento dell’intero raccolto.
• Nell’aprile del 2003, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso delle multinazionali di produttori e importatori di Ogm che chiedevano di sospendere la circolare del ministero delle politiche agricole e forestali che vietava la produzione e commercializzazione di sementi, soia e mais che anche accidentalmente contenessero Ogm.
• La regione Friuli ha proposto nel giugno 2002 la creazione di una macro-regione europea «Ogm-free».
• Nel luglio 2003 la regione Piemonte ha disposto la distruzione di 381 ettari di mais geneticamente modificato con un’ordinanza del presidente. Respinto il ricorso al Tar della multinazionale Pioneer, la regione ha provveduto al rimborso degli agricoltori coinvolti nella vicenda.
• La regione Campania ha approvato una legge (n. 15 del 24 novembre 2001) per la quale «i prodotti contenenti organismi geneticamente modificati non devono essere somministrati nelle attività di ristorazione collettiva riguardanti le forme scolastiche e prescolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura della regione Campania appartenenti alle Aziende sanitarie locali e alle Aziende ospedaliere, ai comuni, alle province, alla regione, agli altri enti pubblici ed ai soggetti privati convenzionati».
• La regione Veneto con la legge regionale n. 6 del 1° marzo 2002 «tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e promuove tutte le azioni necessarie a prevenire i possibili rischi alla salute umana derivanti dal consumo di alimenti contenenti organismi geneticamente modificati (Ogm) o prodotti derivati da Ogm».
• La regione Liguria con legge regionale n. 13 del 19 marzo 2002 impone il «divieto di introduzione di organismi geneticamente modificati sia vegetali che animali, in particolare in agricoltura e allevamento, compresi gli allevamenti ittici e le attività di trasformazione dei prodotti».
• La regione Basilicata ha emanato una legge (n. 18 del 20 maggio 2002) in cui è fatto divieto di coltivazione in pieno campo di piante transgeniche.
• La regione Abruzzo ha disposto con la legge regionale n. 6 del 16 marzo 2001 che il principio di precauzione sia applicato «nelle decisioni che riguardano l’uso per qualunque fine di organismi geneticamente modificati o di prodotti da essi derivati».

Intanto, dall’agosto del 1999, sono state 445 le amministrazioni italiane che hanno deliberato contro l’introduzione di ogm sul proprio territorio. Dal primo comune dichiaratosi «anti-transgenico», Bubbio, in provincia di Asti, all’ultimo in ordine di tempo, Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi.
Per poter piantare il cartello con il logo di «Comune Ogm Free» le amministrazioni devono prima deliberare il loro impegno a tenere lontani dal proprio territorio gli organismi geneticamente modificati, impedendo le coltivazioni e le sperimentazioni agricole.

Fonti: www.legambiente.com; www.comuniantitransgenici.org

BOX 2 la chiesa e gli OGM…

La chiesa deve prendere coraggio e restare coerente con la sua morale per dichiarare inaccettabili gli Ogm. Lo chiede padre Alex Zanotelli sull’ultimo numero della rivista Nigrizia. Zanotelli teme che il Vaticano possa cedere alle pressioni americane in questa materia e chiede ai teologi, ai missionari, agli episcopati del Terzo mondo di farsi sentire con decisione sull’argomento per evitare che la chiesa usi due pesi e due misure nella morale che riguarda la manipolazione della vita. «Già la scorsa estate – scrive padre Alex – sono rimasto di stucco nel leggere sulla Stampa l’intervista del card. Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, sulla possibilità di usare cibi geneticamente modificati per risolvere il problema della fame. In molti hanno reagito all’intervista – ordini religiosi e istituti missionari soprattutto. Anche per questo, credo, il cardinale ha convocato, il 10-11 novembre scorso, 67 esperti per avere più pareri sugli organismi geneticamente modificati. Il fatto è che gli esperti scelti erano quasi tutti favorevoli agli Ogm. Non a caso uno dei convocati, Dorine Stabinsky, americana, ha parlato di “squilibrio”».

Dello stesso parere due gesuiti che operano in Zambia, Peter Henriot e Roland Lesseps, i quali hanno rimarcato: «Gli Ogm non possono trovare riscontro nell’insegnamento della dottrina sociale della chiesa, perché non rispettano né i diritti umani né l’ordine della creazione». Netta anche la reazione dei missionari italiani (Conferenza degli istituti missionari d’Italia, Cimi). Si noti che alla conferenza in Vaticano non c’era nessun rappresentante degli episcopati del Sud del mondo. Mentre sappiamo che gli episcopati sudafricano, brasiliano, filippino e zambiano si sono espressi negativamente sugli Ogm.
Sulla questione, critico anche l’intervento di padre Giulio Albanese, comboniano, direttore dell’agenzia Misna. E anche l’opinione di don Albino Bizzotto (Beati i costruttori di pace), Lidia Menapace e Francesco Iannuzzelli (Peacelink) che, sulla questione Ogm, hanno inviato una lettera aperta a mons. Martino.

Fonti: Ettore Colombo, www.vita.it (08/01/2004); www.oneworld.net. (02/04/2004)

Silvia Battaglia




KENYASinfonia di aiuti

Anche nei posti più difficili, è possibile far sorgere un’opera «quasi impossibile», come un ospedale. Eppure, unendo insieme fantasia, generosità
e competenza, il sogno può avverarsi. Come è successo nell’arido Tharaka…

