I sogni di Lodovico

Una colonia di lebbrosi
è diventata una comunità viva e autosufficiente
per opera di padre Lodovico Crimella, deceduto 10 anni fa.
I suoi ideali e progetti sono stati ereditati
da un prete diocesano locale, che continua
a tradurli in realtà.

«L a civiltà non è né il numero, né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure», tuonava Raoul Follereau, l’apostolo dei malati di lebbra, nato 100 anni fa in Francia (Névers, 17 agosto 1903).
Tra i tanti seguaci di Follereau, padre Lodovico Crimella, missionario della Consolata, nato nel 1937 a Valmadrera e tornato alla casa del Padre il 4 dicembre 1994, ha lasciato un’importante e originale eredità sulle sponde del Lago do Aleixo (Brasile).
Padre Joaquim Hudson, il ventinovenne sacerdote dell’Amazzonia, attualmente cornordinatore della comunità del Lago do Aleixo, racconta: «Conobbi padre Lodovico nel 1987, quando avevo 13 anni: quasi per caso, accompagnai mia sorella alla comunità del Lago do Aleixo, perché vi portava due conoscenti, marito e moglie, malati di lebbra con deformità visibili.
La comunità Onze de Maio era l’unica in tutta l’Amazzonia che poteva offrire ospitalità a persone con quella sofferenza. Mi parve di arrivare in paradiso. Padre Lodovico ci accolse bene e fui molto impressionato per quanto erano riusciti a realizzare in un ambiente che, pochi anni prima, era considerato un ghetto. Di tanto in tanto con mia sorella andavo a trovare quelle persone, che morirono due anni dopo serene e con dignità – sottolinea con convinzione padre Hudson -. Solo a 17 anni entrai nel seminario di Manaus, interessandomi sempre ai più poveri ed emarginati delle favelas.
Nel 1994, quando avevo ormai 20 anni, appresi della morte di padre Crimella, che fu ricordato nella preghiera in tutte le parrocchie di Manaus, e di come un suo confratello, padre Josè Maria Fumagalli, diventato monaco benedettino, si fosse impegnato di seguire la comunità per un anno.
Padre Fumagalli si fermò per ben quattro anni, ma poi, nel 1998, dovette far ritorno al suo convento. In quel periodo stavo terminando il seminario e tutti i giorni pregavo con il vescovo di Manaus, mons. Louis Suarez Vieira. Ogni mattina durante la preghiera il vescovo chiedeva: “C’è qualcuno che desidera prendersi la responsabilità della comunità del Lago do Aleixo?”. Nessuno voleva andarci: è una parrocchia di 40 mila persone, divisa in 12 comunità, con ancora 1.550 hanseniani disabili o in cura.
Una mattina, pensando a quanto aveva fatto padre Crimella, mi ritrovai a dire: “Ci vado io”. E così, nel 1999, appena ordinato sacerdote, iniziai il mio servizio al Lago do Aleixo, nella stessa casa dove tanti anni prima avevo incontrato padre Lodovico, che ricordo tutti i giorni nella santa messa».
Ma che cosa ha fatto padre Lodovico, che nel 1993 fu insignito del premio Raoul Follereau dall’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo)? Avevo conosciuto quest’intrepido missionario della Consolata nel 1992 e, ascoltando la sua storia, mi ero ben presto convinto che i progetti sviluppati con la comunità hanseniana del Lago do Aleixo erano in perfetta sintonia con l’etica dello sviluppo e rispondevano all’ideale di civiltà, sollecitato da Raoul Follereau.

