Chiese… calpestate

Secondo una tradizione fu l’apostolo Tommaso, negli anni
42-49, a evangelizzare i parti, medi, ircani, battriani,
margiani: tutti popoli dell’antica Persia, molto più estesa
dell’attuale Iran. Altre tradizioni attribuiscono la prima evangelizzazione
in Iran agli apostoli Bartolomeo e Taddeo.
È lecito supporre che a portare tra quei popoli i primi semi
del vangelo siano stati gli ebrei della diaspora: «Parti,
medi, elamiti e abitanti della Mesopotamia» (Atti 2,9), che
il giorno di pentecoste, a Gerusalemme, ascoltarono il primo
discorso di Pietro.
È certo che, tra il I e IV secolo, comunità cristiane e monasteri
si svilupparono a oriente dei confini dell’impero romano.
Prima del 313, il cristianesimo era già religione di
stato nei regni di Edessa e Armenia, evangelizzata nel II secolo
da Gregorio l’Illuminatore. A Urmia, Salamas (Khosrova),
Tabriz, Julfa… si svilupparono fiorenti comunità armene,
come testimoniano ancora oggi antiche chiese e monasteri.
Ne è un esempio Santa Maria a Urmia.
All’inizio i cristiani poterono espandersi e vivere in pace
sotto la dinastia sasanide (224-636). Ma quando re Sapòre
II (310-379) entrò in guerra con gli imperatori Costantino
e Costanzo, i cristiani furono considerati nemici della
Persia: le cronache parlano di 16 mila martiri.
Quando la dottrina di Nestorio sulla duplice personalità
di Cristo fu condannata dal concilio di Efeso (431),
molti suoi seguaci si rifugiarono in Persia e, nel terzo sinodo
di Seleucia (486) i vescovi proclamarono la «Chiesa
assira d’oriente», con patriarca proprio (catholicos), senza
mai rinnegare la sua comunione con Roma e la chiesa
universale.
Legate allo stato, isolate dal resto della cristianità, fuori
dai movimenti teologici e decisioni dei concili, la chiesa
armena rimase monofisita, quella di Edessa nestoriana; entrambe
diventarono quasi indipendenti, senza mai rinnegare
il legame con la sede di Pietro.
Nei secoli VIII e IX la chiesa assira ebbe grande vitalità ed
espansione, fino a contare 20 diocesi, 200 monasteri e 80
milioni di fedeli: i suoi missionari si spinsero in Cina, Mongolia,
Manchuria, Giappone. Con l’invasione islamica incominciò
la decadenza, peggiorata sotto il dominio dei mongoli.
Nel XIV secolo la loro vita cristiana era praticamente
concentrata nei monasteri.
Tale declino fu dovuto anche a fatti interni: nel 1450 il
catholicos Simon IV Denkha (1437-1497) stabilì che la carica
di patriarca fosse ereditaria: la chiesa era dominata da
un’unica famiglia, fino a eleggere minori poco istruiti. Alla
morte di Simon VII (1551), alcuni vescovi nestoriani rifiutarono
la successione del nipote e scelsero Giovanni Sulaka.
I francescani, che dal XIII secolo erano arrivati in Persia,
insieme ai domenicani, per riportare i cristiani alla comunione
con Roma, oltre che per convertire musulmani e mongoli,
suggerirono a Sulaka di chiedere la conferma del papa.
Nel 1553 Giulio III lo consacrò vescovo in San Pietro e
lo nominò patriarca di tutti i nestoriani che si sarebbero uniti
alla chiesa di Roma: nasceva la «chiesa caldea».
Sulaka si stabilì a Dyarbekir in Turchia; ma due anni dopo
fu imprigionato, torturato e giustiziato. Per oltre 200
anni vi furono tensioni fra comunità favorevoli o contrarie
a riconoscere l’unione con Roma. La situazione si stabilizzò
nel 1830, quando Pio VIII confermò il metropolita Giovanni
Hormizdas come capo di tutti i cattolici caldei, con il titolo
di «Patriarca di Babilonia dei caldei», con sede a Mossul,
nel nord dell’Iraq, poi trasferita a Baghdad (1950).
