Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto




IRAQ – Quelle pesantissime stellette

È giusto, opportuno e coerente il ruolo della chiesa nel mondo militare?
È compatibile con gli insegnamenti di Gesù Cristo la presenza di cappellani (con tanto di gradi) sui fronti di guerra?
Con l’accurata analisi di un sacerdote di Pax Christi e un’intervista a don Mariano, cappellano militare italiano a Nassiriya, continuiamo il nostro viaggio critico all’interno della guerra irachena.

UN RUOLO DA DISCUTERE
«“Senza far uso strumentale della storia, senza intenti di polemica fine a se stessa, Pax Christi chiede, nuovamente, che si ritorni a discutere sul ruolo dei cappellani militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
Sono parole che si leggevano nel comunicato di Pax Christi distribuito a Barbiana il 26 giugno ’97 in occasione del 30° anniversario della morte di don Milani. Parole che non hanno smarrito lo smalto dell’attualità nell’anno del giubileo».
Iniziava così l’editoriale dell’ottobre 2000 di Mosaico di pace, la rivista promossa da Pax Christi e voluta da don Tonino Bello, presidente del movimento fino al 20 aprile 1993, giorno della sua morte. Queste riflessioni mi sono ritornate alla mente nel mio ultimo viaggio in Iraq lo scorso novembre 2003.
Con una piccola delegazione di Pax Christi siamo stati più volte in quella terra segnata da troppe guerre, passate e presenti, che hanno sempre visto un ruolo attivo anche dell’Italia: vendita a Saddam Hussein di armi, mine, gas e, ora, coinvolti – di fatto – in una presenza militare che si può anche chiamare operazione di pace, ma è, a tutti gli effetti, una presenza in zona di guerra.
E se in Iraq la guerra non è finita, come sostengono anche alcuni autorevoli generali italiani, allora anche l’Italia è in guerra e i nostri militari sono andati… in guerra. Certo, con tutti i buoni propositi del caso, con scopi di pace, si dice. Ma, come afferma il papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace: «… i governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai prìncipi di uno stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!».

A IMMAGINE DI… BUSH
In questo ultimo viaggio, e anche nello scorso maggio 2003, a Mosul, nel Nord Iraq, dopo aver partecipato alla consacrazione episcopale di padre Louis Sako, vescovo di Kirkuk, ho avuto modo di incontrare alcuni cappellani militari Usa. Il loro ragionamento è lineare, semplice: sembra di sentire parlare Bush in persona. E dire che un cappellano dovrebbe fare riferimento quantomeno al vangelo e al magistero della chiesa. Non c’è dubbio che le posizioni del papa siano abbastanza lontane da quelle di Bush: la guerra è avvertita come avventura senza ritorno, sconfitta dell’umanità. Anche il papa è un pacifista, disfattista e amico di Saddam o degli integralisti islamici?
«Siamo venuti in Iraq perché Saddam doveva essere fermato in quanto troppo pericoloso – mi dice Chester Egert, cappellano militare dell’esercito Usa – perché l’Iraq era collegato ad Al Qaeda e preparava attentati terroristici in tutto il mondo. Siamo qui non per fare la guerra ma per portare pace. In alcuni casi, la pace va imposta».
Sono senza parole. Cerco di dire qualcosa, ma don Chester è determinato: «Sì, la pace si impone, come stiamo facendo noi».
E lo scorso mese di maggio, chiedevo ad un altro cappellano Usa, come conciliasse il vangelo o il testo di Isaia «forgeranno le loro spade in vomeri», con la guerra, con i bombardamenti e l’uccisione di tanti innocenti. Lui mi rispondeva di aver avuto una visione (e anche qui siamo sulla linea religiosa-illuminata di Bush) in cui il Signore lo chiamava a questo ruolo di difensore e portatore di pace.
Ci si rende conto di come il ruolo di militari, arruoli anche il vangelo e Gesù Cristo. Sembra fuori da ogni logica la vita e l’insegnamento di Gesù, le sue parole «rimetti la spada nel fodero…».

«EMBEDDED»: CAPPELLANI
COME GIORNALISTI
Si è usata molto la parola embedded (arruolati) per i giornalisti. Credo che a maggiore ragione si possa e si debba usare per i cappellani militari, anche perché hanno pure le stellette! Per questo può essere interessante ripercorrere la riflessione che, in questi anni, Pax Christi ha cercato di fare sul ruolo della chiesa e dei cappellani militari all’interno dell’esercito.
«Il 19 novembre prossimo – continuava l’editoriale di Mosaico di pace – piazza S. Pietro ospiterà il giubileo dei militari e francamente, consideriamo quest’appuntamento un “segno dei tempi” che rattrista e inquieta. Un altro dei segnali che ci preoccupano perché vediamo crescere una cultura di guerra e di morte nella politica, nell’economia, nella società, e nella chiesa. Non dimentichiamo che soltanto il 6 maggio 1999 si è concluso il «Primo sinodo della chiesa ordinariato militare in Italia» evento assolutamente inedito, destinato a rafforzare l’attuale modalità di presenza di sacerdoti e vescovi nel mondo militare. Mentre cresce il numero delle guerre, aumenta vertiginosamente l’export di armi (in Italia +40%), si studiano e si sperimentano nuovi sistemi d’arma per realizzare guerre umanitarie con bombe intelligenti, ci sembra davvero anacronistico e incomprensibile alla luce del vangelo, parlare di chiesa militare e di giubileo dei militari.
Ai nn .572-573 del documento finale del Sinodo citato, nel capitolo intitolato La via militare alle Beatitudini si legge: «Consapevole che Dio ha affidato la costruzione di un mondo nuovo ai poveri di spirito, ai miti, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli assetati di giustizia, il militare cristiano che porta le armi e sa di poter essere costretto ad usarle, sappia che la sua vita è inserita nello spirito delle Beatitudini che gli conferisce il ruolo di “operatore di pace”».
Risulta davvero interessante leggere queste affermazioni alla luce di quanto è scritto nei «Lineamenti di sviluppo delle forze armate negli anni ’90», documento presentato in Parlamento nell’ottobre ’91. Lì si parla di «concetti strategici di difesa degli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi»; e questi interessi vitali da difendere riguardano «le materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati». Onestamente non ci sembra che questa prospettiva possa portare a definire i militari cristiani «operatori di pace».
«In occasione del giubileo dei militari – continua Mosaico di pace – diventa auspicabile all’interno della chiesa italiana una riflessione aperta, serena ma ferma sul ruolo dei cappellani militari e sulla loro completa integrazione all’interno dell’apparato militare. Ma l’appuntamento giubilare è anche l’occasione per alcune domande.
Non potrebbe essere questo il momento significativo, in cui i cappellani scelgano di rinunciare alle stellette e ai privilegi che esse comportano? Perché, infine, non cogliere questo momento propizio per chiedere perdono a don Milani e a tutti coloro che hanno scelto l’obiezione di coscienza? Ci spiace ricordare che la sentenza di condanna non è stata mai cancellata e pesa ancora nei registri penali ai danni del priore di Barbiana».
Mi sembra che questo editoriale, riportato quasi integralmente, ponga bene la questione. Oggi più che mai urgente perché la guerra è una tragica realtà che ci vede coinvolti.
Pax Christi aveva già posto il problema con un appello ai vertici ecclesiali e ai politici, senza molto successo, in occasione del Convegno della chiesa italiana a Palermo, nel 1995. E ancora in occasione del 30° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, come si ricordava nell’editoriale di Mosaico già citato.
Anche per il Congresso eucaristico a Bologna, dove è prevista una celebrazione eucaristica presieduta dall’ordinario militare, Pax Christi interviene chiedendo di «aprire un dialogo sul ruolo dei cappellani militari: la loro smilitarizzazione potrebbe essere un gesto significativo e concreto di conversione, proprio in occasione del Congresso eucaristico, anche alla luce del giubileo del 2000, per iniziare il terzo millennio più fedeli al vangelo di Cristo nostra pace» (20 settembre ’97).
L’appuntamento più importante su questo tema dei cappellani militari è stato senza dubbio il seminario di studio che si è tenuto alla Casa per la pace di Firenze nel novembre ’97, promosso in collaborazione con il Centro studi economici e sociali per la pace: «Cappellani militari oggi e… domani», con relazioni di giuristi, di un rappresentante autorevole dell’Ordinariato militare e di Pax Christi.
«Si è ribadita pertanto la necessità – si legge nel comunicato finale – di un sempre maggiore impegno non solo della chiesa presente tra le forze armate, di cui s’è riscontrata la disponibilità al dialogo, ma di tutta la chiesa italiana per un cammino sempre più determinato sulla via della nonviolenza e della pace».
È stata la prima e per ora l’unica occasione di confronto ufficiale tra un rappresentante dell’ordinariato militare e Pax Christi. C’è da augurarsi che il dialogo possa continuare, alla luce delle nuove situazioni di guerra in atto.
Per concludere, vanno rilanciate alcune domande.

PARLIAMO DI GRADI
E DI… SOLDI
Perché non scegliere anche per i cappellani nell’esercito un ruolo di presenza sul modello della polizia di stato o degli istituti penitenziali, dove ci sono dei cappellani, con accordi ma senza essere inquadrati nella struttura? Insomma, senza stellette e senza (so di toccare un tasto delicato…) stipendio. Lo stipendio di un cappellano militare è quasi il triplo di quanto percepisce un normale prete dall’Istituto di sostentamento del clero. E, oltre alla tredicesima, sono coperte anche tutte le spese per ufficio, telefono, macchina e autista. Questo mi diceva tempo fa un amico cappellano-capitano. Stipendi, quindi, in rapporto ai gradi militari. E l’ordinario militare è equiparato ad un generale. Perché allora non tornare ad essere, preti come gli altri, inseriti in una diocesi come gli altri e non in una diocesi castrense come avviene oggi?
Questo sicuramente aiuterebbe ad essere più liberi. A non rispondere come mons. Marra, già ordinario militare negli anni passati, che parlando della situazione balcanica (non c’era stato ancora l’intervento militare della Nato) ebbe a dire al settimanale diocesano di Udine, La vita cattolica: «Monsignor Bettazzi e il compianto monsignor Bello scrivevano che era urgente operare per risolvere il problema della Bosnia- Erzegovina, ma imploravano che non si usasse la forza: una posizione troppo idealistica e, a mio avviso, inoperosa e inconcludente».

IL RIPENSAMENTO
DI MONS. SUDAR
Due citazioni, autorevoli, possono essere la conclusione di quanto fin qui esposto, con la speranza che il tema della guerra e della pace, della violenza e nonviolenza possa essere di nuovo affrontato anche con chi crede che l’unica strada sia quella delle armi.
La prima citazione è di mons. Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi che, subito dopo la tragedia di Nassiriya del novembre 2003, scrive: «È tardi, ma non troppo tardi, per ridare all’Onu non una funzione di servile copertura, ma un’autentica autorità per aiutare il popolo iracheno a realizzare la democrazia e lo sviluppo, con un governo non sospetto e una ricostruzione non interessata. Lo chiede la volontà di pace della maggioranza dell’umanità, lo esige il sangue di questi nostri giovani morti nell’illusione di poter diventare operatori di pace».
La seconda, che ci riporta in Bosnia, è del vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Pero Sudar, che sulla rivista dell’Azione cattolica italiana Segno nel mondo, n. 4 del 16 marzo 2003, scrive:
«La guerra nella mia patria e le sue tragiche conseguenze mi hanno costretto ad immaginare il corso della storia senza le guerre, con cui si intendeva combattere le ingiustizie ed abbattere i sistemi ingiusti. Riconosco di essere stato convinto anch’io che l’uso della violenza sia utile e necessario quando si tratta della libertà dei popoli. Dopo aver visto e vissuto da vicino che cosa vuol dire la guerra di oggi, non la penso più così. Sono profondamente convinto, e lo potrei provare, che l’uso della violenza ha portato sempre un peggioramento».
«(…) tutto questo obbliga la chiesa – continua Sudar – a farsi segno di contraddizione e ad unire la sua voce a tutte quelle che gridano la pace anche nelle condizioni che, a prima vista, postulerebbero la guerra… Occorre applicare letteralmente il monito di Cristo rivolto a Pietro che con la spada voleva proteggere la vita del giusto e dell’innocente: … basta così! (Lc.22,5). Oggi l’unica scelta della chiesa è la nonviolenza, perché questa è l’unica strada, magari lunga e sofferente, alla pace che viene garantita dalla giustizia».

COMANDI, DON MARIANO!

Nassiriya, natale 2003. Nella base italiana di Nassiriya (An Nassiryiah, nella dizione locale) l’inverno picchia duro ed al freddo si sommano la paura e la nostalgia per una casa lontana. Molti soldati cercano conforto in Cristo, in quella chiesa che non abbandona nessuno e che, in questo sperduto angolo di deserto iracheno, è rappresentata da don Mariano.
Don Mariano è un bell’uomo dallo sguardo fiero ed il fisico scattante. Appuntata sul petto ha una croce al posto del grado da capitano che potrebbe mettere. Forse fra tutti quelli che ho conosciuto è l’ufficiale più ruvido e netto.
È il cappellano militare della Brigata Sassari ovvero il fulcro del contingente militare italiano che da diversi mesi opera a Nassiriya, nel sud dell’Iraq.

