KENYA – Come fermare la tramissione dell’HIV

In Africa, i disastri dell’Aids non dipendono soltanto dalla mancanza di medicinali (introvabili o troppo cari), ma anche dall’ignoranza e dai comportamenti degli uomini. Intanto, anche qui, i convegni medici si tengono sempre in lussuosi hotel a 5 stelle… Un duro atto d’accusa dal Kenya.

Dal 21 al 26 settembre si è tenuta a Nairobi, in Kenya, la 13.ma «Conferenza internazionale sull’Aids e infezioni trasmesse sessualmente» (Icasa). La conferenza è stata giudicata un «successo» dalle autorità, ma non tutti sono d’accordo.

Commenta un osservatore locale, il dottor I.K.W. «Govei, Organizzazioni non governative ed Onu organizzano conferenze, seminari e fiere quasi quotidianamente, su diverse tematiche, con l’Hiv/Aids sempre in primo piano. La maggioranza di questi convegni sono permeati da grande ipocrisia.
Le conferenze sono invariabilmente tenute in alberghi o ritrovi turistici a “5 stelle”. La spesa di una settimana per un singolo delegato sarebbe sufficiente per comprare i farmaci anti-retrovirali per almeno 100 persone per un anno.

I delegati, alla fine della conferenza, se ne vanno, dopo aver goduto di una eccellente “vacanza” in luoghi esotici, a spese altrui, e presto si dimenticheranno delle decisioni prese. In questa conferenza non sembra che alcun delegato o gruppo abbia ufficialmente visitato le baraccopoli o alcun villaggio rurale dove l’epidemia è rampante».

Quasi tutti gli studi presentati, statistiche ecc., non sono altro che «fotocopie retoriche» di quello che tutti ormai sanno. Le multinazionali farmaceutiche partecipano solo per la pubblicità che ne derivano, e si tengono ben stretti i brevetti con i quali producono i farmaci anti-retrovirali che gli ammalati disperatamente ricercano.

Molti dei professionisti, medici, ecc., finita la «vacanza», non vedono l’ora di ritornare alle loro lucrose pratiche, ossia curare la gente che può pagare lautamente. Gli ammalati delle zone rurali rimangono abbandonati come prima.

Cosa capita effettivamente a livello di «strada»? Scrive sul Washington Post la giornalista Martha Blunt: «Incontrai Stella in un bar di Nairobi. Bellina, dal corpo snello, mi diceva di avere 18 anni, ma sembrava più giovane. Rimasta orfana non riesce a trovare lavoro, tuttavia ha abbastanza da mangiare, un posto per dormire e porta dei vestiti decenti. Mentre beviamo qualcosa, arriva il “benefattore” di Stella, un sessantenne ben vestito con la fede nuziale, e abbastanza corpulento, che cerca di allontanarmi dalla sua “fidanzata”».

I sociologi dicono che si tratta del fenomeno di «sesso attraverso le generazioni» diventato comunissimo nei paesi africani; altri lo chiamano The kiss of death from sugar daddies («Il bacio della morte ricevuto dal “paparino”»); oppure in swahili baba sukari o baba mkate. In cambio di sesso le ragazze ricevono vestiti, la retta scolastica, da mangiare e, presto o tardi, l’infezione dell’Hiv.

La girandola è micidiale: le ragazze passeranno il virus al prossimo «paparino», che lo passerà alla moglie, la quale infetterà il prossimo neonato.
Il fenomeno è semplicemente la manifestazione, in termini modei, dell’atavica pratica della poligamia. Per generazioni, l’uomo africano benestante prendeva la prima moglie da ventenne, la seconda da trentenne, la terza da quarantenne, la quarta da cinquantenne e via di seguito. Ogni moglie doveva essere in età procreativa, ossia dai 13 anni in avanti. Questa usanza, ancora diffusa nelle zone rurali, è praticamente impossibile tra i ceti educati e urbanizzati. Di qui la pratica della «ragazza» sistemata in qualche angolo della metropoli.

Statistiche più o meno attendibili riferiscono che un terzo delle ragazze teen-agers (adolescenti) in Africa Orientale sono Hiv positive. Gli uomini credono che le ragazze giovanissime non comportino rischi e le medesime pensano lo stesso verso l’uomo benestante. A parte le relazioni sessuali «civili» di cui sopra, l’altra causa maggiore d’infezioni tra le minorenni sono gli abusi perpetrati sulle ragazzine nell’ambito familiare. La pratica è largamente diffusa tanto nelle campagne come nei centri urbani. Molte di queste giovanissime, rimaste orfane a causa dell’epidemia Aids, per forza si adattano a vivere con i parenti, in stato di virtuale schiavitù.

Una bambina orfana di 12 anni, intervistata dagli osservatori di Human Rights Watch, cosí rispondeva: «Mio zio, per farmi cedere, mi batteva con un cavo elettrico. Prima di andare ad abitare con gli zii, stavo con altri parenti. Il mio fratellastro mi violentava già quando avevo 9 anni».

MILIONI DI INFETTATI

Già dalle prime battute della conferenza di Nairobi risultava evidente che i farmaci anti-retrovirali, anche se venduti a basso prezzo, non sarebbero sufficienti a fermare l’epidemia. Toccherebbe ai governi acquistarle a prezzo speciale dalle aziende farmaceutiche e distribuirle gratis ai più bisognosi.

Diversi delegati hanno accusato certi paesi ricchi di sovvenzionare le conferenze per motivi politici, senza provvedere le medicine urgentemente indispensabili. La conferenza di Nairobi ha attratto 7.000 partecipanti da 109 paesi, che in 100 sedute hanno prodotto oltre 300 documenti scientifici, utili per gli archivi ma non tanto per gli ammalati. La 14.ma conferenza si terrà ad Abuja, in Nigeria, nel 2005.

Le statistiche aggiornate, per quel che valgono, parlano di 30 milioni d’africani infetti dal virus, sui 42 milioni nel mondo. Nell’Africa nera circa 2.4 milioni di persone sono morte d’Aids nel 2002. In Kenya circa 3 milioni sarebbero infetti, con oltre 500 mila morti fino ad oggi. Tuttavia le statistiche locali vanno prese per quel che valgono. I dati pubblicati sono molto approssimativi. Nelle zone rurali la gente normalmente muore di «malaria»…

Per quanto riguarda il Kenya, la conferenza ha prodotto una serie di direttive di carattere penale e legislativo, ma non ha promesso molto circa la possibilità di fornire i farmaci anti-retrovirali a tutte le persone infette. Evidentemente occorrono grandi capitali, che solo gli aiuti dall’estero possono fornire. Una nota positiva è quella che l’esercito americano, l’anno prossimo, in Kenya, inizierà una campagna di prove cliniche per un vaccino in via di sviluppo negli Usa.

INTANTO, IN SWAZILAND…

Cosa fanno gli altri governi in Africa per tenere sotto controllo la piaga dell’Aids? Per esempio, il Swaziland ha uno dei tassi d’infezione Hiv più alti del mondo.
Nel settembre 2001, il giovane monarca re Mswati III, di 35 anni, educato in Inghilterra, decretava un bando che proibiva le relazioni sessuali a tutte le donne sotto i 23 anni. Tuttavia, il giovane monarca, che aveva già «sposato» 11 ragazze, s’invaghiva della 12.ma poche settimane dopo aver scelto la numero 11: la diciottenne Nomonde Fihlawas, che aveva appena vinto la corona di miss Swaziland 2003.

Evidentemente il re contravveniva al suo decreto, emanato nel settembre 2001. Il Parlamento, in seduta speciale, lo condannava a pagare la «multa» di un bue grasso, senza dover rinunciare alla nuova «moglie».
Per chi si interessa di antropologia minore africana, riassumiamo il «modus operandi» con il quale il re del Swaziland si sceglie le «regine». La fidanzatina n. 11, una 17enne di nome Noliqhwa Ntentensa, verrà «sposata» regolarmente non appena avrà compiuto i 18 anni. Ntentensa è stata scelta dal monarca (l’anno scorso, 2002) dopo aver scrutinato una video cassetta di ragazze semi nude, che ogni anno partecipano alla tradizionale «danza delle canne» in onore della regina madre. Per la reed dance di quest’anno (2003) il re Mswati ha partecipato di persona.

Così ha commentato l’inviato speciale dell’agenzia di stampa Reuters: «Ludzidzini (Swaziland), venerdì 5 settembre 2003. Decine di migliaia di ragazzine hanno danzato, a seni scoperti, davanti al re sperando di attrarre la sua attenzione e diventare la sua prossima “moglie”. Quest’anno alla reed dance hanno partecipato un numero record di 50.000 teenagers. Nella scelta “reale” lo stato di verginità della ragazza è di rigore assoluto».

Questa «cerimonia» tuttavia attrae critiche da tutte le parti. Il piccolo regno africano è immerso nella povertà e devastato dall’epidemia dell’Aids. Una ragazza 17enne intervistata così ha risposto: «Sono stanca di essere povera. Spero che il re si accorga di me». Una grossa polemica era scoppiata dopo la danza del 2001. La madre di una ragazza aveva denunciato la scomparsa di sua figlia dal cortile della scuola, rapita, a quanto si diceva, dalle guardie del palazzo e forzata a vivere nel medesimo come «dama di compagnia». La bufera si era smorzata dopo pochi giorni. Ancora una volta aveva vinto il «palazzo».

Giorgio Ferro




ITALIA – Omar la piccola sentinella padana

 Un bimbo di 10 mesi morto di polmonite. È una storia del «Quarto mondo», quel mondo dell’esclusione
nato accanto alle nostre case.

Seguendo le acque del Po, che dalle sue sorgenti man mano scende formando la pianura Padana, laggiù sul versante sinistro e fino alle Alpi si estende il Nord-est. Chi lo conosce, sa bene che l’Adige, il Brenta, il Sile e il Piave, il Livenza e poi il Lemene fino ad arrivare al Tagliamento, attraversano queste terre fertili, dove crescono la barbabietola da zucchero, il mais, la soia ed oggi enormi vigneti, un numero infinito di case e casette, innumerevoli paesi e paesini, distese di capannoni industriali e insediamenti turistici. Una regione percorsa da strade (mai all’altezza del traffico che sopportano) e solcata da un’autostrada che collega l’Est europeo con l’Italia, la Francia e la Spagna e che ogni giorno si intasa di auto e camion.
Terra di piccola industria e grande turismo, di emigrazione e immigrazione, di povertà trasformata in ricchezza, di ricchezza ostentata e nascosta, di cultura e provincialismo, di dialetti ed eventi inteazionali, di solidarietà e abbandono, di generosità, ma anche di razzismo.

Terra di antica fame e di altrettanto antica malaria, pellagra e tubercolosi, di antico latifondismo, di cultura contadina, terra di vita e di morte come ogni terra. Terra di città senza piazze, ma costellata di villette, di paesi antichi circondati da periferie unite da strade provinciali, di ville storiche e nobiliari nascoste da obsoleti petrolchimici o trasformate in hotel, ristoranti e centri congressi. Terra di mia madre e mio padre, oggi terra anche mia.

UNA MORTE EVITABILE

Al nord-est del Nord-est, fra il Piave ed il Livenza, a pochi chilometri dalle spiagge di Jesolo, Caorle e Bibione, frequentate da austriaci, tedeschi, ungheresi e polacchi, a pochi passi dall’autostrada e dai capannoni industriali che sorgono uno dopo l’altro lungo la statale triestina, è vissuto poco ed è seppellito Omar, la «piccola sentinella padana».