Nel secolo XVI salì al trono persiano una dinastia veramente
iranica: i safavidi, che riportò il regno all’antico
splendore. Lo scià Abbas (1588-1629) chiese aiuto al papa
e ai paesi d’occidente contro i turchi, in cambio aprì le
porte del regno ai missionari cristiani.
In pochi decenni gli agostiniani portoghesi, carmelitani,
gesuiti e cappuccini francesi si stabilirono nella capitale
Isfahan, Shiraz e altre città importanti, costruirono
scuole e chiese, promossero lo sviluppo del paese e riportarono
varie comunità armene e assire nell’alveo romano.
Fu il periodo d’oro delle missioni cattoliche. Lo stesso
scià partecipò a varie funzioni religiose di cattolici e armeni,
dicendo di essere cristiano nel cuore. Nel 1621 organizzò
pubbliche discussioni su argomenti religiosi tra cattolici,
anglicani e musulmani: un periodo di dialogo che la
Persia non sperimentò mai più.
Ma poiché nella lotta contro i turchi dall’occidente arrivarono
solo promesse, allo scià saltarono i nervi; a pagare
il conto fu l’agostiniano De Melo: inviato come ambasciatore
in Europa e Russia, accusato dai compagni di delegazione
come spia, nel 1614 fu arso vivo ad Astrakan.
Più sfortunati furono i cristiani armeni. Per fiaccare la
potenza turca, nel 1604 Abbas I distrusse le città di Erevan,
Julfa e Nakhchivan, ne deportò gli abitanti e li ricollocò
a Nuova Julfa, una città vicino a Isfahan. Ammirato
delle loro capacità industriali e commerciali, il re usò gli armeni
per avviare le industrie tessili, in concorrenza con
quelle turche.
Per avere più collaborazione degli armeni, lo scià finanziò
la costruzione di 13 chiese, ma non esitò a tartassarli.
Ogni volta che aveva bisogno di soldi, inventava una persecuzione
e il gioco era fatto: la borsa o la fede, cioè pagare
o diventare musulmani. Stesso trattamento era riservato
a caldei e assiri.
Nel 1708 la Persia firmò un trattato di amicizia con la
Francia e toò la pace, ma per poco. I turchi invasero l’Armenia, depredarono la popolazione e cominciarono lo sterminio;
ragazzi e ragazze andarono ad aumentare gli harem
dei padroni. Poi gli afghani occuparono il resto del paese.
I missionari dovettero fuggire e le missioni cattoliche andarono
in rovina: nel 1789 la capitale contava 7 cattolici;
chi non riuscì a scappare venne ucciso.
Così finivano 200 anni intessuti di sacrifici e umiliazioni,
persecuzioni e coraggio, illusione e speranza, fede e carità.
Nel 1808 Napoleone rinnovò il trattato di amicizia con
la Persia. I missionari lazzaristi poterono aprire missioni
a Khosrova; vi costruirono la cattedrale di San Givargis,
orgoglio dei cattolici; quindi un seminario. Tra i primi
11 preti c’era Paolo Bedjan, diventato famoso per gli studi
sulla lingua e letteratura siriaca: pubblicò 36 volumi, che
distribuì gratuitamente alle comunità caldee.
Da un viaggio in Francia, padre Bedjan toò con un harmonium:
la gente ne fu impressionata, perché «cantava con
la bocca, con le mani e con i piedi».
Dal XIX secolo missionari cattolici e protestanti tornarono
tra le comunità assire e caldee con scuole e assistenza
medica, elevandone cultura e condizioni di vita e promuovendone
l’identità linguistica e religiosa.
Anche le comunità armene poterono riappropriarsi della
loro identità, con scuole, giornali, stazioni radio, finché
scoppiò la prima guerra mondiale.
