L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi

image_pdfimage_print
/

Sei hai gradito questa pagina,

sostienici con una donazione. GRAZIE.