Nei primi giorni di agosto, quando il caldo imperversava su tutta Europa e mieteva le sue vecchie vittime nelle grandi città, moriva Omar. Avrebbe compiuto 10 mesi di lì a pochi giorni; era figlio di una madre giovane, ma già con esperienza; viveva con i genitori, il fratello, i cugini, gli zii, i nonni, in una grande famiglia immigrata nel nostro paese da tanti anni.
Omar aveva il suo pediatra di base, la sua tessera sanitaria, il sistema che era pronto a proteggerlo ed a farlo crescere sano e robusto come tutti i bambini hanno diritto di fare. Invece, Omar è morto. A nemmeno 10 mesi, è morto di polmonite.

No, non dico niente, non posso dire niente. Lo specialista di pronto soccorso, il rianimatore, il pediatra e gli infermieri che lo hanno soccorso non potevano fare più niente. Era già morto.

Omar è morto, come si muore nel (mio) Perù, come si muore in Africa e in molti paesi dell’Asia. Come si muore nel Terzo mondo. Come un bambino, in Europa, non dovrebbe mai morire (perché mai è accettabile la morte di un bambino in un paese e non in un altro?).
Omar è morto, semplicemente perché non è stato in grado, lui, i suoi genitori, i suoi zii, i suoi nonni di utilizzare il sistema socio-sanitario di cui faceva parte con tutti i diritti. Omar è morto perché il sistema sanitario che hanno costruito i nostri padri con lotte di tanti anni, che finanziamo con il lavoro di noi tutti, che curiamo con tanta professionalità ed abnegazione (anche in mezzo a mille quotidiane polemiche), che difendiamo da volontà di risparmio e di privatizzazione… non si è reso conto di lui e della sua particolare debolezza.

Omar è morto come sono morti le migliaia di anziani in tutta Europa: per l’abbandono e l’indifferenza.
Era una morte evitabile e, come tale, ancor più per un piccolo bambino, è da considerarsi nell’epidemiologia (la scienza che studia cause e diffusione delle malattie nella comunità), come un «evento sentinella» di qualche cosa che non ha funzionato a dovere. Omar è diventato la «piccola sentinella padana».

IL «QUARTO MONDO»

Esiste oramai il «Quarto mondo», ovvero il mondo dell’esclusione all’interno del Primo mondo. In altri termini, il Terzo mondo che si è spostato nel Primo, con le persone che vi vivono come fossero nel Terzo, ma senza quella solidarietà che, spontaneamente, sorge tra pari e che, viceversa, sparisce quando tra pari non si è più.

È il mondo che non vediamo o che non vogliamo vedere, quello non più clandestino, ma ancora non integrato, che ha paura di chiedere aiuto e di utilizzare i meccanismi socio-sanitari che per noi sono un diritto scontato e preteso.

Non è un problema economico (la sanità è pressoché gratuita per bambini ed anziani), non è un problema di razzismo (i diritti sono pari a quelli di noi che siamo vissuti e cresciuti in queste terre), non è un problema di povertà (nella famiglia lavoravano in molti), è piuttosto un problema sociale e culturale.

Sociale perché, pur in mezzo a noi, non vivono con noi ma solo al nostro fianco ed in silenzio, come ombre a volte fastidiose e sfuggenti. Culturale perché hanno un timore per la nostra società, per i nostri servizi che noi usiamo quasi senza neanche accorgerci, per i nostri diritti che non sempre conoscono e per i nostri doveri che abbiamo imparato fin da bambini.

E, in questo Quarto mondo, piombano venendo da paesi lontani o vicini, scossi da guerre e catastrofi, da povertà e sofferenza e vanno ad aggiungersi al Quarto mondo nostrano, fatto di anziani abbandonati, di gente caduta per malattie fisiche e mentali, violenze, droga o alcornol. Un Quarto mondo senza frontiere, che vive al nostro fianco e che non vediamo, appena scalfito dal volontariato, ma irrecuperabile in una società che esclude chi non produce, chi è inutile, chi è di peso o chi è diverso (non per scelta, ma costretto da mille storie diverse).

Forse è per questo che il tasso di mortalità infantile in Italia e in Europa è sceso fino a livelli più bassi che negli Stati Uniti; loro sono «più avanti» di noi ed hanno oramai un Quarto mondo di grandi dimensioni, che convive con la loro opulenza.

È un Quarto mondo dove alcuni nascono, vivono e muoiono; altri vi piombano; altri ancora, più fortunati, riescono ad uscie. Un Quarto mondo che non solo è fatto di vittime, ma che è anche generatore di violenza e soprusi. Nasconderlo è inutile, trasformarlo difficile.
Che la «piccola sentinella padana» ci aiuti a riflettere.

Guido Sattin



AMERICA LATINA – Sarà il continente di Bush o Lula?

Crisi economica diffusa, povertà, violenza eppure le popolazioni latinoamericane
sono più vive che mai, pronte a raccogliere la speranza là dove sembra spuntare.
Ne abbiamo parlato con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez,
con monsignor Jaime Henrique Chemello (già presidente della Conferenza episcopale
del Brasile) e con un giovane sacerdote.

IL TEOLOGO
GUSTAVO GUTIÉRREZ:
«Ma i giovani
statunitensi
mi dicono che…»

Lo scorso ottobre,
a Oviedo, il fondatore della «teologia
della liberazione»
ha ricevuto
il prestigioso
«Premio Principe
delle Asturie».
Padre Gutiérrez insegna anche
negli Stati Uniti, all’Università
di Notre Dame,
nello stato dell’Indiana.
Ci ha raccontato questa sua esperienza.

«Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez è l’iniziatore della corrente spirituale innovatrice conosciuta come “teologia della liberazione”. La corrente propugna un’attenzione particolare al mondo degli esclusi, suggerendo che la “liberazione” sostenuta dal messaggio cristiano non è applicabile unicamente all’aspetto spirituale dell’essere umano, ma anche alle sue condizioni sociali e materiali. In quest’ottica, la proposta della teologia della liberazione non si limita a costruire una base teorica, ma al tempo stesso è una pratica che, specialmente nei paesi meno sviluppati, ha stimolato l’elevazione in dignità delle condizioni di vita di milioni di esseri umani».
Con questa motivazione la giuria del prestigioso «Premio Principe delle Asturie» ha assegnato a padre Gustavo Gutiérrez (1) il riconoscimento 2003 nella categoria della comunicazione e lettere umane. I premi, destinati ogni anno dal 1981 ad esponenti di 8 aree del sapere, sono considerati i Nobel dell’area ibero-latinoamericana.
Ad inizio anno, l’«Accademia delle Arti e delle Scienze» di Cambridge (Massachussets, Usa) aveva incluso il teologo peruviano tra i suoi membri onorari. Noi lo intervistammo per la prima volta alla fine del 1997, a Lima (2). Pochi mesi dopo, padre Gutiérrez sorprese tutti entrando, alla bella età di 70 anni, nell’Ordine dei domenicani.
Negli ultimi anni lei è vissuto più all’estero che in Perù, suo paese natale. Dove lavora ora, padre Gutiérrez?
«Dal 2001 sono negli Stati Uniti, dove insegno teologia. A Lima, però, continuo il mio lavoro pastorale in una parrocchia e le altre attività nel Centro Bartolomé de las Casas».

Padre, che cosa significa insegnare teologia negli Stati Uniti, cioè nel paese che ha riesumato il concetto di «guerra preventiva»?
«Gli Stati Uniti non sono un paese, ma un continente. È vero che gli americani sono favorevoli alla guerra, ma è altrettanto vero che molti altri sono contro, per esempio all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, dove insegno».

Cos’è la guerra?
«È una minaccia. È un crimine. È la volontà di potere della più grande potenza del mondo. Non possiamo accettarlo né come uomini, né come cristiani. Dobbiamo lottare per la pace, ma una pace, come si dice nella bibbia, fondata sulla giustizia».

Che pensa del Perù di Alessandro Toledo?
«Se facciamo il paragone con il periodo della dittatura e della corruzione, adesso in Perù abbiamo un clima democratico, seppur con molte difficoltà economiche e politiche.
Non è facile la transizione da un regime corrotto come quello di Fujimori (che è ancora presente in molte istituzioni del Perù) e andare verso una democrazia; ma questo processo è in atto, seppure non in modo stabile e solido. Insomma, è già qualcosa».

Con tutto il rispetto per il Perù, tutti guardano al nuovo Brasile di Lula, sul quale pesano aspettative enormi. Ma la sfida dell’ex operaio e sindacalista è tremendamente difficile…
«In questo momento, Lula è una grande speranza non solo per il Brasile, ma per tutta l’America Latina. Certamente la sua non sarà un’impresa facile.
Noi abbiamo avuto in America Latina altri momenti di svolta: il Cile, il Nicaragua, la Bolivia. Ma oggi la sfida è più importante, perché il Brasile è un grande paese ed ha una dirigenza politica preparata. Agli amici brasiliani dobbiamo suggerire di essere non tanto prudenti (che non è la parola esatta), quanto maturi politicamente per andare bene. Credo che il programma di Lula sia molto buono, molto chiaro. Sono convinto che tutto questo sia veramente importante».
Sembra che nel mondo si stia creando una netta divisione tra paesi cristiani e paesi islamici. Secondo lei, questa è una scusa, oppure c’è una vera contrapposizione religiosa?
«In larga misura è un pretesto. A dire il vero, si potrebbe dire che la contrapposizione è tra paesi ricchi e potenti e paesi islamici poveri. La divisione religiosa non è la più importante, ma è facile per certe persone dei paesi ricchi parlare di una contrapposizione religiosa. Così rimangono oscure le vere ragioni del contrasto.
Questa tesi della contrapposizione tra civiltà occidentali e orientali non è poi così rilevante e forse interessa soltanto gli intellettuali. Credo che ci siano altri aspetti più importanti della civilizzazione. Dobbiamo fare altre analisi. Personalmente, sono contro i paesi ricchi per molti aspetti, ma non perché la mia civiltà sia differente dalla loro».

Toiamo al suo lavoro di professore negli Stati Uniti. Che cosa racconta ai suoi studenti dell’Università di Notre Dame?
«Parlo di spiritualità. Spiego la teologia della liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, trovando dei giovani molto aperti».

Quanti anni hanno i giovani a cui lei insegna?
«Attoo ai 25 anni, qualcuno un po’ meno, altri un po’ di più, ma tutti sono molto aperti».

Ma che cosa pensano del loro presidente George W. Bush, che considera la guerra uno strumento per risolvere i problemi inteazionali e per far prevalere gli interessi statunitensi?
«I miei studenti (ovviamente non posso parlare di tutti gli studenti) sono contro la guerra, assolutamente contro. Allo stesso tempo, il loro contesto è totalmente differente da quello dei latinoamericani, dei peruviani per esempio. È un altro mondo, ma trovo questa gente seria e molto aperta per lavorare».

Come sta la «teologia della liberazione» nel 2003, cioè 32 anni dopo la sua nascita?
«Sta bene. Lavoriamo molto. In questi ultimi anni ci stiamo dedicando anche ad altri aspetti e all’approfondimento di un’intuizione originale che, nei primi scritti, abbiamo chiamato “la complessità della libertà”. Significa prestare attenzione non soltanto agli aspetti economici delle realtà, ma anche a quelli culturali, razziali, di genere.
Un altro aspetto è la critica al pensiero unico neoliberista e il nostro punto di partenza è “l’opzione preferenziale per i poveri”, che ancora oggi costituisce il punto centrale della teologia della liberazione».

JAIME HENRIQUE CHEMELLO:
«La fame
e l’Amazzonia sono la priorità»

Fino allo scorso maggio, era presidente
della «Conferenza episcopale
del Brasile» (Cnbb), oggi è presidente della commissione che si occupa dell’Amazzonia. Vescovo molto noto, monsignor Chemello è comprensivo
con tutti,
ma non con la guerra
né con la politica degli Stati Uniti.

