Lettere sul Venezuela

La contrastante valutazione di un reportage di Missioni Consolata<

Scrivo in riferimento a «Chávez ti amo, Chávez ti odio» di Missioni Consolata, giugno 2003. Conosco a fondo la situazione del Venezuela e sono rimasta costeata nel leggere le incredibili semplificazioni operate dall’articolo su una tragica situazione. Non entro nella questione politica e prescindo dal prendere posizione pro o contro Chávez, anche perché l’articolista non affronta il vero problema, ma afferma cose aleatorie o si basa su aneddoti banali per trae conclusioni generali.

È anche un articolo (e lo scrivo con dolore immenso) fuorviante e superficiale, che fomenta classismo e razzismo, finora totalmente assenti in Venezuela.
Leggo: «I bianchi sono circa il 21% della popolazione». Quali bianchi? I «bianchi» vengono fuori a caso da qualunque famiglia, perché dai medesimi genitori nascono figli di ogni gradazione della pelle. Chi sposa un venezuelano/a non sa di quale colore saranno i figli: indios, neri, moreni, bianchi e anche gialli… È il regno di Cristo, signor direttore, dove ogni differenza è raccolta, amalgamata e amata!

La mia amica Gladys ha una bambina «pura italiana castagnina» e un maschietto «nero come un tizzone»; i genitori non sono italiani, né bianchi, né moreni, ma solo un po’ abbronzati. Altro esempio: un amico moreno ha un fratello come lui e tre sorelle (due bianche e una morena). Dunque come potrebbe esistere una «categoria» di bianchi?

Trovo scritto ancora: «I “bianchi” vivono nelle grandi città. I “bianchi” sono i principali leaders dell’opposizione. I “bianchi” hanno in mano i canali televisivi…». Direttore, guardi le foto nella stessa rivista: due collaboratori di Chávez sono bianchi e persino biondi… Non è questa una campagna razzista contro i «bianchi», che crea antagonismo tra fratelli di colore diverso su una base completamente inesistente? E questo su una rivista missionaria cattolica. C’è da morire di crepacuore! Il termine «negrito», lungi dall’essere ingiurioso, è meraviglioso: è il vocabolo della tenerezza e designa l’essere più caro, negretto o «blanquito» che sia.

L’articolo dà gran rilievo anche a qualcosa che è solo un elemento culturale, cioè lo «schiarire la pelle»: il «blanqueo» è la preparazione alle nozze delle indie guajiros da tempo immemorabile… Gli aztechi aspettavano un «dio biondo», e si commossero quando apparvero i «diavoli» spagnoli di Cortés; uno, il più malvagio, era biondissimo…

Anche un italiano basso vorrebbe essere 1 metro e 80; anche un’italiana bruttina si duole e vorrebbe essere una miss. Certe aspirazioni alla bellezza sono universali. Non è così? Un giovanotto, innamorato di una «morenita», non la lascerebbe per nessuna «blanquita» al mondo. Perciò l’aneddoto della donna afro (che si vanta di essere meno nera dell’altra), generalizzato per descrivere una situazione politico-sociale, mi sembra assurdo.

L’abbandono di bimbi… Certo, se la situazione degrada sempre più, i problemi diventeranno abnormi. Fino a poco tempo fa i bambini crescevano in famiglie allargate; i nati prima del matrimonio erano allevati dalla nonna. Il popolo venezuelano (prima di questo disastro) era stupendo e profondamente religioso.
Vorrei, direttore, che lei esaminasse spassionatamente il tutto e prendesse i provvedimenti del caso.

Il Signore le sia largo di grazie.

Maria Ricci – Roma

Sono un italiano in Venezuela da 34 anni, dove arrivai come professore universitario di matematica. Nel paese, tra varie esperienze, ho avuto il privilegio di essere tra i fondatori dell’università « Simón Bolivar», sin dall’inizio una delle migliori del continente.

Ricordo com’era difficile nella nostra università vedere un nero. La maggioranza dei professori erano stranieri, europei per lo più; anche la maggioranza degli studenti erano discendenti di europei. In un paese dove i meticci sono l’80 per cento, gli studenti della «Simón Bolivar» probabilmente non arrivavano al 20%.

Era uno degli aspetti (per dirlo con il titolo di un libro del 1991 di una docente dell’Università Centrale di Venezuela) del «razzismo occulto di una società non razzista». La professoressa era nera, ovviamente, perché – come mi diceva qualche mese fa un’amica nera – «si deve essere neri per capire che significa essere neri».

Direttore, perché le faccio questo discorso? Per congratularmi con la sua rivista, che ha pubblicato gli articoli di Paolo Moiola sulla situazione del Venezuela.
In termini astratti ciò che sta avvenendo nel paese è la punta dell’iceberg di un fenomeno tipicamente latinoamericano: il continente si sta scrollando di dosso cinque secoli di colonialismo, durante i quali una minoranza di bianchi facevano il buono e il cattivo tempo, e la grande maggioranza di meticci potevano soltanto dire «signorsì». Non parlo di Cile, Argentina e Uruguay, dove gli indigeni furono sterminati o completamente ignorati. Parlo di paesi come Venezuela e Brasile, con un altissimo coefficiente di meticcità; parlo dei paesi andini, che sono ancora al tempo della «colonia», come 500 anni fa. Sarà questo il tema di un mio prossimo libro.

Tra le mie attività (lasciai l’università oltre 20 anni fa, stanco di essere un «bocciatore» al servizio della classe dominante), sono anche editore e scrittore. Il dovere di una persona, impegnata in un paese che l’ha ospitata con amore, è quello di contribuire alla costruzione del suo futuro. Per questo ho fondato una casa editrice, che ha pubblicato una trentina di libri: tutti contribuiscono a costruire il futuro del Venezuela.

Io ne ho scritti un paio: uno 10 anni fa, dal titolo «Riinventare il Venezuela – un progetto per il paese del prossimo secolo», ogni giorno più attuale. In questo libro parlo di «tre Venezuele», riducibili a due: la minoranza bianca-europea e la maggioranza meticcia. La discriminazione razziale è visibile anche a occhio nudo, perché i bianchi vivono su colinas e i meticci su cerros, i bianchi in edificios e i meticci in bloques; i bianchi formano urbanizaciones e i meticci barrios. La discriminazione appare anche dal linguaggio. E, in termini statistici, la correlazione tra classe sociale e colore della pelle è strettissima. La classe medio-alta non arriva al 15 per cento della popolazione, ed è bianca o color «latte macchiato». Ma, più si va giù, più il caffè diventa nero…

Hugo Chávez è il primo presidente del Venezuela di pelle scura. Negli ultimi 50 anni tutti i presidenti (ad eccezione di Carlos Andrés Pérez) sono stati bianchi di famiglia europea (italiana, spagnola, ecc.). Chávez è un presidente che viene dal basso: ha conosciuto la vita del barrio, sa cosa significa povertà. E ha deciso di dare un taglio al passato. Il fatto che l’opposizione sia tanto infiammata per deporlo dimostra che sta ottenendo dei successi.