B ravo amministratore, dieci anni di esperienza nella diocesi di Roraima, padre Lodovico si ritrovò, nel 1980, ad ascoltare le sofferenze di 300 famiglie, con uno o due ammalati di lebbra, abbandonate in stato di povertà sulle sponde del Lago do Aleixo dopo la chiusura della Colonia per lebbrosi avvenuta nel 1978. Grande ammiratore di don Milani, padre Lodovico ascoltò e pregò per queste persone; poi con loro iniziò la grande avventura.
Nel novembre del 1981 si tennero moltissime assemblee. Tutti erano liberi di partecipare e offrire il loro contributo, dibattendo temi vitali per la comunità come: acqua potabile, lavoro, scuola, pesca, casa, assistenza medica. L’arcivescovo diede a quell’insieme di famiglie l’entità giuridica di «parrocchia» (anche se i cattolici si contavano sulla punta delle dita), con la condizione che padre Lodovico fungesse da orientatore. Fu democraticamente eletto un consiglio di sette persone che decise di sviluppare piccole attività cornoperative utili per la comunità: allevamento di polli e maiali, acqua potabile, pesca, coltivazione razionale del terreno, rivendita dei prodotti.
Nel 1992 la comunità del Lago do Aleixo contava 20 mila persone con circa 1.600 malati di lebbra in cura, seguiti dall’ospedale governativo. Il consiglio era ormai formato da ragazzi che avevano frequentato le scuole e ogni famiglia era impegnata in un progetto cornoperativo, che permetteva di guadagnarsi dignitosamente da vivere.
Padre Crimella puntò sempre all’autosufficienza di ogni attività; perciò non accettò mai grandi interventi che avrebbero ucciso lo spirito d’iniziativa della comunità, ma solo piccole somme, come capitale iniziale legato a progetti specifici, per aiutare il decollo della piccola società cornoperativa.
L’opuscolo CSELA em ação (Comunità sociale educativa del Lago do Aleixo in azione), pubblicato nel 2000, mostra chiaramente come tutte le attività iniziate dalla comunità insieme a padre Lodovico, continuate con padre Fumagalli ed ora cornordinate da padre Hudson si siano sviluppate o modificate, mantenendo lo spirito originale: sviluppo armonioso della comunità con partecipazione democratica e responsabilità di tutti.
La comunità conta ormai 40 mila persone (20% bambini fino a 12 anni, 35% adolescenti da 13 a 20 anni, 30% adulti e 15% oltre i 60). Circa 250 famiglie sono impegnate direttamente nelle cornoperative del Csela, altri lavorano a Manaus. I cattolici della parrocchia San Giovanni Battista, suddivisi in 12 comunità sono ormai 35 mila. Per malati ed ex-malati di lebbra si ha cura della prevenzione e riabilitazione sociale.

I nfatti, padre Hudson, prossimo alla laurea in psicologia, racconta: «Abbiamo iniziato corsi di nuoto per i bambini, perché purtroppo molti sono morti nel lago. L’esame medico per ammettere i bambini ai corsi è molto rigoroso: lo scorso anno abbiamo scoperto 6 casi di lebbra. Curati subito, i bambini guariscono in 6 mesi. Abbiamo ancora tanti casi di ex-malati di lebbra con deformità visibile, ma si cerca di inserirli in attività produttive. Ne è un esempio l’attività di calzoleria, ormai gestita da un ex-hanseniano, che userà il silicone per fabbricare calzari adatti ai piedi con ulcere degli ex-malati di lebbra».
Con gratitudine il sacerdote dell’Amazzonia ricorda l’importante presenza di quattro suore della Consolata, da anni impegnate nella comunità del Lago do Aleixo: «Sono ormai più di 10 anni che suor Giuditta si trova nella comunità e si occupa di bambini, mentre suor Severa è impegnata nella scuola, suor Teresa nella farmacia e suor Renata nel lavoro pastorale. Le suore sono, comunque, inserite in tutti i settori dove c’è bisogno e sono molto amate dalla gente. Due anni fa, quando sembrava dovessero ritirarsi, la gente fece una mezza rivoluzione».
Tanti amici continuano ad appoggiare il Csela, seguito con particolare affetto dagli «Amici del Lago do Aleixo», formato da fratelli e conoscenti di padre Lodovico, impegnati a sostenere piccoli progetti significativi cari a padre Crimella e vitali per la comunità. Memorabile è stato il 2000, anno del Giubileo, quando al Lago do Aleixo, accanto al cippo commemorativo in memoria di padre Lodovico, fu issata la campana proveniente da Valmadrera.
Nel settembre 2002 don Carlo Ellena, sacerdote Fidei donum della diocesi di Torino, con 25 anni di missione in Brasile, ha visitato per il gruppo Bakhita-Follereau di Torino la Comunità del Lago do Aleixo ed ha scritto: «Padre Joaquim Hudson, parroco della Comunità e praticante di psicologia presso l’ospedale dei lebbrosi, è un’ottima persona, con idee molto chiare e avanzate su come affrontare i problemi delle gente, degli ex malati di lebbra e le varie iniziative sociali, ereditate dai sacerdoti che lo hanno preceduto. Le attività stanno procedendo molto bene e con un chiaro indirizzo non patealistico, ma di promozione, mirando alla gestione autonoma delle attività. Alcune sono già indipendenti, altre lo stanno diventando, altre sono ancora in fase di sperimentazione…
In una parola mi pare che l’idea grande di padre Lodovico Crimella sia seguita ed anche perfezionata. Per giungere all’indipendenza si punta chiaramente alla produzione di rendita (si produce per vendere e autosostenersi)… Abbiamo visitato le varie attività, progetti e iniziative, che sono moltissime e sparse nelle varie comunità, ma gestite con lo stesso stile e filosofia. Ho incontrato gente simpatica, generosa e disponibile alla collaborazione… Sono realtà che lasciano il segno».