S orta nel 1957 in uno sperduto lembo del Tharaka, 180 km a nord di Nairobi, la missione di Matiri copre un’area di 600 kmq con una popolazione di 46 mila abitanti di vari gruppi bantu.
La popolazione vive di pastorizia e, malgrado le frequenti siccità, di agricoltura di sussistenza, limitata alla coltivazione di miglio e granturco, dai quali ricava una polenta che è spesso l’unico pasto quotidiano.
Le strade sono pessime, l’acqua scarseggia. Per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, padre Orazio Mazzucchi, missionario della Consolata, unendo al servizio pastorale una capacità manageriale, ha trasformato Matiri in un perenne cantiere. La missione ospita varie strutture scolastiche e, fin dai primi anni ’60, un ambulatorio che per anni ha rappresentato l’unica forma di assistenza alla popolazione, afflitta delle principali malattie tropicali: malaria, tubercolosi, parassiti, lebbra, tracoma, Aids.
Rita: un volto
accanto a… Cristo
Nel 1987, il dispensario ha fatto un primo salto di qualità, grazie a un’infermiera volontaria piemontese, Rita Drago, arrivata sul posto con il Cuamm (medici missionari); da allora, non è più ripartita.
La sua dedizione e competenza le hanno subito guadagnato stima e fiducia della popolazione, in particolare delle donne, che hanno trovato in lei un valido aiuto sia nelle emergenze sanitarie, che nella gestione della vita familiare e prevenzione di malattie infettive. Tanto è l’affetto della gente di Matiri, che, al momento di adornare la modesta chiesa della missione con un ciclo di affreschi ispirati al vangelo, hanno voluto inserire anche il volto di Rita tra le figure che attorniano il Cristo.
Già allora frequentavano Matiri i volontari dell’Avi (Associazione volontariato insieme, di Montebelluna TV), nata su impulso del concittadino padre Pierino Schiavinato, uno dei tanti missionari della Consolata usciti dal seminario di Biadene. Tramite Rita, le donne tharaka presentarono all’Avi l’esigenza di assistenza continua e qualificata durante la gravidanza. Grazie all’associazione montebellunese, la collaborazione dei clan locali e gruppi organizzati femminili, nel 1995 si è potuto inaugurare una piccola mateità che, con i suoi 15 posti letto, ha garantito assistenza a circa 700 parti l’anno.
Fondamentale si rivelava l’apporto, sia in termini di lavoro personale che finanziario, del decano dell’Avi, Mario Olivato, che, con questa struttura a servizio dei bambini, ha voluto ricordare un figlio scomparso precocemente.
tutti insieme,
appassionatamente
Nel corso degli anni, la mateità ha trovato la collaborazione di vari medici volontari, che passano le loro vacanze a Matiri, dando una mano a Rita. Ma la mancanza di una sala operatoria e modee attrezzature diagnostiche non permette una piena risposta alle necessità dei pazienti; per di più, i 40 km di sterrato, che separano Matiri dall’ospedale più vicino (impercorribili durante la stagione delle piogge), potevano trasformare in tragedia anche la più banale patologia.
Tra i medici volontari passati a Matiri c’è anche Giorgio Giaccaglia, primario dell’Unità terapia intensiva dell’ospedale di Migliarino (Ferrara), che ha alle spalle una breve esperienza di volontariato presso l’ospedale di Sololo, nel nord del Kenya: ormai prossimo alla pensione, quando, come tanti suoi colleghi, potrebbe dedicarsi interamente ai guadagni dorati della libera professione, non accetta di assistere impotente alla perdita di tante vite e matura l’idea di trasferirsi in pianta stabile a Matiri, per avviare la costruzione di un vero ospedale.
La moglie Antonia, a sua volta infermiera, è la prima a condividere e incoraggiare il progetto. Giorgio ne parla, nel 1999, con un altro montebellunese, padre Livio Tessari, all’epoca responsabile dell’ufficio di cornordinamento degli ospedali africani dei missionari della Consolata; comincia a coinvolgere attorno a quest’idea colleghi e amministratori della sanità ferrarese, con i quali dà vita all’«Associazione Emiliano De Marco». Ancora una volta l’impegno per i bambini del Tharaka si lega al ricordo di un giovane italiano, mancato precocemente.
Padre Livio lo mette in contatto con Gino Merlo, presidente dell’Avi, e il progetto prende forma, potendo contare anche sul parallelo intervento di altre realtà del volontariato, come l’Ong «Mondo giusto» di Lecco e l’Associazione «La sola verità è amarsi» di Barzanò (LC).
I volontari lombardi sono alle prese con la costruzione di un acquedotto per fornire acqua alle opere di Matiri, di una centralina idroelettrica da 70 kw e un progetto di sviluppo agricolo: tutto sfruttando le acque del fiume Mutonga (cfr. Missioni Consolata, marzo 2003).
Tra il 2000 ed il 2003 si susseguono i rilievi e la progettazione, curata dall’architetto Zarattini di Ferrara, i contatti con la diocesi di Meru, le autorità locali e le varie iniziative di raccolta fondi, che coinvolgono banche, enti locali e donatori privati del Veneto e dell’Emilia. Vengono anche raccolte e rigenerate varie attrezzature sanitarie dismesse dagli ospedali.
con la benedizione
di sant’orsola
Nel luglio 2001, mons. Silas Silvius Njiru, vescovo di Meru, pone la prima pietra del costruendo ospedale, che, nel frattempo, vede nascere a Caserta un nuovo gruppo di sostenitori, riuniti nell’associazione «Una mano tesa per Tharaka».
I lavori di muratura vengono affidati ad Agrikenya Ltd, un’impresa di Nairobi gestita da un costruttore italiano, e decine di volontari trevigiani e ferraresi spendono le loro vacanze occupandosi di impiantistica, generatori elettrici, pannelli fotovoltaici, macchinari elettromedicali e quant’altro.
Non mancano (è ovvio!) né imprevisti e ritardi legati alla situazione locale, né le incomprensioni tra persone che stanno imparando a conoscersi strada facendo; ma, a eccezione di un residuo contenzioso con Agrikenya, l’entusiasmo, la fantasia e la consapevolezza dei bisogni che attendono una soluzione consentono di superare ogni ostacolo.
Il primo ottobre 2003, l’ospedale entra in attività e, nella sua gestione, viene coinvolta la congregazione delle Orsoline, che manda a Matiri tre suore indiane con competenze infermieristiche e amministrative. In un’area dove solo lo 0,5% della popolazione dispone di una stabile occupazione, l’ospedale significa anche una sessantina di nuovi posti di lavoro tra infermieri, assistenti sanitari, inservienti e addetti alla cucina.
Grande è la gioia per questo risultato, anche se velata dalla scomparsa di padre Livio Tessari, spentosi a Torino appena tre mesi prima.
Questo primo stralcio funzionale si sviluppa su circa 2.000 mq di superficie e dispone di due sale operatorie, sala parto, 50 posti letto di degenza, radiologia, ecografia, laboratorio analisi, ambulatori e locali di servizio. È la prima struttura del Tharaka a essere realizzata con copertura in tegole e tetto autoventilante, il che garantisce una buona temperatura intea. Ad essa si affiancano una casa per le suore e una per i volontari; sono state gettate le fondamenta per un terzo alloggio, destinato ai medici residenti.
L’assistenza medica e chirurgica è affidata a Giorgio Giaccaglia e all’infettivologa Marina Tadolini, ai quali si affiancano medici e paramedici emiliani e campani (si spera a breve anche veneti), anche se a regime l’ospedale dovrà necessariamente assumere personale medico locale. L’impegno di spesa ha già superato i 600 mila euro (senza contare l’apporto personale dei volontari) e almeno altri 200 mila di attrezzature e opere sono stati foiti dal Consorzio acquedotto del Po per l’approvvigionamento idrico.
Le previsioni per le spese di gestione sono di 250/300 mila euro all’anno, che sicuramente non possono essere reperiti sul posto e continueranno a lungo a impegnare le associazioni che ne hanno promosso la costruzione; mentre le aspettative che la popolazione riversa sulla struttura richiederebbero, già oggi, l’avvio di un primo ampliamento.
Il 31 gennaio 2004, il vescovo di Meru ha benedetto il nuovo ospedale dedicandolo a sant’Orsola, con una cerimonia nella quale padre Orazio Mazzucchi e Giorgio Giaccaglia hanno dato un emozionato benvenuto al superiore generale della Consolata, padre Pietro Trabucco, al superiore regionale padre Luigi Brambilla, autorità locali, volontari di Ferrara (accompagnati dall’assessore Alessandra Chiappini), di Montebelluna, Caserta, Barzanò, Fano e altre realtà che gravitano attorno alla missione. Il rappresentante del governo kenyano, che ha partecipato alla cerimonia, si è sbilanciato: ha promesso l’arrivo di una linea elettrica. Staremo a vedere.
A 80 anni suonati, è presente anche Mario Olivato che, nel frattempo, lasciata in buone mani la crescita della «sua» mateità, ha trovato tempo, energie e risorse per occuparsi di bambini orfani o abbandonati, affidati alle cure di Rita. Grazie a Mario, oggi Matiri può ospitarli in una nuova casa. La benedizione ai 65 degenti e le loro patologie, che spaziano dal morso del coccodrillo alle grandi ustioni, alla gravidanza complicata da malaria acuta, danno l’idea dei bisogni che affliggono la popolazione, mentre l’attaccamento alla vita di una piccola creatura, salvata il giorno prima con un cesareo dall’équipe di Giorgio, rafforza in tutti l’entusiasmo e la determinazione per continuare a lavorare.