Un fatto che dimostra la divisione razziale nel paese è stato il famigerato colpo di stato dell’11 aprile 2002. Nella marcia verso il palazzo presidenziale, con l’obiettivo di deporre il presidente, il 95 per cento dei dimostranti erano bianchi, europei o figli di europei. E quando due giorni dopo il presidente toò al potere, toò perché così decise il popolo meticcio. Ricordo quella notte, allorché ritoò al palazzo presidenziale: io ero uno dei pochissimi bianchi ad aspettarlo. Alcune persone mi guardavano con sospetto…

Direttore, le confesso che sovente mi vergogno di essere italiano ed essere confuso con la massa degli emigrati italiani, la maggioranza dei quali raggiunsero il Venezuela dopo la caduta del fascismo cercando un paese dove poter vivere secondo la loro ideologia fascista.

Quando, 34 anni fa, venni in Venezuela, mi bastò conoscere pochi italiani per prendere una decisione, poi sempre rispettata: non frequentare gli italiani, razzisti e fascisti, grandi lavoratori senza dubbio, ma sovente negativi nel rispetto della persona.

Benvenuta, allora, una rivista di ampia diffusione come Missioni Consolata, con un’egida non politica, che cerca di spiegare cosa sta avvenendo in Venezuela.

Giulio Santosuosso – Caracas

aa.vv.




KENYA – Quando Gesù nacque bambina

Una piccola orfana
è accolta in una famiglia africana: la notte
di natale, prende il posto di Gesù bambino
nel presepe e continua
ad essere accolta e amata come una benedizione divina.

È l’antivigilia di natale; l’estate calda e piena di luce: restare a casa a far poco o nulla è scoraggiante quanto mai. Mancano due settimane alla riapertura delle scuole (in Kenya l’anno scolastico inizia in gennaio), ma la gioia della vacanza e della festa del natale elettrizza non solo i bimbi d’Europa, ma anche quelli del continente nero.

– Vieni, Scolastica; andiamo a trovare alcuni amici.
L’invito di mamma Mary alla figlioletta, ultima di quattro figli, non poteva giungere più accetto.

– Dove andiamo, mami?

– Partiamo e vedrai.

Mamma Mary mise in una borsa di plastica una manciata di samosa (specie di frittelle ripiene di carne e spezie) e prese la strada che porta alla grande bolgia di Kibera: una delle più grandi e tristi bidonville di Nairobi, ove si accalca mezzo milione di individui di tutte le etnie del Kenya.

– Hai degli amici qui dentro? – riprese Scolastica, quasi paurosa di quel luogo da tutti ritenuto un covo di briganti.

– Non aver paura. Mami è con te.
Mamma Mary puntò dritta verso una costruzione di vecchi pezzi di assi tenuti insieme faticosamente da listelli e fil di ferro. Il tetto, fatto di vecchie latte di benzina spianate col martello, ormai arrugginite e sforacchiate, riparava dal sole, non certo dalla pioggia. Chiamarla casetta avrebbe offeso anche un apprendista carpentiere; definirla pollaio… si sarebbero offese le galline.

– Odi? (permesso?) – chiese mamma Mary, mentre spingeva una specie di paravento di pezzi di plastica e sacco catramato.

Nell’interno, diventato tutto ad un tratto silenzioso, decine di puntini luminosi fendevano la semioscurità: sembravano altrettanti occhi di gattini spalancati.
– Hamjambo watoto! (salve bambini) – salutò la donna.
– Hatujambo, mama! (salve, mamma) – fece eco un coro di vocine.

Anche Scolastica, che si era quasi nascosta dietro la mamma, si fece avanti per stringere una selva di manine, che avrebbero avuto bisogno di tanta acqua e sapone.

Quella «topaia» (questa volta senza offesa per i topi) voleva essere un «orfanotrofio». Venti o trenta bambini erano stipati in quella stanza, sotto la sorveglianza benevola di una matrona africana, che aveva tentato di intrecciare il suo grande cuore e la monumentale statura con la estrema povertà e la triste realtà di un gruppo di bambini rimasti orfani e da tutti abbandonati. Almeno potevano avere un luogo per dormire, scaldandosi a vicenda, una scodella dove pescare qualche foglia di cavolo, una manciata di polenta da divorare.

Mamma Mary conosceva già quella situazione. Ma Scolastica ebbe un momento di brivido, specie quando sentì due mani umide aggrapparsi alle sue gambe, come per sostenersi a qualcosa e non lasciarsela scappare.

Scolastica guardò in basso; i suoi occhi si incontrarono con quelli lucenti di una bimba dai vestiti scoloriti e laceri. Non una parola. Una guardava in giù, l’altra guardava in su, con occhi di speranza. Neanche la distribuzione dei samosa interruppe quella specie di abbraccio.

– Hai idea di chi possa essere questa bimba? – chiese alla matrona mamma Mary, che aveva notato lo strano comportamento della bimba.

– Me l’hanno portata dopo che anche la mamma fu trovata morta. La piccola aveva tanta fame. Dovrebbe essere di etnia luo, poiché i genitori venivano dalla regione del lago Vittoria. Niente di più. Neppure il nome. Ho cominciato a chiamarla Owino ed essa mi risponde quando uso questo nome.

Owino restava imperterrita attaccata alle gonne di Scolastica.

– Vedi, Scolastica? Ti vuole bene! E se le regalassimo un po’ di amore in questi giorni di natale?

– Ci sto!

Non furono necessari lunghi discorsi: la matrona non ebbe difficoltà a concedere ad Owino la «libera uscita».
Documenti? E quali documenti? Papà e mamma sconosciuti, morti di aids, sepolti o abbandonati chissà dove. Ben venga uno spiraglio di bontà e per una creatura che ha tutti i diritti di vivere!

E uscirono in tre da quella stanza, tenendosi per mano. Scolastica stringeva forte la manina di quella «bambola in carne ed ossa», per paura che nella ressa della bidonville qualcuno gliela portasse via.

