Parliamaoci chiaro

«Meglio cinque parole intelligibili che diecimila in lingue» diceva già san Paolo. Tale suggerimento è,
oggi, valido più che mai sia in campo sociale che in quello religioso; anzi, è raccomandato soprattutto nel dialogo ecumenico.

Q ualche passo avanti nel dialogo ecumenico, specie tra cattolici, ortodossi e protestanti, è stato compiuto. Se si paragonasse tale dialogo a una tavola rotonda, è senz’altro assodato che ogni membro che siede a quel tavolo si considera su un piano di perfetta uguaglianza con i suoi partners. La deontologia del dialogo ormai è accettata. Quanto ad accordi, tuttavia, le distanze sono ancora enormi, che assumono a volte tali dissonanze, da sembrare un’orchestra con strumenti non accordati.
Due, soprattutto, sono i punti dove il disaccordo può dirsi totale. Il primo, specie tra cattolici e protestanti, riguarda il culto mariano e dei santi. Su questa questione nel 1990 uscì un documento ecumenico, frutto di un laborioso dialogo tra «cattolici romani e luterani» negli Stati Uniti, svoltosi dal 1983 al 1990, in otto dense riunioni.
Il documento ha un titolo molto significativo: L’unico Mediatore – I Santi e Maria; ed è molto lungo (152 pagine) e disgraziatamente molto complesso; quindi poco accessibile ai comuni mortali. Sembra quasi di assistere a una concitata partita di ping pong, botta e risposta. Non su un vasto campo di calcio, ma su un minuscolo tavolo da pranzo.
Il secondo punto di profondo disaccordo riguarda la figura stessa del papa e la sua funzione nella chiesa. Il 25 maggio 1995, Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica dal titolo Ut unum sint sull’impegno ecumenico. Nella parte finale dell’enciclica, in cui tratta direttamente del vescovo di Roma, riconosce che il papa, proprio lui, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro perdono».
PAROLE VUOTE
DISCORSI INCOMPRENSIBILI
Il prof. Tullio de Mauro, nella prefazione al libro di Roberto Berretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, osserva che, ad esempio, la parola dono, così bella e dolce, diventa acerba come un limone, se presentata in un’«ottica ablativa».
Il noto predicatore Raniero Cantalamessa aggiunge: «Uno dei motivi per cui, in molte parti del mondo, si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sètte, è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa da non arrivare direttamente al cuore di una persona…» e per conto mio aggiungerei: neppure al cervello.
Se anche nell’ambito della stessa nostra chiesa, tra noi cattolici, non riusciamo a capirci, come fare a dialogare con fedeli di altre chiese, che forse devono affrontare le stesse nostre difficoltà?
Tanto più che, a quanto pare, un po’ tutti i settori del nostro vivere civile sono infestati da questo virus del parlare e scrivere senza farci capire.
Un giornale pubblicò la seguente lettera di un cliente di una banca: «Nella mia banca c’è un nuovo consulente finanziario addetto ai servizi di risparmio. Parla da esperto di borsa, usa parole per me incomprensibili. Viene da pensare che non voglia essere chiaro per vendere quello che vuole. Le pare giusto?».
E dopo la firma segue un esilarante articolo a commento e a conferma.
Un altro autore, per dimostrare la mania di certi politici di scrivere in modo incomprensibile – quasi tutti – riporta questo periodo di prosa politica: «Gli elementi di intelligence (evviva l’inglese!) e i risultati delle operazioni di polizia hanno confermato l’esistenza nel nostro paese di poli impegnati in attività, la cui valenza emerge alla luce di una strategia globale che trova nella fase logistica momento nodale per garantire la mobilità dei militanti».
Mi auguro che il tipografo abbia riportato in modo esatto questo testo. Ma il commento del giornalista è questo: «Se fossi presidente della Camera l’avrei rispedito al mittente: “Per favore riscrivete tutto in un linguaggio decente, chiaro e stringato. I rappresentanti del popolo italiano non saranno un granché, però non avete il diritto di offenderli con una prosa così demente”».
Lo scopo di questo mio scritto è, però, religioso, specie nei suoi aspetti ecumenici. Uno di questi aspetti, primario e indispensabile, senza del quale tutti gli altri servono a poco, è di parlare in modo comprensibile.
Ci sarebbe da divertirsi, prima di arrivare al punto, ma il sorriso sarebbe sempre amaro.