P adre Joaquim Hudson è fiducioso per il futuro, anche se ben cosciente della difficoltà, e ci confessa il suo sogno: «La cosa bella della comunità è che tante attività vanno avanti bene, abbiamo sviluppato tante cornoperative e moltissimo lo sport, che tiene i giovani impegnati e lontani dalla delinquenza dilagante nei quartieri periferici di Manaus. Abbiamo ben 35 squadre di calcio, di cui 5 formate da ragazze; ci sono corsi di ginnastica, anche per la terza età, di capoeira, di nuoto e di canottaggio.
Ma la mia preoccupazione maggiore è la scuola. Tutti, finalmente, terminano le elementari, ma è difficile farli proseguire: abbiamo una sola laureata in pedagogia proveniente dalla comunità. Con la nuova biblioteca e alcuni computer, speriamo di invogliare i giovani allo studio. Il mio sogno è di avere laureati provenienti da questa comunità, per formare qualificati gruppi dirigenti, capaci di orientare al meglio lo sviluppo di tutta la comunità e cancellare definitivamente lo stigma legato alla lebbra».
Il grande sogno di padre Lodovico è diventato il sogno di padre Hudson.

Silvana Bottignole




Ritorno al futuro

È ancora scuro quando imbocchiamo la «strada imperiale» che congiunge Addis Abeba alla regione orientale dell’Etiopia. Siamo diretti a Shambu, a 240 km dalla capitale, nel cuore del Wollega, la regione dove i missionari e missionarie della Consolata lavorarono per 25 anni, finché, allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono cacciati dagli inglesi (1941).
Nonostante il nome pomposo della strada, la gibbosità dell’asfalto, curve e i saliscendi rallentano la corsa. In compenso possiamo gustare gli scenari, sempre vari e pittoreschi e, soprattutto, rivivere pagine di vita missionaria, apprese in gioventù dai missionari che sono passati per questa stessa via, quando era meno «imperiale».
A CACCIA DI MEMORIE
Il percorso che ora compiamo in sette ore di automobile, allora richiedeva giornate di cammino; anzi, settimane di estenuanti carovane, quando dalla capitale venivano trasportati i materiali necessari alla costruzione delle missioni.
Dopo 120 km e quasi tre ore di viaggio, entriamo nel Wollega; ci fermiamo ad Ambo, cittadina già rinomata per le piscine termali, oggi famosa in tutta l’Etiopia per l’omonima acqua minerale. Ma a noi rievoca altre memorie.
Per tre anni, dal 1938 al 1941, alloggiando in abitazioni provvisorie, padri e suore della Consolata svolsero attività scolastiche e sanitarie (vedi riquadro). Appena deciso di dare una sede definitiva alla missione e gettate le fondamenta della chiesa, dovettero abbandonare tutto.
A una dozzina di chilometri da Ambo, visitiamo la missione di Guder, fondata nel 1926 e abbandonata nel 1941, al colmo dello sviluppo (vedi riquadro). Del mulino e segheria rimane il piccolo canale d’acqua che ne azionava i motori; delle scuole elementari non è sfuggito al saccheggio neppure un mattone; stessa sorte è toccata alla casa dei padri.
Più fortunata è stata quella delle missionarie: una parte è ancora in piedi, anche se, caduto l’intonaco, le pareti di terra e paglia sembrano un animale spelacchiato. Più in basso si scorge il tetto del noviziato delle Ancelle della Consolata: l’edificio è in buone condizioni, grazie a profondi ammodeamenti.
Della chiesa resta la piattaforma del presbiterio e gradini sconnessi. La sorpresa è a pochi metri: in una minuscola cappella ortodossa possiamo ammirare una bella immagine della Consolata, scolpita sulla grande lunetta di pietra che oava la facciata della chiesa.
IL RITORNO
La Consolata è rimasta nel Wollega e ha richiamato i suoi figli. Nel 1970 i missionari della Consolata sono tornati in Etiopia e organizzato il vicariato di Meki, con la segreta speranza di rientrare in quello di Gimma, oggi vicariato di Nekemte.
Le suore vi sono arrivate prime, per svolgere attività apostoliche, sanitarie e di promozione umana in tre missioni: Sakko (1974), Komto e Konchi (1977). Nel 2001 il sogno si è completato: padri, fratelli e suore hanno iniziato a lavorare in équipe nella zona di Shambu, ai piedi dei monti Acca, una regione con grandi possibilità di prima evangelizzazione tra vari gruppi oromo.