A casa la bimba fu accolta con gioia. Gli altri tre figli, uno dei quali universitario, si dissero onorati di far posto alla bimba piovuta dal cielo.

Il bagnetto nella vaschetta di plastica, con tanto di spugna e sapone, fu una commedia per tutta la nuova tribù. Owino spuntò fuori come se fosse stata rifatta nuova; fu rivestita dei vecchi abiti di Scolastica: alcuni spilli e qualche ritocco, ed ecco la nuova star della famiglia.

«Che nome le mettiamo? – domandò Scolastica, dando subito la risposta -. Propongo Little Mary, (piccola Maria) in onore di mamma che l’ha scovata». Apprato senza fiatare.

La notte Little Mary dormì un sonno tranquillo, anche perché non sentiva, una volta tanto, gli stimoli della fame arretrata. Dormì in una culla, la prima volta in vita sua: la vecchia culla di famiglia, usata da tutti e quattro i figli.

Il giorno seguente c’era un gran da fare in casa Mary per preparare il natale: pulire, lavare, cucinare qualcosa di speciale senza la solita polenta.

Giunge la sera. La «messa di mezzanotte», in certi posti del Kenya, non è pensabile per le difficoltà di trasporto e motivi di sicurezza.

– Mamma, abbiamo dimenticato il presepio! – disse Scolastica, guardando attorno come se avesse smarrito qualcosa d’importante.
– Ma non abbiamo la capanna né le statuine dei pastori.

– Abbiamo Gesù bambino in carne ed ossa, la nostra Little Mary, che Gesù ci ha regalato per natale. Noi faremo Maria, Giuseppe e i pastori; a mezzanotte porteremo Little Mary nel nostro presepio.
– Dove metteremo il nostro Bambin Gesù? La culla non va bene!

– Nel cestino del nostro cucciolo. Bob avrà pazienza di aspettare la fine della festa.
Verso mezzanotte, in un’aura di gioia e fantasia tutta africana, il presepio vivente prese a muoversi dalla cucina alla camera da letto; Maria e Giuseppe portavano un cesto di vimini tutto addobbato; Scolastica, seria e compunta, reggeva in braccio Little Mary e la depose delicatamente nella cesta di Bob. Poi mamma Mary intonò in kikuyu «Tu scendi dalle stelle…».

Il coro era piccolo e neppure troppo intonato, ma tanto gradito al cielo e agli angeli, presenti e osannanti anche quella notte.

La storia avrebbe voluto che nella mangiatornia ci fosse un «bambino» Gesù; ma credo che anche il buon Dio avrà sorriso alla fantasia del cuore africano, che in questa bella notte aveva fatto nascere un Gesù «bambina», nella cesta del cucciolo di famiglia.

T re giorni dopo natale, mamma Mary, che da tanti anni è segretaria tuttofare in casa nostra, mi raccontò quanto era successo in famiglia, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
– Hai pensato, Mary, al rischio in cui ti sei cacciata? – le domando.

– Ci ho pensato a lungo e ne ho parlato con i figli: abbiamo deciso di tenerla come un dono di Dio. Da quando nacque Scolastica, dieci anni fa, e mio marito se ne è andato, lasciandomi sola, senza lavoro e mezzi, intorno a me ho sempre trovato tanta bontà. Sono riuscita ad allevare i miei figli dignitosamente e mandarli tutti e quattro a scuola. Dio ci ha benedetti. È ora che anch’io restituisca al Signore tanta bontà che ha usato verso di noi.

Cercai di guardare altrove, fingendo di essere occupato, perché due lacrimoni mi scendevano dagli occhi.

– Mary, hai pensato che anche la bimba possa avere il male dei suoi genitori?
– Sì. La farò visitare e saprò curarla. La bimba ha bisogno di medicine e, soprattutto, dell’amore di una madre e il calore di una famiglia.

Una visita accurata rivelò che Little Mary aveva ereditato il male dei genitori. Ma la notizia non scombussolò né cambiò il progetto di accettarla in famiglia.

O ggi Little Mary è cresciuta. Si è rinforzata in salute, grazie anche all’aiuto di amici italiani a cui ho raccontato questo «fioretto africano». Ha ancora bisogno di cure; ma l’amore che ha trovato intorno a sé è la migliore medicina e l’aiuta a superare le difficoltà.
Alla scuola di Scolastica e mamma, Little Mary ha imparato a parlare tre lingue, si destreggia bene tra le compagne dell’asilo ed è pronta per passare alla scuola elementare.

Nessuno è ancora riuscito a sapere esattamente come si chiamasse. Ma che importa? Forse un giorno qualche pignolo ufficiale governativo vorrà sapee di più. E allora – ci scommetto – mamma Mary, con la sua furbizia e senso dello humour, tirerà fuori questa spiegazione: «È un Gesù “bambina”, venuta dal cielo, accolta provvisoriamente nella cesta del nostro cucciolo, ma amata da tutti noi, come l’ultima figliola che il Signore mi ha donato».

Giuseppe Quattrocchio




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




TANZANIA – Otto ragazzi dal baba…

Il missionario è Camillo Calliari e il vescovo
Alfred Maluma. Otto giovani italiani in Tanzania
li osservano e pongono domande anche spinose:
sull’aids, per esempio.

Intanto, nell’anno internazionale dell’acqua,
i ragazzi danno una mano a completare un acquedotto
di 7 chilometri.

Sud del Tanzania. Dalla città di Njombe alla missione di Kipengere un pulmino arranca su ripide salite sterrate e geme nella morsa dei freni nei tratti di vorticosa discesa. Al passaggio del mezzo, i viandanti lungo la strada voltano le spalle e si coprono la bocca con una mano per proteggersi dal polverone, reso più denso dall’incombere della sera.

«Come te
non c’è nessuno…»
Il pulmino trasportava otto giovani italiani.

«Stop, per piacere! – si rivolsero ad un tratto gli italiani all’autista tanzaniano -. Ci piacerebbe fotografare quei bambini alla fontana». «Avrete altre e migliori occasioni – rispose il conducente -. Fra non molto è notte, e padre Camillo ci attende un po’ ansioso a Kipengere…».
A Kipengere opera padre Camillo Calliari, più noto come «baba Camillo». Il baba ha votato se stesso alla causa del vangelo: il vangelo della «vita in abbondanza». Vita che è pure acqua.

Fra tante e significative iniziative di promozione umana, il missionario ha inventato pure un acquedotto, sostenuto dal coinvolgimento della popolazione locale e dalla solidarietà di numerosi amici in Italia, non ultimi gli otto giovani del pulmino.

