vita da rifugiati AFGHANI IN IRAN

E ORA A KABUL, COSTI QUEL CHE COSTI!

Sono 37 milioni i rifugiati nel mondo: per calamità naturali,
per conflitti armati…
E se le prime sono ineluttabili (non sempre),
i secondi denunciano l’uomo. Che però sembra non voler capire…
L’Iran ospita 2 milioni e 360 mila profughi dell’Afghanistan.
Da qualche tempo è iniziato il rimpatrio. Ma…

Qual è la situazione dei rifugiati
afghani in Iran? È certamente
migliore di quella
dei loro conterranei fuggiti in Pakistan.
Però sono soltanto alcune decine
di migliaia gli afghani che vivono nei
27 campi profughi dell’Iran, «insolitamente
decorosi e bene organizzati,
tra i migliori al mondo», come
li ha definiti Laura O’Mahony, una
delle responsabili dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i
rifugiati a Teheran. Gli altri afghani
(la maggioranza) si sono insediati un
po’ ovunque: si trovano in quasi tutti
i grandi centri.
Alcuni, soprattutto quelli arrivati
da vecchia data, hanno anche impiantato
una propria attività. C’è
chi ha moglie o marito iraniani.
Lo ammettono essi stessi: a loro è
andata meglio che ad altri. Ma non
è stato facile. Per un profugo non lo
è mai.

UNA LUNGA ODISSEA
Gli afghani sono incominciati ad
arrivare in Iran circa 30 anni fa, ai
tempi della cacciata del loro re Zahir.
Da allora non hanno mai smesso di
attraversare la frontiera. Durante
l’invasione sovietica dell’Afghanistan
(1979-89), il loro numero arrivò
a 6 milioni. Molti sono tornati quando
i russi hanno abbandonato il paese.
Poi è incominciata la guerra civile,
poi sono arrivati i talebani, poi
questi sono stati cacciati, poi…
Secondo l’ultimo censimento, gli
afghani in Iran sono 2 milioni e 360
mila. Ma pochi hanno lo status di rifugiati;
un discreto numero possiede
la «carta blu» (corrisponde al permesso
di soggiorno); i più hanno solo
un numero di registrazione; però
si calcola che ci siano ancora 200 mila
profughi che non hanno risposto
all’appello e che, quindi, rimangono
fuori dei conti.
«L’Iran è stato generoso nei loro
confronti – ha confermato la signo-

ra O’Mahony -. Ha garantito istruzione
ai loro figli, assistenza medica
a tutti, sussidi per i più vulnerabili».
Bisogna, però, aggiungere che questo
vale per chi ha la carta blu; per
gli altri le cose sono più difficili. Ad
esempio: non possono mandare i figli
nelle scuole iraniane. Per tali ragazzi
gli stessi afghani hanno organizzato
scuole proprie, con l’aiuto
dei membri più danarosi della comunità.
Rimane per tutti il grosso scoglio
del lavoro. Se lo è per i profughi in
occidente (economicamente forte),
a maggior ragione lo è in Iran, dove
l’indice di disoccupazione è molto
alto. Perfino chi è in possesso di regolari
documenti può svolgere legalmente
solo lavori manuali. L’afghano
viene per lo più impiegato come
spazzino, giardiniere, manovale.
Il settore delle costruzioni si avvale
molto di lui, perché è un bravo lavoratore,
tenace e affidabile.

