E da allora tutto cambiò

La guerra civile era iniziata nel 1991, ma la data che cambiò per sempre la vita
dei popoli della ex Jugoslavia è il 24 marzo 1999, giorno in cui cominciarono i bombardamenti della Nato.

Nelle lettere di questi bambini, costretti a lasciare villaggi, case ed affetti, c’è di tutto: paura e coraggio, poesia e realismo, ma soprattutto rifiuto assoluto della guerra. Parole di «bambini» che molti «grandi» dovrebbero leggere e ripetere ad alta voce.

Milan C`osic`,
Scuola media «D. Chiesa»
di Rovereto, classe II c:
«Ho visto una grande paura negli occhi della gente»

«Quella primavera del ’99 vivevo nel piccolo villaggio di Bioska. Il mio villaggio si trova vicino all’aeroporto militare di Ponikve. La mattina del 24 marzo, noi bambini andavamo a scuola allegri e per strada vedevamo i contadini che aravano i campi, preparando la terra per la semina. Nessuno immaginava cosa sarebbe accaduto.

Quella sera caddero le prime bombe della Nato. La sera prima avevano bombardato il nostro aeroporto. Prima si udivano le sirene e poi cominciava a tremare la terra per le detonazioni. La gente usciva dalle case e correva nei rifugi. Anche noi siamo andati nel rifugio. Ho visto una grande paura negli occhi della gente. Alcune donne piangevano. Anche la mia mamma piangeva. Io e il mio fratello più piccolo, sotto la coperta pregavamo Dio che gli americani smettessero di lanciare le bombe. Poi ci siamo addormentati.
Di mattina arrivavano delle notizie, sempre brutte: un ragazzo della mia scuola era stato ferito dalle schegge, anche una donna era stata ferita all’occhio dalle stesse schegge, una casa del villaggio era stata demolita, nel cortile di un’altra casa era caduta una bomba ma non era esplosa.

Una notte mio padre mi portò fuori dal rifugio. Mi fece vedere la nostra contraerea. Ho visto i nostri aerei, guidati dai nostri coraggiosi piloti, che cacciavano via gli aerei con le bombe. Da quella sera non ebbi più paura».

Nikola Kostic`,
Scuola «L. Negrelli»
di Rovereto, classe III d:
«Da quella sera
non ebbi più paura»

«Io avevo 10 anni e mio fratello 4. Mi ricordo quel giorno come fosse ieri. Giocavo a calcio con i miei compagni, quando abbiamo udito le sirene. Noi non sapevamo perché suonavano, ma abbiamo cominciato a correre verso casa. Quando siamo arrivati, la mamma non c’era. Era al lavoro. Allora io, il mio fratellino, mio zio e mia zia, andammo in cantina. Era tutto buio, perché non c’era energia elettrica. Si sentivano gli aerei sopra la testa e all’improvviso si udì un fragore, come di un tuono. In quel momento mi spaventai moltissimo.
All’inizio di giorno potevamo uscire a giocare, ma dopo cominciarono a bombardare anche nelle ore di luce e non potemmo più uscire. Alcuni bambini uscivano lo stesso, ma la mia mamma non ci lasciava, aveva troppa paura.

Il mio papà era in Italia, noi eravamo soli con la mamma: se ci fosse stato anche lui con noi, io avrei avuto meno paura. Adesso sono felice perché siamo qui in Italia tutti insieme. Vorrei che non si ripetesse mai più quello che abbiamo vissuto quando papà non era con noi».

Dajana Dupkarova,
Scuola media di Ala, classe II:
«La guerra è un gioco
pericoloso dei grandi»

«Io ho portato molti ricordi belli e felici dal mio paese e pochi brutti. Tra questi, l’avvenimento più brutto sono stati i bombardamenti della mia piccola Serbia. Quel periodo della mia vita fu pieno di momenti di paura, tristezza e dolore.

Mi ricordo il 24 marzo del 1999: a scuola, l’ultima ora, c’era ginnastica e la maestra ci portò nel cortile. I ragazzi giocavano a calcio e noi bambine incominciammo a parlare dei vicini bombardamenti in Serbia. Nel bel mezzo del nostro discorso, pieno di confidenze e preoccupazioni per quello che avevamo sentito dagli adulti, si udirono le sirene. Per un attimo pensammo che fosse un errore, ma le sirene aumentarono d’intensità.

«La guerra? Da noi? Le bombe? Cosa faccio adesso?», pensavo terrorizzata. I ragazzi smisero di giocare e ci radunammo intorno alla nostra maestra. Lei cercava di rassicurarci, dicendo che ci avrebbe accompagnato verso il cancello, perché dovevamo tutti andare a casa. Davanti alla scuola c’erano alcuni genitori. Noi di solito andavamo a scuola e tornavamo sempre da soli, anche i bambini piccoli, della prima elementare, ma quel giorno c’erano molti genitori davanti alla scuola, venuti a prendere i figli.