L’acquedotto è un’opera necessaria, costosa ed imponente, realizzata con tenacia nell’arco di anni su un vasto territorio, ricco di sorgenti d’acqua potabile, a circa 2.200 metri di quota. Dunque un’impresa in montagna, che ha esaltato baba Camillo, trentino di Romeno, in Val di Non. Un’opera surriscaldata dai raggi ultravioletti del sole, con gli uomini che disboscano il percorso dei tubi con un coltellaccio su terreni scoscesi, mentre le donne aggrediscono il suolo roccioso a colpi di zappa. E questo per chilometri e chilometri: 210 per la precisione, se si sommano gli 80 chilometri della condotta principale dell’acquedotto ai 130 delle diramazioni…

Spalla a spalla con i tanzaniani, gli otto giovani nostrani aggiunsero altri sette chilometri all’acquedotto, innalzando tre fontane nel villaggio di Ihagala e due in quello di Ilindiwe, a 20 chilometri da Kipengere. «Per noi è stato il modo migliore per celebrare l’anno internazionale dell’acqua» commentò uno dei protagonisti ad opera finita.

Quando l’acqua potabile sgorgò giorniosa e cristallina dai candidi rubinetti, fu un trionfo. I bambini dei villaggi cantavano: «Baba Camillo, hakuna mtu kama wewe» (come te non c’è nessuno).

Ma il missionario della Consolata abbassava la testa, pensando forse al prossimo «appuntamento» già fissato: un nuovo ramo dell’acquedotto di 15 chilometri. «Ah, dimenticavo! – disse anche ai ragazzi rincasando a Kipengere dopo la festa – l’acquedotto è… ecumenico, poiché vi ha contribuito anche la chiesa luterana pagando il trasporto di materiali e persone».

Chi offre una sedia?

«Il vescovo è arrivato» annunciò Laura. «Come lo sai?» chiese Mario. «Ho visto un uomo con un vistoso anello al dito…».

Sì, monsignor Alfred Maluma era giunto. Desiderava incontrare Laura e Mario, come pure Alessio ed Elena, Barbara, Lucia, Valeria e Francesca: gli otto giovani italiani che, nell’agosto scorso, trascorsero alcune settimane a Kipengere, missione della diocesi di Njombe.

«Buon pomeriggio» accolsero il vescovo i ragazzi. «Buon pomeriggio a voi e benvenuti nella nostra diocesi di Njombe!».

Il presule si rivelò subito affabile, con un sorriso accattivante, padrone di un buon italiano e in grado di rispondere a tutte le domande degli ospiti.
– Quale vescovo, come giudica la nostra presenza nella sua diocesi?

«Desidero che la diocesi sia accogliente: chi viene qui deve sentirsi a casa. Voi siete cristiani, penso. Allora ricordo che la chiesa è una famiglia che riunisce tutti. Come afferma san Paolo, dopo Gesù Cristo non ci sono più arabi, ebrei, italiani. Siamo tutti figli di Dio.
Qui, fra i missionari della Consolata, c’è baba Camillo, che lavora da tanti anni e ha fatto ottime cose. Voi pure, insieme a lui, avete contribuito a portare l’acqua potabile in due villaggi… I missionari lavorano, presentandosi come fratelli di tutti nella grande famiglia di Cristo. Questa è la nostra fede. È come un albero con tanti rami, e voi siete alcuni rami che continuano a spuntare. Mi auguro che la vostra presenza porti anche frutto. Per la gente locale siete una testimonianza di carità».

– Lei, forse, non è nato cattolico. Ebbene, com’è avvenuto il suo incontro con la chiesa?
«Io sono nato cattolico. In questa regione c’era una scuola elementare cattolica. I miei genitori vi lavoravano… e, con il tempo, sono stati battezzati. Quindi io sono nato cattolico. Però non tutti i miei coetanei sono cattolici. Ma i missionari hanno sempre annunciato il vangelo, accompagnato da servizi sociali: scuole, ospedali, coltivazioni. E la gente si interroga: chi è il missionario? In che cosa crede? Se crede in Gesù Cristo, anche la popolazione è pronta a farlo».
– In Tanzania molti vivono in condizioni difficili. Che fa la chiesa per promuovere lo sviluppo?

«Sono già state fatte molte opere, perché la chiesa ha sempre presentato il vangelo con i fatti: per esempio, l’istruzione scolastica in Tanzania è opera dei missionari. Fino agli anni ’70 era quasi impensabile un’istruzione senza le scuole missionarie, che sono state centri di sviluppo. Ma resta ancora molto da fare».
– Monsignore, ci parli di lei…

«Sono vescovo da appena un anno e sto avendo una drammatica esperienza visitando le parrocchie. Io sono figlio di contadini, ma forse non conosco la loro vita. La prima volta che, da vescovo, sono stato in un villaggio per conferire la cresima, ho dovuto cambiare la predica preparata, per non battere l’aria. Ero di fronte a tantissimi bambini: coglievo nei loro occhi una grande aspettativa, ma non sapevo cosa dire.

Uscendo di chiesa, ho chiesto ai genitori: cosa possiamo fare per i giovani? La risposta è stata: noi non siamo più in grado di educare, specialmente le ragazze… Ho invitato tutti a pregare, a riflettere maggiormente, ad incontrarsi. L’hanno fatto giungendo a questa conclusione: la chiesa dovrebbe impegnarsi di più nella scuola, dall’asilo all’università… Ecco perché la mia prima lettera pastorale, brevissima, affronta il tema dell’educazione-istruzione.
Se ci impegneremo di più nell’educazione, assicureremo il benessere integrale ai ragazzi di oggi».

– Pertanto il vescovo costruirà scuole?

«Il vescovo, da solo, non può costruire scuole, perché non ha soldi e la diocesi è povera. Siamo tutti poveri. Però se ognuno fa qualcosa (una finestra, una porta, una sedia)… Se anche voi, giovani, costruirete un muro di un’aula scolastica, contribuirete all’educazione. Non lasciatevi scoraggiare… La diocesi conta 240 mila abitanti; quelli che possono dare qualcosa sono 100 mila; ma, se tutti costoro lo faranno, costruiremo due nuove scuole, o almeno una».

AIDS E PRESERVATIVO

Il vescovo di Njombe e i giovani italiani conversavano all’aperto, seduti su una panca. Improvvisamente si levò un vento freddo, che costrinse tutti ad entrare in casa, cioè la baita, dove i ragazzi alloggiavano. Sul prefabbricato spicca una targa: «Dono degli alpini di Giussano».