«Noi siamo qui per difendere e non per offendere», mi dice un giorno durante un’intervista.
«E la pace va difesa anche con le armi in pugno come stanno facendo questi soldati. Perché dovremmo andare via? Ci sono stati dei morti che hanno versato il sangue per la patria e noi cosa dovremmo fare per onorarli? Scappare? Andare via?».
Domando: cosa risponde a quei settori della chiesa cattolica che si oppongono a questa guerra e alla conseguente occupazione militare? Non l’avessi mai chiesto, don Mariano mi fulmina con le parole e con lo sguardo: «Noi italiani non siamo in guerra con nessuno e soprattutto non siamo una forza di occupazione, questo deve essere ben chiaro. Noi siamo operatori di pace. A quei settori della chiesa che vogliono la pace a tutti i costi non so cosa dire, forse che sono lontani dal mondo reale quello che c’è qui a Nassiriya…».
Cosa pensa dei pacifisti?, insisto. «Ho un senso di nausea quando vedo certe manifestazioni… Ognuno poi è libero di pensare un po’ quello che vuole, anche mio fratello è un pacifista ed io non posso certo impedirglielo. Ma quando vedo certi personaggi… Ho sentito che ultimamente alcune Ong che avevano tanto criticato l’intervento armato hanno chiesto una scorta armata per entrare nel paese. E io non gli avrei dato un bel nulla! Vi siete opposti alle armi? Siete pacifisti? Allora dovete rifiutare le armi sempre non solo quando vi fa comodo, quando siete a casa vostra comodi comodi. E poi come si chiama quel medico…. milanese?».
Gino Strada?, domando incuriosito. «Ecco quello non lo posso proprio sopportare, da lui non prenderei nemmeno una medicina perché è un assassino!».
Come un assassino? Gino Strada? E perché?, chiedo allibito. «Perché lui con il suo pacifismo voleva tenere in piedi Saddam che era un killer, un dittatore spietato e quindi ne era complice!».
Meglio cambiare discorso… E per natale, don Mariano, cosa farete a mezzanotte? «Faremo la messa nella piazza della base, i carri armati verranno disposti per sembrare una piccola grotta e lì celebreremo il rito della nascita di Gesù».
Vorrei tanto dirgli: «Ma come Gesù, l’uomo della fratellanza e del perdono, lo fate nascere in mezzo a dei carri armati?», ma fedele al mio ruolo non dico nulla, anzi faccio il solito sorrisetto di circostanza e gli auguri di buon natale.
La tenda che funge da chiesa per tutto il campo è accogliente e ben riscaldata anche se piccolina (può contenere al massimo un centinaio di persone).
Conclude don Mariano: «Molti ragazzi stanno riscoprendo la fede proprio in questo frangente, in questa situazione di pericolo e lontananza dagli affetti di casa. Io sono qui per questo, per aiutare le anime di questi uomini che sono disposti a sacrificarsi per il bene comune».

Fuori dalla tenda è buio assoluto. La base, oscurata nella notte per motivi di sicurezza, è situata in mezzo al deserto iracheno.
Alcuni soldati, finita la messa di mezzanotte, imbracciano il fucile ed escono di pattuglia. Don Mariano li ha appena benedetti. Don Mariano ha appena detto loro che quel fucile è uno strumento di pace.

Renato Sacco




GUATEMALA – L’ingiustizia non è un mondo divino

… ma dipende dall’uomo. Nel paese centroamericano poche famiglie detengono l’intero potere economico; poche famiglie posseggono quasi tutte le terre fertili; la corruzione e il crimine organizzato imperversano. Il ruolo delle sètte
evangeliche statunitensi è rilevante. Riuscirà il neo-presidente Oscar Berger
a portare un minimo di giustizia a sette anni dalla firma della pace?
Ne abbiamo parlato con padre Rigoberto Pérez Garrido, un prete di frontiera,
che per contribuire a portare pace e giustizia nel suo paese da anni rischia la vita.

Stringe il registratore tra le mani, quasi per «inchiodarvi» i pensieri. Parla a voce bassa, ma le sue parole sono pesanti e lasciano poco spazio all’immaginazione. Folti capelli neri e baffetti, Rigoberto Pérez Garrido è un sacerdote guatemalteco di 37 anni.
Ordinato sacerdote nel 1994, da cinque anni Rigoberto è parroco a Santa Maria de Nebaj, nel Quiché, una provincia ad altissima presenza maya. «Sono parroco in una parrocchia di gente maya – ci spiega -, ma io non sono un indigeno. Questo però non è mai stato un problema: con la gente ho un rapporto straordinario».

TRA FOSSE COMUNI
E CIMITERI CLANDESTINI
Rigoberto è una figura conosciuta, perché ha collaborato moltissimo con monsignor Gerardi. È stato il responsabile per la diocesi del Quiché del progetto Remhi per il recupero della memoria storica ed ha cornordinato l’azione degli agenti della pastorale, religiosi e laici, che dovevano raccogliere le testimonianze delle persone. Quando, nel gennaio del 2000, arrivò a Nebaj, padre Rigoberto iniziò ad aiutare le persone che volevano recuperare i resti dei desaparecidos, che i militari avevano buttato in fosse comuni o in cimiteri clandestini. La gente del luogo sapeva, ma non aveva mai osato fare qualcosa. Fu aiutata da padre Rigoberto, che per questo suo attivismo si attirò addosso attenzioni molto pericolose.
Una notte del febbraio 2002 gli incendiarono la casa parrocchiale, sperando di eliminarlo. Per sua fortuna, si trovava a Santa Cruz del Quiché. «Mi fu offerta una protezione – racconta il sacerdote -, ma io la rifiutai dicendo che la cosa migliore era continuare a fare quello che stavo facendo. Ho potuto contare sull’affetto di tutti, sulle loro preghiere, sul loro esempio, sulle loro testimonianze. Questo mi ha molto rallegrato».
Le minacce di morte continuarono e continuano tuttora tanto che il suo caso è stato preso in carico anche da Amnesty Inteational.
«Con l’assassinio di monsignor Gerardi – continua il sacerdote -, il paese è ripiombato in quelle tenebre che si credevano superate a partire dalla firma degli accordi di pace. Si sono riattivate tutte le strutture che, per 36 anni, avevano generato morte e sofferenze indicibili, strutture collegate agli ambienti politici ed economici. Con il governo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) si è intensificato l’accanimento contro i difensori dei diritti umani e le persone impegnate nel processo di trasformazione. Per sostenere il potere, sono riapparsi anche i gruppi paramilitari che, in Guatemala, si chiamano Pattuglie di autodifesa civile (Pac). La scorsa estate, poco prima delle elezioni, migliaia di ex patrulleros sono calati in capitale per intimidire gli avversari di Rios Montt».

IL PERDONO,
MA ANCHE LA GIUSTIZIA
Il Guatemala ha una percentuale di popolazione indigena del 60% o più. E gli indigeni furono la popolazione più colpita durante il conflitto armato.
Perché? Che successe in quei 36 anni di conflitto? Chi furono i responsabili? Chi le vittime?
Presto ci si accorse che, per costruire un paese diverso, occorreva dar vita ad un processo di chiarimento storico. Era un’operazione ad alto rischio. Monsignor Gerardi sosteneva che era doloroso affrontare la realtà, ma che, d’altra parte, era un’azione necessaria e liberatrice: per poter superare il passato, era necessario conoscere e da questa conoscenza si poteva partire per costruire il futuro.
I collaboratori del progetto Remhi hanno potuto documentare 422 massacri, di questi 263 (ben 234 ad opera dell’esercito e dei paramilitari) vennero commessi nel Quiché e di questi decine a Nebaj, la zona dove opera anche padre Rigoberto.
«Nella regione del Quiché – spiega il sacerdote – il piano diocesano ha avuto come prioritaria la riconciliazione, che però può scaturire soltanto dalla verità, dal perdono e dalla giustizia. Posso testimoniare che il perdono c’è stato. Io stesso ho celebrato messe di commemorazione di massacri e i familiari (gente che perse i propri cari o che venne torturata) sono riusciti a perdonare: è una grande qualità della popolazione guatemalteca, incredibile ed impressionante».
«Purtroppo, sulle responsabilità e quindi sulla giustizia, il problema rimane aperto: ci sono casi di pentimento ai livelli più bassi, ma non a quelli più alti. Qui la porta è rimasta chiusa; mi riferisco ai livelli intellettuali e di comando, da dove cioè partirono gli ordini per distruggere la popolazione del Guatemala».
«Ciò che la società guatemalteca ad alta voce ha chiesto e chiede non è vendetta (ché altrimenti il paese sarebbe precipitato nuovamente in una spirale di violenza incontrollabile). Le vittime chiedono però che i responsabili riconoscano le loro colpe e diano segni concreti di pentimento, contribuendo anche a risarcire i danni causati. Su questa linea si muovono alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, che stanno promuovendo processi contro i responsabili dei crimini. La società guatemalteca valuta positivamente queste iniziative, sebbene sia molto scettica a causa dell’alto grado di impunità che c’è nel paese».
La conclusione di padre Rigoberto è in perfetta coerenza con il suo ragionamento: «Noi speriamo che, alla fine di tutto questo, possa sorgere una nuova società, un nuovo Guatemala con più vita per tutti, compresi coloro che hanno commesso i crimini: anche loro hanno diritto a vivere la grazia di Dio».
Milioni di esistenze sono state segnate dalle vicende della guerra: per loro ricominciare una vita normale è un’impresa.
Padre Rigoberto lo sa: «Il dopoguerra presenta nuove sfide considerando tutte le indelebili sofferenze patite dalla popolazione. Perché, dopo un conflitto, restano gli scomparsi, gli orfani, le vedove, le comunità distrutte e disarticolate; restano i cimiteri clandestini e i genitori che cercano i propri figli; restano il dolore, la paura, i traumi. Nel dopoguerra bisogna occuparsi di tutte queste realtà, delle loro cause e delle loro possibili soluzioni».

IL MIRAGGIO
DELLA RIDISTRIBUZIONE
Da gennaio di quest’anno in Guatemala c’è un nuovo presidente e un nuovo partito di maggioranza. Cambierà qualcosa? «L’importante – spiega il padre – è stata la sconfitta di Rios Montt e del Frg, responsabili dei maggiori crimini nei 36 anni della guerra civile e di un governo fondato sulla corruzione».
Il partito del neo-presidente (Gran alianza nacional, Gana) è nato dalla nomenclatura economica del paese, cioè dagli industriali, nonché da politici e da militari che sono riusciti a darsi una patina di rispettabilità. Ma anche tra le sue fila si celano responsabili di crimini, come ammette amaramente padre Rigoberto: «I partiti credono che senza gli espertos en matar nessun governo potrà stare a lungo al potere».
Dicevamo che Gana ha avuto l’appoggio degli imprenditori. Questo potrebbe essere un piccolo vantaggio, se si considera che il problema economico è un’assoluta priorità. La povertà raggiunge livelli elevatissimi, in particolare nelle aree rurali e nelle periferie delle città.
La disoccupazione è molto alta e lo stato non svolge i propri compiti, soprattutto nei servizi primari. «È vergognoso – sbotta il sacerdote – che si spendano più soldi per il bilancio militare che per quello della salute e dell’educazione».
In quanto a capo di una coalizione di destra, difficilmente il presidente Berger intraprenderà una politica di ridistribuzione del reddito. L’analisi del padre guatemalteco è lucida e rigorosa.
«Il problema economico – spiega – ha radice in un sistema che concentra la ricchezza in poche, anzi in pochissime mani (en muy, pero muy pocos manos), creando diseguaglianze abissali. Il potere è detenuto da un ristretto gruppo di famiglie guatemalteche e alcune straniere residenti nel paese. Un’altra fetta dell’economia è appannaggio delle multinazionali. A queste si debbono, ad esempio, gli altissimi prezzi dei combustibili e dei medicinali».
Insomma, anche a guerra finita, la maggioranza dei guatemaltechi continua a vivere in condizioni disumane. E, come sempre accade, questa povertà colpisce soprattutto la parte più debole (ancorché maggioritaria) della società, gli indigeni.
La discriminazione risalta in tutta la sua evidenza nell’agricoltura, che è il settore economico a cui fa riferimento la maggioranza della popolazione guatemalteca.

LA TERRA,
UN PROBLEMA TABÙ
A partire dal 1800 si diffusero in Guatemala le monocolture da esportazione: prima il caffè, poi il banano. Con le banane arrivò in Guatemala la multinazionale «United Fruit Company», oggi nota come Chiquita. La compagnia nordamericana divenne talmente potente da condizionare la vita del paese. L’esempio più clamoroso si verificò nel periodo 1951-’54. All’epoca, il governo del presidente Jacobo Arbenz varò la prima riforma agraria nella storia del Guatemala. La United, sentendosi colpita nei propri interessi, informò del problema la Cia e l’amministrazione di Washington. Venne così organizzato un esercito, che entrò nel paese e rovesciò il legittimo governo di Arbenz.
Oggi le multinazionali nordamericane continuano a monopolizzare (come in tutti i paesi dell’area) il mercato delle banane, con comportamenti e politiche certamente poco rispettosi dei lavoratori, dell’ambiente e dell’etica.
L’altro pilastro dell’agricoltura del Guatemala è il caffè. Negli ultimi anni, il settore ha sofferto enormemente, a causa del crollo del prezzo sul mercato internazionale. Molti latifondisti hanno scaricato la riduzione degli introiti sugli stagionali, già ampiamente sfruttati. Alcuni proprietari hanno addirittura deciso di non fare la raccolta.
Tuttavia, per i contadini guatemaltechi, come per gran parte dei contadini dell’America Latina (e del mondo), il problema fondamentale è un altro: la proprietà della terra.
Secondo dati attendibili, in Guatemala l’85% della terra è in mano al 10% della popolazione. «È tremendo, lo so», ammette con sconforto padre Rigoberto.
Dopo gli accordi di pace, si è tentato qualcosa, ma i latifondisti hanno attaccato chi lottava per avere un pezzo di terra e coloro che appoggiavano queste rivendicazioni. Ci sono state molte minacce di morte, anche al vescovo Ramazzini, che si occupa di queste problematiche.
Si è tentata anche la strada dell’acquisto della terra per i contadini. Ma il risultato è stato l’incremento dei prezzi fino a 10 volte.
«Purtroppo, nel mio paese – conclude amaro Rigoberto – la questione della terra continua ad essere un tabù».
Difficile che la soluzione del problema sia nell’agenda di Oscar Berger, l’uomo che dallo scorso gennaio ha in mano le sorti del Guatemala. A sette anni dalla «pace».

