La testimonianza di Carlo Urbani

È morto un medico: Carlo Urbani.
Non l’ho conosciuto, ma ci univa un sottile filo. E,
quando ho appreso la notizia della sua morte, ho riconosciuto
quel leggero filo e l’ho riconosciuto nello stesso
momento in cui si è spezzato. Il tenue filo non è solo
la nostra professione di medico, ma il fatto di averla
svolta anche in paesi lontani, quelli che siamo
abituati a chiamare «terzo mondo».
La sua morte è avvenuta in un periodo di guerra, in
uno di quei periodi in cui ci si dimentica del terzo mondo,
allorché l’umanità viene distrutta e si perde il senso
della grandezza della persona umana. Le bombe cadono
su Baghdad, i marines attaccano l’Iraq dal cielo e
dalla terra, ed un medico muore lontano nell’Estremo
Oriente.
Poche settimane fa sono arrivati nel mio ospedale i
protocolli da seguire per quella anomala polmonite virale
che sta colpendo popolazioni tanto lontane, quella
polmonite che il medico Carlo Urbani stava combattendo
con passione, così come ha combattuto la tubercolosi,
l’AIDS ed altri temibili virus e batteri nei
paesi del terzo mondo. Inoltre Urbani scriveva per Missioni
Consolata, cercando di raccontare quei lontani
mondi, la loro sofferenza e la loro forza. Anche questo
filo ci univa.
La professione di medico è molto cambiata; in parte
è diventata come ogni altra professione, estremamente
tecnica, specializzata, e forse si è anche allontanata
dall’antico cammino che riusciva ad incrociare
la capacità professionale con la vicinanza alle sofferenze
umane.
Mi sono venuti subito alla mente tanti nomi di medici,
conosciuti nei miei quasi 20 anni di professione,
5 dei quali (i più belli) spesi in Perù; ho pensato al dottor
Iginio, che ho visto piangere per la rabbia di fronte
alla sofferenza; alla dottoressa Charo, che a volte si
portava i bambini a casa per dar loro anche un po’ di
affetto e cibo; al dottor Lucio, che spendeva parte del
suo stipendio in medicine per i suoi pazienti; a quel
cardiochirurgo che ha operato un bambino peruviano,
portato di nascosto in Italia, e che non ha voluto neanche
i miei ringraziamenti. Ho pensato a quei medici
che, in Perù, lavorano quotidianamente con la tubercolosi,
con l’AIDS, e che non sono neanche protetti da
un’assicurazione.
Ho pensato alla mia vita di
medico del primo mondo, con 38
ore lavorative e il cartellino da
timbrare, con il sindacato che mi
protegge, con strutture, finanziamenti,
apparecchiature e medicine
a disposizione. Ho pensato agli
scandali della nostra sanità, ai
mille interessi economici che
l’attraversano snaturandola, ai
congressi in giro per il mondo…
e mi sono sentito un piccolo medico
che vive di ricordi. E ho sentito
il tenue filo con Carlo Urbani
che si spezzava.
È morto un medico che credeva alla sua professione
e all’umanità. E si è spezzato un tenue filo anche in me.

No, il filo non si è spezzato. Come è noto ai lettori,
Guido Sattin cura la rubrica «COME STA FATOU?» (anche a
pagina 64 di questo numero), che illustra la sanità e non
sanità nel Sud del mondo. La rubrica fu iniziata nel gennaio
1999 proprio da Carlo Urbani, al quale M.C. dedicherà
un Premio.

Guido Sattin