A cominciare dal 1914, i cristiani di Urmia e Salamas furono
oggetto di barbarità da parte di turchi e kurdi: chiese
e conventi saccheggiati; decine di migliaia di caldei e
armeni in fuga verso il Caucaso, decimati da fame e freddo.
Inutili furono i tentativi di resistenza degli armeni, di
cattolici e non-cattolici, comandati da Agha Petros Ellof, e
dei nestoriani, guidati dal patriarca Mar Shimun. Mentre
nelle città si consumava il genocidio, i cristiani della campagna,
60-80 mila, fuggirono verso il sud.
Nei decenni seguenti i cristiani furono più tollerati. Delegazioni
della Santa Sede e dello scià avevano appena
concordato alcuni punti di convivenza e dialogo tra islam e
cristiani, quando la rivoluzione di Khomeini (1978) azzerò
tutto. Anzi, le 14 scuole cattoliche, orgoglio della nazione,
furono chiuse; preti e suore espulsi e i dispensari confiscati.
Discriminati per motivi religiosi ed etnici, i cristiani furono
cacciati dall’amministrazione e insegnamento, esclusi
da attività commerciali e sottoposti a restrizioni d’ogni genere.
La fuga dall’oppressione islamica ha costretto i cristiani
a emigrare: in pochi anni sono passati da 320 mila a 120
mila (12 mila cattolici), riducendo la loro presenza allo
0,1% della popolazione iraniana.
Oggi la chiesa cattolica in Iran è organizzata in 3 riti (caldeo,
armeno e latino) e 5 diocesi, tre territoriali per i caldei
(Teheran, Urmia, Ahwaz) e due personali, per armenocattolici
e latini.
L’assassinio di alcuni leaders religiosi ha fatto temere una
nuova persecuzione. Con l’avvento al potere del presidente
Khatami, la situazione sembra migliorata, ma rimane ancora
molto buia.

Benedetto Bellesi




IRAN: paese in evoluzione

RIFORMISMO AL CONTAGOCCE
Dopo 20 anni
di regime islamico,
l’Iran sta cambiando,
la gente
più velocemente
delle istituzioni.
I giovani, soprattutto,
vogliono più libertà.

Può sembrare strano: tra i principali
fautori delle riforme in
Iran, oggi, ci sono alcuni degli
ex-studenti che nel novembre 1979
assalirono l’ambasciata americana a
Teheran e la tennero in ostaggio per
444 giorni. Facciamo qualche nome.
Massumeh Ebtekar: interprete e
portavoce degli studenti, è stata vice
presidente per l’ambiente nel primo
governo del riformista Khatami e
prima donna a ricoprire una carica
politica tanto prestigiosa.
Ibrahim Asgharzadeh: con la rivoluzione
ha iniziato la sua carriera
politica: è stato eletto in parlamento;
poi ha perso il posto per avere criticato
il dispotismo dei religiosi.
Abbas Abdi: guidò l’assalto all’ambasciata;
scontò otto mesi d’isolamento
nel 1993 per avere criticato
il regime. Noto editorialista del quotidiano
Salaam, chiuso nel 1999 perché
troppo liberale, oggi è uno degli
strateghi dei riformisti. Sostiene la
necessità di un avvicinamento con
l’Occidente.
Akbar Ganji: diventato giornalista,
ha avuto il coraggio, durante un
processo che lo vedeva imputato per
aver preso parte a un convegno sull’Iran
a Berlino, di denunciare i mandanti
di una serie d’assassini di stato
commessi negli anni ’90.
Mohsen Mirdamadi: diventato
professore di scienze politiche, è uno
dei fondatori del partito riformista.

ERRORE DI GIOVENTÙ
Tale trasformazione può sembrare
strana, ma forse non lo è. È, piuttosto,
il segno di un fallimento e di una
nuova consapevolezza. Abbas Abdi
lo ammette apertamente: la rivoluzione
è stato un errore di gioventù.