(Fine – la prima parte
è stata pubblicata su MC di febbraio)

La chiesa cattolica e le sette evangeliche
Durante gli anni della guerra civile, la chiesa cattolica fu duramente perseguitata: migliaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane, agenti pastorali, sacerdoti furono assassinati. Nonostante l’altissimo prezzo pagato, le diocesi continuarono ad emanare documenti che denunciavano le vessazioni contro la popolazione. Così come faceva la Conferenza episcopale.
Chiediamo a padre Rigoberto se l’attuale gerarchia della chiesa cattolica guatemalteca abbia proseguito sulla strada segnata da monsignor Gerardi, anche dopo il suo assassinio.
«Io vivo tra la gente e non nei palazzi – si scheisce -. Certo, la chiesa si è fatta dei nemici, soprattutto nel potere economico e in quello militare. Tuttavia, mi sembra che in questo ultimo periodo sia diventata un po’ silenziosa rispetto a prima, quando era guidata da Prospero Penados del Barrio, che fu praticamente annientato. Oggi è in pensione, perché molto malato; io lo definirei un martire vivente, che continua ad essere molto amato dalla gente».
Attualmente, la carica di arcivescovo primate e quella di presidente della Conferenza episcopale sono concentrate in una sola persona, l’arcivescovo Rodolfo Quezada Toruño. «Forse – chiosa il sacerdote – c’è troppo potere concentrato in una persona sola».
Abbiamo già spiegato (si veda MC di febbraio) in che modo il generale Rios Montt abbia utilizzato le sètte evangeliche. «Le sètte – racconta Rigoberto – entrarono nel paese nel 1891, quando governava il generale Justo Rufino Barrios. Venivano dagli Stati Uniti su impulso delle famiglie più potenti, interessate a trasformare i paesi dell’America Latina in luoghi ideali per lo sfruttamento. Il loro imperativo era: dividi e vincerai. Si moltiplicarono enormemente durante gli anni di maggiore violenza politica, cioè a partire dal 1980. È inutile fare nomi, dato che esistono più di 4.000 denominazioni differenti».
È durissimo il giudizio di padre Rigoberto. «Le sètte – dice – utilizzano la religione per contrastare la forza profetica della chiesa cattolica e per giustificare i crimini commessi durante il conflitto armato; oggi, invece, vorrebbero perpetuare quel sistema che tanti danni ha prodotto nel passato. Io credo che il compito fondamentale delle sètte sia di produrre inganno e confusione tra la gente e, soprattutto, anestetizzarla davanti alla realtà. Purtroppo, la religione mal utilizzata può diventare uno strumento molto utile per il dominio delle coscienze e quindi delle persone».
Pa.Mo.

Rigoberta Menchú Tum: aiutare Berger?

Il Guatemala è conosciuto in Italia soprattutto per merito di Rigoberta Menchú Tum (*). L’india maya riuscì a rompere il muro di silenzio che gravava sul suo paese grazie al libro Mi chiamo Rigoberta Menchú e poi alla campagna per assegnarle il Nobel per la pace. Il conferimento del prestigioso premio certamente diede la possibilità al suo paese di essere conosciuto in tutto il mondo. Tuttavia, come spesso capita, nemo propheta in patria: Rigoberta, in Guatemala, non è amata.
Spiega Maria Rosa Padovani del «Comitato di solidarietà» di Torino: «Periodicamente, si lanciano contro Rigoberta campagne denigratorie, accusandola di vivere nel lusso, di essere sempre in giro per il mondo, campagne orchestrate dai poteri che continuano ad essere presenti e operanti in Guatemala. Tra il popolo c’è chi la ama, c’è chi non la conosce e c’è chi si lascia influenzare dalle campagne».
Rigoberta da alcuni anni vive in Messico per le minacce che continuamente riceve». Ma nel suo paese ha messo in piedi la «Fondazione Rigoberta Menchú», che lavora soprattutto nel campo dei diritti umani e nella promozione dei diritti degli indigeni. C’è una sede della fondazione anche in Messico ed una più piccola a New York per via della sua collaborazione con l’Onu. Rigoberta lavora molto a livello di istituzioni inteazionali, soprattutto per le popolazioni indigene ed è tuttora ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. Va sempre in giro per il mondo, partecipando a moltissime iniziative. «Noi – spiega convinta Maria Rosa – la conosciamo bene. Abbiamo visto la semplicità con cui vive in Messico in una piccolissima casa dietro la Fondazione, con suo marito e con il figlio adottivo. Sappiamo che Rigoberta è sempre Rigoberta. Certo, il suo ruolo è cambiato: non può più venire quando un gruppo di solidarietà la chiama, perché ha un’agenda pienissima e ha anche bisogno di ricercare finanziamenti per i progetti della sua Fondazione. Quindi, il suo ruolo è cambiato. Forse in Guatemala c’erano più aspettative nel senso che si pensava che lei avrebbe lavorato solo a favore del suo paese, ma Rigoberta, come premio Nobel, si considera un po’ al servizio delle cause di tutte le popolazioni indigene del mondo, non soltanto di quelle del Guatemala».
Nel paese centroamericano la percentuale dei votanti è molto bassa, attorno al 30-35%. Questo avviene anche perché bisogna iscriversi alle liste elettorali e l’iscrizione si fa nel luogo dove si è nati. «Tutto ciò – spiega padre Rigoberto – costa: troppo, per gente già poverissima. Senza dimenticare che bisogna avere i documenti di identità che moltissimi, anzi la maggior parte, non hanno, soprattutto nelle zone rurali. E allora una delle campagne promosse dalla Fondazione Menchú è proprio questa: aiutare la gente a partecipare alla vita pubblica e civile del paese».

A fine dicembre, appena eletto presidente, Oscar Berger ha offerto un posto nel suo governo a Rigoberta Menchú. Tra conferme e smentite, la premio Nobel ha tentennato a lungo, accettando alla fine il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà degli accordi di pace».
Un ruolo aleatorio per una scommessa comunque rischiosa: potrà Rigoberta aiutare il suo popolo attraverso il governo del conservatore Berger senza rimanee «bruciata»?
Pa.Mo.

(*) Si veda: «Incontro con Rigoberta Menchú Tum», di Marco Bello e Paolo Moiola, su Missioni Consolata n.5 del maggio 1996.

Paolo Moiola




L’energia e un modello senza futuro

Che accadrebbe se domani le nazioni del Sud volessero consumare come quelle del Nord? Come mai le guerre «giuste» riguardano sempre paesi importanti dal punto di vista delle risorse energetiche? L’attuale modello di sviluppo non ha futuro: le risorse sono in via di esaurimento, i danni ambientali sono sempre più consistenti (inquinamento, effetto serra, ecc.). Ma non basta passare alle energie rinnovabili. Occorre cambiare i nostri stili di vita. Quotidianamente. (Seconda parte)

«La Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti, gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca. E uno dice: “ma saranno diversi”. Sì, e allora? Perché non si scambiano la ricetta?! E allora, un po’ di buonsenso, questo, questo vorrei vedere…».
Sono le esilaranti parole di Beppe Grillo durante uno dei suoi spettacoli (1), quando con ironia, anche feroce, riesce a comunicare dure verità. Una di queste è che la richiesta mondiale di energia (per usi industriali, domestici e per i trasporti) è in costante aumento e, di conseguenza, è sempre maggiore l’utilizzo di risorse per la sua produzione. Se le nazioni industrializzate continueranno a prelevare e consumare i combustibili fossili al ritmo attuale e se le nazioni in via di sviluppo le imiteranno, nel breve e medio periodo il pericolo maggiore non sarà tanto quello dell’esaurimento delle risorse (che rimane comunque un fattore importante), quanto quello dei danni irreversibili all’ambiente e, di conseguenza, alla salute umana.
Secondo i dati dell’Inteational energy agency (Iea), in 27 anni, dal 1971 al 1997, l’aumento di produzione è stato del 40% per il petrolio, del 60% per il carbone, del 140% per il gas naturale ed è quasi triplicato per l’energia elettrica in generale. In Italia i consumi finali di energia sono in crescita significativa (2).

GLI IMPATTI AMBIENTALI
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
L’analisi degli impatti ambientali della produzione e del consumo dell’energia va affrontata considerando tutto il ciclo della fonte energetica: dalla sua estrazione, all’energia prodotta negli utilizzi intermedi e finali, fino allo smaltimento dell’energia degradata e delle scorie.
Per quanto riguarda i combustibili fossili per la produzione di energia (carbone, petrolio, gas naturale) si possono individuare 2 grandi categorie di impatto: impatti a livello locale (nell’acqua, nell’aria, nel suolo) e impatti su scala planetaria. L’estrazione di combustibile (fossile, ma anche nucleare) causa infatti varie forme di inquinamento idrico, dovute ad esempio a perdite di petrolio, al raffreddamento degli impianti termoelettrici, alla fuoriuscita di inquinanti radioattivi del ciclo nucleare; in generale, qualsiasi processo energetico richiede quantità d’acqua anche notevoli, che vengono prelevate a scapito di altri usi (es. uso potabile o agricolo).
In atmosfera, invece, vengono immessi i prodotti gassosi della combustione (anidride carbonica, ossidi di azoto, ossidi di zolfo), idrocarburi aromatici, metalli pesanti, polveri, elementi radioattivi. Infine, oltre ai rifiuti prodotti, per i quali va cercata una qualche destinazione, qualsiasi fase del ciclo del combustibile implica un’occupazione di territorio sottratto ad altri utilizzi (es. all’uso agricolo, forestale, ecc.). Nel caso di miniere a cielo aperto (carbone e uranio), le scorie prodotte possono rendere inutilizzabile il suolo anche per decenni. Spesso, inoltre, i giacimenti si trovano all’interno di foreste o aree selvagge: l’esigenza di costruire strade di accesso e impianti può quindi trasformarsi in causa di deforestazione.
L’impatto ambientale non è mai slegato da quello sociale: spesso i siti di estrazione sono all’interno di foreste abitate da popoli indigeni e diventano causa di inquinamento e distruzione del territorio su cui essi vivono, se non di vero e proprio sfollamento di intere popolazioni.
A livello planetario, invece, desta preoccupazione l’immissione nell’atmosfera di anidride solforosa, derivante essenzialmente dalla combustione di prodotti petroliferi e di carbone, da cui deriva il fenomeno delle piogge acide: esse hanno effetti negativi sulla salute umana, corrodono la vegetazione, edifici e monumenti, ed inquinano le acque di laghi e fiumi.
Il problema più urgente e preoccupante è però rappresentato dal potenziale cambiamento del clima a livello mondiale, fenomeno dovuto all’effetto serra e la cui causa principale risiede nell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.

L’EFFETTO SERRA
E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
La Commissione scientifica intergovernativa sui cambiamenti climatici (Ipcc), costituita da alcune centinaia di scienziati, è stata istituita nel 1988 proprio per valutare le informazioni scientifiche disponibili sui mutamenti del clima. L’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, causato soprattutto dagli impianti di produzione di energia, concorre al graduale aumento dell’effetto serra.
Come è noto, questo fenomeno comporta il riscaldamento del pianeta e possibili cambiamenti del clima, con effetti differenti: riduzione delle risorse idriche e desertificazione in alcune regioni; crescita delle piogge, degli uragani e delle inondazioni in altre; scioglimento dei ghiacciai, aumento del livello del mare, rischio di diffusione di malattie infettive tipiche delle zone tropicali anche nelle regioni temperate, ecc.; tutti rischi dai quali l’Italia non è certo esente.
Secondo Lester Brown, presidente del Worldwatch Institute di Washington, la stabilità climatica va ripristinata tramite il passaggio da un sistema economico basato sull’energia derivata dallo sfruttamento dei combustibili fossili ad una basata sulle fonti energetiche rinnovabili e sull’idrogeno.
Tuttavia, anche le fonti rinnovabili presentano un impatto ambientale, variabile in modo significativo a seconda della fonte e della tecnologia, anche se nettamente inferiore agli impatti dei combustibili fossili.
ESISTONO FONTI «PULITE»?
Qualche esempio: occupazione del territorio (ad esempio da parte di pannelli solari) a scapito di altri usi (es. agricoli); impatto visivo e inquinamento acustico della produzione di energia eolica, che tra l’altro può essere prodotta soltanto in zone dove soffiano venti con una determinata velocità; deforestazione, desertificazione e possibile produzione di emissioni inquinanti legate alla produzione di biomassa a scopi energetici; modifiche del territorio, dell’assetto idrogeologico, della stabilità dei territori montani e del clima locale, nel caso di sfruttamento dell’energia idrica, specie dove ciò comporti la costruzione di grandi laghi artificiali. Senza contare che scarseggiano i luoghi dove costruire nuove dighe, mentre cresce l’opposizione delle popolazioni che vivono nei pressi.
Per quanto riguarda il nucleare, i rischi sono legati all’impatto radiologico, alla sicurezza di alcune fasi del processo (in particolare la sicurezza del reattore nucleare), al trattamento e messa in sicurezza delle scorie radioattive.
Ogni tecnologia va quindi analizzata non solo dal punto di vista delle emissioni, ma in base agli impatti che possono derivare da qualsiasi fase, dalla progettazione allo smaltimento. Ad esempio, le cosiddette «celle a combustibile» non producono praticamente emissioni, ma la produzione dell’idrogeno necessario al loro funzionamento avviene tramite metano, che dà origine a sottoprodotti da reimpiegare in qualche modo.
A conti fatti, non esiste un sistema di produzione di energia privo di conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione. Il termine energie «rinnovabili» non coincide con «pulite», come invece spesso viene fatto credere. L’imperativo dovrebbe consistere nel ridurre innanzitutto lo sfruttamento e l’utilizzo delle fonti energetiche, rinnovabili e non: l’energia più pulita è quella non prodotta. Pertanto, «il futuro è nelle energie pulite», frase tanto amata da media, politici e cittadini, va intesa diversamente dall’usuale.

