Il papa e la «piccola guerra» in Iraq

Spettabile redazione,
spero di ricordarmi ancora
il vostro indirizzo. Non
mi sono più abbonato a
Missioni Consolata, per il
vostro antiamericanismo.
Ora mi vedrei più che mai
in dissenso; DISSENSO anche
verso il papa, che paventa
una piccola guerra
in Iraq, ma si dimentica
dei milioni di cattolici
massacrati nel sud Sudan.
Tuttavia il mio dissenso
non vuole colpire i missionari.
Ho ricevuto oggi una
gradita lettera dall’Etiopia;
desidero contraccambiarla
accludendo alla presente
un’offerta per i missionari
di quella regione.

La guerra in Iraq costa
226 euro a ciascuno degli
oltre 6 miliardi di abitanti
del nostro pianeta,
senza contare il valore inestimabile
delle vite annientate.
Davvero una
«piccola guerra»?
Il papa, poi, è uno dei
pochissimi che condanna
tutte le guerre.

dr. Renzo Mattei




PASTICCIO GROSSO A L’AVANA

Sono passati solo 5 anni, ma sembrano anni luce:
come regalo a Giovanni Paolo II per la sua
visita a Cuba (gennaio 1998) Fidel Castro
svuotò le carceri dei prigionieri politici. All’improvviso,
si sono ripopolate.
Nel 2002 l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, in visita a Cuba, proclamò davanti all’Assemblea
e alla televisione che l’isola era strangolata
da 40 anni di ingiuste sanzioni, dal partito unico e
mancanza di libertà. Il lider maximo non si offese,
ma abbracciò l’ospite come se fosse il compagno Che
Guevara.
Un mese dopo, fu emendata la Costituzione: «Il sistema
socialista è irrevocabile».
Il 19 marzo scorso, mentre il primo missile americano
cadeva su Baghdad, la polizia segreta cubana cominciò
ad arrestare 80 dissidenti: giornalisti, intellettuali,
professori universitari, leaders di movimenti
di opposizione e di difesa dei diritti umani. Molti
di essi avevano appoggiato il «progetto Varela»: una
raccolta di firme per chiedere libertà di associazione,
parola, stampa, impresa ed elezioni multipartitiche.
Il Parlamento rigettò la petizione per vizio di forma;
molti promotori vennero imprigionati, processati a
porte chiuse e condannati a pene detentive oscillanti
tra i 15 e 27 anni; con l’accusa più banale: «Attentato
alla sovranità nazionale». Ossia, aver scritto e
detto cose contrarie al regime castrista.
Il 13 aprile furono fucilati tre giovani sprovveduti,
con l’accusa di «terrorismo»: avevano sequestrato un
traghetto e costretto l’equipaggio a fare rotta verso gli
Stati Uniti.
«Un balzo da gigante a ritroso – denuncia Amnesty
Inteational -. La pena capitale era congelata da tre
anni; processi sommari di massa non se ne vedevano
da 20».
Perché la sterzata del regime è avvenuta in concomitanza
con la discussione all’Onu sulla situazione
dei diritti umani a Cuba e la presentazione
all’Unione Europea della sua candidatura alla
convenzione di Cotonou (cooperazione tra EU a
78 paesi dell’Africa, Caraibi
e Pacifico)?
«È la sindrome dell’assedio
– spiegano i politologi -;
paura che Cuba diventi il
prossimo Iraq, con un’operazione
per un «cambio di regime» sullo stile di quella
che, nel 1989-90, rovesciò il dittatore panamense».
Le minacce non sono affatto velate. Dalla Florida, i
fuoriusciti cubani continuano negli attentati contro
l’economia e turismo dell’isola. L’incaricato degli affari
statunitensi a Cuba, James Cason, ha trasformato
il suo ufficio in un covo di dissidenti, spesso comprati
con regali vari, nell’intento dichiarato di scardinare
l’ordine costituito.
Anziché espellere l’incaricato come «persona non grata», Castro si è accanito contro gli oppositori che con
Cason non hanno nulla da spartire.
A chi giova questa strategia della tensione tra il dittatore
e l’impero americano? Non certo al popolo
cubano. Anzi, la reazione disperata del regime fa il
gioco dei falchi di Washington, che già accusano l’isola
di essere uno «stato terrorista e di preparare armi
di distruzione di massa».
Sarebbe ora che ognuno facesse un passo indietro.
È incomprensibile come il governo Usa,
mentre dialoga con Cina e Corea del Nord, continui
a considerare Cuba un pericolo per la sicurezza
americana. Ancora più incomprensibile è come si possa
punire un popolo con un embargo che dura da oltre
40 anni e condannato dall’Onu come «immorale» per 10 volte consecutive.
A 76 anni di età e 44 di dittatura, dopo aver tenuto
testa a 10 presidenti statunitensi, anche per Fidel è
giunta l’ora di pensare al «dopo Castro», mettendo
nel cassetto l’ideologia e cominciando a dialogare con
il suo popolo e a rispondere alle sue aspettative.
È pure il tema del messaggio che il papa, il 13 aprile
scorso, ha inviato al lider maximo. Oltre a esprimere
il suo «profondo dolore» per le pesanti pene e le
esecuzioni contro i cittadini cubani, il pontefice dice
al dittatore: «Sono certo che anche lei condivide con
me la convinzione che soltanto il confronto sincero e
costruttivo tra cittadini e autorità civili può garantire
la promozione di uno stato moderno e democratico,
in una Cuba sempre più unita e fratea».
È pure la convinzione nostra e del popolo cubano, che
attende una «nuova primavera
», da fare sbocciare pacificamente
e non imposta
da stranieri.

BENEDETTO BELLESI