C’era anche mia mamma. Era terrorizzata, mi disse che era cominciata la guerra e che dovevamo andare nel rifugio. Il rifugio era una grande cantina piena di gente di tutte le età. I bebé e i bambini piccoli piangevano e i loro genitori cercavano invano di tranquillizzarli. Dopo circa un’ora, sentimmo nuovamente le sirene che ci avvisavano che il pericolo era passato. Quella prima sera, la mia città, Cacak, fu risparmiata.

Il giorno dopo, verso sera, di nuovo le sirene, il rifugio, la paura. Quella notte sentimmo un bornato che fece tremare la terra e frantumare i vetri delle finestre. Avevano colpito una fabbrica. I miei genitori ascoltavano sempre le notizie alla radio e alla Tv e mi dicevano che presto sarebbe finita. Io non vedevo l’ora. In quel periodo era il mio unico desiderio: non sentire più le sirene, non andare nel rifugio, non sentire le esplosioni che facevano raggelare il sangue dalla paura. Volevo andare liberamente a scuola (che era sospesa per la guerra), giocare con le mie amiche senza paura che ci interrompessero le sirene. Quando finalmente finì, dopo tre mesi circa, tutti eravamo felici.
La guerra è un gioco pericoloso dei grandi che hanno il potere, e che usano questo potere per togliere la gioia ai bambini di crescere nella libertà e nella pace. Nessun bambino al mondo dovrebbe provare quello che ho provato io in quei tre mesi mentre bombardavano il mio paese».

Dragan C`osic`,
Scuola elementare
di Noriglio, classe V:
«Ai signori delle bombe»

«Il 24 marzo 1999 era una giornata come tante altre: andai a scuola e durante l’ora di matematica imparai le sottrazioni; durante l’ora di serbo la maestra c’insegnò le nuove lettere; durante il grande intervallo giocai a pallone con i miei compagni. Toai a casa e non trovai né la mamma né il papà: erano andati dai nonni matei, che abitavano lontano da noi, a Smederevo. Dovevano restare da loro 10 giorni circa per aiutarli in qualche lavoro. Io e mio fratello eravamo rimasti a casa con i nonni patei. Quella sera bombardarono per la prima volta il mio paese e da allora tutto cambiò. La nostra casa si trovava vicino all’aeroporto, e la prima bomba cadde proprio là. Io ero confuso. Non sapevo cosa pensare, vidi un’enorme preoccupazione e paura negli occhi del nonno, anche se lui cercava di nascondere lo sguardo.

Il giorno dopo io e mio fratello andammo a scuola. Tutte le notizie erano sugli attacchi aerei e tutti i giorni si sentivano le sirene. Il loro suono assordante avvisava la gente di andare nei rifugi. Dopo un po’ di tempo, arrivava il rumore degli aerei che, come uno sciame di vespe, passavano sopra il nostro paese scaricando dall’alto le bombe.

Si udivano le esplosioni di giorno e di notte. Ma io in quei momenti non pensavo a noi. Pensavo alla mamma e al papà che erano lontani. Se avessi potuto almeno sentirli al telefono, ma le comunicazioni telefoniche erano interrotte. Io ero spaventato per loro. La paura che potesse succedere qualcosa a loro era più grande della paura delle bombe. Volevo che fossero accanto a me, che potessimo essere insieme, qualsiasi cosa accadesse. Alla fine i miei genitori riuscirono ad arrivare a casa. Non so come, perché non avevano voluto raccontarmelo. Provai un gran sollievo. I miei genitori erano con me e sapevo che mi avrebbero protetto.

Passavano i giorni, ma nessuno dei bambini usciva a giocare. Non andavamo a scuola e i contadini non lavoravano più nei campi. Non c’era neanche la Tv: mi spiegarono che l’avevano bombardata. Eravamo spesso senza luce e non sapevamo quanto sarebbe durato. Nel rifugio la mamma cercava di cantare o di raccontare storie allegre. Voleva distrarci, ma, quando tremava tutto per le esplosioni, il mio cuore cominciava a battere più forte. Di giorno la gente raccontava che cosa avevano visto e i loro racconti mi facevano impressione. Io so che i contadini del mio villaggio non avevano mai fatto del male ai signori che buttavano le bombe. Quelli venivano da lontano e io non capivo perché lo facevano.

Dopo più di due mesi una sirena annunciò che i bombardamenti erano finiti. Per la prima volta ero felice di sentire il suono della sirena. Finalmente potevo di nuovo correre all’aperto e giocare con i miei compagni. Anche se ero piccolo (avevo solo 7 anni), avevo capito quanto è importante essere liberi. Ho capito quanto ho bisogno dei miei genitori. Ho capito che cosa è veramente la paura. Vorrei che nessun bambino provasse quella paura. È difficile dimenticare. Ancora oggi, quando sento il rumore, di un aereo aspetto l’esplosione, ma passerà…

Un giorno non ci saranno più guerre e la gente vivrà insieme in pace, indipendentemente dal colore della pelle e dalla nazionalità. Allora il canto allegro dei bambini felici sarà l’inno di un mondo libero dalle guerre».