L’intervista ad Alfred Maluma riprese attorno a un tavolo, ingentilito da un mazzo di splendide calle.
– Eccellenza, qual è il rapporto con i non cristiani?
«Nella regione di Njombe ci sono cattolici, luterani, anglicani e altre piccole denominazioni religiose. In passato c’era fra loro antagonismo; oggi questa malattia sta scomparendo. Fin da piccoli siamo abituati a vivere in armonia con ogni fede».

– Anche con i musulmani?

«Con i musulmani il problema si fa acuto di fronte ai fondamentalisti, che vengono dai paesi arabi. Ma con i musulmani tanzaniani (salvo qualche eccezione), non ci sono grosse difficoltà. Partecipiamo anche ai loro matrimoni e funerali. È un dovere di famiglia».
– Aids. In Italia si dice che in Africa servono soprattutto i preservativi. Lei, che dice?
«È essenziale cambiare abitudini e mentalità. Anche l’aspetto economico influisce molto: si cerca di lucrare sfruttando l’aids, cioè produrre e vendere preservativi. Invece si pensa troppo poco alla prevenzione, basata sull’educazione.

L’aids è esploso come una bomba per povertà e ignoranza: per esempio, se andate in un villaggio, vedete che si usano siringhe scadute, non sterilizzate, già impiegate per più individui. Vi sono medici tradizionali (un po’ stregoni) che incidono i corpi di vari pazienti con la stessa lametta, senza neppure disinfettarla. Lo stesso avviene nelle pratiche chirurgiche dell’iniziazione femminile e maschile. Sono fatti macroscopici.

Prevenzione contro l’aids significa investire sulla formazione dei giovani: questo comporta anche la revisione di alcuni costumi sessuali legati alla tradizione. È una trappola dire: “Tanto prenderò il preservativo!” (che in Africa è magari difettoso).
Io ho lavorato con i giovani subito dopo l’ordinazione sacerdotale. I giovani, prima che con il male, cercano di identificarsi con il bene. Ma se non lo vedono, perdono la speranza. Di qui l’urgenza di prospettare ideali positivi».

– Noi siamo qui a Kipengere anche per imparare. Secondo lei, che cosa possiamo apprendere?
«Questo dipende da voi. Io sono a casa mia, e non posso propormi a voi. Voi dovete scegliere. Tuttavia vi dò un consiglio: osservate con attenzione le persone, informatevi sui loro problemi, rifuggite dai luoghi comuni proposti dai mass media. In ogni caso siate solidali, generosi…».

Alfred Maluma saluta Laura e amici prima di cena, mentre la campana della missione di Kipengere suona l’Ave Maria. Congedato il vescovo, baba Camillo entra in chiesa per la preghiera della sera. In cielo splende la luna.
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Francesco Beardi




ETIOPIA – Fame di Dio

Crocevia tra nord, sud ed est del paese, Modjo è pure un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata: opere sociali e pastorali, seminario minore e animazione missionaria vocazionale, fino a diventare un punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi.

Non c’era un filo d’erba verde, 10 anni fa, quando padre Domenico Zordan mi fece visitare il luogo dove stava costruendo la missione di Modjo, lembo meridionale della diocesi di Addis Abeba. Non un albero per ripararsi dal sole, che, sull’altipiano etiopico, sembra più implacabile che altrove. Nel grande prato arido, reso più vasto dalla mancanza di recinzione, unico segno di vita erano i muratori, intenti a ultimare la costruzione dell’asilo e innalzare i muri del salone e del seminario.

Oggi, ritornato nello stesso luogo, mi sembra di sognare: un bel viale di jacarande immette in un’oasi di pace, con prati verdi, vialetti alberati e siepi in fiore che circondano una nutrita serie di edifici; da una parte la casa dei padri, il seminario, il salone l’ampia chiesa e gli edifici del centro di animazione missionaria; dall’altra parte, divisa da una rete metallica e un enorme cancello in ferro, sorgono l’asilo, il dispensario, il centro di promozione della donna e l’abitazione delle suore della Consolata che gestiscono queste attività; in fondo c’è la scuola elementare, costruita dai missionari e consegnata alla gestione governativa. Nonostante l’ampiezza dello spazio, tanti edifici sembrano allo stretto.

UNA SCELTA RESPONSABILE

Si sa come vanno le cose in Etiopia: la chiesa cattolica è considerata quasi come una Ong e la presenza di missionari è condizionata dalla gestione di opere sociali; ma, una volta ottemperata a tale condizione, è libera di svolgere le attività religiose a piacimento.
È così che a Modjo, nel grande terreno concesso dal comune per le opere sociali, i missionari della Consolata hanno costruito anche un seminario minore, per preparare gli aspiranti missionari.

«Attualmente abbiamo sette seminaristi – spiega padre Antonio Benitez -: quattro hanno terminato i dieci anni della scuola d’obbligo e frequentano l’undicesima e dodicesima classe nella scuola statale della città; gli altri tre fanno un anno di propedeutica, cioè di preparazione per entrare nel seminario maggiore di Addis Abeba e frequentare i corsi di filosofia».

Padre Antonio, giovane missionario della Consolata colombiano, è arrivato in Etiopia due anni fa e da pochi mesi è approdato a Modjo, immergendosi totalmente nella vita della missione: insegna nella scuola matea, aiuta nella pastorale e nella formazione dei seminaristi. Anzi, al momento della visita ha la piena responsabilità del seminario, poiché il direttore, il kenyano padre Gabriel Odwori, è in vacanza.

«È un’esperienza gratificante – continua il padre -, anche se non mancano le difficoltà, soprattutto a livello di comunicazione: io sono ancora alle prese con l’apprendimento della lingua amarica e i seminaristi, provenienti da diverse etnie, kambatta, adiya, oromo, hanno difficoltà ad esprimersi in inglese».

Quello dell’inglese è un problema cruciale per tutti i giovani che vogliono accedere agli studi superiori, dove l’insegnamento è impartito in questa lingua: un esame di stato, tutto in inglese, dichiara l’idoneità a tale passaggio. Ma poiché nella scuola statale questa lingua viene appresa ad orecchio, senza badare troppo alla scrittura, per affrontare tale esame è necessario un supplemento di preparazione.

Per questo, buona parte del tempo dell’anno propedeutico è impiegato dai seminaristi nello studio dell’inglese e in corsi di vario genere, per colmare eventuali lacune nella formazione intellettuale e spirituale.