COMPLICE LA DIFFIDENZA
In Iran (con non pochi problemi
socio-economici) la presenza di numerosi
profughi suscita malcontento.
Negli ultimi anni le autorità
locali, pressate anche dall’opinione
pubblica, hanno tentato di rimandare
a casa qualcuno.
Un articolo del piano quinquennale
di sviluppo, approvato nel 2000,
prevedeva l’espulsione dal paese dei
lavoratori illegali: leggasi «afghani».
Ma poco è stato fatto per garantie
l’applicazione. Qualcuno è stato accompagnato
alla frontiera, ma non si
è andati molto più in là.
Va ricordato che, negli ultimi anni,
l’Iran ha dovuto fronteggiare il
problema dei profughi quasi completamente
da solo. La diffidenza
che nutre verso l’occidente (ampiamente
ricambiata) ha reso difficoltosa
la presenza delle organizzazioni
inteazionali: quindi anche l’arrivo
di aiuti.
Ora però, con la caduta del regime
dei talebani in Afghanistan e l’insediamento
di un governo riconosciuto
dalla comunità internazionale,
le autorità iraniane ritengono non
esserci più i presupposti perché gli
afghani rimangano nel loro paese.
Il 4 aprile 2002 l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati,
il governo iraniano e l’autorità
afghana hanno sottoscritto un programma,
per favorire il rimpatrio
volontario dei profughi. Un analogo
programma, sempre promosso e
finanziato dall’Onu, prevedeva altrettanti
rientri dal Pakistan e dalle
repubbliche centroasiatiche. In totale,
1 milione e 200 mila persone.
Però la realtà ha di gran lunga superato
le aspettative. A fine agosto
2002 erano già 1 milione e 600 mila
i rientrati, di cui oltre 1 milione dal
Pakistan e 200 mila dall’Iran. La diversità
delle cifre può dare un’idea
delle diverse condizioni in cui i profughi
vivono nei due paesi.

AD UN CENTRO PROFUGHI
Ho visitato uno dei 10 centri aperti
in Iran per consentire il rimpatrio
dei profughi. È il «Suleiman
Khani», nei sobborghi di Teheran,
che registra il maggiore concentramento
di persone, perché nella capitale
e provincia abita un terzo degli
afghani residenti nel paese.
Le modalità per il rimpatrio sono
semplici. Chi desidera partire si presenta
al centro con i documenti; ognuno
(compresi i bambini di pochi
mesi) viene fotografato e riceve il foglio
di via.
Terminata questa prima fase a cura
delle autorità iraniane, i profughi
vengono ricevuti dagli operatori dell’Alto
Commissariato delle Nazioni
Unite, i quali li intervistano per stabilire
la volontarietà del rimpatrio,
la località in cui intendono rientrare,
le condizioni in cui presumibilmente
si verranno a trovare: se hanno
casa, se possiedono terra. Compito
degli operatori è anche fornire
informazioni sui pericoli in cui i profughi
possono incorrere durante il
viaggio in territorio afghano.
L’Onu, infatti, provvede alle loro
necessità e sicurezza solo fino a
Herat. Poi ognuno prosegue per
conto proprio, dopo aver ricevuto
un po’ di denaro per il viaggio e generi
alimentari sufficienti per i primi
giorni.
Le persone anziane e quelle non
in buone condizioni di salute devono
sottoporsi ad una visita medica,
per stabilire se sono in grado di affrontare
il viaggio o per ricevere le
cure di cui hanno bisogno.
A conclusione delle procedure, i
profughi ricevono il biglietto per il
convoglio, che parte il giorno successivo.
Ogni convoglio è formato
da un numero di pullman, variabile
secondo i viaggiatori previsti per
quel giorno, e da un numero doppio
di camion per il trasporto dei
bagagli. Gli afghani possono portare
via tutti i loro beni, senza alcun
limite: suppellettili, oggetti personali,
denaro.
Dal centro «Suleiman Khani» ogni
giorno parte un convoglio alla
volta di Mashad e della frontiera. La
mattina del mio arrivo si stava avviando
il centesimo viaggio di ritorno
a casa: 425 profughi su 12 pullman.
Era un numero modesto, se si
pensa che nei giorni precedenti le
persone erano state da 800 a 1.000.
I dati mostrano che il numero dei
rientri è in rapida crescita.