La festa ha rischiato di trasformarsi in tragedia: sulla via del ritorno a Nairobi, alcuni partecipanti all’inaugurazione, tra cui l’assessore Chiappini e Antonia Giaccaglia, sono stati coinvolti in un incidente, riportando varie fratture. Ricoverati al Nairobi Hospital, hanno avuto la conferma che dalla sanità privata puoi trovare aiuto solo se disponi di adeguata carta di credito.
A Matiri invece, come ha ricordato nel suo saluto il vice presidente Avi, Francesco Tartini, l’ospedale di sant’Orsola si ispira al principio che la salute non è né un’opera di carità, né un bene di consumo; ma un diritto umano fondamentale.

Francesco Tartini




TANZANIAPiccole oasi di speranza

Tra i tanti bisogni di una società in crescita,
il mondo della scuola non può essere dimenticato.
Soprattutto quando povertà e limiti impediscono di dare
a tutti la speranza
di un futuro. Per questo i missionari, rimboccandosi
le maniche, si sono dati da fare e…

Attraversando i villaggi del Tanzania, si resta colpiti dall’assenza di uomini, spesso partiti per Dar es Salaam o un’altra città in cerca di lavoro. Le donne ereditano tutti i compiti: curare i numerosi bambini (5 o 6 per famiglia), coltivare i campi, macinare farina per la polenta quotidiana, risolvere mille altri problemi…
Poiché la maggior parte dei genitori sono poco inclinati all’istruzione, sovente i bambini non vengono mandati a scuola. E quando il missionario insiste, tutte le scuse sono buone: è ancora piccolo, la scuola è troppo lontana, deve custodire gli animali, è indispensabile per andare ad attingere l’acqua…
Quale sarà il futuro di questi ragazzi? Li si vede sulla strada, ancora piccoli. Pascolano qualche bestia, trasportano legna da ardere, bidoni di acqua sulla testa per chilometri a piedi nudi, ai bordi di strade pericolose. Perdono così l’opportunità di istruirsi e… giocare.
Dove sono andati a finire i diritti dei minori? Milioni di loro vivono di queste situazioni o anche peggio! Molti, in Tanzania, hanno perso i genitori per l’Aids (il più grande flagello attuale del paese). Alcuni sono affidati ai nonni; altri abbandonati a se stessi. Quanti si troveranno ad affrontare la società e il futuro senza istruzione né un mestiere?
Piuttosto che sacrificare l’avvenire, coltivando un piccolo campo per assicurare la sopravvivenza dei famigliari, o occuparsi del bestiame, molti cercheranno un lavoro in città. Arrivano a centinaia, ogni giorno, nella capitale. Ma non trovano niente: hanno fame, rubano, si nascondono dai poliziotti, spesso vengono messi in prigione e maltrattati. Alcuni si drogano, altri si prostituiscono, l’Aids è sempre in agguato… e quelli che ne vengono colpiti ritornano a casa per morirvi.
Di fronte a questa dura realtà, con i problemi che ne derivano, i missionari della Consolata non sono rimasti con le mani in mano, ma hanno cercato di creare alcune «oasi di speranza».
«consolazione»
a largo respiro
A Tosamaganga, dove i missionari della Consolata arrivarono nel 1919, padre Luis Zubía ha realizzato, con la collaborazione delle suore di Santa Teresa del Bambino Gesù e personale laico locale, un’opera magnifica per gli orfani. I più piccoli, che hanno tra i 10 mesi e i 2 anni, occupano il nido; quelli di 2-3 anni sono collocati in un’altra sala, ma ve ne sono altri ancora più grandi.
È commovente vedere con quale tenerezza, attenzione e amore sono trattati: una compensazione per ciò che non riceveranno mai dai loro genitori. Padre Luis non lascia passare un giorno senza venire a portare un po’ di affetto a ciascuno dei suoi piccoli protetti.
A Mgongo, ultima missione fondata nel 1997, i padri Franco Sordella e Giulio Belotti, con fratel Mutisya Kyalo, Teresa e Paolo (una coppia di laici missionari portoghesi) hanno creato la Faraja House (casa della consolazione). Suo scopo è accogliere i bambini di strada e offrire loro una vita migliore, partendo dalle cose più semplici: accogliendoli con amore, lavandoli, nutrendoli, vestendoli ed educandoli nel miglior modo possibile.
Il compito è talvolta arduo, poiché questi ragazzi sono vissuti a lungo senza regole ai margini della società. Devono imparare a stare insieme, rispettarsi, svolgere incarichi e sviluppare il senso di responsabilità. Ognuno deve lavarsi i propri vestiti, partecipare alla pulizia della casa, lavorare nei campi o nell’allevamento del bestiame (10 vacche, 200 pecore, 65 maiali…). Tutto ciò, sotto la direzione di personale adulto.
L’istruzione occupa un posto importante. Tra i 75 ragazzi (tra 7 e 18 anni), 10 frequentano le superiori, 7 imparano un mestiere alla scuola tecnica, mentre gli altri vanno alla scuola elementare di Mgongo, costruita dai missionari della Consolata, ma gestita dall’amministrazione del villaggio.
Lo sport, soprattutto calcio e karaté, è compreso tra i mezzi di formazione: molti ragazzi, infatti, troppo occupati a sopravvivere, non hanno nemmeno avuto il tempo di giocare, di essere bambini…
Ricerche vengono fatte sulla loro provenienza, ambiente famigliare, natura dei loro problemi e, quando è possibile, sono reinseriti in famiglia, al termine delle scuole elementari. Scopo ultimo è di dare loro un mestiere che li possa rendere autosufficienti e permetta di vivere felici come adulti responsabili.
Certo, la perfezione non è di questo mondo: succede che qualcuno non riesca ad adattarsi e torna sulla strada, anche se il prezzo della libertà è molto caro. Tuttavia, la maggioranza diventa capace di vivere in società, lavorare e prendere in mano la propria vita, con una grande speranza di felicità.
Sempre nella diocesi di Iringa, alla missione di Madege, aperta dai missionari della Consolata nel 1996, i padri Dieudonné Ambinikosi e George Gichuki, coscienti del problema di adattamento di tanti ragazzi dei villaggi che i genitori non mandano a scuola, hanno inventato una specie di comunità per accogliere quelli dai 5 agli 8 anni, preparandoli a integrarsi nella scuola pubblica. Senza questo tipo di aiuto, molti non frequenterebbero mai la scuola e altrettanti l’abbandonerebbero prima di finire le elementari.
La collocazione di questa comunità è facilmente accessibile, per evitare ai piccoli alunni di dover camminare parecchi chilometri nell’andata e ritorno. Tutto viene messo in opera per venire incontro ai piccoli alunni di Madege e villaggi vicini.
La «stella del mattino»
Kasanga e Mindu sono due villaggi nella diocesi di Morogoro, dove padre Thomas Ishengoma, direttore dell’Allamano Seminary, si reca regolarmente con i seminaristi, per aiutare i bambini poveri o i cui genitori sono colpiti dall’Aids. Attualmente, in tale ambiente, l’80% dei ragazzi non va a scuola e l’istruzione non è percepita come priorità.
Semillero ya Consolata è il nome del progetto educativo che si è proposto padre Thomas. Si trova in un centro posto a Kasanga; l’obiettivo è favorire tutto ciò che può assicurare ai ragazzi una migliore integrazione umana e sociale, attraverso attività sportive o esercizi centrati sulla creatività, che aiutano la scoperta dei veri valori. Si aggiunge l’appoggio intenso per chi sta vivendo momenti di instabilità, dovuti spesso alla morte dei genitori o a gravi problemi economici. È un’assistenza personalizzata, che permette a ognuno di scoprire la propria dimensione umana e spirituale, potenzialità e possibili orizzonti futuri.
Sfortunatamente, tra coloro che riusciranno a terminare la scuola elementare, solo il 25% avrà accesso alle scuole superiori. Le distanze da percorrere sono ancora più grandi, ma questo non è l’unico problema: i costi sono troppo elevati per tanti poveri che, sovente, riescono con fatica a sopravvivere.
A Ilamba ci sono due istituzioni per favorire la frequenza all’istruzione superiore: scuola dei genitori e centro educativo Nyota ya asubuhi (stella del mattino), evocazione di quella stella che ogni giorno porta qualcosa di bello e nuovo.
La scuola dei genitori di Ilamba è stata costruita grazie alla generosità di benefattori spagnoli, «stimolati» da padre Salvador Del Molino, che ha permesso l’acquisto di un generatore, equipaggiamento da cucina e un trattore. Gli alunni che frequentano la scuola pagano le spese di iscrizione e dei pasti. Così, l’accesso alla scuola superiore è offerto a un più grande numero di ragazzi.
Nonostante questo progetto finanziato dai genitori, molti ragazzi di 15-16 anni non possono accedervi. Che fare? Cercare lavoro a Dar es Salaam, Makambako o Dodoma? Non è facile senza competenze professionali. Rimanere al villaggio, dove li attende il lavoro della campagna o l’allevamento del bestiame?
Tali attività rurali di semplice sopravvivenza hanno poche attrattive. Alcuni sceglieranno di restare in città, preferendo la sua miseria a quella del villaggio: piuttosto la fame che la schiavitù della terra o degli animali, sempre in balia delle bizzarrie del clima.
Come aiutare tutti questi ragazzi? Per loro è diretta la «Stella del mattino»: è un centro di formazione umana, morale, accademica (di livello superiore) e professionale, diretto da due suore della Consolata.
All’inizio del progetto, quattro anni fa, suor Cecilia Maingi, fondatrice del centro, aveva soltanto una piccola capanna in terra battuta e tetto di paglia; ma, pure con pochi mezzi, il fuoco della missione la bruciava. In poco tempo è riuscita a trovare risorse e manodopera per costruire aule, dormitori e laboratori, dove viene impartita la formazione a livello superiore e vengono insegnati vari mestieri a un gruppo di 120 studenti, che saranno sarti, cuochi, falegnami, muratori…
Alla fine dei corsi, i giovani affronteranno gli esami del Veta (Vocational Education Training Association) per ottenere il certificato di abilitazione professionale.
Suor Maria Artura, che da due anni si dedica a questi ragazzi, ci ha confidato che il Signore ha fatto miracoli per il centro, poiché alcuni benefattori italiani hanno accettato di installarvi acqua corrente ed elettricità, hanno donato un camion, indispensabile in questi luoghi così lontani dalla città, dove le strade sono impraticabili.
La scuola professionale ha una certa somiglianza con quella tecnica di Mgongo; è anche approvata dal Veta, che riconosce cinque specializzazioni: falegnameria, meccanica, calzoleria, segreteria e informatica.
Alla fine dei tre anni di studio, i giovani lasciano la scuola con un diploma riconosciuto dal governo e una cassetta di attrezzi per iniziare un’attività in proprio.