Uno di tali gruppi, gli higgu, aveva chiesto di entrare nella chiesa cattolica, grazie alle visite saltuarie di preti etiopici di Nekemte e del catechista Addisù Yadessa, che vi aveva soggiornato più a lungo e svolto un’attività di primo annuncio del vangelo.
La decisione di iniziare l’evangelizzazione degli higgu ha avuto una lunga gestazione. Nel luglio 2001 abba Johannes, fratel Brusa e suor Lena Emilia hanno fatto lunghe trasferte per visitare la gente, famiglia per famiglia, conoscere la loro cultura, saggiae le intenzioni e studiare le possibilità di iniziare la missione con uno stile nuovo.
Nel febbraio seguente, padri e suore si sono stabiliti definitivamente nel paese, affittando due casette di fango in periferia; in una terza accolgono dei giovani che vengono da lontano per frequentare la scuola e vi tengono incontri di formazione umana e religiosa, insieme a corsi di lingua inglese.
«Non siamo venuti con progetti di strutture per opere sociali, necessarie in altre zone, come Meki, per poi annunciare il vangelo – spiega suor Lena Emilia -. Vogliamo stare con la gente e dare priorità all’evangelizzazione; eventualmente, le attività sociali verranno in seguito».
Tale esperienza è possibile per il fatto che i due missionari destinati a Shambu, abba Johannes e abba Teklu, sono etiopici, entrambi di etnia oromo, e non hanno bisogno di permessi governativi per svolgere attività esclusivamente religiose.
DAL VECCHIO
AL NUOVO TESTAMENTO
«Visitando le famiglie – racconta abba Johannes -, abbiamo trovato una società rimasta all’Antico Testamento, in una tremenda ignoranza religiosa, terrorizzata da superstizioni, anche se la maggioranza della gente è battezzata. Unico punto di riferimento della loro religiosità è il tabot. La prima domanda che ci hanno fatto è se lo abbiamo anche noi».
Nella mentalità etiopica non c’è vera chiesa senza tabot, ma la gente non sa dire cosa sia e quale funzione abbia. Portato in processione, sul capo del pope, avvolto in drappi e veli multicolori, il tabot è oggetto di venerazione e di mistero: non si vede, non si tocca, non lo si può avvicinare.
«Per inaugurare la cappella – continua abba Johannes – abbiamo portato il nostro tabot: una pietra benedetta dal vescovo e ben addobbata. E da qui siamo partiti per iniziare la nostra catechesi, spiegando che esso è simbolo della presenza di Dio e ricorda l’arca dell’antica alleanza, dove venivano conservate le tavole della legge, la manna e il bastone di Aronne. Tutto questo per concludere che, ora, il nostro tabot è Cristo Gesù, morto e risorto, presente nell’eucaristia».
«Quest’anno, per la festa del tabot – continua suor Lena Emilia -, alla celebrazione della messa è seguita la processione col Santissimo, invitando i fedeli a riconoscere la vera presenza di Dio. “Finalmente sappiamo che cosa è il tabot” ha detto la gente entusiasta, contemplando l’ostensorio senza veli».
«È solo il primo passo – continua abba Johannes -. Ci vorranno anni prima di passare dal Vecchio al Nuovo Testamento, specialmente tra gli adulti». I giovani sono più aperti e desiderosi di conoscere la fede. Fanno domande profonde e impegnative. Già 27 di essi, ragazzi e ragazze, dopo un’adeguata catechesi, hanno ricevuto la prima comunione.
GUERRA AL MALIGNO
La sfida più grande è la superstizione. Gli higgu credono che in ogni famiglia ci sia uno spirito da tenere a bada e ricorrono all’indovino, che ordina loro cosa fare per placarlo: offrire sacrifici di animali presso determinati alberi, fonti, fiumi e montagne.
Tale credenza alimenta la schiavitù del terrore e dissangua le famiglie, costrette a spendere gli scarsi introiti per comperare gli animali da sacrificare e pagare l’indovino. In tutti gli angoli delle case, poi, sono sparsi amuleti d’ogni genere, recipienti con latte, sangue animale e altre offerte per lo spirito.