LA SOLUZIONE È DAVVERO
NELLE FONTI RINNOVABILI?
Dopo aver ridotto gli sprechi ed i consumi energetici, lo sforzo maggiore dovrebbe essere rivolto alla produzione di energia tramite le fonti rinnovabili: il sole, il vento, la biomassa, ecc. (vedi MC, febbraio 2004). Oltre ad avere un impatto ambientale inferiore, tali fonti sono distribuite, anche se con densità diverse, su tutto il globo.
Tuttavia, in Italia, nel 2002 l’offerta complessiva di fonti rinnovabili si è ridotta di oltre il 10%, a causa della diminuzione della produzione idroelettrica, che rappresenta la principale fonte rinnovabile del paese. Questa minore produzione è conseguente alle scarse precipitazioni registrate da gennaio a ottobre 2002, fatto che conferma tra l’altro come tutti gli aspetti ambientali siano tra loro strettamente connessi.
Le fonti rinnovabili possono quindi fornire un importante contributo allo sviluppo di un sistema energetico più sostenibile e alla tutela dell’ambiente, ma anche ad incrementare il livello di consapevolezza e partecipazione dei cittadini, nonché a fornire opportunità economiche. Tuttavia, è fondamentale considerare che la nostra civiltà è oggi basata sul petrolio, perché esso rappresenta una fonte energetica versatile, applicabile agli usi più diversi. I combustibili fossili, ad esempio, permettono il funzionamento di tutta una serie di oggetti che non potrebbero lavorare ad elettricità, basti pensare al settore dei trasporti. Inoltre, consentono potenze (la potenza è l’energia nell’unità di tempo) relativamente alte e concentrate in uno spazio sufficientemente piccolo. Tutto il sistema energetico si basa sulle grandi potenze, adatte ad alimentare grandissimi insediamenti urbani ed enormi impianti di produzione industriale concentrati in determinati luoghi.
Le energie rinnovabili, invece, basti pensare al solare e all’eolico, foiscono potenze basse e diffuse sul territorio, permettendo di produrre energia su piccola scala, con impianti di produzione e di utilizzo di piccola taglia, a bassa potenza. Quindi, in realtà, l’energia rinnovabile non può sostituire immediatamente i combustibili fossili, ma solo quando cambierà il nostro modello di sviluppo e quindi il nostro stile di vita (3).
Come sarebbe il nostro stile di vita se potessimo disporre di una quantità di energia pari alla decima parte di quella attuale? Il 70% della popolazione mondiale, che vive nei paesi in via di sviluppo, usa solo il 30% dei consumi globali di energia. Esistono tuttavia forti differenze anche tra i paesi ricchi: ad esempio, per produrre un’unità di prodotto interno lordo, Usa e Canada utilizzano il doppio dell’energia consumata da Francia, Giappone, Italia.

GUERRE «GIUSTE»?
SÌ, SE C’È L’ENERGIA…
La caratteristica delle fonti rinnovabili di essere distribuite su tutto il pianeta e di essere quindi disponibili direttamente dalla popolazione che deve utilizzare l’energia, scongiurerebbe i rischi derivanti dai combustibili fossili, localizzati in particolari zone geografiche del pianeta: secondo molti addetti ai lavori, tale rischio si manifesta con l’attuale concetto di «guerra giusta».
La distribuzione mondiale delle riserve accertate di petrolio indica infatti una forte concentrazione nel Medio Oriente (oltre il 66,5% delle riserve), in Asia, Africa, Comunità di stati indipendenti (Csi, comprende parte dell’ex Unione Sovietica, ndr) mentre quelle europee ed americane sono più modeste. Le riserve accertate di gas naturale sono localizzate per il 30,4% nei paesi mediorientali, per il 38,3% nella Csi e per il 7% nel Nord America. Il fatto che i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio siano concentrate nel sottosuolo di Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran, fa sì che la regione rappresenti una zona strategica prioritaria per l’Occidente, e in particolare per gli Stati Uniti. Come riporta Ritt Goldstein, la paura di non poter effettivamente disporre di tanta energia quanta ne serve per mantenere inalterato il proprio stile di vita sembra innescare la necessità di accedere al petrolio, prospettando anche «la necessità di interventi militari», esigenza evidenziata in un rapporto americano dell’inizio del 2001 (5).
Secondo Luigi Sertorio, poiché l’energia fossile non è perenne, né equamente distribuita, si crea un nuovo concetto di «guerra giusta»: «La guerra non è per il sopruso locale territoriale, ma per il diritto al benessere di chi ha la capacità tecnologica di accedere alla sorgente del denaro, cioè l’energia» (6).
È impressionante notare quante guerre siano state combattute nel Novecento in aree ricche di fonti energetiche: dalle grandi battaglie dell’Africa settentrionale a quelle rumene, all’infinità dei conflitti in Medio Oriente, passando per i Balcani e culminando con il terrorismo in Cecenia e le guerre contro l’Iraq (7). Anche se le ragioni ufficiali sono differenti, è evidente che le aree interessate a questi conflitti coincidono perfettamente con le zone ricche di petrolio. Come ricorda anche Michele Paolini nel suo ultimo libro (8), il petrolio non è infatti solo estrazione: strategico è anche il controllo degli oleodotti e dei corridoi petroliferi.
Poiché il nostro stile di vita è assolutamente dipendente dalla disponibilità di energia, si potrebbe pensare che qualsiasi forma di energia potrebbe rappresentare motivo di scontro. Tuttavia, il fatto che il petrolio si trovi concentrato in particolari aree geografiche e che sia destinato all’esaurimento accresce enormemente questi rischi (9).
DALLA THAILANDIA
A SCANZANO IONICO
Per 8 anni la popolazione della provincia di Prachuap Khiri Kan, in Thailandia, si è battuta contro il progetto di costruire nella regione due grandi centrali elettriche a carbone, per timore dei loro possibili impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Quando il premier thailandese visitò uno dei possibili siti nel gennaio 2002, fu accolto da 20.000 dimostranti. Con l’aiuto dell’organizzazione ambientalista Greenpeace, gli abitanti della provincia hanno cominciato a installare ciò che realmente desiderano: impianti per la produzione di energia solare ed eolica (10).
Possono essere molti gli esempi di situazioni nelle quali la popolazione locale si oppone a scelte di governo ritenute non sostenibili. Come dimenticare la folla umana che a Scanzano Ionico, nel novembre 2003, ha dimostrato contro la costruzione dell’impianto di stoccaggio delle scorie radioattive?
Tuttavia, se esprimere il proprio dissenso, tramite un referendum o azioni dimostrative nonviolente, è lecito ed opportuno, altrettanto importante è anche agire coerentemente nella propria quotidianità.

LA RESPONSABILITÀ
DELLE SINGOLE FAMIGLIE
Le famiglie italiane sono responsabili annualmente di più del 30% dei consumi energetici totali. Le famiglie producono il 27% (e precisamente: il 18% per usi negli edifici e il 9% per usi di trasporto) delle emissioni nazionali di gas serra. Nel settore domestico il consumo riguarda il riscaldamento delle abitazioni e degli ambienti di lavoro, l’illuminazione, l’uso degli elettrodomestici. Secondo recenti studi, una famiglia media italiana potrebbe risparmiare, senza fare rinunce, ma semplicemente usando meno l’energia, il 40% delle spese per il riscaldamento e il 10% per gli elettrodomestici (vedi box).
Nel settore trasporti il risparmio energetico si basa, ad esempio, sulla riduzione dei consumi dei singoli mezzi su strada e sul potenziamento del trasporto collettivo, senza dimenticare che una riduzione della velocità, sia per il trasporto terrestre sia aereo, comporta risparmi consistenti. Il settore agricolo può vantare consumi energetici inferiori a causa del modesto sviluppo tecnologico del settore.
Per il settore industriale, invece, ridurre i consumi energetici potrebbe anche voler dire ridurre i costi; tuttavia, ancora oggi i costi di produzione sono tagliati sostituendo il lavoro umano con nuove tecnologie, che spesso richiedono più energia delle precedenti.
Da non dimenticare che i consumi energetici nel settore industriale comprendono anche gli utilizzi per l’attività bellica (costruzione degli armamenti, funzionamento e logistica della «macchina» bellica). In un interessante articolo Luca Mercalli (11) riprende i calcoli di Luigi Sertorio sui consumi energetici del conflitto iracheno: in ogni giorno di guerra si consuma tanto carburante da fare il pieno a 1.125.000 autovetture, quantità che provoca un’emissione annua di anidride carbonica equivalente a quella di circa 11.500 persone, quantità che «vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto».

SE IL «FRESCO» PRIVATO
È PAGATO DAL PUBBLICO
Andrea Fasullo, responsabile del settore clima ed energia del Wwf Italia, ha dichiarato che «un’economia matura è quella che a parità di benefici usa la minor quantità possibile di energia; al contrario, l’ossessione di soddisfare sempre e comunque la crescita dei consumi crea inevitabilmente circoli viziosi del tipo “fa caldo, aumentano i condizionatori, serve più elettricità”, producendo esattamente le condizioni perché i blackout avvengano».
A proposito dei condizionatori, causa di grandi consumi elettrici e conseguenti emissioni di gas serra, Adriano Paolella (12) offre un’importante riflessione, estendibile anche ad innumerevoli altre situazioni: «Il condizionatore è un sistema individuale per avere fresco, ma è anche la soluzione più asociale e di maggior impatto ambientale che si possa mettere in atto. Esso permette di ottenere un fresco privato determinando condizioni di caldo pubblico».
Non servono quindi nuovi impianti, ma la razionalizzazione della rete attuale e un serio programma per le fonti alternative. E, soprattutto, un nuovo modello di sviluppo con minori consumi e un diverso stile di vita da parte di noi tutti.
(seconda parte – fine)
Note:
(1) Le parole sono riprese da quelle dell’economista statunitense Herman Daly, che ribadisce come «Più di metà del commercio mondiale scambia beni identici, che ognuno avrebbe a disposizione anche sul posto».
(2) Fino al livello raggiunto nel 2000 di circa 185,2 Mtep rispetto al 1990 (+14,1%).
(3) Nanni Salio, Politiche globali dell’energia, in corso di stampa
(4) Fonte: Grtn (Gestore Rete Trasmissione Nazionale), www.grtn.it/ita/statistiche/datistatistici.asp.
(5) Si tratta del “Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century”; fonte: Ritt Goldstein, in Azione nonviolenta, aprile 2003.
(6) Luigi Sertorio, Il Potere del Fossile, Edizioni SEB 27, Torino, 2000; Luigi Sertorio è professore associato di Ecofisica alla Facoltà di scienze dell’Università di Torino.
(7) Carlo Bertani, Energia, Natura e Civiltà. Un futuro possibile?, Giunti, 2003.
(8) Michele Paolini, La guerra del petrolio, Editrice Berti, 2003.
(9) Per approfondire, tra gli altri: Michele Paolini, Carlo Bertani, Giulietto Chiesa, Michel Chossudovsky, MC monografico sulle guerre ottobre-novembre 2003.
(10) Worldwatch Institute, State of the World’03, Edizioni Ambiente, Milano 2003.
(11) Luca Mercalli, Clima di guerra: quali sono i costi energetici e ambientali del conflitto iracheno?, Società Meternorologica Italiana, 25 marzo 2003; Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri 2002.
(12) Adriano Paolella, Banca del Clima: un progetto per quantificare il risparmio energetico, in Attenzione, rivista del Wwf per l’ambiente e il territorio, n. 20, lug. 2003.

Bibliografia essenziale:
APAT, Annuario dei dati ambientali. Sintesi, Roma 2002
Domenico Filippone, Da onnivori a energivori! L’energia nuovo alimento della specie umana, Itinerari. Sviluppo Sostenibile?, n.5, novembre/dicembre 2001
ENEA, Clima e Cambiamenti Climatici, Roma, dicembre 2002
ENEA, L’energia e i suoi numeri, Italia 2000, Roma, ottobre 2001
ENEA, Noi per lo sviluppo sostenibile, Roma, novembre 1999
Gianfranco Bologna (a cura di), Italia capace di futuro, EMI 2000.
Worldwatch Institute, State of the World’03. Stato del pianeta e sostenibilità-Rapporto annuale, Edizioni Ambiente, Milano 2003

Alcuni siti internet:
www.unfccc.int
www.grtn.it
www.enea.it
www.bancadelclima.it
www.nimbus.it.
www.greenpeace.it
www.wwf.it

Silvia Battaglia




BOLIVIA – “Che fatica essere boliviani”

Con l’Argentina e Venezuela, la Bolivia è nell’occhio del «ciclone latinoamericano»; ma con differenze sostanziali: per esempio, non ha un accesso al mare.
La povertà si tocca con mano. Povero anche democraticamente, specialmente se si vive sotto tutela. E si muta governo ad ogni batter di ciglio.