«Anzitutto – continua padre Antonio – i giovani hanno bisogno di approfondire la dottrina cristiana, poiché le nozioni apprese sono alquanto superficiali e tradizionali; inoltre, diamo loro lezioni di bibbia, psicologia e formazione umana. Essi sono ancora alla ricerca della loro vocazione e hanno bisogno di chiarire le motivazioni delle loro scelte».

Negli anni passati il seminario di Modjo aveva più di una ventina di aspiranti missionari; quest’anno sono solo sette. Eppure in Etiopia c’è abbondanza di ordinazioni sacerdotali e vocazioni alla vita religiosa.
«È vero. Ma dovremmo domandarci come mai ci siano tante vocazioni – interviene padre Paolo Angheben -. Si rimane stupiti se le confrontiamo col piccolo numero dei nostri cristiani. Una superiora provinciale etiopica, passando a Modjo, mi fece questa confessione: “Se in Etiopia ci fosse più lavoro, ci sarebbero meno vocazioni”. Venendo da una suora locale, questa frase dice molto. Data la disoccupazione, i problemi di sopravvivenza, l’incertezza del futuro, non mi meraviglio più di tanto che tanti giovani vogliano entrare in seminario, dove hanno da mangiare e possono proseguire gli studi. Capitava così anche in Italia, subito dopo la guerra. La tentazione è forte. Per questo è necessario aiutare questi giovani a un serio discernimento e alla responsabilità delle loro scelte».

GIORNI DI FUOCO

Padre Paolo è ormai un veterano in Etiopia. Vi arrivò nel 1985 e, dopo un intermezzo nel Centro missionario di spiritualità nella Certosa di Pesio (Cuneo), è ritornato al primo amore, prendendo le redini della complessa missione di Modjo.

Essa è nata e cresce come «Centro di animazione missionaria vocazionale»; ma l’arrivo di padre Paolo ha aggiunto una nuova dimensione: è diventata pure centro di spiritualità, un servizio di cui la chiesa locale ha estrema necessità.

In Etiopia, infatti, non ci sono solo problemi di carattere economico e sociale, ma anche a livello di chiesa, soprattutto nella formazione del clero: i giovani affrontano gli studi di filosofia e teologia con profonde carenze di base e la scarsità di personale non permette al seminario maggiore di offrire una formazione adeguata alle sfide della situazione.
«In Etiopia c’è tanta fame, non solo di pane, ma anche di Dio – afferma padre Paolo -. Preti, suore, religiose sentono il bisogno di maggiore profondità spirituale. I sette anni di esperienza nella Certosa di Pesio mi hanno preparato a rispondere a questa sfida della chiesa in Etiopia».

Per ora il centro di Modjo organizza incontri e ritiri spirituali di una giornata; ogni mese si svolge la scuola di preghiera: il sabato per le religiose, la domenica per i giovani, il lunedì per i sacerdoti. Sono chiamati «la tre giorni di fuoco». Nel corso dell’anno sono accolti gruppi giovanili delle singole parrocchie della diocesi di Addis Abeba e di quelle circostanti, per una giornata di formazione e approfondimento della vita cristiana.
L’iniziativa sta riscuotendo un crescente successo: oltre all’apprezzamento del vescovo, sono molte le singole persone, preti, suore e laici impegnati, che vengono al Centro per trascorrere un fine settimana o più giorni in preghiera e meditazione, o fare un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Paolo.

A tale scopo, Modjo offre molte possibilità: la città è un nodo stradale di comunicazione tra nord, sud ed est del paese; la missione è lontana dal traffico, per cui offre ampi spazi di silenzio; l’ambiente è ombreggiato e il Centro è dotato di alcune camerette semplici ma confortevoli.

Sono molte le richieste di corsi prolungati da parte di giovani e catechisti. «Finora mi sono recato nelle singole parrocchie – spiega padre Paolo – e ho guidato settimane di formazione e spiritualità nel centro catechetico di Gighessa; ma ci stiamo attrezzando per accogliere e alloggiare i gruppi giovanili anche a Modjo. Avere dei giovani che risiedono per più giorni in questo centro dà la possibilità di fare un lavoro più in profondità. Non bisogna dimenticare che la vocazione nasce dalla preghiera e noi vogliamo formare i giovani alla preghiera».

STORIA DELLA SALVEZZA

Per comprendere meglio lo scopo del suo lavoro, padre Angheben mi porta in cappella e mi spiega il significato degli oggetti che ne adoano le pareti. «È la cappella della storia della salvezza» spiega il padre.
Nella parete di fondo, in basso a sinistra, un ceppo secco richiama la profezia di Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto spunterà dalle sue radici». Il germoglio, promessa di nuova speranza per il popolo d’Israele e per tutta la storia umana, è Gesù, spiega padre Paolo, indicando l’icona della Madonna della tenerezza, che raffigura Maria mentre stringe al petto il figlio divino.

La storia della salvezza culmina nella morte e risurrezione di Cristo, raffigurata in una grande croce etiopica che domina il centro della parete. «È la croce gloriosa, la croce della risurrezione, secondo la tradizione etiopica».

Sotto la croce c’è un bastone rosso. Esso ricorda il serpente di bronzo di Mosè, che Gesù prese come simbolo del suo innalzamento sulla croce (cfr Giovanni cap. 3); al tempo stesso, richiama il bastone del pellegrino, che nell’iconografia è sempre di colore rosso. Il bastone è sostenuto da una specie di contenitore rotondo, tipico della tradizione etiopica: i viandanti vi mettono il cibo per il viaggio; qui funge da tabeacolo, dove è conservata l’eucaristia, il cibo che sostiene il pellegrinaggio della vita cristiana. «Meta del nostro cammino è la comunione con la Trinità» continua padre Paolo, indicando, a destra della croce, la grande icona della Trinità di Rublev.

«Questa storia la celebriamo ogni giorno nella messa. Al centro della cappella ci sono due massob, altro oggetto tipico della cultura etiopica: viene regalato agli sposi il giorno delle nozze: è il loro tavolo da pranzo. Quello più grande lo usiamo come altare per celebrare l’eucaristia, il banchetto delle nozze etee dell’Agnello. Su quello più piccolo c’è una bibbia aperta: entrambi i massob ci ricordano il pane della parola e il pane del corpo di Cristo».

Sulla parete destra è appeso un grande quadro del beato Giuseppe Allamano. «L’eucaristia porta subito alla missione – conclude padre Paolo -. È necessario raccontare agli altri la storia della salvezza, come ha fatto e continua a fare il nostro fondatore, chiamando e inviando i suoi missionari».