E sembra che tali spiriti inseguino la gente fino in chiesa. «Abbiamo tanti casi di isteria» osserva timidamente suor Lena Emilia. E seguono racconti impressionanti di donne e ragazze che, appena entrano nel recinto della cappella, cominciano a dimenarsi e urlare come forsennate; e solo dopo lunghe preghiere di tutta la comunità e abbondanti aspersioni di acqua benedetta ritornano normali.
A volte tali fenomeni capitano all’inizio della messa, allora il male può diventare contagioso: scacciato da una persona, lo spirito si impossessa di un’altra. Abba Johannes non ha dubbi: si tratta di possessione diabolica. E quando egli accenna alla storia di Drrebe, anche suor Lena Emilia sembra vacillare nella sua spiegazione razionale.
«È una bella ragazza – continua la suora -. Un giorno venne in chiesa con occhi stralunati; all’inizio della celebrazione eucaristica cominciò a gridare con una voce caveosa, da uomo: “Io possedevo già sua madre. Questa ragazza non la lascerò mai. Se mi cacciate, toerò di nuovo da sua madre”».
«Era un demonio amara – incalza abba Johannes -. La giovane raccontò tutta la sua storia parlando in amarico, lingua che non conosceva e non aveva mai parlato in vita sua».
Dopo un’ora di preghiere, esorcismi e aspersioni la giovane ritoò normale. Fu accompagnata a casa, dove la madre, vedendola tornare insieme a tanta gente, cominciò a gridare come una disperata. Quando anch’essa si calmò, furono raccolti tutti gli amuleti della casa e bruciati nel cortile. «Ora la ragazza è felice e sorridente come non era stata mai» conclude suor Lena Emilia.
Abba Teklu ricorda il caso del mago Negheri. Malato e debole, non prendeva cibo da vari giorni, quando alcuni cristiani lo invitarono a cambiare vita e venire in chiesa. «Appena il coro intonò il canto di inizio della messa – racconta abba Teklu -, il vecchio cominciò a danzare e si portò di fronte all’assemblea, gridando e gesticolando come un ossesso. Tre giovani riuscirono a stento a portarlo fuori dalla cappella: dieci minuti di preghiera furono sufficienti a farlo ritornare in sé. Toò in chiesa calmo come un angioletto».
Dopo la messa raccontò la sua storia e disse che si sentiva libero finalmente. Ma per completare l’opera, lo accompagnarono a casa, dove radunò tutti i suoi amuleti, ne fece un bel mucchio e vi appiccò il fuoco.
«Ora è sano e vegeto; sempre primo ad arrivare in chiesa, insieme a tutta la famiglia, che nel frattempo è stata battezzata» conclude abba Johannes.
SFIDE E SPERANZE
La liberazione dalla paura è una sfida difficile e impegnativa, ma già si raccoglie qualche frutto. «Nei primi tempi, quando visitavamo le famiglie – racconta suor Lena Emilia – donne e ragazze scappavano o rimanevano chiuse in casa; incontrandole per strada, non si riusciva a guardarle in faccia; ora salutano, sorridono, parlano come persone normali. All’inizio venivano in chiesa solo gli uomini; oggi essi portano tutta la famiglia». Il lavoro non è facile, specialmente tra gli adulti che, per mentalità e abitudini ancestrali, hanno un concetto utilitaristico della fede e ricorrono numerosi alle benedizioni e preghiere del prete per essere liberati dal malocchio e altre diavolerie. Più facile, invece è lavorare con i giovani. Tenendo presente che Shambu conta 9 mila studenti di scuola elementare e secondaria, è chiaro che il campo di lavoro è sterminato.
Ma nel centro di Shambu, il lavoro è praticamente impossibile, anche se missionari e missionarie sono ben voluti dalla gente: la loro presenza è sgradita ai preti ortodossi che, con prediche e proiezioni di video-cassette, dipingono la chiesa cattolica come incarnazione del male e arrivano a proibire i loro fedeli di salutare padri e suore.
Fuori del paese, nelle campagne e nelle zone montagnose, non ci sono problemi; molti gruppi rurali chiedono la presenza dei missionari. Tra questi, a una sessantina di chilometri, vicino al Nilo Bianco, c’è Asendabo, una cittadina dove soggioò il cardinal Massaia. È in progetto di iniziare il lavoro missionario anche in quella zona e riprendere il lavoro del grande missionario: fa parte del carisma dei missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano proprio per continuare l’opera del cardinal Massaia. •