All’inizio del nuovo millennio le nazioni che possono essere definite «democrazie» sono 86 su 193. Se un sistema politico è democratico allorché garantisce partecipazione alle decisioni e pluralismo politico, la Bolivia è un paese che può e vuole definirsi tale. Ma ha sofferto a lungo (e ancora soffre) per tale conquista.
Della Bolivia ci ha parlato Mauro Bertero Gutiérrez (*), stimolato da alcune domande e considerazioni.
STORIA POLITICA TORMENTATA
«Con il presidente Heán Siles Zuazo, 20 anni fa – ricorda il dottor Bertero -, siamo tornati alla democrazia. In una lunga storia repubblicana, caratterizzata da frequenti golpe di stato (oltre 170 presidenti in circa 150 anni), la Bolivia ha subìto gravi perdite territoriali nelle guerre coi vicini. Nella guerra contro il Cile (1879) la perdita vitale dell’accesso al mare: il Litoral marítimo, ancora oggi rivendicato (per questo le relazioni diplomatiche tra Bolivia e Cile si limitano a rappresentanze consolari e non di ambasciata); nel 1904 la cessione al Brasile dell’Acre, ricco di caucciù; nel 1933 il Chaco nel conflitto con il Paraguay. Complessivamente i territori perduti ammontano a circa 1 milione di kmq».
La mancanza di una via diretta al mare ha segnato i destini della Bolivia sia in senso commerciale, sia limitando l’immigrazione, specie verso l’Europa. La Bolivia annovera una numerosa popolazione indigena, che supera il 57% degli abitanti.
Dottor Bertero, che cosa è successo nella struttura politica boliviana dal 1982 ad oggi?
«Per capire, bisogna risalire alla rivoluzione nazionale del 1952, paragonabile a quella del 1900 in Messico e a quella cubana alla fine degli anni ’50. La rivoluzione boliviana poggiava su tre pilastri: voto universale (prima del 1952 indigeni e donne non votavano: ndr), riforma agraria e nazionalizzazioni.
Sono seguiti 12 anni di governo rivoluzionario con il cambiamento della Costituzione nel 1964 e un colpo di stato».
«Nel 1969-70 si sono avuti vari governi, sino al colpo di stato che ha portato al potere il generale Juan José Torres, di sinistra, ma che ha governato pochi mesi, perché destituito dal colonnello Hugo Banzer Suárez. Questi ha stretto forti legami con gli Stati Uniti e ha instaurato una rigida dittatura, tentando di rilanciare lo sviluppo economico, a spese però delle masse popolari, sollevando un’ondata di agitazioni che ne hanno determinato l’isolamento del paese».
E dopo questo evento?
«Nel 1978 c’è stata la pressione statunitense di Jimmy Carter e, sino al 1982, si sono succeduti sei governi di transizione, in seguito ai quali è ritornata la democrazia con Heán Siles Zuazo, che sosteneva: È necessario che questa terra continui ad essere la terra di uomini liberi! Il suo governo ha tentato invano di varare misure anticrisi, suscitando il malcontento delle masse popolari; ha rinunciato al suo mandato un anno prima della scadenza, per consentire nuove elezioni e stabilizzare l’economia con un nuovo governo».
«Nel 1985 è tornato al potere Victor Paz Estenssoro, leader del Mnr, che ha affrontato con qualche successo il riordino della finanza statale; più difficile si è rivelata la lotta alla corruzione e narcotraffico, divenuto una piaga nazionale».
Fino al 1982 in Bolivia i partiti politici sono stati un segno di speranza, mentre oggi sono forse la sommatoria di tutti i mali. Fino al 1982 c’è stata la possibilità di costruire una vera democrazia; ma in questi ultimi anni la situazione è diventata cruciale a causa di una politica «tradizionalista», per molti versi mal gestita e ingannevole. Dal 1952 al 1985 la Bolivia è passata dal capitalismo di stato a un’economia neoliberista.
È così, dottor Bertero?
«Dissento da tale modello, perché l’unica cosa che si è fatta nel 1985 è stata la stabilizzazione economica, con un modello rispondente alla disciplina fiscale: limitare le uscite rispetto alle entrate. Oggi ci ripetiamo le stesse domande: qual è il mezzo migliore per generare più crescita economica? Come trovare una più razionale ed equa distribuzione delle entrate? Come proteggere l’economia nazionale nei cicli critici dell’economia mondiale?».
Oggi in Bolivia l’indice di povertà è del 70% (34% in città): 7 individui su 10 non si alimentano a sufficienza. Sorge spontanea la domanda:
si può essere così «conservatori», senza recare insulto alla dignità di un essere umano?
«Ciò dipende da una falsa democrazia, che è solo rappresentativa e non partecipativa. Bisogna cambiare. Occorre rimpiazzare un modello economico che, finora, ha creato opportunità solo per pochi e ha lasciato ai margini una grandissima parte della popolazione. La società civile non si accontenta di essere rappresentata; vuole partecipare attivamente a proposte e soluzioni, rigettando ogni intermediazione».
FUGA DEL PRESIDENTE

Nell’ottobre 2003 si è dimesso il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Aveva già governato dal 1993 al 1997, instaurando la capitalizzazione dello stato e facendo regredire tutto ciò che si era ottenuto dal 1952. Ritornato al potere nel 2002, non ha dato alcuna risposta positiva alle istanze del popolo, che chiedeva: Assemblea nazionale costituente, referendum sulla politica energetica di esportazione del gas (contro la legge sugli idrocarburi), l’annullamento della legge sul mercato della terra e la fine della libera contrattazione, la ridistribuzione della terra, il rispetto dei diritti sociali dei lavoratori e della proprietà comune originaria, la riattivazione dell’apparato produttivo nazionale, rigettando il libero commercio dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), voluto dagli Stati Uniti.
Sanchez de Lozada è fuggito sottraendosi al giudizio-accusa di genocidio: 140 sono stati i morti durante le sommosse popolari di ottobre 2003. La gente è insorta in difesa della democrazia e delle risorse naturali del paese.
E commenta Bertero: «Noi crediamo molto nel governo, presieduto oggi da Carlos Mesa Gisbert, noto scrittore e profondo conoscitore della storia e cultura del paese. Egli è deciso a riportare l’ordine attraverso due strade: un referendum vincolante per l’Assemblea nazionale costituente e un governo senza partiti politici».
Poche risorse
molte necessità
Dottor Bertero, Washington non vede bene il nuovo presidente, e questo potrebbe far ritornare, come ai tempi della dittatura, la legge marziale. Cosa ne pensa?
«Certo, il governo di Washington ha avuto un ruolo nella crisi. Ma vi hanno contribuito anche alcuni nostri interventi, in quanto si prevedeva il rischio che a Sanchez de Lozada subentrasse Evo Morales, un leader dell’opposizione (rappresenta i coltivatori di coca nel Chapare, ndr). Secondo la Costituzione boliviana, se si dimette il presidente, gli subentra il vice presidente, evento che si è appunto verificato».
Il nuovo presidente ha riconosciuto la gravità della crisi, definendola strutturale, fonte di ribellioni, perché esclude i popoli indigeni. Sarà possibile riscrivere il contratto sociale e rifondare la nazione?
«La rifondazione è urgente. Carlos Mesa ha già dimostrato la sua sensibilità nella crisi politica che la Bolivia sta vivendo: per questo ha chiesto al Congresso di fare un governo senza partiti politici, riducendo la notevole pressione. Inoltre ha lanciato importanti messaggi, dimostrando di essere vincolato ad una società che domanda di partecipare alla vita democratica reale».
Ciò che preoccupa maggiormente Washington è l’Assemblea costituente, che potrebbe portare la Bolivia a una soluzione «alla venezuelana». È un timore fondato?
«Tutti i boliviani devono capire che bisogna favorire il cambio e non essere “conservatori”: non si può continuare a vivere in una democrazia basata sulla povertà. Abbiamo bisogno di cambiamenti strutturali: chi ha troppi privilegi deve rinunciarvi in parte, per una più equa ridistribuzione di beni e servizi».
Però, è impossibile un passo avanti, senza incidere nella politica latifondista in mano a poche famiglie? È possibile un’apertura in favore della collettività meno abbiente?
«Al riguardo c’è già un processo, iniziato qualche anno fa. Se un latifondista ha 100 mila ettari e li fa produrre, creando 2 mila impieghi, egli compie una funzione sociale ed economica. Invece preoccupa chi ha molte terre e non produce per il bene comune. Credo che sia possibile ridistribuire le risorse e, nel contempo, far capire alla gente che la terra bisogna lavorarla: con la riforma agraria del 1952, a ogni contadino si sono distribuite terre, ma non assistenza tecnica, credito agricolo… È indispensabile, per così dire, democratizzare lo sviluppo sia politico che economico».
Sarà possibile, con una democrazia più partecipata, la rifondazione istituzionale per un nuovo patto sociale?
«I partiti politici tradizionali vogliono che Carlos Mesa finisca il mandato nel 2007; capi dell’opposizione, invece, Evo Morales e Felipe Quispe, vogliono elezioni immediate, perché credono di vincerle. Mesa ha parlato di governo di transizione di almeno un anno. Ma i problemi non sono stati risolti con il cambio del presidente, a partire da quelli strutturali dell’intera economia».
Forse la Bolivia non sarà più la stessa, soprattutto per le troppe ferite subite in passato e di recente: lei è più ottimista?
«Il fallimento del processo rivoluzionario è dipeso dal non avere creato le condizioni per una identità nazionale: la vera sfida della Bolivia è «cominciare a essere Bolivia». Al nostro interno ci sono regioni che credono di avere la prevalenza sull’unità nazionale; per questo si teme la federazione. La sfida, quindi, è credere in uno stato in cui potersi identificare e che non può escludere lo sviluppo umano.
Personalmente sono ottimista: si può e si deve cambiare la pseudo democrazia in vera democrazia. Un cambiamento che deve avvenire attraverso l’istituzione di un governo capace di amministrare bene poche risorse per molte necessità. Ossia: privilegiare lo sviluppo umano e le necessità di chi ha meno». •

(*) Mauro Bertero Gutiérrez, 45 anni, boliviano di origine piemontese.
Dal 1985 al 1989 presidente della Banca Nazionale di Agricoltura e, dal 1989 al 1992, ministro dell’Agricoltura. Portavoce del presidente nel 1997 e poi ministro dell’Informazione. Oggi è segretario del partito «Azione democratica nazionalista». Si è laureato in Economia in Brasile e ha conseguito il «Ph.D.» in Scienze economiche alla Coell University di Ithaca, New York.

L’articolista ringrazia Domenico Bertero Gutiérrez, Console generale di Bolivia a Torino dal 1991, per avergli dato l’occasione di intervistare il fratello Mauro.

Eesto Bodini




Dossier – All’ombra del baobab

Vivono in un piccolo villaggio, in uno dei paesi più poveri del mondo. Cercano di conoscere la gente, ma ci vuole tempo e adattamento.
Il loro piano finanziario: la provvidenza.

Siamo in piena savana africana, nel centro del Burkina Faso in Africa Occidentale. Nella lista delle Nazioni Unite circa l’indice di sviluppo umano, questo paese ha lo strano primato di essere da anni il terzultimo, dopo altri 173 paesi che in teoria «stanno meglio».
Intoo è tutto secco in questa stagione: da ottobre a inizio giugno la terra non vede una sola goccia d’acqua. L’erba è gialla; i pochi alberi riducono al minimo il metabolismo. Gli statuari e imponenti baobab, alberi magici da queste parti, perdono le minuscole foglie, in attesa delle prossime piogge.
In questa regione, non lontano dalla città di Kupela, vivono in prevalenza popolazioni di etnia mossì (maggioritaria nel paese), coltivatori, e gli onnipresenti allevatori peul. Ci avviciniamo al villaggio di Kanougou, che in lingua moore (parlata dai mossì) significa «senza mani». La gente vive in gruppi di case famigliari, fatte di fango essiccato e con tetti di paglia.
Oltre a mossì e peul, da circa un anno e mezzo a Kanougou vivono due italiani: Paolo e Caterina. Paolo Turini, «Turpa» per gli amici, capelli sempre cortissimi, forte accento toscano, corporatura robusta, è di Montevarchi (diocesi di Fiesole). Caterina, minuta, lunghi capelli neri, parlata tranquilla, è sarda di Bolotana (Nuoro).
Li incontriamo nel cortile di una famiglia del villaggio. Stanno facendo un giro di visite ai presepi realizzati dai bambini. L’Africa, e il Burkina in particolare, ha avuto un peso decisivo nella loro vita, innanzitutto perché li ha fatti incontrare.
Tutto per caso …