Quei ragazzi non sono passati illesi
attraverso i 20 anni di regime islamico;
sono cambiati e sono giunti alla
conclusione che il loro clamoroso
gesto di un tempo non ha dato i risultati
che si aspettavano. È un’esperienza
comune a molti ex-rivoluzionari.
Coloro che mal tolleravano
il dispotismo dello scià hanno finito
per trovarsi a disagio anche col nuovo
ordinamento e subire analoghi
trattamenti, se tentavano di dare voce
al proprio dissenso. A molti è capitato
di sperimentare, dopo le prigioni
dello scià, quelle non meno dure
della Repubblica islamica.
Comunque lo si giudichi, questo
fatto la dice lunga sull’Iran d’oggi,
che, nel nostro immaginario collettivo,
continuiamo ad associare agli eccessi
del primo periodo rivoluzionario,
processi sommari, roghi di libri
nelle strade, folle fanatiche.
Sebbene il rituale di bruciare la
bandiera americana e gridare «morte
agli Usa» sia tuttora praticato, a tenere
viva questa triste tradizione è
una parte fortemente minoritaria della
popolazione: sono gli integralisti,
le fanatiche «guardie della rivoluzione
». La gente normale non prova odio
per l’America. Semmai indifferenza.
Non fosse altro perché moltissime
famiglie hanno almeno un
parente negli Stati Uniti o in Europa.

NUOVI SPAZI DI LIBERTÀ
Tutti i regimi rivoluzionari, una
volta consumatosi il movimento che
ne ha favorito l’ascesa, costringono i
cittadini a un doublethink, una doppia
vita: netta scissione tra comportamento
pubblico e privato. Il regime
khomeinista non fa eccezione.
In Iran si sta verificando, però, un
fenomeno nuovo: da un po’ di tempo
gli iraniani non si sforzano più di
nascondere quello che pensano. Per
strada e in luoghi pubblici ho assistito
a veri e propri sfoghi contro
l’oppressiva etichetta islamica e lo
strapotere dei mullah (clero). Nel
2001, occasioni per esprimere la voglia
di libertà e gridare slogan contro
i capi islamici sono diventate le celebrazioni
dopo le vittorie della nazionale
di calcio. L’incomprensibile
sconfitta contro la debole squadra
del Bahrein, con la conseguente
mancata qualifica degli iraniani ai
mondiali, si dice sia stata architettata
dal regime, stufo di quelle spontanee
manifestazioni di piazza.
Centimetro dopo centimetro gli iraniani
si conquistano nuovi spazi di
libertà. A Teheran, senz’altro la città
più spregiudicata, gli abiti delle donne
diventano ogni anno più succinti:
i pantaloni si accorciano (qualcuna
mostra addirittura le caviglie); le
maniche sono arrivate a metà avambraccio;
gli spolverini alle ginocchia;
eppure la polizia religiosa, i famigerati
sepah, non osa intervenire. Le
antenne satellitari sono proibite, ma
molti ce l’hanno lo stesso.

GIOVENTÙ FRUSTRATA
L’Iran è un paese anagraficamente
giovane: più di metà della popolazione
è sotto i 20 anni. Nel 1979
Khomeini invitò la gente a procreare,
senza prevedere quale minaccia
stesse preparando alla sua repubblica
islamica. Fu ascoltato. Adesso in
Iran ci sono 65 milioni di abitanti,
contro i 35 milioni di allora, e sono
in maggioranza giovani, per cui egli
non è che un’icona, tollerata, ma
vuota, un po’ come lo era Lenin nell’ex
Unione Sovietica.
Il mito di Khomeini è cominciato
a sfumare già negli anni ’90, subito
dopo la sua morte. Le nuove generazioni
non hanno vissuto l’epopea
della sua lotta contro lo scià. L’hanno
studiata sui libri, è vero, ma essa
rimane pur sempre remota. Ben più
concreti per loro sono i limiti e i sacrifici
che impone lo stato islamico.
Tra i giovani è molto diffuso il sentimento
che in Iran non ci sia futuro,
che per esprimere al meglio i propri
talenti sia necessario espatriare; e il
senso di frustrazione per non poterlo
fare.