Ecco, dunque, alcune delle opere missionarie che lo Spirito Santo ha ispirato a padri, fratelli, suore e laici della Consolata per venire incontro ai più poveri. Proprio come aveva insegnato e sognato il beato Giuseppe Allamano: piccole oasi destinate ai ragazzi del Tanzania, perché trovino in esse la speranza di una vita migliore.

Ghislaine Chrete




IL MONDO VISTO DA GIU’I telefonini in Africa

Il telefonino conquista l’Africa

Dalla metà degli anni ’90, anche nei paesi più poveri dell’Africa arriva il telefono cellulare. Il boom si ha a fine decennio, con il Gsm e schede prepagate. In paesi dove le linee fisse sono poche, a causa delle grandi distanze o mancanza di infrastrutture, il telefonino risolve non pochi problemi di comunicazione.
Nelle città africane spuntano ovunque rivenditori di apparecchi e accessori, pubblicità culturalmente «integrate», come l’offerta ramadan o tabaski (vendite promozionali durante le maggiori feste islamiche, oltre che cristiane, e civili, come san Valentino) e dappertutto persone con il minuscolo apparecchio che squilla o appeso al collo.
Anche nelle zone rurali che hanno la fortuna di essere «illuminate» dalle onde elettromagnetiche, qualcuno riesce a permettersi l’aspirato gingillo. Così capita che il contadino burkinabé oltre all’inseparabile dabà (zappa), mostri il suo Nokia di seconda mano, acquistato al mercato della città più vicina.
Il telefonino è subito uno status symbol; ma diventa presto una soluzione tecnicamente vantaggiosa, spesso molto utile, secondo alcuni, oggi, «imprescindibile». L’impatto sulla vita della gente, però, non sempre è positivo e alcuni usi culturali, come i lunghi saluti prima di iniziare ogni discorso, si riducono drasticamente a causa dei costi.

L a gente non sembra vedere troppo i lati negativi. Abbiamo ascoltato alcuni cittadini del Burkina Faso, dove sono presenti tre operatori: uno statale e due privati. Il signor Sanou, insegnante, afferma che il telefonino «permette a noi funzionari di trattare questioni amministrative ed entrare in contatto con i colleghi per avere delle informazioni in modo molto rapido», il che sembrerebbe molto importante per il suo mestiere. Boukary, pompista in una stazione di benzina, vede un’utilità economica: «Mi permette di spostarmi di meno. Basta una chiamata per annullare o confermare un appuntamento, così non spreco la benzina del motorino».
Tutti ritengono un vantaggio il fatto di essere ovunque raggiungibili, ma occorre essere in una zona coperta. Spesso tali coperture, in Africa, sono limitate alle città principali, loro dintorni e alcuni assi stradali del paese.
«Con il fisso però – dice Etienne, tecnico di una radio – spesso si perdono le comunicazioni perché, sei fuori ufficio, chi risponde al tuo posto non ti trasmette il messaggio». Di fatto, il telefono fisso non è molto diffuso nelle case burkinabé, neanche nella capitale, ma è piuttosto un oggetto da ufficio.
Etienne mette in luce un altro aspetto, più sociale e curioso: «Molti si dicono uomini d’affari e sostengono di usare il cellulare per questioni di lavoro. Capita, invece, che si usi per questioni più losche. Ad esempio, alcuni non sono d’accordo che una donna abbia il cellulare perché pensano che in questo modo possa dare il suo numero a uomini che poi la infastidiscono… Per questo ci sono uomini e donne che non rispondono a chiamate in presenza del proprio consorte. Vi lascio immaginare perché».
«È uno strumento molto utile – ribadisce Urbain Ouedraogo, direttore di banca -. Sul piano sociale mi permette di essere in comunicazione con i miei cari, la famiglia, gli amici: la comunicazione è molto importante nella vita di un uomo. Non c’è nulla di più pericoloso di quando ti trovi isolato e lontano dai tuoi».
E sul piano economico? «Naturalmente il cellulare è caro, soprattutto se consideriamo il potere d’acquisto di un burkinabé medio. Ma è anche vero che ti permette di risparmiare su certi spostamenti e anche i rischi connessi. A volte siamo in centro città, stressati, abbiamo fretta e dobbiamo fare molte cose in poco tempo. Con il telefono mobile riusciamo a risolvere molti problemi senza rischi e magari risparmiando».

