“La violenza è come un virus”

Lo scorso novembre l’ex dittatore Efraín Ríos Montt non è riuscito a farsi eleggere presidente. Ma questa è la sola buona notizia che proviene dal paese centroamericano. Dietro i colori sgargianti che contraddistinguono la sua gente, si nascondono povertà, disoccupazione e violenza. La guerra civile durata 36 anni è formalmente terminata, ma le ferite inferte al paese sono difficili da rimarginare. E gli accordi di pace del 1996 sono rimasti sulla carta.

«Gli avevano tagliato la lingua. Era bendato con fasce e cerotti sugli occhi. Aveva fori ovunque (…) Era irriconoscibile; solo perché io ho vissuto per molti anni con lui e sapevo di alcune cicatrici, capii che era mio marito» (1).
Sono due le date che caratterizzano la storia recente del Guatemala: dicembre 1996 e aprile 1998. La prima ha segnato la fine di una guerra civile durata 36 anni, la seconda la morte di una persona che su quei 36 anni aveva indagato svelandone le atrocità e le responsabilità.
Mons. Juan José Gerardi Conedera, vescovo ausiliario del Guatemala, era cornordinatore generale dell’«Ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado guatemalteco» (Oficina de derechos humanos del Arzobispado de Guatemala, Odhag).
Fu assassinato domenica 26 aprile 1998, soltanto 48 ore dopo aver presentato, nella cattedrale metropolitana di Città del Guatemala, il rapporto Guatemala: nunca más, risultato finale del progetto interdiocesano Recuperación de la memoria histórica (Remhi).
Aveva detto: «Quando si affrontano temi economici e politici, molta gente reagisce dicendo: “perché la chiesa si occupa di queste cose?”. Vorrebbero che ci dedicassimo unicamente ai ministeri. Però la chiesa ha una missione da compiere nell’ordinamento della società, che comprende i valori etici, morali ed evangelici».
Valeva la pena spendere 3 anni di lavoro per raccogliere migliaia di interviste (individuali e collettive) in 15 idiomi maya? «Il chiarimento storico – si legge in una famosa lettera pastorale (2) – non solo è necessario, ma indispensabile perché il passato non si ripeta (…). Finché non si saprà la verità, le ferite del passato rimarranno aperte e non potranno cicatrizzarsi».
L’obiettivo di Nunca más era, pertanto, duplice: preservare la memoria storica attraverso l’accertamento dei fatti e tentare di ricostruire il tessuto sociale, disintegrato da 36 anni di atrocità.
«Conoscere la verità fa soffrire però è, senza dubbio, un’azione altamente salutare e liberatrice», aveva concluso mons. Gerardi, in quella domenica del 26 aprile 1998.

LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Cosa dette origine a un conflitto durato dal 1960 al 1996? La risposta la troviamo nelle parole di monsignor Próspero Penados del Barrio, scritte nella presentazione del rapporto: «Se riflettiamo sulle condizioni in cui viveva un’altissima percentuale della popolazione, emarginata per la carenza delle sue più elementari necessità (cibo, salute, educazione, casa, salario dignitoso, diritto di organizzazione, rispetto del proprio pensiero politico, ecc…) che non le permetteva di svilupparsi nelle condizioni a cui ha diritto ogni essere umano; se riflettiamo sull’anarchia che viveva in quel momento il nostro paese (…); se pensiamo che per alcuni gruppi furono chiusi gli spazi politici, possiamo comprendere che la guerra (…) era qualcosa che non si poteva fermare. Il desiderio di cambiamento per creare una società più giusta e l’impossibilità di portarlo avanti (…) provocò un coinvolgimento nella rivoluzione non solo di coloro che volevano il cambiamento della società secondo logiche socialiste, ma di molti che – pur non essendo marxisti e non avendo una posizione politica impegnata – si convinsero e si videro costretti ad appoggiare un movimento che sembrava essere l’unica via possibile: la lotta armata».
Chi fu il vincitore della guerra?, si chiede monsignor del Barrio: «Tutti abbiamo perso. Non credo che alcuno abbia il cinismo di salire sul carro della vittoria carico di migliaia di morti (…)».
Nei 36 anni di guerra le vittime accertate furono almeno 200 mila. Per non parlare delle vittime indirette (bambini orfani e donne vedove), delle persone segnate per sempre dalla violenza, dei villaggi distrutti, delle comunità disgregate.

EFRAÍN RÍOS MONTT,
L’«UNTO DEL SIGNORE»