Nato nel municipio di São Marcos (Rio Grande do Sul) nel 1932, Jaime Henrique Chemello è vescovo dal 1969. Fino allo scorso maggio presidente della «Conferenza episcopale del Brasile» (Cnbb) (1), oggi monsignor Chemello è a capo della «Commissione episcopale per l’Amazzonia».
Come uomo e come vescovo, che pensa della guerra?
«Penso che la guerra sia proprio una cosa cattiva, deplorevole, tristissima. Il Santo padre ha già detto queste cose e ha pregato molto per la pace non solo in Iraq, ma anche in Palestina».

Il presidente Bush ha reintrodotto i concetti di guerra «preventiva» e di guerra «giusta» contro quelli che lui giudica essere nemici dell’umanità. È concepibile?/
«Non credo che possa esistere il concetto di guerra “giusta”.
La guerra non porta mai niente di buono. Perché essa è distruzione, soprattutto di vite umane».
Lei è un vescovo molto noto. Come vede il nuovo Brasile di Lula?
«Io lo vedo come tutto il popolo: con speranza, ma non sono sicuro che andrà sempre bene. Bisogna lavorare molto, collaborare, perché Lula da solo non può fare niente. Il popolo deve dare il suo appoggio, lottare perché l’idea è buona».
Lula potrebbe lavorare anche se avesse una parte della comunità internazionale, quella che detiene il capitale finanziario, contraria alle sue decisioni?
«Sarebbe molto difficile, ma Lula sta facendo di tutto per adattarsi alla situazione internazionale. Va in giro per il mondo per spiegare la sua posizione rispetto alla realtà. Molta gente lo ascolta perché ha una personalità molto forte».
È indubbio che il Brasile abbia moltissimi problemi. Volendone fare un elenco, lei che cosa metterebbe ai primi posti?
«La fame e poi anche il non poter lavorare, guadagnarsi la vita con dignità. Anche la violenza è una cosa tristissima. Il Brasile necessita quasi di tutto.
Anche per la Conferenza episcopale (2) la lotta per superare il problema della fame è prioritario. E poi c’è l’Amazzonia, che è una questione molto grande per noi e i suoi abitanti».
Che ci dice del «Movimento dei sem terra»?
«È un’organizzazione che ho già aiutato molto. È un movimento difficile perché affronta una lotta difficile. I contadini senza terra hanno lottato e sofferto molto e per questo bisogna capirli».
I rapporti della chiesa cattolica con le altre religioni del Brasile.
«Grazie a Dio abbiamo fatto molta strada, perché l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per noi è molto importante».
Ma con chi esattamente avete dialogato?
«Dialoghiamo soprattutto con chi aderisce al “Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile” (Conic) (3), che raccoglie le chiese tradizionali. Con questo organismo facciamo anche iniziative sociali in comune».
In Brasile c’è un numero esagerato di sétte evangeliche. Rappresentano un problema? E, se sì, come lo si affronta?
«Già il termine sétte non ci piace. Non è che sia sbagliato, ma sottintende qualcosa di cattivo. Noi li chiamiamo “movimenti religiosi autonomi”. Comunque, il problema esiste e qualche volta è difficile. Ma, nonostante le difficoltà, bisogna lottare sempre».
Monsignore, cosa pensa dell’influenza che gli Stati Uniti hanno sull’America Latina in generale?
«Credo che adesso gli Stati Uniti stiano facendo una politica molto complessa, ma dalle reazioni dei popoli di tutto il mondo (non solo dell’America Latina) pare che questa loro politica non sia affatto giusta. Sono sempre di più i paesi contro gli Usa. Lo vedo di persona: in tutti i posti dove mi reco, c’è sempre una riserva contro la politica praticata da Washington».

Paolo Moiola




INCHIESTA – Religioni strumento di pace

In un’epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una méta sempre più lontana e irraggiungibile.
Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico, fa pulizia etnica tra i palestinesi…
Ma Dio che c’entra con tutto ciò? E i sacri testi?
Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.
Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo… e non un fine.
Come trasformare l’odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell’individuo – il desiderio di comprendere qual è il posto dell’essere umano nell’universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all’inevitabilità della sofferenza e della perdita. (…) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una “corsa alla pace”, impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi – attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l’umanità; l’umanità non esiste per servire la religione» (1).
Con questo numero inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo: buddismo, ebraismo, cristianesimo, islam.

I SEGUACI DI SIDDHARTAI

I concetti di nonviolenza e pace sono profondamente radicati nella storia
del buddismo. Fin dal suo nascere esso
si è posto l’obiettivo dell’autoriforma interiore, un cambiamento che però coinvolge
pienamente anche l’ambito sociale e politico.

In lingua pali, il termine pace si dice santi, in sanscrito, shanti. Con queste parole s’intende la «pace interiore» e la totale assenza di aggressività, di desiderio e della sofferenza che da esso viene generata: il nirvana. «Nel buddismo e in altre religioni dell’India l’accento principale è sugli aspetti individuali della pace, mentre si considera che le sue conseguenze in ambito sociale derivino solo dalla psicologia dell’individuo» (2). Odio, illusione e avidità sono alla base delle azioni malvagie, della violenza, delle guerre: gli unici rimedi che possano contrastare questi sentimenti distruttivi sono la benevolenza, la generosità e la saggezza.

Uno degli elementi fondanti la dottrina propagata da Shakyamuni è il principio delle «quattro nobili verità»: l’esistenza nel nostro mondo è segnata dalla sofferenza; la sofferenza è generata dai desideri; sradicando i desideri, l’essere umano può liberarsi dalla sofferenza e raggiungere una condizione di pace e illuminazione (nirvana); per arrivare a questo traguardo è necessario seguire una disciplina. Essa viene definita anche «ottuplice sentirnero», un insieme di regole morali che incoraggiano a seguire una «retta visione», un «retto pensiero», «rette parole», «rette azioni», un «retto modo di vivere», «retti sforzi», «retta concentrazione» e «retta meditazione». L’obiettivo di questa pratica è quello di «risvegliare l’individuo alla vera essenza della realtà e aiutarlo a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza».

Dunque, sviluppare pensieri, sentimenti positivi e benevolenti nei confronti di se stessi e dell’umanità – quella che si incontra tutti i giorni e quella lontana – rappresenta una delle pratiche della nonviolenza buddista.

«Nel primo di una serie di esercizi chiamati “stati mentali” (brahma vihara), la benevolenza è accompagnata dalla pratica della compassione (karuna, “simpatia” verso coloro che soffrono), dalla gioia (mudita, apprezzamento per la buona fortuna degli altri) e dall’equanimità (upekkha, mantenere l’imparzialità nei momenti di guadagno e di perdita).
L’approccio buddista verso la nonviolenza, quindi, si fonda su una sistematica “regolazione dell’atteggiamento”, dove gli stati d’animo negativi e reattivi come l’odio, la brama e l’illusione vengono trasformati in orientamenti sociali positivi attraverso l’autoesercizio della meditazione» (3). Importantissima è la virtù, o la pratica, della compassione: «Il Buddha indicò nella “Via di mezzo” il cammino da seguire: non una vita dedita al piacere, ma neanche alla privazione (Via di mezzo significa anche eliminare ogni forma di dualità, ndr). (…) L’egoismo impedisce una visione chiara della vita: esso va sconfitto con la saggezza, la pratica e facendo scaturire la “compassione”.
Nell’Upasakasila-sutra si legge: “Se tu vedi esseri umani in disarmonia cerca di creare armonia. Parla dei pregi altrui e mai dei difetti. Coltiva buoni propositi anche verso il tuo nemico. Attieniti alla compassione e considera tutte le creature come se fossero i tuoi genitori”» (4).

Fondamentale, nella dottrina buddista, è il concetto di karma («azione compiuta» (5), legge morale di causa-effetto), che è stata mutuata dal pensiero induista da cui il buddismo si sviluppò, e del samsara, il ciclo di reincarnazione che interessa esseri umani, animali, divinità e demoni. «Secondo questo principio (del karma, ndr) tutte le azioni morali compiute da una persona, sia buone sia cattive, producono nella sua vita determinati effetti che non si manifestano necessariamente nell’immediato ma possono richiedere un certo lasso di tempo. Secondo la visione indiana, gli esseri viventi passano attraverso un ciclo infinito di nascite e morti e gli effetti negativi di un’azione malvagia compiuta in una vita possono essere differiti a un’esistenza successiva, ma inevitabilmente si manifesteranno, prima o poi. Ne segue che solo sforzandosi di compiere azioni positive nell’esistenza presente si possono evitare sofferenze ancora maggiori nelle vite future» (6). Ricompensa e punizione sono dunque individuali, ogni persona riceve come mercede ciò che ha seminato. E questo dovrebbe rappresentare un deterrente nei confronti di comportamenti malvagi o scorretti e un incoraggiamento verso quelli eticamente e moralmente corretti.

Ma non ci sono solo il karma e il samsara a guidare verso la nonviolenza. Importante è anche il concetto di «origine dipendente», l’interdipendenza, cioè, di tutte le azioni e di tutti gli esseri viventi nel ciclo di nascita e morte, e la relazione causale tra ignoranza e sofferenza. La natura dei fenomeni, delle cose che permeano l’universo, si basa sui legami causali che li uniscono tra loro. Come a dire, nulla è per caso e a se stante. Questo significa che l’universo intero è permeato da una ricchezza, da un potenziale immenso, in continuo sviluppo e mutamento e pronto a manifestarsi. In questo sta l’intuizione illuminante del Buddha Shakyamuni (7). E la metafora della rete di Indra – una trama di giornielli dove le facce di ciascuno rispecchiano quelle di tutti gli altri – ben esprime il concetto dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi.
Tutto ciò non rappresenta solo il tessuto di una concezione teorica «psico-cosmica» ma ha profonde conseguenze etico-morali sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e l’ambiente. Implica rispetto, assoluto, di ogni espressione di vita, pena una pesante retribuzione karmica.

Ulteriori insegnamenti di pace e nonviolenza si svilupparono insieme alla corrente mahayana (si veda il box), dove un ruolo fondamentale viene rappresentato dalle figure dei bodhisattva (sattva, essere, bodhi, buddità). «Nel buddismo delle prime generazioni scopo fondamentale della pratica religiosa era raggiungere lo stato di arhat (“essere perfetto”), ovvero colui che “non ha più nulla da apprendere” ed è libero dal ciclo delle rinascite negli stati inferiori dell’esistenza. Ma anche per raggiungere questa condizione si riteneva che occorresse un impegno instancabile per molte esistenze. Il buddismo mahayana, invece, indirizzò immediatamente i suoi seguaci, uomini e donne, verso il supremo stadio di illuminazione, lo stato di buddità. In questo processo di crescita spirituale sarebbero stati di grande aiuto i cosiddetti bodhisattva, esseri dotati di immensa compassione che, oltre a coltivare la propria illuminazione, si sforzavano di aiutare gli altri a fare lo stesso. (…) Nei testi mahayana, come il Sutra del Loto, i bodhisattva sono rappresentati in numero illimitato, capaci di vedere e di aver cura di ognuno, sempre pronti a soccorrere senza esitazione coloro che si appellano a loro con fede sincera» (8).