Alcuni anni fa, Paolo era capo scout a Montevarchi. Gli capitò di assistere alla presentazione di un missionario in Bolivia; nacque in lui l’idea di un viaggio di conoscenza. «Lo chiesi a don Gabriele Marchesi, allora responsabile diocesano per le missioni; mi spiegò che avrei dovuto seguire un corso per poi sperare di partire d’estate».
Il sacerdote disse a Paolo che cercava qualcuno per piastrellare un dispensario di una missione africana, perché la persona che doveva andare aveva rinunciato. «Non sapevo fare quel lavoro – spiega Paolo -, ma avevo un amico che mi avrebbe potuto insegnare. Feci la proposta a don Gabriele. Egli era dubbioso; voleva un esperto, ma accettò la sfida».
Paolo si fece insegnare i rudimenti del mestiere durante i fine settimana; poi riuscì a prendere un mese di aspettativa dal lavoro; nel dicembre 1994 partiva per l’Africa. Era la prima volta e proprio a Kanougou svolse il suo primo servizio.
Qui conobbe don Carlo Donati, anche lui della diocesi di Fiesole, responsabile dell’associazione «Campo di lavoro del santo Natale», che da anni segue progetti e organizza scambi con il Burkina Faso.
Tornato in Italia, Paolo decise di lasciare gli scout e investì le sue energie nella creazione del centro missionario di Montevarchi, organizzando concerti, serate, sensibilizzazioni a favore dei missionari della diocesi.
Il suo impegno crebbe e, con esso, anche la voglia di ripartire. «Da quell’anno, tutte le mie ferie sono state dedicate a viaggi di servizio in Burkina e il mio tempo libero in Italia ad attività di appoggio alla missione».
Caterina, infermiera professionale, arriva in Burkina anche lei un po’ per caso. «Lavoravo a Nuoro e mi capitò di assistere un’infermiera in pensione, che aveva lavorato due anni in Burkina Faso – racconta -. Avevo sempre avuto un desiderio nascosto di andare in Africa, ma non avevo mai avuto occasione».
Caterina insiste perché l’anziana l’accompagni in un viaggio di conoscenza e di servizio. Così, alla fine del 1996, si ritrova al dispensario di Kupela, gestito dalle suore camilliane.
Sotto la Croce del Sud
È nel centro diocesano di accoglienza di Kupela, a 140 chilometri dalla capitale Ouagadougou, che Paolo e Caterina s’incontrano per la prima volta. «Qui transitano molti volontari, legati a missionari o a diocesi italiane che collaborano con quella di Kupela – racconta Paolo -. Quella sera di dicembre, qualcuno ci disse che in questo cielo si può vedere la Croce del Sud, ma solo in certe stagioni e di mattino presto».
Un gruppo di italiani, impegnati su diversi progetti, che casualmente si trovavano al centro, decise di darsi appuntamento alle cinque del mattino, per uscire in savana a contemplare la costellazione. «Io mi svegliai – dice Paolo – andai a chiamare gli altri. Ma solo Caterina si alzò. Fu così che iniziammo a conoscerci».
Rientrati in Italia, i contatti tra Nuoro e Montevarchi si intensificano, anche per attività di animazione missionaria; ma la distanza è grande. Paolo vola a Nuoro per una testimonianza; Caterina organizza una visita a Firenze. Nel frattempo Paolo, che ha iniziato a lavorare alle ferrovie, chiede e ottiene il part time «verticale» (15 giorni di lavoro al mese), che gli permette di dedicare molto tempo libero alla «sua» Africa.
Sono fidanzati, quando alla fine del 1998, decidono di partire per due mesi e mezzo in Burkina. I missionari li destinano a missioni diverse, piuttosto lontane tra loro: «Ci vedevamo e sentivamo meno che in Italia – scherza Paolo -. Verso la fine di quel periodo, insieme, incontrammo una persona che è ancor oggi il nostro ispiratore: fratel Silvestro Pia, religioso della Sacra Famiglia, in Burkina da oltre 40 anni, deceduto nel gennaio 2003».
La guida
«Ci siamo sposati il 2 ottobre del ‘99 e abbiamo chiesto un anno di aspettativa, per sperimentare una presenza più lunga in Burkina – racconta Caterina -. Dieci giorni dopo eravamo sull’aereo».
Raggiunto fratel Silvestro a Kudougou, Paolo è impegnato nella formazione professionale, Caterina in un centro nutrizionale. Il religioso li fa riflettere sulla possibilità di dedicarsi totalmente ai burkinabé, per un impegno di lunga durata nel paese. Chiede a Paolo di continuare l’attività nell’insegnamento dei mestieri, dato che è molto abile in falegnameria, costruzioni metalliche e altre attività tecniche.
«Silvestro è stato per noi guida spirituale e punto di riferimento – spiega Paolo -. È l’unico che ci ha incoraggiati a lasciare tutto e partire. Diceva “Se voi lavorate per il Signore, troverete sempre la soluzione”. Ci ha tranquillizzati sul futuro».
Continua Caterina con un po’ di emozione: «Disse che ci avrebbe seguiti anche se fossimo andati a realizzare l’opera lontano…».
Ma l’anno di aspettativa termina in fretta; bisogna scegliere: rientrare o fare una scelta ancora più radicale. «A questo punto abbiamo capito che potevamo farcela: abbiamo deciso di licenziarci, per impostare una nostra presenza qui senza limiti temporali» racconta Caterina.
«La nostra idea – continua Paolo – è la possibilità di mettere i nostri talenti al servizio degli altri. Questo può avvenire anche in Italia; ma lì io li usavo per me, mentre qui riesco ad aiutare qualcun altro a crescere».
«Dopo tante esperienze in pochi mesi, abbiamo capito che per avere più frutti occorre seguirli da vicino» conclude Caterina.
I Lion’s e gli altri
Dopo un periodo con i camilliani a Ouagadougou, nel centro per i malati di Aids, arriva una proposta allettante: realizzare un centro di formazione professionale nella diocesi di Kupela. «Sono i Lion’s di Montevarchi a proporsi come finanziatori – spiega animatamente Paolo -. Era l’occasione che aspettavamo. Insieme a don Gabriele e al vescovo di Kupela, mons. Sérafin Ruamba, abbiamo studiato il progetto nei dettagli».
Si trasferiscono a Kanougou, villaggio già noto a Paolo, e organizzano i preliminari. Ma qualcosa nei Lion’s non funziona: «Avevamo già acquistato il terreno, quando ci fanno sapere che i principali donatori erano falliti e non ci daranno una lira». Sembra il crollo di tutto, ma i due non demordono. Si affidano alla «provvidenza», dichiarano più volte. E la loro fiducia viene premiata.
«Si può dire che è la provvidenza, perché sono molte le persone, alcune appena conosciute, che hanno reso possibile il progetto». I centri missionari di Montevarchi e Nuoro, organizzando serate e concerti, riescono a raccogliere i soldi per la cisterna; un dottore, conosciuto in Burkina, mobilita amici per pagare la perforazione di un pozzo per l’acqua potabile; una donatrice di Catania, la sorella di Paolo, ex colleghi mettono insieme oltre 16 mila euro per pagare la costruzione di due laboratori. «Pensate, una signora di Chieti vende presepi per finanziarci e noi non l’abbiamo mai incontrata!».
«E il vostro budget per il 2004?».
«È ancora “la provvidenza”, che si concretizza in due conti bancari, uno in Italia e l’altro in Burkina, dove versano vari donatori».
Vita di villaggio
Occorre del tempo per abituarsi a vivere in un villaggio della savana burkinabé; è tutt’altra cosa che vivere in città. Paolo, con la sua abilità, adatta due stanze del dispensario delle suore come abitazione essenziale. Occorre procurarsi l’acqua, che proviene da una perforazione, mentre l’elettricità è prodotta da un impianto solare, dono di un amico.
Allo stesso tempo inizia i lavori di costruzione del centro di formazione, che prevede falegnameria, saldatura e riparazione di biciclette.
Caterina si occupa di animare i giovani del villaggio, per iniziare a coinvolgerli in diverse attività, come la produzione di statuette di gesso, che saranno vendute nella capitale. «Stiamo iniziando a conoscere la gente – racconta Caterina – e non è una cosa rapida. Per esempio, riusciamo a coinvolgere un gruppo di giovani di un quartiere; ma ci accorgiamo che non chiamano quelli di altri quartieri, a causa di piccole rivalità. Quindi siamo noi che li andiamo a cercare».
I problemi sono tanti. Il clima: in aprile e maggio la temperatura supera anche i 45 grandi all’ombra. Le malattie: qui occorre proteggersi costantemente dalla malaria, parassiti e infezioni alimentari.
Ma le vere difficoltà sono altre. «Spesso, mi spiace dirlo, abbiamo avuto incomprensioni nella collaborazione con i religiosi italiani – spiega Paolo -. Altro fattore importante è la gelosia tra la gente. Dobbiamo stare attenti a non creare squilibri; occorre consultare sempre le figure di riferimento del villaggio: il capo, i responsabili culturali. E poi i tempi, che non sono i nostri e rischiamo, con le nostre programmazioni, di turbare le persone».
Il loro orizzonte temporale: «Finché c’è la salute, pensiamo ai primi dieci anni».
Gli chiediamo se si sentono laici missionari. «Eh! Missionario è una parola grossa. Siamo “amici degli africani”. Abbiamo un ideale: fede e povertà».

Marco Bello




Dossier – Bisturi miracoloso

È il primo volontario laico che ha legato la sua vita a quella dei missionari e missionarie della Consolata, spendendosi a favore degli africani.
A 50 anni dalla morte, la sua memoria è sempre viva tra la gente del Kenya, non solo per la sua professionalità, ma soprattutto per la grande umanità e profonda fede cristiana che hanno animato la sua scelta.

«Ho l’onore di incontrarmi con il medico più famoso del Kenya e il più grande amico degli africani»; così Jomo Kenyata, in visita all’ospedale della Consolata di Nyeri, salutava il dottore Paolo Chiono, nel 1950, mentre il leader kenyano percorreva il paese arringando le folle contro il potere coloniale.
Il dottore non fece caso alla prima definizione, ma si compiacque della seconda: era quello che voleva essere e tale si sentiva, grande amico degli africani.
«dottore buono»
Era nato a Castellamonte (Torino), il 20 agosto 1909, da famiglia benestante. Frequentò il liceo Botta di Ivrea; quindi s’iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, dove conseguì la laurea nel 1933 e fu assunto come assistente volontario presso la clinica chirurgica all’ospedale «San Giovanni». In breve tempo acquisì notevolissime capacità professionali, specialmente in campo chirurgico e urologico.
Scoppiata la guerra in Etiopia, nel 1935, chiese e ottenne di parteciparvi come sottotenente medico. L’anno seguente sbarcò a Massaua e proseguì verso il cuore dell’altopiano etiopico, al seguito dell’esercito. Negli scontri con i soldati etiopici i feriti erano così numerosi da dovere operare notte e giorno. Senza risparmiarsi, il dottor Chiono curava tutti, sia italiani che etiopici. Nei momenti tranquilli si dedicava all’ambulatorio degli indigeni.
Da Addis Abeba così scriveva alla zia Antonietta: «La mia vita qui è piena di lavoro senza soddisfazione. Però il maggiore medico ora non muove un dito senza chiedermi consiglio. Il lavoro è enorme; e tu sai che se io lavoro, non faccio le cose a metà. Ne ho da mattina a sera».
Alla fine del 1937 si fece trasferire all’ospedale militare di Lechemti, nel Wollega, 400 km a ovest della capitale, perché «stanco di stare sotto padrone – scriveva alla zia -. Volevo essere libero di fare a modo mio per i pochi mesi che rimangono da trascorrere ancora in Africa».
Fare a modo suo significava non concedersi un momento di riposo, fino a soffrire di esaurimento e inappetenza: operava nell’ospedale, prestava servizio presso l’ambulatorio della missione dei padri e suore della Consolata, visitava i malati a domicilio, si spingeva nei villaggi più sperduti, curava i più poveri e dimenticati, fino a distribuire loro corredo e stipendio. A una suora che gli faceva osservare come in una settimana la busta paga era già vuota, rispose con un sorriso: «Che m’importa di avere più quattrini o meno? Quando ne ho a sufficienza per vestirmi e nutrirmi, mi basta».
Gli africani lo definirono subito «il grande medico che vuole bene agli africani». Il tam tam della brughiera ne sparse la fama di dottore prodigioso, che curava le malattie inguaribili: i pazienti affluivano dalle regioni più lontane.
All’inizio del 1938 fu chiamato in Italia al capezzale del padre. La popolazione di Lechemti e dintorni salutò l’akimi garidà (il dottore buono) piangendo e accompagnandolo per 4 km; anche lui si commosse fino alle lacrime.
medico e missionario
A Torino il dottor Chiono riprese l’attività nella clinica chirurgica dell’Università; si iscrisse a corsi di specializzazione in chirurgia e urologia; vinse due concorsi per un posto in ospedale ad Aosta e Savona, ma vi rinunciò. Amici e colleghi gli prospettavano una brillantissima carriera professionale e accademica, ma nulla riusciva a renderlo felice.
L’esperienza etiopica, la povertà degli africani e i loro bisogni in campo medico, il contatto con i missionari e missionarie della Consolata lo avevano cambiato. Ancor prima di tornare in patria, aveva ventilato l’idea di spendere la vita a servizio dei poveri in qualche paese africano, dove sarebbe stato più utile che in Italia. Ma come? Non esistevano organizzazioni inteazionali a cui appoggiarsi.
L’idea del dottor Chiono era giunta, tramite le suore, nella missione di Nyeri (Kenya), dove l’ospedale appena costruito era alla ricerca disperata di un medico. Nel maggio 1939 mons. Carlo Re, vicario apostolico di Nyeri, di passaggio in Italia, propose al dottore di recarsi nella sua diocesi per dirigere i servizi sanitari come medico missionario. La proposta fu per lui come un invito a nozze; seduta stante rispose: «Sarò medico missionario».
Per evitare che il lento distacco diventasse un’agonia, tenne nascosta la sua scelta ad amici e colleghi: diede loro l’addio per telefono, da Messina, prima d’imbarcarsi sulla nave Rosandra. Era il 23 ottobre 1939. «È fatto, padre! Sono missionario come voi» disse a uno dei missionari che lo accompagnavano, appena la nave uscì dal porto.
Giunto a Nyeri, ancora vestito da viaggio, fu chiamato per un difficile intervento su una partoriente: il laborioso taglio cesareo salvò madre e figlio. E subito, come capita in Africa, si sparse la voce che alla missione era arrivato un medico «giovane e buono» che si sarebbe preso cura degli africani.
In poco tempo organizzò l’attività dell’ospedale con tutti i suoi servizi e visite periodiche ai dispensari delle altre missioni. Di notte scriveva articoli su elementari norme di igiene, da pubblicare in lingua kikuyu sul mensile Wathiomo Mukinyu (L’amico vero). Insisteva nel dire che non bastava curare le malattie, ma bisogna cogliere ogni occasione per istruire ed educare.
Per otto mesi si prodigò come era suo stile, prendendosi uno svago e riposo mentale, in qualche fine settimana, andando a caccia. Al ritorno, distribuiva di persona la carne alle varie cucine della missione.
tra i reticolati
Ma arrivò il fatidico 10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra e tutti i missionari italiani, lui compreso, furono arrestati e inteati, prima a Kabete, presso Nairobi, poi a Koffiefontein (Sudafrica), dove rimase per tre anni, insieme a un migliaio di altri prigionieri civili e militari.
Anche qui il dottor Chiono continuò la sua opera di medico e di missionario: fu soprattutto grazie a lui che il 98% degli inteati ritornarono alla pratica religiosa.
A metà agosto del 1943, dottore e missionari furono riportati nel campo di Kabete. Dopo un anno di trattative diplomatiche, i padri poterono tornare nelle loro missioni, mentre il dottore, sospettato per i suoi trascorsi in Etiopia, fu trattenuto ancora un anno, «il più terribile della mia vita» racconterà più tardi.
«La mia anima è piena di mestizia – scriveva ai familiari – e cerco disperatamente rifugio in Chi solo può tutto». Nonostante godesse di grande prestigio presso i compagni di sventura e le autorità, tanto da essere chiamato per i casi più difficili a operare nell’ospedale civile di Nairobi, solo la preghiera e le notizie provenienti da Nyeri riuscivano a fargli superare lo stato di tristezza.
I missionari tentarono tutte le strade, fuori e dentro la colonia, per liberarlo dalla prigionia, finché si rivolsero al «Consiglio indigeno» di Nyeri: l’assemblea di cattolici e protestanti inviò una petizione alle autorità coloniali, illustrando come l’opera del dottore era indispensabile ai kikuyu. E fu liberato finalmente.
«da paolo non si muore»
Nel settembre 1945 il dottor Chiono fece ritorno al suo ospedale e riprese il lavoro con entusiasmo e dinamismo, come se volesse recuperare i cinque anni perduti in prigionia. Anzitutto istituì un corso per infermiere africane, per avere personale locale specializzato sia in ospedale che negli ambulatori delle varie missioni: tre di essi furono affidati a suore indigene. «La loro formazione – scriveva – mi è costata enormi sacrifici, se pensiamo alla poca istruzione avuta in precedenza, ma sono felice di averli fatti, vedendo gli ottimi risultati».
Alcune operazioni chirurgiche e conseguenti guarigioni avevano del miracoloso agli occhi degli africani, che pensarono a diffondee la fama in tutto il Kenya. Il suo nome era diventato una leggenda. «Kwa Paulo gutikuaguo» (da Paolo non si muore) dicevano con uno slogan che passava di bocca in bocca.
Ma la fama moltiplicava il numero dei pazienti, obbligando il dottore a orari massacranti, interrotti soltanto dal tempo dedicato alla preghiera e all’hobby della caccia e pesca.
Ben presto arrivarono i riconoscimenti ufficiali: nel 1950 Kenyata lo definiva «il più grande amico degli africani»; le autorità coloniali lo additavano ad esempio; lo stesso anno, dal Vaticano, arrivò la nomina a Cavaliere dell’Ordine di san Gregorio Magno. L’anno seguente scoppiò improvvisa la rivolta dei mau mau contro il governo coloniale inglese. Il dottor Chiono curava tutti, feriti ribelli e loro vittime, senza chiedere da che parte stessero, guadagnandosi il rispetto dei guerriglieri, che gli fecero pervenire questo messaggio: «Uccideremo tutti i bianchi, te no!». Avvalendosi di tale garanzia, si spingeva nei posti più pericolosi per soccorrere i feriti.
bisturi e rosario
«Mi sono creato un piccolo mondo e me lo vivo» scriveva alla sorella Nella. L’ospedale, curato nei minimi dettagli, portato da 20 a 100 posti letto, aggiornato con laboratori e attrezzature sempre più modee ed efficienti, e poi la formazione del personale, la ricerca scientifica sulle patologie tropicali, medicine vegetali, cura e prevenzione di malattie dovute a situazioni sociali, ambientali e culturali… erano il suo mondo, in cui si sentiva pienamente realizzato.
La chirurgia, soprattutto, era per lui un’arte bella: dopo certi interventi provava la soddisfazione che ha un artista davanti alle sue opere migliori. «Ho meditato sul mio bisturi – confessava un giorno a suor Giulietta, sua aiutante -. Più lo medito e più comprendo che grande cosa abbia fatto il Signore, quando diede all’uomo la capacità e la scienza di usarlo: quante vite si può salvare!».
Ma il dottor Chiono non si attribuiva il merito dei suoi successi, come aveva scritto in un foglietto, conservato nel suo libro di preghiere: «Sono io che taglio, ma chi fa tutto il resto e guarisce è il Padre Eteo: che cosa potrei fare io se Egli non mi aiutasse?».
In gioventù egli aveva ostentato un certo snobismo da libero pensatore; ma durante l’esperienza etiopica ritoò con fervore alla pratica religiosa; negli anni seguenti, preghiera e meditazione furono la spina dorsale della sua vita di medico e missionario. «Credi alle mie parole – scriveva al cognato dottor Pesando -, conosco la vita, gli uomini e le cose. La mia conoscenza è stata affinata da anni di sofferenza e di solitudine, solo rallegrata dalla parola scritta dai Grandi, che sono gli unici miei amici».
Prima di ogni intervento pregava e faceva pregare assistenti e pazienti. Il rosario, soprattutto, era la preghiera preferita. In auto era sempre lui a invitare i compagni di viaggio, missionari compresi, a recitarlo, dicendo «che quello era il migliore preventivo contro il mal di schiena».
Un giorno smarrì il suo rosario; lo trovò la mattina seguente su un tavolo dell’ospedale: lo prese con un sospiro di sollievo, dicendo: «L’ho cercato fino a mezzanotte».
«Con le scarpe ai piedi»
Impegnato senza riserve per la salute altrui, il dottor Chiono non ebbe altrettanta sollecitudine per quella propria. Nel 1951 fu colpito da malaria cerebrale, che superò con un periodo di vacanze al mare di Mombasa. L’anno seguente ebbe un secondo attacco: ancora convalescente riprese il suo lavoro all’ospedale.
Era cosciente della gravità della sua situazione; ma a chi gli consigliava di tornare in Italia per rimettersi in sesto, un giorno rispose: «Vorrei morire con le scarpe ai piedi, come un soldato sul campo di battaglia: morire in sala operatoria, con il bisturi in mano». E fu così.
Il 3 luglio 1953, visitò tutti i pazienti e preparò strumenti e libri per andare a sostituire un collega nell’ospedale di Nkubu; ma durante la notte fu colpito dal terzo attacco di malaria e fu fatale. Spirò la mattina del 6 luglio, assistito dai missionari e dal vescovo mons. Carlo Cavallera, dopo aver cercato di dare un ultimo bacio al crocifisso.
Fu sepolto nel cimitero della missione e, dieci anni dopo, i suoi resti furono trasferiti all’interno stesso del suo ospedale, vicino alla cappella, ove si trovano tutt’ora. Accanto alla tomba è stato di recente inaugurato il reparto di oculistica, ad opera della Fondazione Paolo Chiono, creata dall’omonimo nipote dell’illustre medico missionario.
Ancora oggi in Kenya la sua figura è ricordata con grande venerazione, non solo per la professionalità, ma soprattutto per i valori umani e cristiani profusi a favore degli africani, come testimonia pure il suo testamento: «Ho amato i kikuyu senza misura né limite, come del resto loro sanno; e auguro loro da questo letto la elevazione e la redenzione completa e sollecita». •