I giovani sono dunque arcistufi
della tutela dei religiosi; ma non hanno
lo spirito rivoluzionario dei padri;
non vogliono fare la rivoluzione, ma
chiedono cambiamenti e, in più occasioni,
hanno dimostrato notevole
dose di coraggio e determinazione.
Nel luglio del 1999 l’Iran, stranamente,
tenne per qualche giorno le
prime pagine dei nostri giornali. Fu
quando a Teheran scoppiò una violenta rivolta studentesca, presto allargatasi
ad altri grossi centri universitari
del paese: all’università di
Teheran, l’8 luglio, si tenne una dimostrazione
di massa contro la chiusura
del giornale progressista Salaam
e contro un progetto di legge sulla
stampa, che avrebbe reso più vulnerabili
i giornalisti.
La giornata si concluse in modo
relativamente pacifico. Le violenze
vere e proprie si verificarono dopo
che, nella notte, truppe antisommossa
e vigilantes attaccarono i dormitori
degli studenti, picchiando i
presenti e distruggendo ogni cosa.
Tale invasione galvanizzò la protesta,
che si trasformò in vera e propria
guerriglia urbana.
Quell’estate avevo deciso di visitare
per la prima volta il paese e temevo
di dover rinunciare al viaggio. Poi,
d’improvviso tutto si chetò. Si ebbe
paura che la cosa potesse degenerare;
ci furono arresti, ma la repressione
fu relativamente poco cruenta.
Da allora ogni anno, il 10 luglio,
viene ricordato quell’episodio, ma
proteste così violente non ce ne sono
più state; gli studenti, per il momento,
hanno capito la lezione e sono
più attenti a non offrire il fianco
a provocazioni. Uno dei modi per esprimere la protesta è quello di partecipare
in massa ai discorsi pubblici
dei leader riformatori, in primis il
presidente Mohammed Khatami.

EPOCA KHATAMI
Quando si parla della storia recente
in Iran, il riferimento cronologico
è sempre uno: prima o dopo la rivoluzione.
Da qualche anno, però, è diventato
comune un altro termine di
riferimento: prima o dopo Khatami.
Il suo avvento ha segnato un’epoca.
Correva l’anno cristiano 1997; l’Iran
si apprestava a scegliere un nuovo
presidente. Quello uscente, Ali
Akbar Hashemi Rafsangiani, già al
secondo mandato, non poteva più
essere rieletto. C’era qualcosa di
nuovo nell’aria: la gente capì che
questa volta l’esito non era così scontato.
Sebbene il Consiglio dei guardiani
– organo formato da sei religiosi
e sei esperti legali laici, cui spetta, tra
l’altro, vagliare le leggi alla luce della
dottrina islamica e controllare l’affidabilità
morale dei candidati alle elezioni
– avesse approvato solo quattro
dei 238 candidati alla presidenza;
sebbene Nateq Nuri, il candidato sostenuto
dal clero conservatore, fosse
dato abbondantemente per favorito,
il 23 maggio la gente si riversò nei
seggi, facendo registrare la più alta
affluenza alle ue dai tempi della rivoluzione.
Khatami ottenne un vero
e proprio plebiscito.
Nella sua breve campagna elettorale
(era entrato in lizza relativamente
tardi) si era presentato con
uno stile ben diverso da quello degli
altri contendenti. Aveva parlato di
sé, della sua famiglia, dei suoi interessi,
dell’esigenza di creare una società
civile tollerante e libera. E, cosa
non da poco, aveva manifestato
un discreto senso dello humour.
Bisogna riconoscere che molte cose
sono cambiate negli anni della sua
presidenza: ci sono meno interferenze
nella vita privata dei cittadini,
sono cessati gli assassini politici di
stato, che fino al ’98 hanno colpito
l’intelligenzia dissidente, ci sono stati
maggiori riconoscimenti dei diritti
delle minoranze.