Santi buddisti o saggi, i bodhisattva hanno in comune una determinazione che è anche una solenne promessa: aspettare di entrare nel nirvana (9) e rimanere nel samsara il tempo di salvare gli esseri umani dal male e portarli verso l’illuminazione.
«Questo è il mio pensiero costante. Come posso fare in modo che tutti gli esseri viventi possano conquistare l’accesso alla più alta Via e raggiungere rapidamente la buddità», questa è la preoccupazione fondamentale, di cui si fa cenno nel capitolo juryo del Sutra del Loto, del Buddha e di tutti coloro che a questo stato di illuminazione vogliono accedere. Questo Sutra (saddharma-pundarika-sutra, in sanscrito) è considerato da molti studiosi il testo sacro più importante della corrente mahayana. Esso contiene una raccolta di metafore e di racconti o eventi che fanno riferimento ad un mondo di dimensioni amplissime, che rispecchia, in un certo senso, la cosmologia indiana tradizionale. Si pensava infatti che tale mondo fosse formato da quattro continenti collocati attorno ad una montagna mastodontica, il monte Sumero. Oltre al nostro ce ne sarebbero molti altri, abitati da Buddha. Peculiarità di quello abitato dalle creature viventi «comuni» è l’esistenza di sei regni: inferno, avidità e desiderio incessante, animalità, violenza o dominio sugli altri (i cosiddetti cattivi sentirneri); umanità, divinità o estasi. A questi ultimi il buddismo mahayana aggiunge i «nobili mondi», rappresentanti l’esistenza illuminata: quello popolato dagli «ascoltatori della voce» o studiosi delle dottrine del buddismo; i «pratyekabuddha», coloro, cioè, «che raggiungono l’illuminazione da soli» e che hanno compreso la verità fondamentale della vita ma che non si preoccupano di insegnarla agli altri. Il nono mondo, o stato, è quello dei bodhisattva, caratterizzato dalla compassione verso tutti gli esseri viventi: l’individuo si dedica alla felicità altrui scegliendo di seguire la via della perfezione, e dunque l’ingresso nella buddità, attraverso lo sforzo di liberare le persone dalla sofferenza.

L’ultimo stadio è quello della buddità: saggezza, compassione, perfetto io eterno e totale purezza di vita ne sono le caratteristiche. Esso rappresenta una condizione ideale a cui tutti gli esseri, attraverso la pratica buddista, possono mirare di accedere, poiché fa parte del loro infinito potenziale. Ecco dunque la grande rivoluzione del buddismo mahayana contenuta nel Sutra del Loto (10): tutti possiedono intrinsecamente la natura di buddità e dunque possono raggiungere l’illuminazione; il Buddha non vive in un luogo particolare e non ha una natura soprannaturale; la vita, nella sua essenza più profonda, esiste incessantemente attraverso passato, presente e futuro; non esistono categorie di esseri viventi che non possono raggiungere la buddità, neanche le persone più malvagie. Bellissimo è, al riguardo, il capitolo «Devadatta»: qui si comprende che, come il cattivo Devadatta, reo di crimini terribili, o la giovane figlia del re dei naga, ovvero i draghi, anche le persone più cattive possono ambire alla salvezza, e che bene e male non sono due eterni opposti la cui sopravvivenza dell’uno escluda quella dell’altro, ma due facce della stessa medaglia – luce e tenebre -, continuamente in lotta fra di loro.

Attraverso le sue dottrine rivoluzionarie, il Sutra del Loto ci rivela che l’illuminazione travalica le distinzioni di sesso, specie, spazio, tempo e i limiti posti dalla mente umana, e con la sua promessa di liberare tutte le persone, soprattutto quelle collocate al fondo della scala sociale, anticipa, in un certo senso, l’odiea concezione dei diritti umani.

(prima parte, continua)

Angela Lano




Vivere nella società multietnica

PROFUGHI NEL PROPRIO PAESE

Il mio lavoro nelle scuole trentine mi ha fatto tornare anche in quelle serbe, sempre come mediatrice interculturale. In Serbia non ci sono i mediatori, non ci sono neanche bambini stranieri, ma ho fatto la mediatrice interculturale fra i bambini serbi e quelli italiani che così hanno iniziato a scriversi.

A Belgrado mi aspettavano con impazienza e, ogni volta che andavo a visitarli, mi accoglievano con gioia. In accordo con il loro insegnante di serbo avevamo un’ora per i nostri amici italiani, per le nostre lettere, per la nostra conoscenza dell’Italia. Leggevamo ad alta voce tutte le lettere e poi loro facevano le domande, pieni di curiosità. Mi chiedevano della scuola italiana, del mio lavoro, dei bambini stranieri. Le scuole a Belgrado sono degli enormi palazzoni costruiti negli anni Cinquanta e da allora non sono cambiati molto. Le aule sono grandi, luminose, pulite, ma con poco materiale scolastico, piene di bambini chiassosi, ma molto silenziosi e disciplinati durante le lezioni.

Una volta chiesi loro: «Ci sono tra voi bambini venuti da lontano come nella mia città, Rovereto?». Si alzarono alcune mani. Erano bambini profughi, venuti dalla Croazia, dalla Bosnia o dal Kosovo. Anche loro erano «diversi» fra i loro compagni, anche se di stessa nazionalità. Erano i bambini portati via da una casa, da una scuola, dai compagni, con una esperienza dolorosa che nella scuola dovevano affrontare con le loro maestre. Durante i bombardamenti i bambini hanno perso quasi 3 mesi di lezioni.

Alcune maestre hanno in classe circa 35 alunni; molte volte non arriva neppure lo stipendio. I genitori di molti bambini sono in difficoltà economiche, ma la scuola va avanti perché le risorse umane riescono a superare molti ostacoli.

IL NUOVO «MURO DI BERLINO»

I ragazzi e i bambini del mio paese non possono viaggiare, perché per venire in Europa è necessario il visto. Per ottenere il visto servono molto tempo, fatica, soldi, e bisogna soddisfare innumerevoli ed umilianti richieste delle autorità degli stati europei.

Il «Muro di Berlino» non è stato abbattuto: è stato solo spostato. Per scavalcare quel muro, ho avviato una corrispondenza fra i ragazzi serbi e i ragazzi italiani delle scuole elementari, medie e superiori. Scambiando i pensieri, i desideri, i progetti per il futuro, facendo conoscere gli uni agli altri il proprio paese, non dai libri di testo e atlanti, ma come loro lo vedono, come ci vivono e come lo vorrebbero. Sono diventati amici che aspettano con impazienza la risposta dell’amico dall’altra parte del «muro» e quella amicizia tra loro spero riuscirà ad abbattere il muro dell’ignoranza, della diffidenza e del pregiudizio.
Quando è cominciata la guerra in Iraq, i ragazzi italiani avevano chiesto agli amici serbi che cosa si prova mentre ti cadono le bombe addosso, e loro hanno risposto. Abbiamo poi elaborato le testimonianze dei ragazzi serbi nelle varie classi delle scuole elementari, medie, e superiori, insieme agli insegnanti, con l’obiettivo di contribuire ad un’educazione alla pace. Mi ha colpito in modo particolare una frase di un bambino della scuola elementare: «Io so che le bombe che cadevano al mio paese partivano dall’Italia, ma so che i bambini italiani non c’entrano niente. Io voglio diventare tuo amico e aspetto con impazienza la tua risposta».
Queste lettere, dei bambini e ragazzi serbi e quelle degli italiani, per me sono un bene prezioso, perché mi hanno svelato un mondo meraviglioso dell’infanzia, che dà una speranza a questo mondo di cui tutti parliamo male. Mi danno speranza il loro ottimismo, la capacità di sdrammatizzare, di sperare, di perdonare.

LE RADICI DELL’UOMO

Tutti i ragazzi stranieri (in particolare, quelli venuti dal mio paese) sono «i miei alunni», perché tutto il mio lavoro è rivolto a loro: per integrarsi, ma soprattutto per non perdersi, per non perdere l’identità nazionale, la madrelingua, la religione (ortodossa, di solito).
La società multietnica avrà un sapore se gli esseri umani restano quello che sono, come Dio li ha fatti, tutti diversi fra di loro, e non come un miscuglio variopinto di individui, privi dei valori e delle tradizioni, che nonni e genitori si sono tramandati per secoli, ignoranti della propria storia. Senza radici, insomma.

Né la pianta né l’uomo possono durare a lungo senza una radice solida. Uno degli obiettivi di lavoro di un mediatore interculturale è rafforzare le radici, aiutando in questo modo i ragazzi (ma anche gli adulti) a trovare una sana integrazione.

Snezana Petrovic




E da allora tutto cambiò

La guerra civile era iniziata nel 1991, ma la data che cambiò per sempre la vita
dei popoli della ex Jugoslavia è il 24 marzo 1999, giorno in cui cominciarono i bombardamenti della Nato.

Nelle lettere di questi bambini, costretti a lasciare villaggi, case ed affetti, c’è di tutto: paura e coraggio, poesia e realismo, ma soprattutto rifiuto assoluto della guerra. Parole di «bambini» che molti «grandi» dovrebbero leggere e ripetere ad alta voce.

Milan C`osic`,
Scuola media «D. Chiesa»
di Rovereto, classe II c:
«Ho visto una grande paura negli occhi della gente»

«Quella primavera del ’99 vivevo nel piccolo villaggio di Bioska. Il mio villaggio si trova vicino all’aeroporto militare di Ponikve. La mattina del 24 marzo, noi bambini andavamo a scuola allegri e per strada vedevamo i contadini che aravano i campi, preparando la terra per la semina. Nessuno immaginava cosa sarebbe accaduto.

Quella sera caddero le prime bombe della Nato. La sera prima avevano bombardato il nostro aeroporto. Prima si udivano le sirene e poi cominciava a tremare la terra per le detonazioni. La gente usciva dalle case e correva nei rifugi. Anche noi siamo andati nel rifugio. Ho visto una grande paura negli occhi della gente. Alcune donne piangevano. Anche la mia mamma piangeva. Io e il mio fratello più piccolo, sotto la coperta pregavamo Dio che gli americani smettessero di lanciare le bombe. Poi ci siamo addormentati.
Di mattina arrivavano delle notizie, sempre brutte: un ragazzo della mia scuola era stato ferito dalle schegge, anche una donna era stata ferita all’occhio dalle stesse schegge, una casa del villaggio era stata demolita, nel cortile di un’altra casa era caduta una bomba ma non era esplosa.

Una notte mio padre mi portò fuori dal rifugio. Mi fece vedere la nostra contraerea. Ho visto i nostri aerei, guidati dai nostri coraggiosi piloti, che cacciavano via gli aerei con le bombe. Da quella sera non ebbi più paura».

Nikola Kostic`,
Scuola «L. Negrelli»
di Rovereto, classe III d:
«Da quella sera
non ebbi più paura»

«Io avevo 10 anni e mio fratello 4. Mi ricordo quel giorno come fosse ieri. Giocavo a calcio con i miei compagni, quando abbiamo udito le sirene. Noi non sapevamo perché suonavano, ma abbiamo cominciato a correre verso casa. Quando siamo arrivati, la mamma non c’era. Era al lavoro. Allora io, il mio fratellino, mio zio e mia zia, andammo in cantina. Era tutto buio, perché non c’era energia elettrica. Si sentivano gli aerei sopra la testa e all’improvviso si udì un fragore, come di un tuono. In quel momento mi spaventai moltissimo.
All’inizio di giorno potevamo uscire a giocare, ma dopo cominciarono a bombardare anche nelle ore di luce e non potemmo più uscire. Alcuni bambini uscivano lo stesso, ma la mia mamma non ci lasciava, aveva troppa paura.

Il mio papà era in Italia, noi eravamo soli con la mamma: se ci fosse stato anche lui con noi, io avrei avuto meno paura. Adesso sono felice perché siamo qui in Italia tutti insieme. Vorrei che non si ripetesse mai più quello che abbiamo vissuto quando papà non era con noi».

Dajana Dupkarova,
Scuola media di Ala, classe II:
«La guerra è un gioco
pericoloso dei grandi»

«Io ho portato molti ricordi belli e felici dal mio paese e pochi brutti. Tra questi, l’avvenimento più brutto sono stati i bombardamenti della mia piccola Serbia. Quel periodo della mia vita fu pieno di momenti di paura, tristezza e dolore.