Benedetto Bellesi




Dossier – Pioggia di… solidarietà

Le catapecchie sono arrivate anche nella zona residenziale di Westlands, territorio della parrocchia-santuario della Consolata. Borghesi e commercianti le bruciano, perché non vogliono poveri tra i piedi. Padre Franco Cellana ha mobilitato parrocchiani e vari gruppi di amici italiani che, donando cuore e tempo, hanno reso possibile un’infinità di iniziative per il recupero materiale, sociale e spirituale di tanti sfortunati.

Il primo incontro con padre Franco Cellana avvenne nel 1985, sotto il cielo africano di Iringa (Tanzania), assieme a memorabili missionari, come Giovanni Borra, Aldo Pellizzari, recentemente scomparso, Sergio Antonucci e tanti altri. Da allora non ci siamo più persi di vista. Il nostro è un legame profondo e prezioso, fatto di condivisione di valori e intenti, giornie, sofferenze e speranze.
Sono tre anni che non ci vediamo. Benché in questo triennio, mio marito Andrea, la figlia Alessia e io lo abbiamo seguito passo passo, non vediamo l’ora di sentire da lui i particolari della sua esperienza nella contrastante, cruenta, spasmodica Nairobi. Sarà cambiato?
Lo incontriamo al suo paese, in Trentino, dove è tornato per una breve vacanza. All’arrivo abbiamo immediata la risposta. È in forma smagliante. Intonse la carica vitale, l’energia, la luce degli occhi e del sorriso. In un abbraccio commosso si sciolgono tutti i nodi dei dubbi e nostalgie per la lunga lontananza. È subito casa, subito famiglia nella gioia di ritrovarci. Ed è subito dialogo e storia vissuta.
Luci e ombre a Nairobi…
«Sappiamo del tuo arrivo a Nairobi, dei primi passi in quell’ambiente così diverso e contrastante, delle tue attività e iniziative. Dopo tre anni e mezzo in quella città, hai qualcosa di speciale da comunicarci?».
La risposta è immediata, solida, fluidificante, come lo scorrere delle immagini in un film. «Intanto ti dico che dopo tre anni a Nairobi, nel santuario della Consolata, mi sento diverso, arricchito umanamente e spiritualmente. La pastorale urbana nelle metropoli africane è una sfida enorme. Catechesi, liturgia, servizio sacramentale, dimensione di giustizia e pace vanno rivedute e corrette.
All’inizio è stato un apprendistato di contatti e conoscenze, un girovagare fra grattacieli e supermercati, un circolare tra le potenti macchine Toyota, Mercedes e Pajero, fino a scoprire che la nostra comunità era composta da ricchi e benestanti, da professionisti e lavoratori, da una larga fetta di poverissimi, relegati nelle baraccopoli o sulle strade. A questi in particolare ho diretto la mia attenzione e cura, cercando di coinvolgere anche tutte le altre forze pastorali. “I poveri li avrete sempre con voi” ha detto il Signore.
Volete che vi conduca in uno slum? Ce ne sono ben 130 di questi insediamenti informali a Nairobi. Ebbene, immaginate un alveare di capanne di lamiera, fango o cartone e plastica. Qui manca tutto: luce, acqua, servizi igienici, strade. Al suo interno crudezza e degrado, emarginazione e miseria. Lo stato di denutrizione per molti è permanente, con una infinità di malattie, molte delle quali endemiche: tifo, malaria, colera, Aids, infezioni intestinali, scabbie ecc. Atmosfera infeale, odori indescrivibili di liquami nauseabondi. Là si nasce nella precarietà, si vive su limo infido, si muore senza formalità. La gente vive in uno stress fisico e psicologico, senza valori né vita familiare, nella paura e nella violenza. Lì ho trovato una umanità che soffriva senza alcun sollievo.
Poi ho scoperto i ragazzi di strada, una miriade. Piccoli e grandi, sporchi, stracciati, allucinati dalla colla-benzina, la loro droga povera. Cielo come tetto, erba o marciapiede come materasso. Vita improvvisata, alla giornata, senza futuro. Questo il mio inizio. Primo impatto, primo desiderio: intervenire per un recupero materiale, sociale, morale e spirituale di tutti loro».
Il miracolo della solidarietà
Ho bisogno di una spiegazione. «Come hai fatto a programmare, organizzare e portare avanti questi ideali di promozione umana, recupero delle coscienze e dignità?». La riflessione di padre Franco diventa tagliente, coinvolgente e chiara.
«Assieme alla comunità parrocchiale, sono partito con semplicità e con l’intento primario di essere segno di speranza e consolazione per tutti. L’imperativo? Non è lecito annunciare il vangelo senza metterlo in pratica. L’asso nella manica? Confidare nella provvidenza, dalla quale non sono mai stato deluso.
C’è stato subito bisogno di intervenire per ricostruire le baracche bruciate con petrolio, da qualcuno che non accetta questi insediamenti umani, o rifare quelle di cartone e sacchi di plastica. Occorreva qualche intervento rapido: acqua pulita per i tre villaggi, asilo per i bambini, toelette e docce, assistenza medica di prima necessità, un laboratorio per i giovani e donne senza lavoro, cibo e vestiti per i ragazzi di strada.
Ecco allora la provvidenza! Amici e conoscenti hanno aperto il loro cuore: alcuni hanno donato il proprio tempo, risparmi e frutto del loro lavoro e sacrificio. Sì, tutto questo si è potuto realizzare solo con la condivisione. La mia famiglia e gli amici delle valli trentine, il gruppo degli Amici di Tione di Trento (Africa Rafiki), quello di Roma (Africa Sì), amici di Torino e di altre parti di Italia, come voi del Mugello, tutti insieme siete stati una vera provvidenza.
Vorrei elencarli uno per uno questi uomini e donne, famiglie, alunni che, uscendo dal torpore del qualunquismo e in mezzo ai loro affanni ordinari, hanno trasformato l’indifferenza in attenzione e la passività in azione. Alcuni in particolare sono stati, straordinari; ma sottolineo l’importanza di ognuno di loro: qualcuno è una goccia, qualcun altro una brocca, ma insieme formano un mare di bene e di amore.
volontariato: risorsa umana
Mi viene spontanea una domanda, quasi una sfida: «Padre Franco, tu sai quanto noi crediamo nella grande risorsa del volontariato; riteniamo che, per cambiare le coscienze e il corso della storia del nostro tempo, occorra partire da una vita esperienziale e non di sole parole. Abbiamo bisogno di modelli, di testimoni. Avendolo sperimentato di persona, sappiamo quanto affonda nel cuore l’esperienza missionaria, il contatto diretto con una realtà religiosa, culturale e sociale diversa. Ritieni che sia importante uscire dallo stereotipo di “sostenitore economico” a favore di una più attiva collaborazione e condivisione dell’attività apostolica e missionaria?».
«È bella e attuale la domanda che mi fai. Tento di rispondere attraverso la mia stessa esperienza degli anni di missione. Fin dal 1986, per esempio, ho avuto modo di sperimentare in Tanzania la validità della presenza del gruppo missionario Alto Garda e Ledro. Da allora i suoi volontari, con efficienza, serietà professionale e spirito cristiano, non sono mai mancati per offrire validamente la loro opera di sostegno allo sviluppo e alla promozione umana nelle comunità più bisognose.
Il coinvolgimento e la solidarietà verso il mondo missionario sono una vera benedizione. È la nostra stessa vocazione cristiana che ce lo chiede, per questo hanno un’importanza vitale per l’attuazione del messaggio evangelico che ci fa essere tutti missionari gli uni verso gli altri. Io sono d’accordo in un maggior coinvolgimento attivo al nostro fianco e nel mezzo delle comunità locali. L’appoggio economico è il frutto di questa presenza. Prego che in ognuno sgorghi il coraggio della missione e io sono felice di poter essere uno strumento e un’opportunità perché ciò avvenga.
Chi è andato in Tanzania o è venuto negli slums di Nairobi ha potuto condividere con la gente disagi, fatiche e speranze. Queste persone hanno saputo dare tanto; hanno lasciato le loro famiglie e passatempi, si sono giocate le ferie senza nessun tornaconto, mossi soltanto dal desiderio di fare il bene. Non è missione questa? Non è missione la testimonianza che portano a casa, coinvolgendo altri? Così diventano protagonisti: gente che crede nell’uomo, nella giustizia, nella pace e s’impegna a tessere la storia di Dio in un modo diretto, facendosi trama del tessuto…».
Padre Franco si sofferma a ringraziare tutti a piene mani. Ringrazia per l’acqua pulita, per le toelette, per le casette rifatte, per l’asilo dei bambini, per l’aiuto alle famiglie e ai ragazzi di strada, per l’assistenza medica, per le adozioni dei bambini e degli alunni delle scuole, per i laboratori artigianali delle donne e dei giovani, per la pastorale sociale che si è sviluppata così abbondantemente nella sua parrocchia.
Sì, ringrazia; ma si sa che ognuno che ritorna da quel mondo così diverso ha il cuore pieno di gratitudine con un grande «asante sana» (grazie infinite) per ciò che ha ricevuto, che è infinitamente di più di ciò che ha dato.
Questo vale anche per me, che dal 1985 vivo ancora di rendita. La condivisione con i più diseredati ci riporta alla giusta dimensione sociale e ci fa riprendere coscienza della nostra umanità. È un dato di fatto che chi ha fatto questo tipo di esperienza è accomunato dalle stesse sensazioni: siamo come contagiati dallo stesso virus, abbiamo subito la stessa metamorfosi e vorremmo dirlo a tutto il mondo. Cominciamo a dirlo ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri vicini.
Sull’esempio e sulla scia di padre Franco e di altri missionari, diveniamo fiaccole accese di verità, braci che scatenano fuochi di solidarietà, pioggia sottile che fa rinverdire i deserti dell’abbandono, facendo terra di missione ogni persona, paese e luogo. Non è forse vedendo lui, là a Nairobi, stanziale e non di passaggio, nell’incognita e nel rischio, in mezzo a violenze e malattie, instancabile ma inevitabilmente stanco, tenace ma inevitabilmente scoraggiato, forte ma inevitabilmente provato che ci è venuta la voglia di imitarlo e aiutarlo? Uomini come lui, solari, universali, affascinano per la loro dedizione, per il loro coraggio e coerenza. Di questi uomini veri c’è bisogno, uomini con gli uomini, ma con la luce di Dio.
«Ma è stato fatto tantissimo!», concludo esterrefatta.
«Certo – risponde di rimando -. Grazie al gruppo di Africa Rafiki e Africa Sì e altri, che sono intervenuti a nome di tutti, sono state fatte cose molto significative e le comunità degli slums ne sono felici».
«Allora c’è speranza che anch’io e Andrea e la nostra Alessia di 14 anni troveremo qualcosa di cui occuparci e da condividere con la tua comunità?».
Padre Franco ci guarda sorridendo: «Vi aspetta un mare su cui navigare, venite e con voi invito tanti altri. La famiglia di Dio è vasta e manca di importanti valori da scoprire e da condividere».