I FIGLI DEL MASSAIA

La missione di Modjo ha tutte le attività di una parrocchia. La comunità è ancora piccola: conta appena una decina di famiglie cattoliche e altrettante miste, con un genitore cattolico e l’altro ortodosso. È una situazione familiare non priva di tensioni, ma potrebbe diventare un punto di partenza per il dialogo ecumenico, con un approccio ancora tutto da inventare.
La maggior parte di coloro che frequentano la chiesa sono giovani, a volte con afflusso massiccio, ma incostante, attirati dalle iniziative religiose e sportive promosse dalla missione e, forse, dalla speranza di avere qualche aiuto materiale.

Modjo dà l’impressione di essere una zona ricca; ma in realtà c’è molta povertà, soprattutto morale. Essendo un importante nodo stradale nel cuore del paese, la cittadina è nata e vive di attività legate a piccoli commerci e alberghetti per gente di passaggio, specie camionisti, con conseguente diffusione di prostituzione e Aids. Un bambino su cinque è orfano a causa di tale flagello.

«Non è facile parlare di Dio in una situazione del genere – confessa padre Paolo – Modjo è una missione complessa e difficile. Tuttavia facciamo il possibile per rispondere ai problemi della popolazione col nostro lavoro pastorale, di formazione giovanile e opere sociali».

In queste attività, i missionari sono affiancati dalle suore missionarie della Consolata, che gestiscono l’asilo, dispensario medico e un centro di promozione della donna, frequentato da ragazze e madri di famiglia. In esso imparano cucito, economia domestica e a gestire piccoli progetti con cui guadagnare qualche soldo e sostenere dignitosamente la famiglia.
Provvidenziale è pure il lavoro che le suore svolgono nel dispensario, sia nella cura della popolazione della città, sia con campagne di vaccinazioni nei vari villaggi della zona.

La missione, infatti, si sta estendendo anche nelle zone rurali. A Dibandiba, periferia della città, è stata costruita una scuola cappella che raccoglie 250 bambini e giovani della zona; un’altra è in progetto a Ejersa, a 15 km da Modjo: per ora giovani e bambini si radunano all’ombra di un grosso sicomoro.

Di recente, padre Paolo ha visitato anche i villaggi più lontani da Modjo, dove si trovano alcuni discendenti dei cattolici battezzati dal cardinal Massaia, rifugiatisi in questa zona per fuggire alle persecuzioni che, negli anni 1880, l’imperatore Giovanni iv, istigato dal patriarca copto, scatenò contro il grande missionario e la chiesa da lui fondata. Anche questi cristiani hanno fame di Dio.

Benedetto Bellesi




Chavez, presidente controverso

Egregio direttore,

gli articoli sul Venezuela e a favore di Chávez mi fanno perdere la stima verso la rivista; sembrano un servizio a non bene definiti interessi. È propaganda ad un personaggio controverso. Pensi, se in Venezuela o in qualunque altra nazione, si mettessero a fare (con entusiasmo poi) propaganda per Berlusconi o Bertinotti! (Per Bertinotti, in questo caso, visto che Chávez è filo-castrista e intende instaurare in Venezuela il regime che ha ridotto i cubani ad uno stato di dipendenza umiliante e fame perenne).

Che cosa c’è dietro tutto questo? Non credo che siate così sprovveduti da non accorgervi del rischio di cadere in un equivoco che vi esporrà al peggio.

La demagogia di Chávez ha il suo fascino, avendo fatto i poveri i protagonisti della sua politica. Tuttavia, finora, il protagonismo dei poveri resta verbale; la politica di Chávez non ha ancora portato alcun frutto di benessere e sta distruggendo la nazione. Anche Hitler incontrò molto consenso…

Direttore, anche se il presidente fosse una cima, gli manca però l’essenziale: la capacità di aggregare tutta la popolazione sotto la sua egida e di appianare i contrasti.

Chávez eccita le disuguaglianze (come avete fatto voi). Questo è molto significativo, perché è l’aria che si respira in Venezuela ad opera del presidente.
«Una casa divisa in se stessa va in rovina» dice Gesù. È quello che sta accadendo al Venezuela. E di questo al presidente non importa un bel nulla.

Direttore, non potrebbe stampare anche la mia prima lettera, per rendere più oggettivi gli argomenti trattati, cioè per sentire anche altre campane? Anche questo fa parte della giustizia, le pare?

Signora Maria, grazie anche della sua prima lettera; non è stata pubblicata perché è giunta in ritardo rispetto ai tempi di lavorazione di Missioni Consolata. Appare ora nella rubrica «Battitore libero».

Sul Venezuela abbiamo pubblicato quattro articoli: nel primo il generale Nestor G. Gonzáles sostiene che Chávez ha tradito il Venezuela consegnandolo alla guerriglia colombiana; nel secondo padre Agostinho Barbosa afferma che il presidente ha buoni ideali, ma finora ne ha realizzati pochi; nel terzo intervengono alcuni ministri del presidente; nel quarto, infine, altri venezuelani ricordano la situazione di violenza, ma anche di speranza (cfr. Missioni Consolata, maggio, giugno, luglio-agosto, settembre 2003).

Signora Maria, non abbiamo fatto risuonare più campane sul controverso Hugo Chávez?

Maria Ricci




Legittima difesa

Caro don Bandera,

ho letto il tuo scritto sulla pace. Apprezzo la proposta di un’approfondita informazione, da cercare ovunque si intuisce che ci sia una ricerca sincera di «verità», onde permettere alle persone di farsi un’opinione adeguata della situazione, a volte conflittuale, vissuta dai popoli.
L’interesse a capire la complessità del nostro mondo registra, a volte, indici molto bassi. È vero: occorre pure riflettere sulla molteplicità delle opinioni ragionevoli e pertinenti, che meriterebbero più rispetto, sapendo che bene e male si presentano sempre mischiati.

Esprimo il mio parere sul tema «guerra-pace». Noi cristiani abbiamo ricevuto la buona notizia di Dio-padre-amore. Si sa che Giovanni Paolo II ha espresso un netto rifiuto a «questa» guerra, ma ha dovuto sempre salvaguardare «il diritto alla legittima difesa», com’è previsto dal Concilio Vaticano II e dal catechismo.

Possiamo non essere d’accordo sulla decisione americana di attaccare l’Iraq senza il consenso dell’Onu, ma non possiamo in linea di principio impedire ad un paese di decidere autonomamente di difendersi come meglio crede, qualora si ritenga attaccato.