Benedetto Bellesi




Gridare ai sordi

Caro direttore,
sono un missionario laico della Consolata (Milaico). Lavoro a Nampula (Mozambico), nel seminario diocesano gestito dai missionari della Consolata. Mi trovo molto bene con essi, tanto che sono alla seconda esperienza; la prima l’ho fatta ancora in Mozambico, a Mecanhelas.
Leggo Missioni Consolata, sempre interessante. Noto anche una polemica «brutale», portata avanti da qualche lettore contro persone che scrivono sulla rivista. Le incoraggio.
Già due anni fa, prima del ritorno dal Mozambico, Paolo Moiola era attaccato, ed io mi chiedevo come si potesse essere così violenti. Rientrato in Italia, dopo tre anni filati, ho capito il motivo della «violenza», e stavo per essee contagiato, se non altro per la stanchezza psicologica accumulata in Africa.
L’informazione dei media è martellante e deviata dagli interessi personali del presidente del Consiglio (ma non solo). Sta portando all’odio e disgrega il tenue tessuto sociale creato faticosamente in oltre 50 anni di repubblica. Sta tramontando la stima, anche tra persone di partiti diversi. Noi, che ci riteniamo cristiani, non dobbiamo permetterlo…
Ben vengano i Giulietto Chiesa (e non solo), se ci fanno pensare e ci lavano gli occhi assopiti nel quotidiano. Il «lavaggio» è duro, specie quando non si vuol pensare. Forse non vale la pena «gridare ai sordi». Ma che succederebbe se non si gridasse più? Non voglio immaginarlo.

Giancarlo, buon lavoro. Milaico (Missionari laici della Consolata) ha sede in: Via del Solstizio 2,
31040 Nervesa
della Battaglia (TV);
tel 0422/771272
(milaico@libero.it).

Giancarlo Pegoraro




Attenti alla storia

Egregio direttore,
ho letto su Missioni Consolata di settembre la risposta del giornalista Chiesa alle critiche di alcuni lettori. Permetta qualche considerazione.
La risposta di Chiesa è assolutamente inadeguata. Egli lamenta il tono aggressivo di qualche intervento (e può essere giusto), ma il Chiesa non si rende conto di quanto aveva scritto (MC, gennaio ’03): affermazioni non comprovate da alcun dato, contrarie alla verità, insinuazioni gratuite. A quella lettura, anch’io mi sentii indignato.
Il Chiesa accusa gli altri di luoghi comuni; ma egli fa lo stesso: i suoi due scritti sono infarciti di espressioni di critica verso gli Stati Uniti, i suoi presidenti e di simpatia per l’Urss.
Chiesa, nonostante le contestazioni (anche serene) di molti lettori con nomi, date, riferimenti a fatti storici incontestabili, non avanza correzioni, ammissione di errore di valutazione e nessuna revisione. Si aggrappa a qualche frase ritenuta eccessiva e ignora totalmente il resto. Una scappatornia per far credere che ha sempre ragione. Ma così non è.
Egli cita a memoria se stesso e sbaglia. Scrive infatti: «L’altra cosa che, a quanto pare, ha molto indignato è la semplice constatazione che a vincere il nazismo è stata una coalizione di cui fecero parte Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti».
Ora nel suo primo articolo non c’è traccia di una simile affermazione. Se egli avesse scritto quelle parole, nessuno si sarebbe indignato. Egli scrisse allora che «… la vittoria contro il nazismo fu ottenuta con il contributo assolutamente essenziale dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti arrivarono dopo, con ritardo (c’è chi pensa che sia stato un ritardo molto grave), a prendersi una parte del merito…».
Francia e Gran Bretagna, che per prime sono entrate in guerra in difesa della Polonia contro l’aggressione nazista, non sono ricordate. Tralasciando quelli più piccoli, che pure hanno fatto la loro parte con gravi sofferenze, due stati (Francia e Gran Bretagna) sono ignorati, uno (Stati Uniti) è arrivato in ritardo. Quindi il merito della vittoria è dell’Urss!
E il Chiesa si stupisce se a qualcuno è scappata qualche parola di troppo! Egli invita ripetutamente gli altri a studiare la storia. Ma lui l’ha studiata?
Il ricordo di quegli avvenimenti mi induce a chiedere a Chiesa se ha mai riflettuto sul comportamento dell’Unione Sovietica (Stalin) nel primo periodo di guerra. La preoccupazione primaria è stata lo spostamento dei confini verso Ovest; occupa successivamente oltre un terzo della Polonia (in base al lugubre trattato Hitler-Stalin), Lituania, Lettonia, Estonia e parte della Finlandia con l’importante porto di Murmansck, poi trasformato in base militare. Questa è storia.
L’Unione Sovietica, trascinata in guerra dal proditorio attacco di Hitler, per ricacciare l’invasore, ha combattuto poi sanguinose battaglie, che hanno richiesto enormi sacrifici, dando un contributo altissimo alla vittoria finale sul nazismo. Anche questa è storia e sarebbe ignobile non riconoscerlo.
Contemporaneamente non possiamo dimenticare gli Stati Uniti che, pur non immuni in altri campi da atteggiamenti discutibili o anche inaccettabili, hanno combattuto, pressoché da soli, contro il Giappone, membro del Tripartito, hanno partecipato alla creazione del fronte Sud (Africa, Italia) e hanno contribuito in modo essenziale allo sbarco in Normandia con abbondanza di uomini e mezzi. Pure questa è storia.
Mi auguro che Missioni Consolata, che entra in casa mia da 40 anni, continui a pubblicare scritti sereni, anche vivaci e battaglieri, ma rispettosi della verità, aperti alla conoscenza dell’ampio mondo missionario, ispirati alla dottrina sociale della chiesa, lontani da cattedre o scranni preferenziali che mal si accordano, all’occorrenza, con la virtù dell’umiltà.