E DOVE VIVRETE?
Dopo la partenza dei pullman, al
centro «Suleiman Khani» rimasero
ancora tante persone: erano quelle
che sarebbero partite il giorno successivo
o che dovevano ultimare le
formalità richieste: chi era in attesa
di fare la fotografia, chi di essere intervistato.
Un folto gruppo, soprattutto
donne e bambini, faceva la fila
davanti all’infermeria.
Che speranza ha questa gente?
Me lo sono chiesta girando per l’ampio
spazio del centro. Vedevo le facce
tirate degli adulti; solo i bambini
piccoli avevano voglia di fare chiasso,
di giocare; i padri, le madri e i fratelli
più grandi rimanevano seri. Avrei
voluto attaccare discorso. Ma
come?
Notando che la mia macchina fotografica
appesa al collo suscitava una
certa curiosità, ne ho approfittato:
ho puntato l’obiettivo su alcune
fanciulle e le ho viste sorridere. Poi
sono accorsi dei ragazzini a mettersi
in posa, come pure qualche altro
membro della famiglia.
Il ghiaccio era rotto.
– Dove andate?
– A Kabul.
– Avete una casa là?
– No.
– Avete parenti che vi possono ospitare?
– No.
– Allora dove vivrete?
– In tenda, da principio. Poi ci costruiremo
una casa.
– È molto duro però… (non ho trovato
di meglio per commentare).
Non pensate che sia pericoloso?
– No, adesso non c’è pericolo…
Le altre persone con cui ho parlato
mi hanno detto pressappoco le
stesse cose. Tutti andavano a Kabul;
qualcuno non aveva la casa, però aveva
dei parenti; qualcuno aveva la
casa, ma non sapeva se fosse ancora
in piedi. Dagli occhi di tutti traspariva
affanno, ma nelle parole risuonava
la determinazione di ritornare
a casa, più forte di tutto. Con la speranza
di farcela.
Come non capire il desiderio di ritrovare
la propria gente e la propria
terra? Li ho ascoltati in silenzio, ma
in cuor mio non sono riuscita a condividere
il loro disperato ottimismo.

TANTO DENARO,
MA NON PER LORO

Durante la nostra conversazione,
Laura O’Mahony è stata molto cauta
nel valutare le reali possibilità che
i profughi hanno di rientrare in Afghanistan.
«Noi tentiamo di facilitare il rimpatrio,
ma non lo incoraggiamo; non
si può parlare di rimpatrio, se non si
pensa contemporaneamente a ricostruire
le infrastrutture. Lo sanno gli
stessi afghani; è per questo che molti
rimangono qui. Se uno ha dei figli,
come fa a ritornare in un paese senza
scuole? La maggioranza non ha
più la casa, essendo stata distrutta o
danneggiata dai bombardamenti anglo-
americani, in seguito all’11 settembre
2001; oppure non ha più la
terra, perché occupata da altri o, addirittura,
venduta a terzi.
Inoltre, se è vero che alcune regioni
dell’Afghanistan sono abbastanza
sicure, altre rimangono pericolose…
Perché a ritornare sono più
numerosi i tagiki rispetto agli hazara?
Perché il territorio degli hazara
ha subìto maggiori devastazioni e
non offre nessuna sicurezza».
Il vero problema non è far partire
la gente, ma assicurarle una condizione
dignitosa al rientro. Muoversi
in Iran è facile; ma in Afghanistan
cornordinare gli interventi è molto difficile
per le condizioni in cui si è costretti
a lavorare. Anche la cosa più
semplice necessita di un enorme dispendio
d’energia e di un lungo lavoro
preparatorio.
E poi mancano i soldi.
«All’Afghanistan sono state fatte
molte promesse, ma di soldi ne sono
giunti ben pochi – ha constatato
con amarezza la signora O’Mahony
-. In Kosovo, all’indomani dell’intervento
della Nato, è arrivato un
fiume di denaro, però in Afghanistan…
Perfino i fondi stanziati per il
programma di rimpatrio sono insufficienti,
a causa dell’alto numero
di rientri. Per starci dentro, abbiamo
dovuto ridurre gli aiuti in cibo e
coperte che diamo ad ogni profugo.
D’altra parte, noi ci basiamo esclusivamente
su contributi volontari.
A proposito: forse le interesserà
sapere che l’Italia è una delle nazioni
che maggiormente contribuisce
alla nostra opera qui…».
Il fatto mi interessava, tanto che
sono andata alla nostra ambasciata
a Teheran per sapee di più. Ho,
così, appreso che l’Italia è da tempo
impegnata in favore dei rifugiati
afghani in Iran: oltre a sostenere i
programmi delle Nazioni Unite, il
nostro paese partecipa con cospicui
contributi alla costruzione di scuole
e finanzia interventi per migliorare
le condizioni di vita nei campi
profughi. Una volta tanto,
ci si può augurare di
continuare così.

Biancamaria Balestra

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