Anche i cristiani sono stati oggetto
dell’attenzione del presidente. Egli è
stato il primo capo islamico a visitare,
nel settembre del 2000, una chiesa
cristiana: Santa Maria a Urmiah.
Khatami è diventato il punto di riferimento
degli studenti e del movimento
riformista. Tuttavia, la sua politica
di democratizzazione delle istituzioni
e moderata apertura verso
l’occidente ha subito ripetuti contraccolpi,
perché il potere di cui gode
è molto relativo.

RIFORMISMO TIRA E MOLLA
Anche se la gente non vuole più sapee
dei mullah, considerati la
quintessenza dell’ipocrisia, e dei loro
turbanti, neri o bianchi che siano,
le istituzioni nate con la rivoluzione
consegnano il potere reale totalmente
nelle loro mani.
L’ordinamento della repubblica islamica
funziona secondo principi
contraddittori. Da una parte ci sono
un parlamento e un capo dello stato,
democraticamente eletti. Il primo esercita
il potere legislativo e il secondo
quello esecutivo, insieme al consiglio
dei ministri; dall’altra c’è la guida
suprema, un tempo Khomeini e
dal 1989 il suo successore Ali Khamenei,
che è la maggiore autorità
spirituale e politica della repubblica,
in carica a tempo illimitato.
Queste sono le sue prerogative:
designa il capo dell’esercito, il capo
delle guardie rivoluzionarie, nomina
i giudici della corte suprema, direttori
delle reti radio-televisive, può
bloccare le leggi del parlamento e le
iniziative dell’esecutivo. È, quindi,
molto più potente di presidente e
parlamento messi insieme.
Finché alla presidenza ci fu un
conservatore come Rafsangiani e in
parlamento i conservatori erano la
maggioranza, questa contraddizione
non fu così palese, ma dall’arrivo di
Khatami e, soprattutto, da quando,
con le elezioni del febbraio 2000, la
maggioranza parlamentare ha bruscamente
cambiato indirizzo, i conflitti
istituzionali sono esplosi. Clamoroso
è stato il fatto che Khamenei
abbia bloccato la legge sulla libertà
di stampa, promessa e voluta dal
nuovo parlamento riformista.
Khatami ha sempre tentato di evitare
lo scontro diretto, piegandosi,
quando non poteva fare diversamente,
all’autorità di Khamenei.
Non lo si può biasimare. Si rende
perfettamente conto che un conflitto
con la guida suprema potrebbe
innescare una miccia pericolosa.
Quest’atteggiamento conciliante
ha suscitato tra i suoi elettori un senso
di frustrazione; contrariamente
alle aspettative, tuttavia, essi si sono
ripresentati compatti alle elezioni
presidenziali del 2001 e gli hanno affidato
un secondo mandato. D’altra
parte, non avevano alternative e
hanno preferito esprimere così, anziché
con l’astensionismo, la loro
scelta per le riforme.
Naturalmente, con la rivoluzione i
religiosi hanno provveduto ad assumere,
oltre al potere politico, anche
quello economico. Imprese e banche
sono state nazionalizzate e sono stati
creati i boniad, fondazioni benefiche
che amministrano i beni confiscati
alla monarchia nel ’79.
I boniad operano sopra la legge:
non pagano le tasse, non hanno l’obbligo
di bilanci pubblici e rispondono
direttamente alla guida suprema.
Con il tempo essi sono diventati giganteschi
trust, che inglobano centinaia
di aziende, con interessi nei più
diversi campi economici. Non se ne
conosce la ricchezza effettiva, ma si
calcola che gestiscano circa un quinto
del bilancio dello stato.
Il nuovo parlamento ha tentato di
sottoporli a meccanismi di controllo,
ma il provvedimento è stato bloccato
dal Consiglio dei guardiani.
Il settore privato, invece, è penalizzato
da leggi limitanti e protezionistiche.
Di conseguenza il 40% dell’economia
si basa sul mercato nero,
dove fiorisce, tra l’altro, il contrabbando
di beni ufficialmente proibiti,
come cosmetici, cassette di musica,
film, alcolici.