A pieni polmoni mi gusto questa ossigenata trentina: profumo di pini e abeti, aria di malga fine e rarefatta, che inebria e rivitalizza le membra assopite dall’apatia della nostra società. Un bel respiro e… via! L’Africa ci attende! •

Antonella Bertaccini




Dossier – Nel fango di Kilbera

«Qui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine».
«E lo credo bene», verrebbe spontaneo rispondere, se il degrado che ci sta davanti non riguardasse appartenenti al genere umano, costretti a vivere dove sarebbe difficile per fauna suina.
Kibera è uno dei tanti slums (baraccopoli) di Nairobi. Il più grande. E stiamo entrando dopo una nottata di pioggia intensa. Ruscelli larghi mezzo metro e profondi altrettanto a far da vicoli. Meglio sorvolare sul contenuto. Ci razzolano solo cani spelacchiati e bambini piccoli.
Si procede sullo strettissimo bordo a ridosso delle baracche. Scivoloso come una pista da bob. Spesso con la stessa pendenza. I pali sporgono dalle baracche come appigli, confidando nella buona tenuta. Attenzione identica da equilibristi su una corda tesa sopra un canyon. Una scivolata equivarrebbe a sprofondare fino al ginocchio in melma, di cui il fango è solo componente minoritaria.
E qui vive gente. Tanta. Troppa. Un milione, dicono. In continuo aumento. Nuove baracche crescono come funghi. Appiccicate una all’altra. Casotti fatiscenti di sassi e fango. Lamiera ondulata come tetto. Paletti (rami tagliati) per rinforzare la struttura. Misere abitazioni affittate a povere famiglie, attirate dal miraggio della grande città. Canoni non certo equi: 10 euro al mese, contro stipendi (quando c’è lavoro) di 50-60. Fogne a cielo aperto, davanti all’entrata, che quando piove si confondono con ciò che dovrebbero essere i vicoli. Un’asse come passerella per entrare.

«Q ui la polizia entra solo per controllare le birrerie clandestine. Il quartiere non è affatto violento. Tutt’al più qualche ubriaco di troppo. La birra costa pochissimo».
È Fred che ci accompagna. Lui Kibera la conosce benissimo. Ci è nato. E, da come ne parla, non l’ha ripudiata. Il padre e alcuni fratelli abitano ancora qui. Lui si ritiene un privilegiato. Voleva studiare e ha incontrato le persone giuste per poterlo fare. Con moglie e figli ora abita alla Shalom House, la casa-albergo voluta da padre Kizito. Chi meglio di lui, quindi, può illustrarci la realtà di questo enorme slum, dove anche di notte vivono con la porta aperta. Dove, come ci dice Fred, c’è molta solidarietà. Dove la gente si fa spesso carico dei problemi degli altri.
Ma ciò che è sotto i nostri occhi non è tollerabile. Non è accettabile nel terzo millennio. Analfabetismo a livelli altissimi. Prostituzione idem (spesso unica possibilità offerta a una donna per guadagnare qualcosa). Aids che si trasmette come il morbillo in un asilo.
«Nessuna forma di sanità riconosciuta. Chi non ha i soldi, può morire». La cosa suona ancora più tragica, se detta da un padre, amico di Fred: senza l’aiuto di un’organizzazione umanitaria rischiava di perdere un bimbo di due anni.
La gente che incontriamo è, tuttavia, affabile. Certamente la presenza di Fred contribuisce. I bambini ci salutano e rispondono come un’eco alle nostre voci. Alle nostre forme di saluto. Non ci lasciano l’ultimo suono.
Da una finestrella, alcuni bimbi guardano con curiosità le nostre facce scolorite. Non è mercanzia che circola spesso da queste parti. Una signora gentilissima ci invita a entrare. È una scuola matea. Un’iniziativa della chiesa pentecostale. Un raggio di speranza in quel mare di fango.

Mario Beltrami




Dossier – Kamikaze dell’amore

Un piccolo esercito di «addestrati speciali»,
nei luoghi più difficili della capitale kenyana,
lotta, senza clamore, per ridare speranza
e portare consolazione.

S entendo le tristi notizie dei kamikaze della violenza che, come martiri, si sacrificano per il loro dio causando morte a gente innocente, mi consolo nel pensare a centinaia di migliaia di «kamikaze dell’amore».
Sono gente normale che spende tutto per gli altri, sacrificando la vita goccia a goccia. Nei miei tre anni spesi nella periferia di Nairobi ne ho incontrati tanti, di origini diverse, pronti a tutto per sconfiggere miseria e donare dignità ai due milioni di persone che languiscono nelle baraccopoli. Ogni mese, i missionari operatori di questi slums si trovavano per un giorno di ritiro spirituale e scambio di esperienze.
la visita di DIO
Siamo ospiti nel cuore della baraccopoli più popolosa di Nairobi, Kibera 3 (circa mezzo milione di abitanti). La parrocchia Christ the King è retta da un missionario colombiano, dei Guadalupe Fathers. È una sorta di porto di mare per tanti naufraghi, diui e nottui. Con un drappello di laici kenyani, hanno iniziato un centro educativo, dove i bambini ricevono cibo e sapere.
Il dispensario, diretto da suore, è diventato un luogo di consolazione di giorno e anche per le vittime delle violenze nottue. Qui i bambini possono venire a scuola, giocare, essere curati; i giovani hanno il loro posto di ritrovo, senza alcornol e droga, e gli adulti, desiderosi di progredire, possono imparare l’abc.
Ho visto nel volto dei laici kenyani di Kibera lo zelo per la loro gente, che si accalca in poco più di un chilometro quadrato, senza acqua, luce e strade. Da loro ho saputo delle «tornilette volanti»: molta gente, non avendo gabinetti a sufficienza, affida… al vento gli escrementi, avvolti in cellophane.
Si discutevano le strategie di intervento nell’inferno della periferia: gli europei sono affiancati da kenyani, gli statunitensi si mischiano con sudamericani e indiani. Siamo più di cento.
Padre Franco Cellana, ci informa che in una valletta, lasciata libera fra le ville dei commercianti indiani, erano sorti due nuovi slums. Ha combattuto le ire dei benestanti che vedevano inquinato il loro territorio, per difendere i nuovi insediati. Keleleshua e White Ridge, due rioni della ricca Westlands, hanno così il loro «bubbone». La parrocchia della Consolata accoglie i nuovi arrivati con un abbraccio universale. Un laboratorio, finanziato da benefattori, è diventato segno di speranza per i giovani: i sandali di stile masai sono il prodotto che tira di più.
Dalla baraccopoli di Kaiole, una laica kenyana ci illustra la strategia che ha usato per fondare una cornoperativa: «Se siamo uniti, potremo ottenere dal comune di Nairobi un appezzamento di terreno per famiglia nel territorio abusivo – ha detto con fiducia -. Il cammino è lungo, ma sembra che qualcosa si muova».
Il gruppo canta: «Benedetto il Signore, che ha visitato e redento il suo popolo». Ancora oggi Dio visita il suo popolo nella schiavitù e manda i suoi «kamikaze» imbottiti di amore e dedizione: esplosivi che risalgono a Gesù Cristo ed estremamente efficaci anche oggi.
Soweto è un nome ereditato dal Sudafrica. Dalla baraccopoli si scorgono le colline con campi di caffè. Le residenze della nuova classe media di Nairobi si moltiplicano.
Massimo, che opera in questo slum, tira fuori dallo zaino la bibbia. Si legge la parola di Dio. Gli agenti antiterrorismo non lo hanno ancora fermato, nonostante il suo zaino possa destare qualche sospetto, insieme alla barba stile Osama Bin Laden. Gli manca solo il turbante per fare il quadro completo.
Massimo, come un san Francesco, gira assieme a dei giovani con un sacco di yuta sulle spalle, raccogliendo tra le immondizie materiale per il riciclaggio. Vuole insegnare ai ragazzi del quartiere a sopravvivere, visto che l’occupazione è di là da venire. Ha tentato altri esperimenti, come allevamento di conigli, coltivazione di verdure, produzione di sapone.
Nel cuore di Soweto, Massimo fa comunità con Andrea. Sono due pionieri della comunità Papa Giovanni xxiii, fondata dall’«imam» cattolico don Benzi, famoso in Italia per avere istituito centinaia di case-famiglia, dove trovano rifugio tutti quelli che vogliono ridare un senso alla propria vita: prostitute, drogati, emarginati…
Andrea, belga, oltre al francese parla bene l’italiano e si arrangia in inglese, intuisce swahili e kikuyu. Ha sempre un nugolo di bambini attorno, che captano al volo il linguaggio dell’amore. Sta sperimentando l’iniziativa di dare un minicredito ad alcune famiglie più bisognose, non prima, però, di aver impartito loro una formazione adeguata su come gestirli.
giovani, suore e dottori
La missione di Kahawa West, cominciata 10 anni fa, fa da cerniera tra la base e la cima della scala economica. Gli abitanti sono già 35 mila, ma ogni giorno ne arrivano altri, con nel cuore la speranza di una nuova frontiera. Qui, più che mai, necessitano i kamikaze.
Suor Mercy e il suo drappello di suore dell’Immacolata (una congregazione fondata da mons. Perlo, all’inizio del secolo) si sono insediate nei dintorni otto anni fa. Sono sette suore africane che dirigono una scuola di mille alunni, cominciata da zero. Sono pronte a tutto, anche ai cambiamenti repentini, perché vengono spostate dalle superiore per altre imprese più… urgenti. Traggono la forza in una cappellina, nella casa provvisoria. Le loro preghiere sono segnate dal ritmo dei tamburi e da cembali africani.
L’anno scorso, con un colpo ben riuscito, hanno costruito un collegio per ragazzi e ragazze di strada. Questi bambini ormai cento, sembrano già «normali»: gli stracci che indossavano prima sono stati bruciati e dimenticati.
Andrea, un dentista che da molti anni passa le sue ferie in Kenya curando le carie africane, si porta con sé un drappello di colleghi. Due rimangono a Kahawa e sono sommersi da una marea di pazienti, tra cui i ragazzi della scuola della baraccopoli di Soweto e Kamae. Tutti ricordano il «dagetari ya meno» (dentista) Massimo da Piacenza, l’assistente Veglia da Varese, Gianalberto da Monza e Serena da Torino. Li aspettano ancora il prossimo anno.
A Kamae opera un altro gruppo, pronto a tutto, dotato anche di… un campo di addestramento, chiamato noviziato. Si chiamano Elisabettine dal nome della loro fondatrice padovana. Suor Wamuyu (kenyana) e suor Paola (italiana) sono le responsabili della scuola di recupero nella baraccopoli di Soweto. Il nemico da combattere è l’analfabetismo, che cresce ogni giorno per la miseria e le malattie, causa di tanti bimbi orfani.
A dicembre dell’anno scorso, ho assistito al giuramento di due ragazze del Kenya, formate nel noviziato. I genitori hanno versato lacrime di dolore, sapendole perse per la famiglia; ma la gioia del dono è scoppiata in canti e danze e le responsabili della congregazione pensano di utilizzarle per «missioni speciali». Suor Rosa (padovana) e suor Veronica (kenyana) hanno in mano il dispensario. Di recente, dall’Italia è arrivata la macchina dei raggi x e lo scunner.
Sulla collina, a ovest, padre Alex Signorelli ha costruito, a nome dei missionari della Consolata, un villaggio per i ragazzi di strada. Lo chiamano «Familia ya Ufariji», famiglia della consolazione. Lo stato gli ha dato in affido 80 maschietti, raccolti nelle strade di Nairobi. Ha generato figli, già pronti per l’asilo e le prime classi elementari.
Le missionarie della Consolata sono presenti a Kahawa e, al momento, due di loro formano le nuove generazioni alla cristianità. Le altre due sono a fianco dei miserabili delle baraccopoli: tutti le chiamano «mama». Suor Carmelangela ha spento l’altro giorno 50 candeline di presenza in Africa. Nell’agosto scorso, Laura da Milano, Massimo, Antonella e Paolo da Torino hanno organizzato il Grest (tipo la nostra «estate ragazzi») per elementari e medie, aiutati da un gruppo di giovani cattolici della parrocchia. La nuova generazione si forma con l’esempio della dedizione. Nei ranghi della chiesa cattolica, Kahawa West è considerata «missione speciale», come tutte le parrocchie sorte nella periferia di Nairobi.

In tutto il Kenya, i kamikaze locali sono circa 700, affiancati da altrettanti stranieri. Dovendo partire, ho consegnato il testimone a padre Peter, ugandese. Pochi giorni dopo, vicino alla baraccopoli di Kamae, in pieno giorno, è stato… ripulito di tutto, mentre controllava i lavori di una scuola. È stato il battesimo per lui, che vuole vivere e donarsi dentro questa realtà. Gli è rimasto l’entusiasmo di rimanere e di spendersi tutto: fino all’ultima goccia! •

Alex Moreschi