Ivana Vasiljevic,
18 anni, Rovereto:
«Ora gli aerei sono
nei cieli di altri paesi»

«Avevo 14 anni. Frequentavo l’ottava elementare (terza media). Tutti i giornali dicevano che la Nato minacciava di bombardare il nostro paese, ma nessuno ci credeva.
Quel martedì sera gli aerei sono partiti dall’Italia verso la Serbia. Siamo rimasti senza energia elettrica, tutta la mia città era nel buio. Abbiamo passato la notte in cantina, al buio, ascoltando dei rumori che arrivavano da fuori, con l’ansia che la bomba potesse cadere sopra la nostra casa. Ma le mete della Nato erano le fabbriche e i ponti.

Dopo alcune notti passate in cantina, la mia mamma ed io decidemmo di dormire in casa, nei nostri letti. Ci addormentammo. Ci svegliò un fortissimo scoppio, la mia camera fu illuminata come da un lampo. Sono saltata dal letto, e non sapendo dove andare, mi sono nascosta sotto il letto e ho cominciato a piangere. Arrivata la mattina sentii il telegiornale e vidi che quella notte era passata senza vittime, solo con la paura. Nelle altre città, invece, molti erano stati feriti dalle schegge.

All’inizio bombardavano solo di notte, e di giorno si poteva vivere quasi normalmente. Ma dopo bombardavano a tutte le ore, anche a Pasqua.
Quando tutto finì, provai un’immensa gioia, passeggiando la sera per le strade di Cacak con le mie amiche. Guardavamo il cielo sereno, i tramonti, le stelle, sapendo che non sarebbero più venuti gli aerei con le bombe.

Adesso quegli aerei si sono spostati sopra i cieli di altri paesi, e seminano lo stesso terrore e le stesse paure che avevo provato io, agli altri bambini. Perché?».

Ivana Tisot,
15 anni di Rovereto:
«Mamma, chi è che spara?»

«Io sono nata a Stivor, un piccolo paesino di trentini emigrati in Bosnia, vicino a Banja Luka, nel lontano 1888. Io, i miei genitori, e i miei nonni, matei e patei, siamo nati in Bosnia e amiamo quel paese.
Se non ci fosse stata la guerra, la nostra piccola comunità trentina sarebbe rimasta per sempre in Bosnia e adesso non sarei qui in Trentino.

Vivevo con i miei genitori, con le mie sorelle più grandi e i miei nonni in una fattoria, e avevamo molti animali, che mi rendevano felice; tutti tranne i tacchini di cui avevo una folle paura, perché mi correvano dietro. Ma una notte d’estate sentii una paura più grande di quella dei tacchini: io e la mia mamma eravamo nell’aia buia, rischiarata di tanto in tanto da moltissimi lampi che cadevano tutt’intorno alla valle illuminando il cielo tetro. La campana della chiesa suonava senza sosta. Insieme a noi c’erano la nonna, le mie sorelle e una zia.

Ricordo che parlavano, commentavano tra loro, e io non capivo cosa si dicevano, ma sentivo che erano spaventate. Allora mi spaventai anch’io e cominciai a piangere. La mamma cercò di calmarmi e io mi addormentai fra le sue braccia. Dopo un po’ mi svegliarono i frequenti spari che si udivano dal bosco.
«Mamma, chi è che spara?», le chiesi e lei mi guardò con occhi pieni d’apprensione. «Ci sono i cacciatori nel bosco», mi disse.

Sentivo che qualcosa stava cambiando: vendemmo le mucche e un po’ alla volta scomparirono anche gli animali. Anche il cane e la gatta scapparono. Il papà non c’era, era andato in Italia (adesso so che era andato lì per evitare di essere richiamato e mandato in guerra).

Un giorno, mia madre, le mie sorelle ed io dovevamo prendere una corriera, che doveva portarci in Italia, da papà. I nonni decisero di rimanere. Avevamo molta fretta e io dimenticai il mio orsacchiotto a casa. Me ne accorsi, mentre la corriera stava arrivando; cominciai a piangere così disperatamente, che la mamma decise di tornare a prendere il mio orsacchiotto, rischiando di perdere la corriera.

Il pullman era pieno di donne e bambini. Il viaggio fu lungo e scomodo, ma finalmente arrivammo in Italia.
Io cominciai a frequentare l’asilo, ma non subito potei giocare con gli altri bambini, perché non sapevo l’italiano: io capivo un dialetto che nel Trentino non si parlava più, e il serbo. All’inizio rimanevo in disparte. Imparai l’italiano velocemente e presto cominciai a correggere i miei genitori nel parlare.

Adesso, dopo 11 anni che sono in Italia, ho dimenticato quasi completamente la mia vecchia lingua e sono diventata una vera trentina, anche se continuo ad amare la mia vecchia patria. In Bosnia ho ancora una nonna e alcuni zii. La maggior parte dei miei parenti sono in Italia, a Strigno. Io vado tutte le estati a trovare mia nonna e i pochi parenti rimasti a Stivor, ma non toerò mai più a viverci. La vita di molti trentini è continuata là dove si era fermata nel 1888».

Snezana Petrovic