Si può dimostrare l’insostenibilità di una tale decisione, ma dal punto di vista della chiesa cattolica non si può escludere né condannare ciò che si ritiene possibile. In fondo gli Stati Uniti, con altre nazioni, ci stanno «bombardando» con notizie sugli attentati proprio per inculcare a tutti la grande pericolosità del terrorismo internazionale.

Ma quanti ritengono che gli ultimi attentati sono il «frutto» naturale della violenza scatenata dalla guerra? Il ragionamento vale per tutte le guerre ed azioni di forza armata. La violenza genera sempre vendetta e morte.

La chiesa cattolica non ha ancora il coraggio di condannare, come ha fatto per l’aborto, la soppressione della vita altrui: chiunque uccide volontariamente è fuori dalla comunione con il Signore-amore. Chiunque fabbrica armi, si esercita per combattere e uccidere, anche in nome della libertà, giustizia e pace, chiunque partecipi ad operazioni di guerra è fuori dalla comunione di Dio-amore-padre-madre.

Don Mario, oltre ad essere «duri» con i laici guerrafondai, dobbiamo anche essere «chiari» con tutti i cristiani che preferiscono le scorciatornie di una morale comoda ed accomodante, soprattutto quando si tratta di giustizia, pace e perdono.

Sulla «legittima difesa» (quindi sulla «guerra giusta») abbiamo già ricordato la posizione del Catechismo della chiesa
cattolica (Missioni Consolata, settembre 2003).

Al binomio «pace-guerra» abbiamo dedicato il numero monografico di ottobre-novembre (ben 132 pagine)… mentre il salmo 119 recita: «Troppo ho dimorato con chi detesta la pace; io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra».

Filippo Gervasi




Chi è irreprensibile

Egregio direttore,

faccio un’osservazione sull’editoriale (luglio-agosto 2003) di don Mario Bandera. Mi ha colpito la frase: «come le riviste missionarie e la Misna fanno in maniera irreprensibile». Ma… «irreprensibile» fu solo Gesù per virtù propria e Maria per grazia di Dio.
Ci sono semi di verità anche in altri mezzi di comunicazione, e ci sono bugie, compromessi e verità nascoste anche nella pubblicistica missionaria di ieri ed oggi.

Nei nostri gruppi impegnati ed anche nel mondo missionario sta crescendo una forma di fondamentalismo e razzismo religioso: noi siamo i giusti e buoni, capiamo i veri problemi, abbiamo le soluzioni; mentre gli altri sono i cattivi, il male personificato…

Mi viene in mente la parabola del fariseo e pubblicano.
La realtà è molto più complessa. Noi, chiesa d’occidente, abbiamo avuto per secoli tutti i giovani al catechismo, ai sacramenti; ma questo non ha impedito che poi si scannassero in innumerevoli guerre.

Così nei paesi di missione, come in Africa, abbiamo avuto generazioni di ragazzi nelle nostre scuole e cappelle; ma questo non ha impedito che poi si massacrassero a vicenda con incredibile crudeltà.
Il vangelo da sempre resta un piccolo seme che cresce qua e là. Come? Lo sa solo il Signore.

Siamo, soprattutto, d’accordo sull’unico e vero «Irreprensibile».

don Silvano Cuffolo




I conti non tornano

Gentile ing. Battaglia,

nel suo articolo (Missioni Consolata, luglio 2003) leggo: «In Egitto, l’estrazione di acqua dal Nilo ha distrutto 30 delle 47 specie ittiche, mentre altre 25 sono rare o a rischio di estinzione». Probabilmente le è sfuggito qualcosa, perché i conti non tornano.

Non prenda l’osservazione come pedanteria: infatti condivido tutto quanto lei scrive; anch’io da anni faccio conoscere le sue tematiche (anche in ambito religioso, dove erroneamente sono un po’ trascurate). Precisione e rigore scientifico servono per non prestare il fianco a facili obiezioni, che mirano solo a squalificare il punto di vista ambientalista.

Conosco tabelle (ad esempio sul calcolo dell’impronta ecologica) di cui gli stessi «esperti» divulgatori non sono stati in grado di indicare come si era arrivati ai valori indicati. Anche in questo ambito circolano cifre generiche: non si sa da chi e quando sono state messe in giro; cifre che, senza alcuna verifica, tutti citano.

Per modificare i comportamenti individuali, è necessario far crescere la cultura collettiva sull’ambiente con informazioni precise; altrimenti, poiché le scelte da compiere sono scomode e il resto dell’informazione spinge in direzione opposta, anche un piccolo errore diventa un alibi per ignorare la verità incontrovertibile proposta. Di questa verità, purtroppo, tutti stiamo facendo esperienza (ottimo, a proposito, il box sopra il passaggio «incriminato»).

La ringrazio per le spiegazioni che mi darà. Sono un suo attento lettore e, salvo casi come quello segnalato, considero verificati i dati che lei cita.

Silvia Battaglia risponde:

Ringrazio il gentile lettore. Concordo sulle sue osservazioni circa le fonti d’informazione. Fonti non rigorose possono essere usate persino per dimostrare il contrario della stessa realtà.

Correggo la frase: «In Egitto, l’estrazione di acqua dal Nilo ha distrutto 30 delle 47 specie commerciabili di pesce. In Europa, il Reno ha visto scomparire 8 delle sue 44 specie ittiche, mentre 25 sono rare o a rischio di estinzione» (Guida del Mondo.
Il mondo visto dal Sud, EMI, Bologna 2001).

«Per fortuna» l’errore è mio, e non di una fonte autorevole.

Giovanni Guzzi




Superbi e umili

Signor direttore,

ho letto gli interventi dei lettori Musso e Telloli (Missioni Consolata, giugno 2003). Non mi piacciono le contrapposizioni: sono antievangeliche e incivili.
Dò una valutazione sufficiente a Musso, perché mi sembra più realista; meno sufficiente a Telloli, perché più elucubrato e arzigogolato.

Gesù, uomo-Dio, maestro e guida degli uomini di ogni epoca, ha preso la frusta e ha rimproverato Pietro per il colpo di spada: due modi, secondo le circostanze storiche, in cui si imbatte l’umanità, nelle quali deve intervenire l’azione forte della giustizia: c’è un tempo per reagire con violenza e un tempo in cui cedere. Ci deve essere spazio e liceità per una cosa e l’altra.
Soprattutto per resistere ai superbi.

Il termine «violenza» non ci piace. Inoltre preferiamo l’espressione «essere umili», perché, secondo il Magnificat, spetta a Dio resistere e debellare i superbi.

don Renzo Cortese