E ppure mantenere un cellulare è caro, soprattutto per un giovane. L’acquisto è abbordabile, le promozioni sono fatte per questo: con 50 mila franchi cfa (75 euro) si ha l’apparecchio; l’abbonamento è di 5 mila franchi. Ma uno stipendio medio alto in Burkina Faso è di circa 100 mila franchi al mese.
Per evitare problemi con clienti insolventi, qui si utilizza unicamente il metodo della scheda prepagata da 5 mila cfa, che ha però la scadenza di un mese. Per risparmiare, ci si fa chiamare sul cellulare dai telefoni fissi delle cabine pubbliche o da quelli degli uffici, che alla fine del mese si vedono arrivare bollette gonfiate.
«Mantenere il telefonino costa dai 60 ai 100 mila franchi all’anno – calcola Constantin Dabire, impiegato -, una spesa insostenibile per uno studente».
Constantin s’interroga anche sugli effetti per la salute: «Sembra che possa avere effetti perversi, come il cancro, e ogni tanto alla televisione cercano di spiegare questi inconvenienti».
Un altro fatto che lo disturba è l’uso incontrollato: «La gente abusa del telefono: nelle riunioni ce n’è sempre qualcuno che suona. Saper spegnere il proprio cellulare penso sia una questione di rispetto e di convivenza».

I l telefonino ha portato nuovi mestieri: i venditori di schede telefoniche affollano ogni incrocio delle città; molti si lanciano nella vendita di accessori (batterie usa e getta, auricolari, gusci colorati e apparecchi), come ambulanti o in piccoli chioschi ai bordi delle strade. Altri mestieri (tassista, elettricista, commercianti dell’economia informale) sono diventati più dinamici.
Molti dicono che il cellulare in Africa sta creando una «rivoluzione silenziosa»; sarà anche motore di sviluppo?
Jean Victor Ouedraogo
e Marco Bello

Marco Bello e Jean Victor Ouodreago




I grandi missionari:Rosa Filippina Duchesne

A otto anni sognava di convertire gli Indiani d’America. Vi arrivò che di anni ne aveva 71. Nel frattempo ha vissuto una vita con tenacia, tra innumerevoli
contrattempi, sempre a servizio dei più poveri: è santa Rosa Filippina
Duchesne (1769-1852), beatificata da Pio XII nel 1940, canonizzata da
Giovanni Paolo II nel 1988.
Mescolando al francese nomi di
villaggi indiani: Kaskasia, Michigamea, Cahokia… padre Gian Battista
Aubert raccontava le peripezie apostoliche personali e dei confratelli
gesuiti in Luisiana. Più che da quei suoni strani, Filippina era
affascinata dalla vita missionaria: a 8 anni sognava di evangelizzare
gli indigeni d’America. Passarono più di 60 anni prima che quel sogno, coltivato con tenacia, si avverasse.

<b<a 8="" anni="" sognava="" di="" convertire="" gli="" indiani="" d’america.="" vi="" arrivò="" che="" ne="" aveva="" 71.=""
CHE CARATTERINO!
Penultima di sei figli, Filippina Duchesne era nata il 29 agosto 1769 a Grenoble, ai piedi delle Alpi francesi. Suo padre, Pier Francesco, avvocato, uomo d’affari e prominente leader cittadino, era imbevuto di idee di Voltaire: aveva abbandonato ogni pratica religiosa, ma rispettava preti e religione. La madre, invece, Rosa Périer, era una tutta casa e chiesa.
Il nome «Duchesne» era sinonimo di carattere tenace. Filippina non faceva eccezione: colpita dal vaiolo, per farle trangugiare le medicine, madre e dottore dovevano aprirle la bocca, prendendola per il naso e per il mento. La malattia le lasciò sul volto qualche segno, ma nessun complesso; anzi, contribuì a sviluppare in lei un carattere virile. Sdegnava le bambole e giocava con i cugini Périer. Le piaceva leggere la storia di Roma, finché passò alle gesta dei martiri gesuiti in Nord America.
Al tempo stesso Filippina sviluppò un profondo senso di altruismo: aiutava poveri e malati, privandosi del denaro che i genitori le davano per scapricciarsi. A 12 anni Filippina fu affidata alle suore della Visitazione di Santa Maria dall’Alto, che gestivano un collegio.
Era confessore straordinario del convento quel padre Aubert che l’aveva fatta trasalire con i suoi racconti di vita missionaria. Dai colloqui con il gesuita nacque il desiderio di abbracciare la vita religiosa, per poi partire in cerca di indiani.
Quando il padre ne ebbe sentore, la riportò a casa. Filippina obbedì docilmente, aspettando tempi migliori. Per non dare nell’occhio, accettò di prendere lezioni di danza; ma s’intrufolava anche tra i cugini durante la scuola di latino, per conoscere meglio le scritture.
A diciassette anni i genitori gli trovarono un buon partito: Filippina dovette scoprire le carte e tirare fuori il suo carattere: disse chiaro e tondo che voleva farsi monaca. I genitori non insistettero, sperando nel fattore tempo. Invece, la signorina cominciò a evitare feste e incontri mondani, a rifiutare vestiti appariscenti e intensificare le pratiche religiose, finché non ne poté più.
Un giorno, nel 1787, si fece accompagnare dalla zia Périer al convento della Visitazione per parlare con la superiora; entrò nel monastero e vi restò, rimandando a casa la zia per avvisare i genitori del fatto compiuto.
Terminato il noviziato, il padre le proibì di pronunciare i voti religiosi prima di compiere 25 anni. Era preoccupato per il futuro della figlia. Egli stesso aveva appoggiato la protesta dei concittadini di Grenoble contro alcune leggi della monarchia (1788): protesta repressa nel sangue e preludio della rivoluzione francese (1789).

IN BARBA ALLA RIVOLUZIONE
Il ciclone rivoluzionario si abbatté sulla chiesa come una mannaia, abolendo il culto cattolico, imprigionando preti, abolendo le congregazioni religiose e confiscando i beni della chiesa. Il monastero di Santa Maria fu chiuso e Filippina fu costretta a rientrare in famiglia.
Depose l’abito monacale, ma non il ritmo di preghiera e meditazione. Al tempo stesso si immerse in una miriade di iniziative a favore dei poveri e perseguitati, preti soprattutto, costretti a darsi alla macchia per non giurare fedeltà alla rivoluzione.
Uno di essi si era fatto assumere dal padre come costruttore di mulini. Filippina fu entusiasta quando il prete le rivelò la sua identità. «È il Signore che ce lo manda» disse alla madre; poi convinse il padre a nasconderlo in casa. Di giorno il prete sovrintendeva le costruzioni, di notte celebrava la messa.
Poi, per essere più libera di servire i poveri e affamati, istruire una ventina di ragazzi di strada, Filippina lasciò la casa patea e andò a vivere in affitto con un’altra ex visitandina. Quando scoppiò il tifo, essa si dedicò totalmente all’assistenza dei malati e moribondi, procurando loro il conforto religioso, portando al loro capezzale i sacerdoti, dei quali solo lei conosceva il nascondiglio.
Con un gruppo di signore coraggiose, Filippina fondò l’associazione delle «Dame della misericordia», con lo scopo di visitare e portare soccorsi materiali e spirituali ai preti incarcerati e in attesa di salire sulla ghigliottina. Avrebbe voluto condividere il loro martirio, ma uno di essi le disse che c’erano tanti modi di dare la vita. Lei la spendeva sfidando le leggi della rivoluzione.
Ma un martirio lo viveva nel cuore ormai da 12 anni. «La mia croce si chiama attendere» disse un giorno, alludendo alla vita religiosa.