Giulietto Chiesa ha suscitato reazioni favorevoli e contrarie, e tutte partendo dalla storia. Ciò significa che i fatti o non sono interamente conosciuti o sono selezionati…
Siamo grati al signor Azeglio per il suo contributo sereno, vivace, rispettoso.

Azeglio Collini




Più possibilità per Carlo Urbani

Egregio direttore,
mi permetto di fare presente un’anomalia che ho riscontrato nel bando di concorso (di idee) del Premio giornalistico, intitolato al dottor Carlo Urbani.
Anzitutto il mio plauso per l’iniziativa intrapresa di Missioni Consolata (la leggo con attenzione e curiosità), non solo per l’indirizzo del premio, ma anche per dare la giusta importanza ad un uomo di rare qualità umane.
Quello che mi fa protestare è che il bando del Premio sia rivolto esclusivamente a laureati in medicina, chirurgia e odontorniatria. Con tale scelta, si esclude quanti (e sono moltissimi) «frequentano» il Sud del mondo, che laureati non sono. Mi riferisco in particolare a missionari, ricercatori, erboristi, volontari… che, acquisendo esperienze e professionalità in campo sanitario, a volte superano molto le esperienze di medici.
Ho conosciuto e conosco missionari della Consolata (e di altri ordini), impegnati nell’assistenza sanitaria, che potrebbero scrivere non dei trattati, ma dei libri.
Proprio per dare maggiore valenza all’iniziativa del Premio, ma soprattutto ricordare nel migliore dei modi la dedizione del dottor Carlo Urbani, le suggerisco di ampliare la possibilità di partecipazione anche alle altre categorie che ho menzionato: questo anche per conoscere un mondo sommerso che vive magari in prima linea proprio nel Sud del mondo.

Grazie della garbatissima protesta. Se andrà in porto la seconda edizione del Premio «Carlo Urbani», terremo conto della proposta.

Giuseppe Bertelli Motta




Giuliano Ferrara

Q uesta mia lettera vi meraviglierà un po’: sono qui per un «consiglio», se possibile.
Ho ricevuto lo splendido numero di ottobre/novembre di Missioni Consolata, potendo leggere finalmente le notizie che avrei voluto leggere da tempo, così ben descritte e rivelatrici.
E adesso vengo al consiglio, quasi un ordine: mandate una copia di questa eccezionale rivista a Giuliano Ferrara, quello della rubrica «Otto e mezzo».
Io lo conosco da poco tempo, e me ne rammarico. Mi pare un uomo di grande buon senso, senza troppi peli sulla lingua: ha dichiarato egli stesso (e giorni fa l’ha ripetuto) di essere stato comunista, figlio di comunisti che in un loro libro esaltavano Stalin.
Mandategli la rivista, sollecitandolo a farci conoscere le cose nascoste. Ditegli pure che il consiglio viene da un suo «nuovo» ascoltatore, entusiasta

Angelo Masset




Liberare l’informazione

ntanto grazie di tutto. Certamente Carta segnalerà la rivista… A me farebbe piacere dare un contributo a «Liberiamo l’informazione» e, ovviamente, non lo faccio per… denaro. Complimenti! Siete davvero bravissimi.