Indro Montanelli, nella celebre La Stanza del Corriere, diede una secca risposta alla lettera di un teologo che dissentiva dal suo modo di presentare lo scisma del 1054, che spaccò la chiesa in due: «Vede, questa è la grave stortura della cultura italiana, teologia compresa: di essere una cultura a circolo chiuso… di pochi eletti: ai quali io non appartengo, né mai ho ambito di appartenere. Perché il mio compito – quello che mi sono sempre prefisso – è di spiegare le cose a chi non le sa, non a chi le sa meglio di me, ma vuole tenersele per sé».
E più spassose ancora, a volerle riportare per intero, sarebbero le critiche di Guido Ceronetti a scritti redatti in «un gergo del tutto demenziale», che provano che chi così scrive «non è mentalmente a posto». E aggiunge, e ciò vale anche per il linguaggio religioso: «La prima delle difese è il linguaggio: se le sue porte sono senza cardini, i lupi vi entrano a frotte, con la solita zampina infarinata».
«I RUMINANTI
DELLA SACRA ALLEANZA»
È noto che il papa Luciani parlava in modo semplice. Aveva voluto accanto a sé suor Celestina per un compito speciale: che gli leggesse le sue prediche e gli dicesse se capiva tutto.
Qualcosa del genere aveva fatto anche don Bosco, servendosi di sua madre. Un giorno le lesse un articolo, nel quale chiamava l’apostolo Pietro «il clavigero». Sua madre l’interruppe: «Clavigero? Dov’è questo paese?». «Non è un paese – le rispose il figlio – vuol dire: colui che porta le chiavi». «E allora dillo così e lascia quella parola che io non riesco neppure a pronunciare».
J. Maritain chiamava certi biblisti, teologi, vescovi e papi per i loro scritti troppo lunghi e soprattutto difficili: i ruminanti della sacra alleanza. Come buoi o quei tipi che masticano continuamente gomma americana.
TEOLOGIE DEMENZIALI
E SGANGHERATE
Tempo fa ricevetti in omaggio un libretto dal titolo: La via dell’anima. In prima pagina, quasi come dedica o sintesi del volumetto, si legge:
Nella parusia spirituale
si raggiunge il sé
paradiso metapsichico
che permette di considerare
la morte fisica come
paradiso metafisico.
Ma il buon Dio ci liberi dai paradisi metapsichici e più ancora da quelli metafisici!
In un’altra pagina il cristiano è così definito: «Il cristiano è l’attributo di chi ha subito in modo cosciente-accettato il processo di transizione psiche-pneuma ed è diventato persona».
Il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, su un giornale tra i più diffusi d’Italia propose «una legittima difesa da parte dei credenti – preti inclusi – contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali».
E ciò per un motivo, non solo pastorale, ma anche ecumenico, cioè di possibili dialoghi e accordi.
E i più responsabili di questo degrado sono i teologi di professione, con i loro scritti il più delle volte incomprensibili. Si potrebbe stralciare un campionario, a dir poco, allucinante. Tre esempi soltanto, tra i mille che si potrebbero elencare.
In un libro sullo Spirito Santo leggo: «Lo Spirito perfetto dà luogo alla cre-azione, vero processo teogonico, col quale le potenze praeter Deum, predivinizzate, operano demiurgicamente a formare l’unum-versum, l’universo intero delle cose create, realizzando a un tempo l’individuazione e caratterizzazione delle Persone…» e i puntini indicano che non sarebbe finito!
Così, secondo esempio: «Lo Spirito Santo è il traboccare ad extra dell’exstasi ad intra del Padre e del Figlio». Povero Spirito Santo!
Terzo esempio: «Da Gregorio di Nissa al Concilio Vaticano II, ogni antropologia iconica ha valutato l’autentica relazionalità logonomica dell’uomo e l’autentica relazionalità cristonomica del cristiano»; e tutto ciò per dire che esiste un «io liturgico».
Ma questa è pazzia pura: teologia rompicapo, vaniloquio teologico.
Ripenso a san Paolo che ai Corinti, amanti del «parlare in lingue» da esperti carismatici, li ammonisce (mi si perdoni il latino): «Sed in ecclesia volo quinque verba sensu meo loqui, ut et alios instruam (nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri) quam decem millia verborun in lingua (piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue)», che volgarmente tradurrei: «Preferisco dire cinque parole capite da tutti che diecimila incomprensibili!» (cfr 1 Cor 14,19).
Anche perché è assolutamente impossibile non far scappare la gente dalle chiese o avviare un dialogo ecumenico, anche solo tra noi, con tante e tante parole, non sempre dettate da un comune buon senso.

Igino Tubaldo

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