FINE DEL «NOVIZIATO»
Correva l’anno 1801. I furori rivoluzionari erano sbolliti sotto i tacchi di Napoleone. Filippina mosse mezzo mondo per avere il monastero di Santa Maria, ormai malandato e pericolante. Per tutti si trattava di un colpo di testa «alla Duchesne». Ma alla fine dell’anno la «novizia» era di nuovo nel convento; cercò le ex suore visitandine per ricostruire la comunità; si rimboccò le maniche e cominciò il restauro, improvvisandosi impresaria e manovale.
Le ex suore resistettero pochi mesi e Filippina restò sola e sconsolata. Ma all’inizio del 1803 si unirono a lei tre ragazze: si diedero una regola, chiamandosi «Figlie della propagazione della fede», e aprirono un educandato. Ma Filippina sognava più in grande. Un gesuita le suggerì di unirsi alla Società del Sacro Cuore, appena fondata da una donna carismatica, Maddalena Sofia Barat.
La giovane fondatrice (aveva appena 25 anni) arrivò a Santa Maria alla fine del 1804: tra le due donne sbocciò subito una devota amicizia, che durò per quasi 50 anni, nonostante la distanza di età.
Filippina mise tutto nelle mani di madre Barat: se stessa e le amiche, monastero e scuola. Cominciò il noviziato secondo le regole della Società del Sacro Cuore e, l’anno seguente, a 35 anni, emise la professione religiosa: finiva il suo lungo noviziato.

ATTENDERE E PAZIENTARE
Con la professione religiosa si fece più viva in Filippina la chiamata alla missione. In una lettera del 1806, confidava alla Barat l’esperienza spirituale vissuta il giovedì santo, per 12 ore in ginocchio davanti all’eucaristia: «Tutta la notte sono stata nel Nuovo Continente… portavo in ogni luogo il mio tesoro (l’eucaristia). Avevo anche molto da fare con tutti i miei sacrifici da offrire: madre, sorelle, parenti, una infinità. Mi trovavo sola con Gesù solo, o con dei fanciulli neri, e mi reputavo più beata nella mia piccola corte che in tutti i potentati del mondo. Quando mi direte “ecco, ti mando”, vi risponderò subito: “Parto!”».
Pur incoraggiando tale desiderio, madre Barat tenne Filippina in Francia per altri 12 anni, convinta che i suoi talenti fossero più necessari alla giovane congregazione in espansione.
Di fronte a quel carattere ostinato e impetuoso, bisognoso di essere rettamente indirizzato più che soffocato, la fondatrice non lesinava energici consigli per aiutarla a crescere in pazienza e dolcezza. Ma ne ammirava le doti, specialmente la profonda vita di preghiera, tanto da fae il suo braccio destro. Filippina diventò la prima segretaria generale dell’ordine; nel 1815 fu incaricata di aprire una nuova casa a Parigi.
Nel 1817, al convento parigino si presentò mons. Louis Dubourg, vescovo della Luisiana, in giro per l’Europa a rastrellare preti e religiose da portare nel suo immenso territorio di missione. Dopo frequenti colloqui, madre Barat non si sentiva di mandare le sue figlie in un’avventura tanto esigente e rischiosa. Cercava un segno dal cielo. Stava congedando il vescovo, quando Filippina si gettò ai suoi piedi, implorando: «Madre mia, il vostro consenso, per pietà!».
«Ebbene, mia cara Filippina, acconsento e corro a trovarvi le compagne» disse la madre, leggendo in quella supplica la volontà di Dio.
La data di partenza fu fissata per la primavera del 1818. Filippina aveva 49 anni; si sentiva in paradiso, se non fosse che madre Barat l’aveva nominata superiora delle quattro suore che con lei presero il largo.

LA TERRA PROMESSA
Il 19 marzo 1818, festa di san Giuseppe e giovedì santo (a 12 anni dalla famosa visione), Filippina e consorelle salirono a bordo della Rebecca, che due giorni dopo salpò dal porto di Bordeaux.
La traversata dell’Atlantico, durata più di 10 settimane, fu uno strazio. Il mare era frequentemente in tempesta; per cinque volte la nave attraversò la linea dei tropici in balia dei venti; i passeggeri tiravano a sorte chi fosse a portare scalogna; il capitano era di pessimo umore: gli avevano profetato che la presenza di monache e preti avrebbe attirato un sacco di sventure.
In balia del mal di mare e dei furori dell’oceano, le povere suore si facevano coraggio come potevano, cantando l’Ave maris Stella. E funzionava, tanto che il capitano disse loro: «Signore, cantateci quella bella canzone della sera, che fa tornare il buon vento».
Dopo 70 giorni di navigazione, la Rebecca attraccò al porto di Nuova Orléans: era il 29 maggio festa del Sacro Cuore. Le cinque suore si sentivano arrivate nella terra promessa; ma dovettero affrontare altri 42 giorni esasperanti di navigazione lungo il Mississippi, su un primitivo battello a vapore a ruote, con passeggeri alquanto rozzi, finché raggiunsero St. Louis, sede del vescovo Dubourg.
Monsignore le accolse cordialmente e espose i suoi progetti: stabilire scuole per i figli dei coloni a St. Charles e Florissant. Filippina ne fu delusa, si aspettava di lavorare tra i «selvaggi». «Non si rammarichi – le disse il vescovo -: le bambine di St. Charles sono tutte selvaggette».
A St. Charles, villaggio di 500 famiglie a 50 km da St. Louis, le suore furono sistemate in un capannone in legno, con uno stanzone al centro e sei stanzette ai lati. L’8 settembre il vescovo benedisse ufficialmente la fondazione della Società del Sacro Cuore in America; il 14 fu aperta la scuola: 22 «selvaggette» affollarono lo stanzone del «convento», che serviva anche da dormitorio e refettorio per 8 ragazze accolte come educande.

TEMPI EROICI
Senza la minima risorsa, il vescovo più povero di loro, le suore fecero l’impossibile per sopravvivere. «Facciamo nuovi mestieri – scriveva Filippina a madre Barat -: zappiamo la terra, mungiamo le vacche e le meniamo a bere, ripuliamo la stalla, trasportiamo il concime; spacchiamo la legna e cuociamo il pane». L’acqua era attinta da un brav’uomo nel melmoso Missouri e venduta a secchi a caro prezzo.
L’inverno era impietoso: i vestiti, stesi vicino alla stufa ad asciugare, diventavano ghiaccioli; le dita gonfie di geloni, eccetto quelle di Filippina: le sue mani erano già scarne e callose per i lavori fatti a Santa Maria. «Questa vita non mi dispiace… e mi adatterò con piacere agli umilissimi uffici della casa» scriveva ancora Filippina, che come sempre, riservava a sé i lavori più umili e faticosi.
Nonostante le ristrettezze, la scuola continuava e portava i primi frutti: 11 ragazze fecero la prima comunione. Anche tra gli abitanti di St. Charles, più avidi di whisky che di sermoni, le suore suscitavano ammirazione e ripensamenti.
Ma St. Charles era troppo fuori mano, difficile da raggiungere nei mesi piovosi. Il vescovo propose di migrare a Florissant, pochi chilometri da St. Charles. All’inizio di settembre del 1819 le suore fecero i bagagli e, insieme a polli, vacche e due educande, ripassarono il Missouri e raggiunsero la nuova casa. Si fa per dire: era un’angusta baracca di legno, tra le cui assi il vento spifferava a piacimento.
Quattro mesi dopo era pronto un convento a due piani e in muratura. Vi entrarono la vigilia di natale, sotto una bufera di neve. L’anno seguente le collegiali erano una ventina. Per sopravvivere, le suore continuavano a zappare l’orto, mungere vacche e allevare polli.