Mi ricordo il 24 marzo del 1999: a scuola, l’ultima ora, c’era ginnastica e la maestra ci portò nel cortile. I ragazzi giocavano a calcio e noi bambine incominciammo a parlare dei vicini bombardamenti in Serbia. Nel bel mezzo del nostro discorso, pieno di confidenze e preoccupazioni per quello che avevamo sentito dagli adulti, si udirono le sirene. Per un attimo pensammo che fosse un errore, ma le sirene aumentarono d’intensità.

«La guerra? Da noi? Le bombe? Cosa faccio adesso?», pensavo terrorizzata. I ragazzi smisero di giocare e ci radunammo intorno alla nostra maestra. Lei cercava di rassicurarci, dicendo che ci avrebbe accompagnato verso il cancello, perché dovevamo tutti andare a casa. Davanti alla scuola c’erano alcuni genitori. Noi di solito andavamo a scuola e tornavamo sempre da soli, anche i bambini piccoli, della prima elementare, ma quel giorno c’erano molti genitori davanti alla scuola, venuti a prendere i figli.

C’era anche mia mamma. Era terrorizzata, mi disse che era cominciata la guerra e che dovevamo andare nel rifugio. Il rifugio era una grande cantina piena di gente di tutte le età. I bebé e i bambini piccoli piangevano e i loro genitori cercavano invano di tranquillizzarli. Dopo circa un’ora, sentimmo nuovamente le sirene che ci avvisavano che il pericolo era passato. Quella prima sera, la mia città, Cacak, fu risparmiata.

Il giorno dopo, verso sera, di nuovo le sirene, il rifugio, la paura. Quella notte sentimmo un bornato che fece tremare la terra e frantumare i vetri delle finestre. Avevano colpito una fabbrica. I miei genitori ascoltavano sempre le notizie alla radio e alla Tv e mi dicevano che presto sarebbe finita. Io non vedevo l’ora. In quel periodo era il mio unico desiderio: non sentire più le sirene, non andare nel rifugio, non sentire le esplosioni che facevano raggelare il sangue dalla paura. Volevo andare liberamente a scuola (che era sospesa per la guerra), giocare con le mie amiche senza paura che ci interrompessero le sirene. Quando finalmente finì, dopo tre mesi circa, tutti eravamo felici.
La guerra è un gioco pericoloso dei grandi che hanno il potere, e che usano questo potere per togliere la gioia ai bambini di crescere nella libertà e nella pace. Nessun bambino al mondo dovrebbe provare quello che ho provato io in quei tre mesi mentre bombardavano il mio paese».

Dragan C`osic`,
Scuola elementare
di Noriglio, classe V:
«Ai signori delle bombe»

«Il 24 marzo 1999 era una giornata come tante altre: andai a scuola e durante l’ora di matematica imparai le sottrazioni; durante l’ora di serbo la maestra c’insegnò le nuove lettere; durante il grande intervallo giocai a pallone con i miei compagni. Toai a casa e non trovai né la mamma né il papà: erano andati dai nonni matei, che abitavano lontano da noi, a Smederevo. Dovevano restare da loro 10 giorni circa per aiutarli in qualche lavoro. Io e mio fratello eravamo rimasti a casa con i nonni patei. Quella sera bombardarono per la prima volta il mio paese e da allora tutto cambiò. La nostra casa si trovava vicino all’aeroporto, e la prima bomba cadde proprio là. Io ero confuso. Non sapevo cosa pensare, vidi un’enorme preoccupazione e paura negli occhi del nonno, anche se lui cercava di nascondere lo sguardo.

Il giorno dopo io e mio fratello andammo a scuola. Tutte le notizie erano sugli attacchi aerei e tutti i giorni si sentivano le sirene. Il loro suono assordante avvisava la gente di andare nei rifugi. Dopo un po’ di tempo, arrivava il rumore degli aerei che, come uno sciame di vespe, passavano sopra il nostro paese scaricando dall’alto le bombe.

Si udivano le esplosioni di giorno e di notte. Ma io in quei momenti non pensavo a noi. Pensavo alla mamma e al papà che erano lontani. Se avessi potuto almeno sentirli al telefono, ma le comunicazioni telefoniche erano interrotte. Io ero spaventato per loro. La paura che potesse succedere qualcosa a loro era più grande della paura delle bombe. Volevo che fossero accanto a me, che potessimo essere insieme, qualsiasi cosa accadesse. Alla fine i miei genitori riuscirono ad arrivare a casa. Non so come, perché non avevano voluto raccontarmelo. Provai un gran sollievo. I miei genitori erano con me e sapevo che mi avrebbero protetto.

Passavano i giorni, ma nessuno dei bambini usciva a giocare. Non andavamo a scuola e i contadini non lavoravano più nei campi. Non c’era neanche la Tv: mi spiegarono che l’avevano bombardata. Eravamo spesso senza luce e non sapevamo quanto sarebbe durato. Nel rifugio la mamma cercava di cantare o di raccontare storie allegre. Voleva distrarci, ma, quando tremava tutto per le esplosioni, il mio cuore cominciava a battere più forte. Di giorno la gente raccontava che cosa avevano visto e i loro racconti mi facevano impressione. Io so che i contadini del mio villaggio non avevano mai fatto del male ai signori che buttavano le bombe. Quelli venivano da lontano e io non capivo perché lo facevano.

Dopo più di due mesi una sirena annunciò che i bombardamenti erano finiti. Per la prima volta ero felice di sentire il suono della sirena. Finalmente potevo di nuovo correre all’aperto e giocare con i miei compagni. Anche se ero piccolo (avevo solo 7 anni), avevo capito quanto è importante essere liberi. Ho capito quanto ho bisogno dei miei genitori. Ho capito che cosa è veramente la paura. Vorrei che nessun bambino provasse quella paura. È difficile dimenticare. Ancora oggi, quando sento il rumore, di un aereo aspetto l’esplosione, ma passerà…

Un giorno non ci saranno più guerre e la gente vivrà insieme in pace, indipendentemente dal colore della pelle e dalla nazionalità. Allora il canto allegro dei bambini felici sarà l’inno di un mondo libero dalle guerre».

Ivana Vasiljevic,
18 anni, Rovereto:
«Ora gli aerei sono
nei cieli di altri paesi»

«Avevo 14 anni. Frequentavo l’ottava elementare (terza media). Tutti i giornali dicevano che la Nato minacciava di bombardare il nostro paese, ma nessuno ci credeva.
Quel martedì sera gli aerei sono partiti dall’Italia verso la Serbia. Siamo rimasti senza energia elettrica, tutta la mia città era nel buio. Abbiamo passato la notte in cantina, al buio, ascoltando dei rumori che arrivavano da fuori, con l’ansia che la bomba potesse cadere sopra la nostra casa. Ma le mete della Nato erano le fabbriche e i ponti.

Dopo alcune notti passate in cantina, la mia mamma ed io decidemmo di dormire in casa, nei nostri letti. Ci addormentammo. Ci svegliò un fortissimo scoppio, la mia camera fu illuminata come da un lampo. Sono saltata dal letto, e non sapendo dove andare, mi sono nascosta sotto il letto e ho cominciato a piangere. Arrivata la mattina sentii il telegiornale e vidi che quella notte era passata senza vittime, solo con la paura. Nelle altre città, invece, molti erano stati feriti dalle schegge.

All’inizio bombardavano solo di notte, e di giorno si poteva vivere quasi normalmente. Ma dopo bombardavano a tutte le ore, anche a Pasqua.
Quando tutto finì, provai un’immensa gioia, passeggiando la sera per le strade di Cacak con le mie amiche. Guardavamo il cielo sereno, i tramonti, le stelle, sapendo che non sarebbero più venuti gli aerei con le bombe.

Adesso quegli aerei si sono spostati sopra i cieli di altri paesi, e seminano lo stesso terrore e le stesse paure che avevo provato io, agli altri bambini. Perché?».

Ivana Tisot,
15 anni di Rovereto:
«Mamma, chi è che spara?»

«Io sono nata a Stivor, un piccolo paesino di trentini emigrati in Bosnia, vicino a Banja Luka, nel lontano 1888. Io, i miei genitori, e i miei nonni, matei e patei, siamo nati in Bosnia e amiamo quel paese.
Se non ci fosse stata la guerra, la nostra piccola comunità trentina sarebbe rimasta per sempre in Bosnia e adesso non sarei qui in Trentino.

Vivevo con i miei genitori, con le mie sorelle più grandi e i miei nonni in una fattoria, e avevamo molti animali, che mi rendevano felice; tutti tranne i tacchini di cui avevo una folle paura, perché mi correvano dietro. Ma una notte d’estate sentii una paura più grande di quella dei tacchini: io e la mia mamma eravamo nell’aia buia, rischiarata di tanto in tanto da moltissimi lampi che cadevano tutt’intorno alla valle illuminando il cielo tetro. La campana della chiesa suonava senza sosta. Insieme a noi c’erano la nonna, le mie sorelle e una zia.

Ricordo che parlavano, commentavano tra loro, e io non capivo cosa si dicevano, ma sentivo che erano spaventate. Allora mi spaventai anch’io e cominciai a piangere. La mamma cercò di calmarmi e io mi addormentai fra le sue braccia. Dopo un po’ mi svegliarono i frequenti spari che si udivano dal bosco.
«Mamma, chi è che spara?», le chiesi e lei mi guardò con occhi pieni d’apprensione. «Ci sono i cacciatori nel bosco», mi disse.

Sentivo che qualcosa stava cambiando: vendemmo le mucche e un po’ alla volta scomparirono anche gli animali. Anche il cane e la gatta scapparono. Il papà non c’era, era andato in Italia (adesso so che era andato lì per evitare di essere richiamato e mandato in guerra).

Un giorno, mia madre, le mie sorelle ed io dovevamo prendere una corriera, che doveva portarci in Italia, da papà. I nonni decisero di rimanere. Avevamo molta fretta e io dimenticai il mio orsacchiotto a casa. Me ne accorsi, mentre la corriera stava arrivando; cominciai a piangere così disperatamente, che la mamma decise di tornare a prendere il mio orsacchiotto, rischiando di perdere la corriera.

Il pullman era pieno di donne e bambini. Il viaggio fu lungo e scomodo, ma finalmente arrivammo in Italia.
Io cominciai a frequentare l’asilo, ma non subito potei giocare con gli altri bambini, perché non sapevo l’italiano: io capivo un dialetto che nel Trentino non si parlava più, e il serbo. All’inizio rimanevo in disparte. Imparai l’italiano velocemente e presto cominciai a correggere i miei genitori nel parlare.

Adesso, dopo 11 anni che sono in Italia, ho dimenticato quasi completamente la mia vecchia lingua e sono diventata una vera trentina, anche se continuo ad amare la mia vecchia patria. In Bosnia ho ancora una nonna e alcuni zii. La maggior parte dei miei parenti sono in Italia, a Strigno. Io vado tutte le estati a trovare mia nonna e i pochi parenti rimasti a Stivor, ma non toerò mai più a viverci. La vita di molti trentini è continuata là dove si era fermata nel 1888».

Snezana Petrovic




I miei alunni serbi raccontano…

Io sono una mediatrice interculturale. Il mediatore è una nuova figura professionale, nata con la formazione del nuovo stato europeo e con l’immigrazione. I mediatori interculturali hanno un ruolo nobile: mediare fra diverse culture «costrette» a convivere in uno stato, con l’obiettivo di creare una maggiore comprensione, accettazione e tolleranza verso le diversità etniche, culturali e religiose.

Provengo da uno stato che non esiste più, la Jugoslavia. Sono testimone che le differenze tra le genti possono essere fonte di benessere economico e culturale, come lo furono nel mio paese negli anni Sessanta; ma possono anche diventare uno strumento per chi vuole fare la guerra, come è successo prima nel 1941, poi nel 1991.