L’impegno della chiesa cattolica guatemalteca nella ricerca della pace trovò (e trova) il proprio contrappasso proprio nel modus operandi del generale Efraín Ríos Montt, che fece della religione uno strumento del proprio dominio, a tal punto da proclamarsi «unto del Signore».
In questo Ríos Montt non si è discostato dal comportamento di altri dittatori latinoamericani (si pensi al generale cileno Pinochet o alla giunta militare argentina), anche se il suo percorso personale è stato diverso.
Nel 1978 Ríos Montt abbandonò la fede cattolica e aderì alla Iglesia del Verbo, una setta evangelica-pentecostale di cui divenne pastore. I 17 mesi della sua dittatura (dal marzo 1982 all’agosto 1983) furono i più sanguinari della storia recente del Guatemala; gran parte dei massacri avvennero in quel breve periodo (192 nel solo 1982).
I suoi discorsi erano infarciti di citazioni bibliche. Lui, «unto del Signore», aveva il compito di combattere «i quattro cavalieri del moderno Apocalisse»: la fame, la miseria, l’ignoranza e la sovversione.
Ma chi erano i sovversivi? Chiunque, direttamente o indirettamente, potesse favorire la «minaccia comunista». L’attenzione di Ríos Montt si concentrò, in particolare, su contadini e indigeni, poiché – così si giustificava – la loro immaturità verso i valori patriottici e il loro analfabetismo li rendevano particolarmente vulnerabili di fronte al proselitismo del comunismo internazionale.
Nella concezione del generale-pastore a volte il «buon cristiano» deve sapersi districare «con la bibbia e con la mitraglietta».
«Il suo eloquio fanatico – ha scritto una guatemalteca vittima della dittatura (3) -, che manipolava i sentimenti e i timori religiosi, era trasmesso da radio e televisione in piccole dosi domenicali, nelle quali mescolava abilmente citazioni bibliche e messaggi che inducevano al senso di colpa».
Scrive il rapporto Nunca más: «Il far sentire le vittime e i sopravvissuti colpevoli e responsabili di quanto succedeva fu un elemento centrale nella strategia controinsurrezionale. Per raggiungere questo obiettivo, l’esercito utilizzò vari meccanismi, i più importanti dei quali furono: la propaganda e la guerra psicologica, la militarizzazione, le pressioni – con ogni mezzo – per ottenere la massima obbedienza, servendosi in particolare delle Patrullas de autodefensa civil e delle sétte religiose. (…) La paura di professare la religione cattolica, che l’esercito considerava una dottrina sovversiva, fu il motivo più frequente per bloccare la pratica religiosa nell’area rurale. Le pratiche religiose, tanto della religione maya come di quella cattolica, dovettero per forza cambiare a causa della perdita delle cappelle e dei luoghi sacri. (…) La penetrazione crescente delle sétte evangeliche, che cominciavano allora a diffondersi, colmò il vuoto religioso lasciato dalla repressione e fu favorita dall’esercito come una forma di controllo della gente.
Le sétte diffusero la loro versione della violenza, incolpando le vittime e promuovendo una ristrutturazione della vita religiosa delle comunità basata sulla separazione in piccoli gruppi, su messaggi di legittimazione del potere dell’esercito e di salvezza individuale, con cerimonie che favorivano lo sfogo emotivo di massa. La violenza divenne allora il più potente propulsore delle sétte evangeliche, con una grande diffusione in buona parte del paese».
Nonostante le pesantissime responsabilità nella guerra civile, il generale-pastore Efraín Ríos Montt, l’«unto del Signore», è riuscito a rimanere il vero uomo forte del paese centroamericano fino alle presidenziali del novembre 2003. E non è affatto detto che quella sconfitta elettorale lo abbia effettivamente posto fuori gioco…

LA VIOLENZA
COME STILE DI VITA

In tempi di guerra globale e continua, appaiono drammaticamente attuali le parole di Edgar Gutiérrez, responsabile del progetto Remhi: «La violenza è come un virus. Penetra in tutto il corpo e si propaga in forma epidemica. Quando diviene endemica, si trasforma in irrazionalità pura».
Su questo concetto della violenza come patologia sembrano concordare in molti.
«L’esercito – ha scritto Dante Liano (4) – non solo ha vinto la guerra con le armi, ma ha creato uno stile di vita fra la gente. La mentalità dominante è la violenza e dappertutto regna la volgarità da caserma, in un paese che era famoso per i modi cortesi e cerimoniosi. Quasi tutti girano armati e chi non lo fa, si circonda di guardie del corpo. Ci sono uomini armati con fucili a canne mozze nelle banche, nei magazzini, nei centri commerciali, nei parcheggi privati, negli ingressi alle zone ricche della capitale. (…) Forse, dopo una guerra durata quarant’anni in cui sono stati commessi dei massacri inauditi, il corollario naturale è questo: una società dominata da una mentalità violenta, arbitraria e prepotente».
Il problema è che oggi, a 7 anni dagli accordi di pace, in Guatemala non sono affatto mutate le situazioni che furono alla base del conflitto: povertà estrema, emarginazione, fame, disoccupazione, clima di impunità, corruzione, concentrazione delle terre in pochissime mani.
(Fine 1a. parte – continua)

(1) Caso n. 3031 datato 1981 riportato nel rapporto Nunca más.
(2) In Urge la verdadera paz, lettera della Conferenza episcopale del Guatemala (1996).
(3) «Il trionfo del genocida», di Ana Lucrecia Molina, su Latinoamerica n. 78 – 1.2002. Il fratello quindicenne di Ana fu sequestrato dall’esercito nel 1981.
(4) «Il vento del terrore», di Dante Liano, su Latinoamerica n. 73 – 4.2000. Liano, guatemalteco, insegna letteratura ispanoamericana a Milano.

Paolo Moiola