NUOVE FRONTIERE
Florissant cresceva a vista d’occhio. Dalla Francia arrivarono altre suore; varie educande chiesero di abbracciare la vita religiosa: Filippina aprì il noviziato, nonostante che il vescovo frenasse. Nel 1822 le prime due suore nate in America emettevano la professione religiosa nella Società del Sacro Cuore.
A 12 anni dall’arrivo, la Società conta 64 suore: 14 venute dalla Francia; 50 nate in America. Sotto la guida di Filippina furono aperte altri 5 conventi e relative scuole: Grand Coteau (1821) e St. Michael (1825) nella bassa Luisiana; a St. Louis e a Bayou-la-Fourche (1828) vicino a New Orléans; fu pure riaperto St. Charles (1828).
Benché fossero scuole di frontiera, offrivano un impressionante curricolo accademico e solide basi per la fede cristiana. I collegi per le ragazze più ricche servivano a sviluppare orfanotrofi e scuole gratuite per i più poveri.
Sotto la guida di madre Duchesne, la congregazione del Sacro Cuore aveva preso chiaramente radici sul suolo americano. Tutti l’ammiravano per lo zelo, l’instancabilità nel lavoro e la profonda vita di preghiera. Eppure, accecata dall’umiltà, Filippina aveva poco senso del successo dei suoi sforzi; anzi, si incolpava di ogni contrattempo, si considerava un fallimento, specialmente come superiora, incapace di dirigere le anime e scriveva a madre Barat di essere sollevata dall’ufficio.
«Gli inglesi non mi capiscono e i creoli tengono molto a certe maniere esteriori: è meglio che io mi limiti a fare scuola o l’infermiera», scriveva nel 1831 alla Barat, dando le dimissioni da superiora. I primi avevano da ridire perché Filippina masticava male l’inglese; gli altri si lamentavano che le loro figlie non erano preparate per la vita mondana. Arrivarono pure le calunnie: «Tutto è stato detto contro di noi, eccetto che avveleniamo le nostre bambine», si sfogava Filippina.
Di fronte a tali insistenze, madre Barat tergiversava, dicendo in cuor suo che l’inettitudine dei santi era più feconda della sapienza e abilità degli altri. Ma era preoccupata. Stava per accettare le dimissioni, ma prima volle sentire il parere del vescovo, il quale rispose perentorio che madre Duchesne doveva continuare nel suo incarico.
E per altri 10 anni Filippina continuò, per fede e obbedienza, a sobbarcarsi a viaggi estenuanti, nonostante gli acciacchi dell’età, per visitare le varie opere e sostenere le sue figlie nell’impegno missionario, alcune delle quali venivano falciate da stenti e malattie.
Nel 1840 arrivò a Florissant madre Galitzin, come visitatrice delle missioni in America. Filippina le chiese in ginocchio di esonerarla dall’ufficio e fu bruscamente esaudita e invitata a ritirarsi a St. Charles.

SPOSE DEL GRANDE SPIRITO
Nei 22 anni di presenza in America, Filippina non aveva mai abbandonato il sogno di lavorare tra gli indiani. Per quelli ancora presenti attorno a Florissant aveva aperto una scuola nel 1825, ma durò poco. Anch’essi furono costretti a migrare spinti in lontane riserve.
Nel 1841 il gesuita Pierre Jean De Smet chiese alle suore di avviare una scuola tra i potawatomi, un gruppo in gran parte convertito alla fede cattolica. Filippina sentì che era arrivato il suo momento e scrisse alla madre Barat: «Ho avuto, una dopo l’altra, tre malattie gravi in America e credevo di essere già nell’altro mondo… Ora mi pare di comprendere il mistero di questa specie di risurrezione… Dio mi ha mantenuta solo per questo».
Madre Barat scrisse a madre Galitzin perché includesse Filippina nella nuova avventura missionaria: «Ricordati che, partendo per l’America, la buona madre Duchesne aveva solo questo lavoro in vista. Era per amore degli indiani che si sentì ispirata a stabilire l’ordine in America. Credo che ciò entri nei disegni di Dio e che dovremmo approfittae dell’opportunità offertaci».
Per le consorelle era una pazzia: aveva 71 anni, la sua salute deperiva. Ma Pierre Jean Verhaegen, un altro gesuita, insistette: «Verrà con noi, anche se dovessimo portarla a spalla per tutto il viaggio. Non potrà fare molto lavoro, ma assicurerà il successo alla missione pregando per noi».
Dopo una settimana di navigazione lungo il Missouri e un giorno di carovana nella prateria, Filippina e tre compagne arrivarono a Sugar Creek (Kansas), la riserva dei potawatomi: 500 guerrieri pellirossa, su cavalli bianchi, con i vestiti di gala, diedero il benvenuto alla «spose del Grande Spirito».
Gli inizi della fondazione furono più duri di quanto si credesse: per abitazione una misera capanna, per cibo erbaggi e latticini. Ma Filippina si sentiva ringiovanire e sognava di convertire tutti i pellirossa che abitavano l’immensa prateria, fino alle Montagne Rocciose. Ma doveva fare i conti con l’età e con la lingua. «È difficile e barbara – scriveva -; ha parole interminabili, fino a 8-10 sillabe; non c’è dizionario, né grammatica. Non potrò mai impararla».
Non potendo insegnare, si prodigava nel visitare gli ammalati e portare conforto ai moribondi. Soprattutto faceva ciò che le riusciva meglio: pregare. Passava lunghe ore in ginocchio davanti al tabeacolo nella cappella di tronchi. Molti indiani venivano a guardarla; si avvicinavano senza far rumore, s’inginocchiavano e baciavano l’orlo del suo abito consunto o le frange dello scialle.
Uomini e donne le chiedevano di pregare per loro e la soprannominarono Quah-kah-ka-num-ad, donna che prega sempre.
Come padre Verhaegen aveva predetto, grazie su grazie piovevano sulla missione. Scriveva una delle suore: «Tutti riconoscono che un gran numero di battesimi sono frutto della sua preghiera. Quasi ogni domenica tre o quattro famiglie vengono battezzate e madre Duchesne scrive i loro nomi nel registro».