Oggi, la «mia» Jugoslavia, multietnica, multiculturale, socialista e progressista, non allineata ed indipendente, si è frantumata in 5 piccoli stati, che si stanno inginocchiando davanti alla Nuova Europa, ricca, potente e prepotente, per diventae parte. Il mio è uno dei molti paesi dai quali sono emigrate migliaia di persone, famiglie intere, che sono scappate dalla guerra o dalla miseria, cercando fortuna in Europa…
Io mi occupo dei bambini di quegli immigrati. Sono i «miei alunni», che lasciai molti anni fa sui banchi delle scuole belgradesi, dove insegnavo il serbo-crornato. I loro genitori, che erano cresciuti in pace e in una società benestante, per dare ai propri figli pace e benessere hanno dovuto privare loro e se stessi della propria patria.

Io mi occupo di quei bambini quando vengono iscritti nella scuola italiana senza sapere una parola d’italiano. Sono per loro e le loro famiglie un punto di riferimento; cerco di essere una persona che ascolta e comprende tutte le loro difficoltà, i problemi, le aspettative e i progetti. Facciamo insieme una parte di strada, quella dei primi mesi nella nuova scuola. Ho conosciuto molti bambini serbi: della Croazia, della Bosnia, della Serbia. Ultimamente mi occupo anche degli alunni di madrelingua macedone.

Molti di questi bambini e ragazzi hanno vissuto la guerra e mi hanno raccontato le loro esperienze. Ho chiesto ad alcuni di scrivere le loro esperienze per «Missioni Consolata». Questi sono i loro racconti.

Snezana Petrovic




Scende la notte, si sente la sirena antiaerea

I bambini dell’ex Jugoslavia raccontano i loro sogni, ancora popolati
dagli incubi della guerra passata, le difficoltà dell’esistenza presente, le speranze
di un futuro di pace e di amicizia.
La solidarietà dell’Associazione «Sos Jugoslavia» vuole che questa speranza
non muoia.

Fino al 1999 la Zastava era la più grande fabbrica dei Balcani: produceva 220 mila vetture l’anno e impiegava 36 mila lavoratori di 34 etnie diverse. Oggi, ufficialmente, i dipendenti sono 17 mila; ma impiegati a rotazione, con tui di 4-5 mila al mese. Quando lavorano percepiscono un salario medio di 165 euro mensili; quando non lavorano 70/80 euro.

Secondo i dati ufficiali, oggi, in Serbia, i due terzi della popolazione spende meno di 1 euro al giorno pro capite, quando il paniere dei soli generi di primissima necessità per una famiglia di 4 persone è di 250 euro.
Essendo privatizzati o in fase di privatizzazione i servizi sociali, la scuola sta diventando un lusso, mentre prima erano praticamente garantiti dallo stato. Buona parte delle famiglie non ha più acqua, luce, riscaldamento, perché non possono pagare le bollette. Occorre ricordare che in inverno le temperature possono toccare i 20 gradi sotto zero.

Mentre dilagano le malattie, dovute sia ai 10 anni di embargo, sanzioni e guerre, sia ai bombardamenti all’uranio, che cominciano a emergere massicciamente (tumori, leucemie e malattie cutanee), la stragrande maggioranza delle famiglie non può curarsi e comprare i medicinali.

In queste condizioni vivono i bambini di cui riportiamo alcuni pensieri.

«… Adesso farò la terza media. La vita qui è dura: dobbiamo vivere in cinque con la pensione di vedova della mamma, che riceve 70 euro mensili, ma è difficile arrivare a fine mese. Senza il vostro aiuto sarebbe anche peggio… Tutti abbiamo grave stress; non riesco a esprimere cosa proviamo».

(Aleksandar T., 15 anni)

«Spero che tutto passi presto e riavere la nostra infanzia rubata. Siamo diventati grandi troppo in fretta: ragioniamo diversamente dai nostri coetanei che non hanno conosciuto la guerra… Scrivimi di te; sapere che ci sono bambini che vivono bene mi fa stare un po’ meglio e mi aiuta a sopportare le nostre sofferenze».

(Ana C., 12 anni)

«Caro amico, tu la notte riesci a dormire? Io sogno e sento sempre il suono degli aerei e delle bombe. Sogno di camminare in mezzo a rovine, tanti animali soli davanti alle case distrutte e tutto brucia. Tanti fantasmi mi stanno intorno… Grazie delle tue lettere, soprattutto perché ti ricordi di me… Anche a me piacciono le stelle: ogni sera le guardo e mi chiedo cosa starai facendo… Ho pensato di regalarti qualcosa: ho solo una penna; se te la regalo, non so più come scriverti».

(Boba K., 10 anni)

«Caro amico, mio padre è tornato dalla guerra su una carrozzella, non ha più le gambe. Perché gli hanno fatto questo? Lui è sempre stato buono, sul suo viso c’era sempre un sorriso per noi. Ora, a volte, lo vedo piangere da solo; ma con noi si sforza sempre di sorridere. Mio padre era un operaio della Zastava, ora passa la vita sulla carrozzella e non può più lavorare… Eravamo una famiglia allegra, contenti di quello che avevamo, ora non abbiamo più nulla. La mamma è sempre triste e piange… Viviamo con la pensione di papà, 60 euro in quattro; una o due volte al mese la mamma trova da andare a fare le pulizie; allora torna con qualche cioccolatino per me e mia sorella e per qualche momento tutto sembra come era prima… Voglio crescere e diventare grande presto, così farò il soldato e andrò a cercare quelli della Nato, anche fino in America, per punirli di ciò che hanno fatto alla nostra famiglia. Anche se mio padre non vuole e mi dice che bisogna avere pazienza… Amico mio, vorrei conoscere altri bambini italiani per diventare amici e un giorno raccontarci tante cose. Di questo sarei felice».

(Radko M., 12 anni)

Alle tragedie e sofferenze che i profughi si portano dentro e che, specie per la psiche dei bambini, spesso non sono superabili, si aggiungono quelle della vita quotidiana, legata alla mancanza di condizioni minime di sopravvivenza: casa, lavoro fisso, relazioni sociali minime, impossibilità di un proprio decoro, progettualità e prospettive future.

Dalle lettere dei bambini che sono al Centro collettivo profughi di Kragujevac, emerge la realtà di vita delle famiglie che vivono in questi centri di fortuna. Uno di questi era un supermercato, dove sono state messe delle pareti di compensato, ottenendo stanze di circa 6 metri quadrati, alcune senza finestre; le condizioni igieniche sono al minimo, nonostante una autoregolamentazione rigida e funzionale: ogni nucleo familiare può fare la doccia ogni 12/15 giorni; per andare al bagno occorre aspettare il proprio tuo; così pure per lavare piatti e vestiario. Non esiste riscaldamento e topi e scarafaggi convivono normalmente con i bambini.

Alienazione e disperazione favoriscono alcornolismo, malattie e disturbi nervosi, anche nei bambini. Dopo i bombardamenti della Nato, secondo studi e ricerche fatte da pediatri e psichiatri, risulta che circa il 71% dei bambini e adolescenti della Repubblica Serba hanno disturbi psichici di vario genere.

Un dato mai evidenziato è che molte migliaia di queste famiglie e bambini hanno vissuto la condizione di profughi due volte in pochi anni: esse sono parte di quei 650 mila profughi mai menzionati, che erano scappati dalle varie pulizie etniche delle guerre in Croazia e Bosnia.

Nonostante tutto questo, chi viene a conoscere direttamente la loro situazione sono colpiti dal senso profondo di grande dignità e orgoglio di questi profughi.

«… come avete visto, la stanza del Centro profughi, in cui viviamo in cinque, è piccola; ma almeno la nostra vita è più serena: abbiamo una porta solo per noi; possiamo andare a letto e svegliarci quando vogliamo… Lei è stata la prima persona che è venuta a conoscere la nostra famiglia… Grazie perché ci aiuta e perché siamo amici… siamo felicissimi di potervi offrire la nostra amicizia, i nostri sorrisi e tanto affetto… altro non abbiamo».

(Dragana N., 8 anni)

«… avevamo una vita serena; con i bombardamenti della Nato sono cominciate le nostre disgrazie: hanno distrutto i nostri sogni, i nostri sorrisi, le nostre allegrie. Continuo a chiedere ai miei genitori: «Perché?», ma non riescono a spiegarmi; mi dicono solo che così hanno voluto dei signori stranieri ricchi e potenti… Nella piccola testa ricordo sempre il paese dove sono nata, la piccola casa con i fiori, i campi intorno con l’erba, dove giocavo con gli amichetti; l’altalena costruita da papà e io sopra che ridevo, ridevo… Penso al cagnolino Lesi, che stava sempre con me felice… E poi piango; sento ancora il rumore degli aerei; rivedo le fiamme che restavano, fumo e tanti che piangevano… Finita la guerra e i bombardamenti, siamo dovuti scappare dalla nostra piccola felicità; siamo venuti a Kragujevac, in mezzo a tanta gente sconosciuta, ma ora ho tanti nuovi amichetti… Vorrei tornare nella nostra casa… ritrovare il mio cane, che forse ha fame e sete e sarà triste perché pensa che l’ho abbandonato; anche se sono passati quattro anni, sono sicura che non mi ha dimenticato… La invito a visitarci ancora… la nostra stanza è piccola, non siamo ricchi, ma vedrà che insieme a noi starà bene».

(Ndt: il padre non ha ancora trovato la forza di dirgli che la casa è stata bruciata e il cane Lesi è stato impiccato a un albero).

(Tjana D., 9 anni)

«… nel Kosovo avevamo una casa con la terra e animali: eravamo felici. Ma qualcuno ha deciso di distruggere la nostra felicità e la nostra vita. Non scorderò mai più il 20 giugno 1999: sono venuti i vicini piangenti; hanno detto ai miei genitori di prepararsi per scappare, perché stava arrivando l’Uck. Ma non avevamo un’auto e siamo rimasti solo noi della zona… poi è arrivato mio zio con la macchina a prenderci. Piangevamo tutti: abbiamo baciato la porta della nostra casa e siamo venuti via con alcune borse e un po’ di cibo per il viaggio. Io ho dovuto lasciare tutti i miei giocattoli e i miei ricordi. Tutti e cinque siamo saliti sulla macchina e siamo partiti, senza conoscere la destinazione. Siamo poi arrivati a Kragujevac e abbiamo trovato posto al Centro profughi, in un grande camerone, dove ci hanno dato 4 letti e 4 coperte militari e nient’altro… Io e i miei fratellini continuavamo a piangere e chiedere di tornare a casa; poi i genitori ci hanno detto che la nostra casa era stata bruciata dai terroristi. Dopo quattro anni piango ancora, anche nella notte, quando ricordo».

(Danica P., 10 anni)

«… in famiglia parliamo spesso di lei, della sua umanità e amicizia. Voi siete stati i primi a offrirci l’amicizia… Io sono rimasta colpita al vedere le sue lacrime, mi hanno fatto pensare che non sono sola e la nostra famiglia non è più sola: questo ci scalda tanto il cuore di speranza… Come ha potuto vedere, pur essendo in 6 in questa piccola stanza, siamo riusciti lo stesso a stare anche in otto, insieme a voi… Io e i miei fratellini abbiamo tanti desideri: avere una piccola casa nostra, dei giocattoli, dei dolci e un po’ di serenità e gioia. Un po’ di tutte queste cose ce l’avete regalate voi… Per noi ora è più facile e continuiamo a domandare quando toerete… Ogni volta che toerete, vi regaleremo il nostro affetto e i nostri sorrisi, so che è poco ma state sicuri che saranno sempre grandi».