Daniele Barbieri




Lavoro Ciclopico

M i è arrivato il numero straordinario sulle guerre. Complimenti! Un lavoro ciclopico, con contributi di grande qualità.
Quando Paolo Moiola mi ha parlato del progetto, non ho pensato ad un’opera così straordinaria.

Silvia Pochettino




Davvero poco praticante?

G razie, grazie di cuore per il numero di ottobre/novembre, interamente dedicato alle guerre. Ho letto e riletto ogni articolo, ogni annotazione, ogni piccolo inserto. Mi sono serviti per riflessioni, per prendere appunti, per parlarne e sensibilizzare altre persone.
Da appassionato viaggiatore, alla continua ricerca di gente da incontrare e realtà da conoscere (avevate pubblicato qualcosa di mio nel 2002 sullo «speciale Kenya»), ho trovato, negli articoli delle zone che meglio conosco, piena rispondenza con quanto la gente mi confidava (quasi parlasse a se stessa) davanti ad un tè, una focaccia o un pugno di riso.
In ogni articolo traspare la verità (mille e mille volte ripetuta, anche senza citarla) che a subire le peggiori conseguenze di ogni conflitto è sempre la «gente normale», la gente che noi incontriamo ogni giorno in ascensore, in autobus, nei supermercati.
Su una immaginetta, che per motivi affettivi conservo come una reliquia da oltre 40 anni, c’è una frase a cui ho sempre cercato di attenermi: «Solo lo stolto percorre correndo il cammino della vita, senza soffermarsi ad osservare le bellezze del creato». E, al centro di queste bellezze, il Grande Artefice ha posto l’umanità. Riuscirà mai il politico, l’uomo di governo e l’ambizioso di potere a capirlo?
Se guardiamo a ritroso la storia, le risposte sono poco confortanti. Ma la speranza non costa niente. Soprattutto se comincia a farsi strada nei giovani la volontà di propagarla. Che vita difficile avrebbero i fabbricanti e trafficanti d’armi! Né più né meno come i produttori di superalcornolici e sigarette in comunità di astemi e non fumatori.
Sicuramente qualche lettore (spero pochissimi) sarà in disaccordo con l’impostazione del numero. Forse quei lettori vorrebbero sempre foto di bambini che corrono felici sul cortile della missione, o che assistono a funzioni religiose. Ma a quanti bambini tutto questo viene negato dall’imposizione di una divisa militare o da lavori disumani dall’alba al tramonto?
Nelle realtà attuali dimentichiamo il «missionario/predicatore porta a porta», che misura il suo successo nel numero di conversioni, quasi si trattasse di un venditore di aspirapolvere. È il vivere la quotidianità con la gente del posto, condividee i sacrifici, lottare al loro fianco contro le ingiustizie, aiutare a risolvere i problemi contingenti che i governi trascurano (acqua, cibo, scuole, dispensari, assistenza medica, ecc.), predicare l’amore con l’esempio… che rende una missione (e lo spirito religioso che la anima) forte e credibile.
È possibile che molti i quali frequentano missioni e missionari non si convertiranno mai totalmente al cattolicesimo, perché il legame con la religione ancestrale è troppo forte per poterlo abiurare. Ma la loro stima, la loro lealtà, il loro attaccamento, il loro aiuto materiale non verrà mai a mancare.
«La legge dell’amore – scriveva Carrel in “Viaggio a Lourdes” – dà a ciascun individuo due ordini essenziali. Il primo è di voler bene agli altri. Il secondo è di correggersi dei difetti e dei vizi che impediscono agli altri di volergli bene».
E in un altro passo: «Voi dunque non insegnate ai vostri novizi a fare orazioni – diceva un prete a don Alexis -. E don Alexis rispose: “Io insegno loro a fare della vita una perpetua orazione”».
E dall’esempio di molte di queste orazioni, praticate dai missionari (uomini e donne), io, credente ma poco praticante (se per praticante intendiamo solo regolare frequentazione dei luoghi di culto), ho ricevuto tantissimo.

Mario Beltrami




Un ex giornalista

Con questa lettera voglio esprimervi il mio apprezzamento e la mia considerazione per la qualità del vostro lavoro.
Seguo la rivista da qualche tempo e ne ho potuto valutare la straordinaria capacità di analisi e sintesi, la completezza delle fonti e la profonda onestà intellettuale. Nel panorama della stampa italiana Missioni Consolata brilla come un diamante di luce pura.
Iddio nostro Signore sostenga il vostro lavoro.

Hamza R. Piccardo