IL GRANDE SACRIFICIO
La gioia di Filippina durò appena un anno. Visto il suo stato di salute, il vescovo di St. Louis scrisse alla Barat che era imprudente lasciarla a Sugar Creek. La madre si affrettò a scrivere alla «sorella maggiore» di fare il «grande sacrificio» e ritornare nel Missouri.
Il 29 giugno 1842 Filippina era di nuovo a St. Charles. Così descriveva la sua obbedienza: «Non posso cancellare dalla mia mente il pensiero degli indigeni; la mia ambizione mi porta fino alle Montagne Rocciose. Posso solo adorare i disegni di Dio, che mi strappa da ciò che ho così a lungo desiderato».
Passò altri 10 anni a St. Charles, interessandosi delle nuove fondazioni, riempiendo le giornate con la preghiera e piccoli servizi alla sua portata: insegnare il francese ad alcuni studenti francofoni, rattoppare i vestiti della comunità e cucie di nuovi per i suoi amici missionari. Finché fu raggiunta dalla morte, il 18 novembre 1852, a 83 anni.
Nell’Albo d’oro dei pionieri dello stato del Missouri il nome di madre Duchesne è in cima alla lista delle donne. L’iscrizione nella placca recita: «Alcuni nomi non devono appassire». I potawatomi ricordano ancora con grande amore e riverenza Quah-kah-ka-num-ad.</b

Benedetto Bellesi




DOSSIER TRANSIBERIANA (3):”Tutti in carrozza”

Vastità di orizzonti, familiarità con i viaggiatori, diversità di caratteri… le esperienze umane della traversata da occidente a oriente sono indimenticabili

L’ idea è giunta senza pensarci troppo, prendendo come pretesto il periodico rientro in Giappone di mia moglie Yasuko e nostro figlio Daigo. Così abbiamo deciso di raggiungere il Sol Levante via terra, percorrendo la Transiberiana e spezzando il tragitto in diverse tappe per non affaticare troppo Daigo.
Una volta appreso il nostro piano, amici e conoscenti hanno reagito in modi contrastanti: alcuni, scuotendo la testa, ci ponevano di fronte rischi e incognite a cui andavamo incontro, attraversando da ovest a est un paese imprevedibile come la Russia, arrivando a definirci incoscienti disgraziati nel voler infliggere una «tortura» simile a un bambino innocente. Altri, viceversa, manifestavano entusiasmo, interesse, e un pizzico di bonaria invidia verso noi tre, «coraggiosi» esploratori di mondi tanto diversi e sconosciuti.
E così eccoci qui, nella sconfinata Madre Russia: una definizione che solo chi ne percorre almeno parte del territorio può comprendere nella sua accezione più completa. Percorrere i 10 mila km della Transiberiana non comporta particolari esigenze, se non adattarsi alle lunghe percorrenze su treni che, del resto, sono piuttosto comodi e puliti.
L’intero percorso da Mosca a Vladivostok, lo abbiamo compiuto in sei tappe, fermandoci a Perm’, Novosibirsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, Khabarovsk e Vladivostok.
La grande varietà di gente incontrata è sicuramente l’esperienza più interessante e ricca del viaggio e la presenza di bambini, anziché un handicap, si è rivelata una fonte preziosa di conoscenza reciproca.

S ul treno che da Mosca ci porta a Perm’, le famiglie che viaggiano sulla stessa nostra carrozza ci offrono cibo e bevande; molti hanno portato della vodka, ma debbono fare attenzione a non eccedere, perché la provodnik, la conduttrice, Elena Stanislavovna, ha avvertito tutti: «Chi si ubriaca, biglietto o non biglietto, scende immediatamente dal treno!».
Elena si dimostra comunque gentile, nulla a che vedere con le colleghe megere che controllano le entrate della metropolitana di Mosca, città che abbiamo lasciato più che volentieri alle nostre spalle.
Soprattutto, Elena Stanislavovna è una dipendente dello stato e come tale rispetta e fa rispettare il regolamento del Dipartimento dei Trasporti: così, ogni giorno, pulisce le cabine una volta, il corridoio tre volte, il corrimano due volte, quattro volte tira le tendine delle finestre (che noi regolarmente spostiamo per osservare il paesaggio). Infine, per la felicità di Yasuko, mia moglie, pulisce regolarmente i gabinetti.

S ul successivo convoglio che ci ospita, il treno 318 Perm’-Novosibirsk, la provodnik Anna, una ragazza sui 30 anni, magra, tutta nervi e vigore, si è subito dimostrata molto più rude e introversa della collega Elena. E se è vero che è possibile capire dalle sue conduttrici la qualità del treno su cui si viaggia, Anna ne è l’esempio più lampante: capelli biondi raccolti alla bell’e meglio attorno alla nuca, camicetta macchiata, aperta a metà, sino a lasciar intravedere il reggiseno, gonna nera male stirata.
La nostra cabina è una sorta di riflesso di Anna: lenzuola sgualcite e rattoppate, tavolino rotto, specchi scheggiati, vetri sporchi.
Quando ci presentiamo con i biglietti in mano, Anna mostra tutto il suo imbarazzo; guarda e riguarda i nostri documenti, confronta i dati con quelli segnati sui biglietti e alla fine si deve arrendere: sì, tutto in regola, siamo destinati a salire proprio sulla sua carrozza. «Di solito il treno 318 non viene assegnato agli stranieri» ci dirà poi una sua collega.
Il tempo di deporre i bagagli e Daigo è già scomparso; lo troviamo assieme a un gruppo di bambini che fanno a gara nell’offrirgli biscotti, noci, caramelle, susine, sotto lo sguardo divertito dei loro genitori.
Presto anche Anna si addolcisce: i suoi due figli, poco più grandi del nostro, viaggiano assieme a lei e al marito: Daigo diviene assiduo frequentatore del loro scompartimento.
«L’asilo del quartiere dove abitiamo a Mosca ha chiuso e il nuovo, che lo ha sostituito, è troppo caro per noi, così siamo costretti a portarci Volodia e Yulia con noi, avanti e indietro da Mosca a Ulan Ude e viceversa» mi confida, in un momento di calma, aggiungendo che il suo stipendio è comunque tra i più alti che un dipendente statale può sperare di ottenere.
Difficile non rimpiangere i tempi passati, quando si è costretti a vivere in queste condizioni.
Quando arriviamo a Novosibirsk, tutta la carrozza si raduna per salutarci, aiutandoci a portare i bagagli e regalandoci cibarie di vario genere. Anche Anna, la dura, che si è infatuata di Daichan, si lascia andare in un momento di commozione e bacia nostro figlio regalandogli un giocattolino.

A Irkutsk riesco finalmente a salire sul Rossija! Percorrere la Transiberiana senza salire almeno una volta sul leggendario treno rosso, bianco e blu (i colori della bandiera russa), equivarrebbe ad andare a Roma senza vedere il Colosseo o il Vaticano.
Rispetto ai treni presi in precedenza, questo guadagna in pulizia e cura. Inoltre Svetlana Victorovna, la provodnik, sembra già avvezza alle richieste dei turisti stranieri e si dimostra sempre disponibile a esaudirle. Non ha però dimenticato i suoi doveri e passa periodicamente a chiudere le tendine dei finestrini che, altrettanto puntualmente, noi apriamo per osservare il paesaggio.
La Siberia è ormai alle nostre spalle e ha lasciato il posto all’Estremo Oriente russo. La vicinanza del confine cinese si riflette chiaramente nelle facce dei venditori, che incontriamo nelle diverse stazioni e nei prodotti da loro offerti.
Prima di arrivare a Khabarovsk attraversiamo la Regione autonoma ebrea, creata nel 1928 da Stalin, che voleva raggiungere due scopi: dare ai giudei russi una sorta di terra promessa, in cui iniziare una nuova vita, e contrarli entro un’area ben definita, così da poterli facilmente controllare.
Oggi la maggior parte è emigrata in Israele e ciò che rimane a testimoniare la loro presenza sono i caratteri yiddish alla stazione di Birobidzhan, il capoluogo della regione.

L’ ultimo tratto ferroviario, da Khabarovsk a Vladivostok, lo percorriamo sull’Okean, il treno che percorre gli ultimi 760 chilometri di strada ferrata in dodici ore.
Ed eccoci giunti alla fine di questo viaggio lungo la Transiberiana, a 9.289 chilometri da Mosca. Ci allontaniamo osservando con molto rimpianto la magnifica stazione ferroviaria di Vladivostok, fronteggiata dalla più brutta statua di Lenin che abbiamo mai visto. •

Piergiorgio Pescali