(Ivana A., 8 anni)

Queste sono le cifre ufficiali di un anno di bombardamenti, dal giugno 1999 al giugno 2003: 350 mila profughi di tutte le etnie, in maggioranza serbi e rom, fuggiti in Serbia; 1.138 scomparsi; 1.194 assassinati.

Solo poche migliaia di non albanesi non sono scappate dalla pulizia etnica dell’Uck. Essi vivono barricati in piccolissime aree, spesso recintate col filo spinato, circondate dalle forze militari della Kfor, o assediati dentro gli ultimi monasteri ortodossi rimasti: 140 sono stati attaccati; 92 totalmente distrutti.che cosa posso portargli? >>. D ‘improvviso esclama <>

Durante le settimane successive per ogni preghiera e opera buona pose nel vaso una pietra lucente. Quando il vaso fu colmo il sant’uomo si affrettd su per la montagna, dove aveva appuntamento con Dio. Arrivd in vetta e non vedeva nessuno. All ‘improvviso udi una voce: >

E il sant’uomo, sorpreso: <>.

E Dio disse: <>

(liberamente tratto da P. Ribes
Ascolta questa…, Paoline 1997, pp. 40-42)

Queste enclavi del Kosovo sono vere e proprie prigioni a cielo aperto dell’apartheid etnico nel cuore dell’Europa. In esse si vive una vita quasi surreale: tutto ciò che accade è precostituito, dall’attesa degli alimenti e ogni bene materiale portati da fuori, alle modalità dei giochi che si possono fare solo se possibili e sicuri, alla vita scolastica, che è affidata alla volontarietà dei maestri e insegnanti rimasti. Tali «riserve indiane» sono un incubo a cielo aperto per i bambini serbi e di altre minoranze, quotidianamente minacciati e assassinati, se vengono trovati fuori dalle enclavi. Ne sono una tragica conferma gli eventi accaduti il 13 agosto scorso nell’enclave di Goradzevac, ultima isola multietnica del Kosovo occidentale, dove sopravvivono circa 700 persone. Un gruppo di ragazzi serbi decise di «evadere» per bagnarsi nel fiume Bistric, che scorre poche centinaia di metri fuori dell’enclave: due ragazzi di 11 anni e 18 anni vennero uccisi da colpi di fucile; un altro di 15 anni è in coma; altri due furono feriti gravemente e rimarranno invalidi a vita.

Le lettere dei bambini parlano di questa «normalità», risultato della guerra «umanitaria» che doveva portare pace, serenità e progresso in una terra dove, fino al 1999, convivevano 17 etnie diverse. Non era un paradiso terrestre; ma era un luogo dove chi uccideva un bambino o una persona, solo perché appartenente a un’altra etnia, era «normalmente» condannato all’ergastolo.

«… con la primavera, lentamente torna tutto ciò che se ne era andato in autunno, ma non tornano i miei amici e amiche, i miei fratelli e sorelle, che sono fuggiti, non a causa del freddo e dell’inverno, ma perché li hanno cacciati dalle loro dimore. Le loro case sono state incendiate; i loro nidi sono distrutti per sempre. Nei loro giardini l’erba non cresce, non diventa verde, perché è stata distrutta fino alle radici. Anche gli alberi sono stati distrutti e quelli nuovi non hanno il coraggio di crescere, perché hanno paura di essere abbattuti anche loro».

(Sladana V., 11 anni)

«… la mia infanzia trascorre circondata dal filo spinato. Ho 12 anni, ma da quattro anni non ho ciò che hanno tutti i bambini del mondo: la libertà. Vorrei che tutte le fabbriche di filo spinato si trasformassero in fabbriche di giocattoli e fiori, così ci sarebbero giocattoli e fiori per tutti i bambini del mondo».

(Dusan M., 12 anni)

«Scende la notte. Si sente la sirena antiaerea. Ancora non credo che qualcosa di terribile possa accadere. Si sentono gli aerei e poi esplosioni che fanno scoppiare i vetri delle finestre. Panico, urla, latrati di cani, fragore di persone nelle strade. Sto sognando? Avrei voluto che fosse un sogno! Avrei voluto svegliarmi e dimenticare, ma purtroppo questa è la mia realtà…».

(Bojan M., 14 anni)

«… ora viviamo come in gabbia, prigionieri: ma gli stranieri dicono che siamo liberi…».

(Jovan R., 10 anni)

«… quando fu sera ci sedemmo in cantina. Tutta la notte mi chiesi: cosa sarà di noi domani? Dopo alcuni giorni passati in cantina, uscii in cortile, ma tutto era impazzito: nel cielo, al posto del sole c’erano aerei ed elicotteri. Dopo alcuni minuti il tuono annunciò il pericolo. Quando tornai in cantina, guardai la piccola Jovana che dormiva e mi chiesi: perché la piccola Jovana deve sognare in cantina?».

(Ivana V. 9 anni)

«Il bombardamento che ho subito ha lasciato in me forti tracce e profonde cicatrici: sul mio viso si legge la tristezza, come incisa dalla lama di un coltello; gli occhi sono più cupi per le lacrime; la mia anima soffre per l’immenso dolore… A volte desidero andarmene da qualche parte, dove possa essere solo. Desidero essere completamente solo e dimenticare questi tremendi avvenimenti per sempre».

(Ratko L., 14 anni)

«… la guerra non è una canzone, che si può dimenticare
la guerra è una favola funesta,
che ogni giorno si manifesta…».

(Milena N., 12 anni)

«… il sole non sa che i miei occhi sono felici, come tutta la natura; ma il mio cuore è triste per tutto ciò che accade intorno a me. Saltellerei anch’io allegramente e canticchierei per i tanti boschi e radure, ma non posso. Non posso per le persone, non posso per le mine e non posso per le tante cose che stanno in agguato a ogni mio passo. Non tanto lontano da me, solo una decina di metri, sento il rumore allegro dei bambini, i colpi del pallone, canzoni che si svolgono dietro allegre altalene; ma io posso solo osservare tutto ciò. Perché non posso anch’io giocare, cantare e rallegrarmi della primavera con i miei coetanei? Che colpa abbiamo commesso, perché da quattro anni aspettiamo la primavera con il cuore di ghiaccio?».

(Milica S., 12 anni)

Non lasciar morire la speranza
Questi bambini non hanno subito solo danni fisici, ma anche devastazioni emotive e comportamentali: balbuzie, tic nervosi, disfunzioni, esaurimenti nervosi e alterazioni psichiche. Sirene di allarmi, rumore di aerei e scoppi di bombe… hanno innalzato del 19% il tasso di suicidi e atti autolesivi, di cui il 40% riguarda bambini e adolescenti.

La Convenzione dell’Onu del 1989 riconosce il diritto all’uguaglianza per tutti i bambini del mondo, senza discriminazioni di «razza, colore, sesso, lingua, religione, origine etnica» (art 2). Perché nel Kosovo Methoija, conclamato come «liberato», essere bambini serbi, rom, montenegrini, goranci, egiziani, turchi… non dà diritto neanche alla vita?

Oltre alle sofferenze e privazioni, i bambini parlano di sogni, desideri di serenità, ricerca di legami di amicizia con coetanei: una ricerca di «ponti» per andare al di là del fiume di orrori, violenze e crudeltà passate e quotidiane.

Gettare «ponti» di solidarietà è il senso del nostro modesto ma caparbio lavoro nell’Associazione «Sos Jugoslavia»; al tempo stesso vogliamo essere «voce» di chi non ha più voce nei nostri giornali, Tv, mass media, dibattiti, tranne rarissime eccezioni.
Ci viene richiesta non elemosina, ma solidarietà (vedi riquadro). Essa è spesso l’unica arma che possiedono i deboli e gli oppressi e fa parte del patrimonio migliore nella storia dei popoli. Solidarizzare e sostenere delle vittime di una guerra non voluta è anche lotta per la pace.

Vogliamo aiutare a non far morire il sentimento della speranza per questi bambini e forse anche per noi.

«Non so se c’è un tempo della fine,
ma so che c’è sempre la speranza.
La speranza come coscienza
e la coscienza come lotta
per la vita…
Senza fine…».

Enrico Vigna




Cari Amici italiani noi vi scriviamo…

Questo dossier nasce grazie alla sensibilità e disponibilità della redazione di Missioni Consolata e ha due intenti:

1) Non dimenticare quei bambini che, essendo nati dalla parte bollata come «cattiva», negli ultimi dieci anni di guerre «umanitarie» e ormai infinite, non hanno mai ricevuto dai vari organismi e Ong inteazionali, che una solidarietà infinitamente ridotta, spesso sottoposta a precise clausole discriminanti.
L’Associazione «Sos Jugoslavia» ha fatto fin da subito una scelta precisa: aiutare e solidarizzare, senza guardare il luogo di nascita, con i bambini serbi e jugoslavi, perché bombardati dalla Nato e per anni sottoposti a embarghi e sanzioni, armi di devastazione e annichilimento di popoli e genti, in particolare di bambini e anziani.

2) Facendo parlare e testimoniare questi bambini, forse per la prima volta in Italia, e tramite le loro storie e speranze, fare un’opera di sensibilizzazione e sostegno ai progetti di solidarietà con alcune realtà di bambini in Serbia e in Kosovo Methoija.

N ei nostri periodici viaggi di solidarietà, abbiamo raccolto brani di lettere, poesie, pensieri, disegni, che ci trasmettono sentimenti, sofferenze e desideri più profondi di questi bambini. Le presentiamo con una sintetica descrizione delle realtà sociali in cui vivono quotidianamente.

Sono tre realtà che rappresentano lo spaccato sociale, simbolo della odiea società serba ed ex jugoslava del dopoguerra. E sono anche le realtà dove la nostra Associazione ha tre dei suoi progetti di solidarietà:
– quella dei figli dei lavoratori disoccupati della Zastava;
– quella dei bambini profughi dal Kosovo Methoija;
– quella dei bambini assediati nelle enclavi serbe dello stesso Kosovo Methoija.

La scelta di privilegiare l’impegno verso i bambini è legato a dati di fatto: essi rappresentano l’anello più debole e indifeso degli eventi, quindi i più bisognosi; in essi vive una potenzialità costruttiva positiva; soprattutto i bambini rappresentano in ogni società la speranza ed il futuro.

Per quei paesi e popoli che hanno vissuto e vivono sulla loro pelle cosa significano guerre «umanitarie», proiettili democratici all’uranio impoverito e terapie di miglioramenti sociali, fondati su bombardamenti dei civili per motivi «etici», la necessità di ritrovare anche solo un brandello che possano ridare frammenti di speranza in un futuro migliore, in un mondo più giusto e di pace per tutti, passa necessariamente attraverso le generazioni che devono venire; e i bambini, anche nelle situazioni più drammatiche e di miseria, rappresentano e sono gioia e sorrisi in ogni famiglia.
E per fermare i mercanti di morte e i propugnatori delle guerre «infinite», sarà necessario un forte protagonismo e coinvolgimento delle nuove generazioni, anche e soprattutto nel nostro paese.

Enrico Vigna




ITALIA – Lamponi a Natale

Da tre anni i missionari della Consolata operano nella parrocchia di Platì (Reggio Calabria), paese alla ribalta di cronache giudiziarie e imprese mafiose. La gente è stufa di essere segnata a dito
a causa di una minoranza criminale: la voglia
di riscatto matura insieme a piccole imprese che producono fragole e lamponi.

Era il 4 ottobre 2001, quando Enrico Redaelli e Luigi Manco, missionari della Consolata, presero ufficialmente possesso della parrocchia di Platì, provincia di Reggio Calabria, diocesi di Locri-Gerace, nel cuore dell’Aspromonte.

Con tanto bisogno di missionari nel sud del mondo, perché finire in uno sperduto paese della punta estrema dello stivale? La domanda è naturale e la risposta doverosa. L’ultimo Capitolo generale dell’Istituto (1999) aveva lanciato un’urgenza profetica: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa».

L’anno seguente, nella Conferenza regionale, i missionari della Consolata in Italia hanno accolto l’appello: fatte le dovute ricerche, la scelta del nuovo campo missionario è caduta sulla Locride, diocesi con forti sfide pastorali a livello ecclesiale e socio-ambientale.
Così i due missionari sono approdati a Platì e, data la scarsità di clero, servono altre due piccole parrocchie confinanti.

PAESE A «DUE PIANI»

Adagiato sul versante orientale dell’Aspromonte, Platì era un centro agricolo, commerciale e artigianale rinomato per creatività, laboriosità e ospitalità degli abitanti. Della grandezza passata rimangono solo le vestigia nei falegnami, veri maestri del legno, e nei foai, che foiscono il fragrante «pane di Platì» a una ventina di paesi della Locride.

Quarant’anni fa il paese contava oltre 7 mila persone; ora la popolazione è quasi dimezzata, nonostante vanti il più alto tasso di natalità in Italia. Molte case sono da anni in costruzione; altre sono chiuse e malandate: aprono i battenti una o due volte all’anno, quando i proprietari, emigrati in Nord Italia e in America, ritornano in paese per qualche giorno di vacanza.

Platì non ha una biblioteca, né campo di calcio, né cinema, né altro luogo di ritrovo. Chi può, manda i figli a studiare altrove. Gli insegnanti della scuola locale scappano appena suona la campanella; e perfino il sindaco, nativo di Platì: alle 13 chiude il municipio con imposte di ferro e si rifugia a Locri.

Gli stessi platiesi ammettono che, da qualche decennio a questa parte, il paese sta andando alla deriva. Platì è diventato tristemente famoso per alcuni episodi giudiziari, sequestri di persona, traffici illeciti, delitti di mafia e latitanti. Ma è inutile domandare chi sono i mafiosi. La gente sorride e risponde con un’altra domanda: «E chi lo sa? Noi vediamo solo padri di famiglia che si alzano all’alba e tornano al tramonto».
Ma non è tutta omertà. In realtà molte persone non sanno niente e non si accorgono di nulla. Tra queste ci sono spesso anche i familiari e le stesse mogli dei malavitosi. Il malaffare è gestito da una minoranza, composta da «manovali» e pochi «specialisti» che vivono nel paese, ma collegati con i vertici della malavita nazionale e internazionale.

Una pittoresca immagine lo definisce «paese a due piani», in senso metaforico e reale. L’11 dicembre 2001, l’arresto di un pregiudicato della ‘ndrangheta, da 11 anni latitante, soprannominato «l’imprendibile», ha portato alla scoperta di bunker sotterranei, collegati con alcune palazzine e le fogne del paese, dotati di marchingegni elettronici altamente sofisticati: porte scorrevoli, chiusure antiproiettile, scalette di granito, che scivolano senza il minimo fruscio, e camere dotate di tutte le comodità.

VOGLIA DI RISCATTO

Una settantina di famiglie di Platì hanno un familiare in prigione o in latitanza. Madri e figli sono le prime vittime di tale situazione, sia perché devono portare da mangiare ai fuiùti (fuggitivi), sia, soprattutto, per le frequenti perquisizioni poliziesche: nel cuore della notte i militari sfondano la porta a calci, mettono a soq-quadro l’abitazione e la riempiono di terrore.
Quando un fuggiasco si consegna alla polizia, in famiglia c’è grande festa, perché finisce finalmente l’incubo di altre irruzioni delle forze dell’ordine.
Ma anche la gente del «piano superiore» è stufa di sentirsi segnata a dito per colpa di una minoranza sotterranea. «La maggioranza dei platiesi è gente normale e buona – afferma padre Emanuele Maggioni, parroco insieme a padre Enrico -. Alcuni mettono piede in chiesa in speciali circostanze, per onorare i morti, insieme ai rispettivi compari e comari; altri frequentano regolarmente, collaborano nelle attività comunitarie e si prodigano silenziosamente per aiutare malati, anziani, bisognosi».

A Platì c’è voglia di riscatto; ne è un segno la massiccia presenza della gente alla messa e fiaccolata del 15 dicembre del 2001, per manifestare solidarietà verso tante famiglie colpite dalla scomparsa dei loro congiunti: dal 1994 al novembre del 2001, ben 7 persone, dai 22 ai 40 anni, sono sparite nel nulla e non danno più notizie di sé.

All’omelia, mons. Giancarlo Bregantini, il vescovo di Locri-Gerace, ha letto i nomi degli scomparsi ed espresso il suo dolore verso i loro parenti, alcuni dei quali coraggiosamente presenti; poi ha raccomandato ai giovani il rispetto di sé e delle cose altrui, di studiare e formarsi una coscienza responsabile. Infine, alzando la voce perché arrivasse a chi di dovere, ha chiesto che, prima del ponte sullo Stretto, si provveda i centri dell’Aspromonte di strutture che li facciano uscire dall’isolamento e dal degrado.

Alla fine della messa, una giovane donna coraggiosa ha letto questo messaggio: «Popolo di Platì, svegliati; unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i nostri figli. Noi siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo; uniamoci per abolire questi misfatti. Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la testa con triste rassegnazione. Adesso è ora di far sentire la nostra voce. Un grido di pace, di perdono, contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il nostro paese per tutto quello che è successo nel passato e nel presente».

La manifestazione è proseguita con una fiaccolata per le vie di Platì, in cui hanno partecipato uno straordinario numero di giovani, sventolando uno striscione lungo 30 metri, con i colori dell’arcobaleno. La processione, frammista a preghiere, si è conclusa nel cortile della scuola, dove per la seconda volta sono stati letti i nomi degli scomparsi. Poi il vescovo ha invitato tutti a gridare: «Viva Platì! Coraggio Platì! Viva la pace!».
Erano presenti molti adulti, donne soprattutto, dal volto segnato dalla fatica. Illuminati dalle torce, i loro occhi esprimevano commozione, mista a rassegnazione, come se dicessero: «A Platì non cambia nulla!».

INSIEME SI PUÒ

A scuotere la Locride dal fatalismo è arrivato, 9 anni fa, il vescovo Giancarlo Bregantini, un trentino dalla tempra tenace e carismatica, visceralmente inculturato nei valori più nobili e forti dell’antichissima colonia della Magna Grecia.

«Appena entrato in diocesi – racconta padre Giancarlo, così si fa chiamare – ho capito che il dramma maggiore è la disoccupazione: un destino a cui i giovani sembravano condannati e che costituisce il pericolo maggiore per la Calabria; più ancora della mafia, perché è l’humus sul quale la mafia si alimenta».
Da qui è partita, nel 1995, l’idea di mettere in piedi un’impresa cornoperativa con alcuni coraggiosi. «Da piccolo facevo come tanti ragazzi trentini: portavo il latte al caseificio; la cooperazione per me è stata esperienza di vita» racconta il vescovo.

All’entusiasmo iniziale sono seguiti momenti di stanca. «Una cornoperativa non è solo un soggetto economico; è soprattutto un passaggio culturale, una crescita sociale che non si svolge naturalmente. Bisogna sedersi, studiare, capire, pensare, uscire, confrontarsi, guardare oltre l’Aspromonte» scrive padre Giancarlo nella lettera: «La terra e la gente, la speranza in cui credo». Il confronto è iniziato nel 1996: per una settimana alcuni giovani di Platì hanno visitato le cornoperative che fioriscono in Trentino; sono rimasti impressionati da quella di Sant’Orsola, in Val dei Mòcheni, da dove, fino a 20 anni fa, la gente migrava per sfuggire a una vita di stenti e povertà, come avviene ancora oggi in Calabria. Nella mente dei ragazzi una convinzione è penetrata come un chiodo: «Se qui era così, vuol dire che anche a Platì si può cambiare».
«Cambiare si può» è diventato lo slogan di Platì. «Ma per volare occorrono le ali» continua padre Giancarlo. Le hanno foite due tecnici della Sant’Orsola, che si sono recati nella Locride, ne hanno studiato clima e terreno, foendo vari suggerimenti: «Avete terra, acqua e sole: perché non producete i lamponi a natale? Sì, durante l’inverno. Noi penseremo a inserire i vostri prodotti nella nostra catena commerciale». Sembrava una presa in giro. Ma, dati alla mano, la cosa parve possibile: a Platì i lamponi non vengono ad agosto, ma a dicembre, quando il Trentino è sotto il gelo. «Adottammo un secondo slogan, rubato a don Gelmini, ma che calza a pennello al nostro cammino di solidarietà: Solo tu puoi farcela; ma non puoi farcela da solo» continua la lettera del vescovo, sottolineando i legami di collaborazione tra trentini e calabresi.

Iniziata con 2 mila metri quadri di terreno, dopo cinque anni la cornoperativa «Valle del Bonamico» ne contava 200 mila; ad essa fanno capo 15 aziende, che danno lavoro a oltre 200 persone, soprattutto donne in difficoltà, come vedove e mogli di detenuti, e producono mille quintali di lamponi. Questi vengono immessi nel circuito della cornoperativa trentina, per finire sulle tavole dei tedeschi. E a prezzi altissimi, senza alcuna concorrenza, perché Platì è l’unico posto in tutta l’Europa in cui tali frutti maturano d’inverno.

Intanto la cornoperativa cresce: altri contadini chiedono di entrarvi; migliaia di lamponi, piantati in agosto, daranno frutti già a dicembre; la produzione si diversifica, estendendosi all’ortocultura biologica. In alcune zone sono stati piantati i ciliegi e sotto le serre di Platì stanno maturando una ventina di varietà di fragole, per studiare il tipo e le caratteristiche giuste per una nuova produzione.

LAMPONI… ANTIMAFIA

Al di là del significato economico, afferma padre Giancarlo, con la cornoperativa «sparisce il perbenismo e inizia a sgretolarsi l’invidia che, come annotava il grande scrittore calabrese Corrado Alvaro, “è il peccato mortale dei poveri”; si sono affrontati e superati tantissimi ostacoli, come la chiusura culturale e la diffidenza nell’uscire. Non è stato facile inviare al nord ragazze e spose, per apprendere il modo giusto di raccogliere i frutti…

La malavita finora ha osservato da lontano, ma potrebbe sempre infiltrarsi sottilmente. Queste e le mille difficoltà che ogni cornoperativa deve affrontare, ma che nella Locride si fanno cento volte più gravi, rendono quei frutti cento volte più saporiti».

«Il vescovo ci ha presi per mano e ci ha condotti fin qui – afferma Pasquale, uno dei primi protagonisti della cornoperativa -. Ci ha aiutati, lui così concreto, anche a minimizzare certi fatti, come quelli del giugno 2001, quando sono arrivate le minacce e poi la distruzione di 2 mila piante di lamponi, subito sostituite con quelle di pomidori. Forse alcuni balordi ben organizzati volevano che assumessimo determinati operai invece di altri». La Bonamico è diventata una scuola di maturazione sociale, dove s’impara il senso di solidarietà, reciprocità, partecipazione e responsabilità: ognuno deve dare il proprio contributo per migliorare le cose e la società. Insieme ai lamponi matura una nuova cultura, arma pacifica per combattere la mafia.
«La forza dello Spirito – conclude la lettera del vescovo – spinge sempre oltre; spinge a cambiare, distruggendo le barriere di una schiavitù culturale che obbedisce al “destino”. Nel vedere quelle serre, distese al sole d’inverno, ai piedi della suggestiva Pietra Cappa, nel misterioso Aspromonte, sento vera l’intuizione del papa: è la speranza a cambiare il mondo!».

Benedetto Bellesi