RIPENSAMENTI DEI MULLAH
I leader religiosi non possono non
avvertire che il paese sta sfuggendo
loro di mano e la gente ha preso una
strada diversa dalla loro; tuttavia,
non intendendo cedere il potere,
stanno usando ogni mezzo per arrestare
un movimento che si fa sempre
più ampio. E di frecce al loro arco ne
hanno parecchie: ricorrono ai servizi
di sicurezza e mezzi d’informazione;
chiudono giornali e riviste liberali
con l’accusa di pubblicare materiale
ingiurioso dell’islam; arrestano
giornalisti, scrittori, attivisti politici.
Possono contare sulla totale acquiescenza
del sistema giudiziario. Essi
controllano i giudici e tanto basta,
perché nei tribunali non c’è obbligo
di processi pubblici e non è prevista
la giuria popolare.
Il parlamento non ha potuto far
nulla neanche in questo campo. Un
suo progetto di riforma della giustizia
è stato bloccato nel luglio 2001
dal Consiglio dei guardiani.
Tuttavia, la comunità dei religiosi
non è più compatta come una volta;
anche tra di loro si è da tempo manifestata
una certa dissidenza. Alcuni
mettono in dubbio il diritto del
clero al potere assoluto e condannano
la svolta autoritaria assunta dalla
dottrina khomeinista. È significativo
che Khatami abbia riscosso ampi
consensi perfino a Qhom, il maggiore
centro religioso del paese, insieme
a Mashad, e sede di prestigiose scuole
coraniche.
C’è un buon numero di religiosi
impegnati nel campo riformista, a
cominciare dallo stesso presidente
Khatami, che è stato discepolo di
Khomeini a Qhom e porta il turbante
nero dei discendenti di Maometto,
e da Hadi Khamenei, fratello della
guida suprema.
Tra i riformatori troviamo anche
alcuni religiosi che hanno svolto un
ruolo importante durante la rivoluzione,
come Mohammed Musavi
Khoeniha, consigliere spirituale degli
studenti che hanno assalito l’ambasciata
americana; o Abdollah Nuri,
un tempo guida religiosa delle
guardie della rivoluzione. Per le sue
idee liberali, nel novembre del 1999
è stato condannato a cinque anni di
carcere e altrettanti d’interdizione da
pubblici uffici. Gode di una così
grande popolarità che il suo discorso
di difesa al processo, pubblicato
col titolo di La cicuta
delle riforme, è andato esaurito
in poche ore.

IDENTITÀ IRANIANA
L’Iran sta cambiando
in fretta, la
gente più velocemente delle istituzioni,
ma anche quest’ultime dovranno
prima o poi adattarsi ai nuovi
tempi.
Non si deve, tuttavia, credere che
cambiamento per gli iraniani voglia
dire tornare nell’abbraccio del mondo
occidentale. Said Hagiarian, ideologo
delle riforme, coautore del
programma di Khatami per la campagna
elettorale del ’97, sostiene l’idea
di una società civile, democratica,
sì, ma basata sui valori dell’islam,
quindi non di tipo occidentale.
In questo sistema, però, la libertà
è considerata un valore primario. Lo
ha detto chiaramente Khatami in un
discorso tenuto davanti a migliaia di
studenti: «Nessuno può attentare alla
libertà con la scusa della religione».
La libertà è proprio ciò cui aspirano
i giovani innanzitutto. Essi ritengono
che, una volta tornati padroni
del proprio talento e delle
proprie risorse, troveranno la loro
strada, senza doversi rifare ad altri
modelli. Sono convinti di non dovere
imparare da nessuno né invidiare
alcuno: non sono forse i discendenti
degli achemenidi e sasanidi?
L’orgoglio di appartenere a una
civiltà millenaria viene, oggi, coltivato
con cura. Ci tengono ai loro
«sassi», li visitano, li restaurano, li
studiano. Ovunque nei siti archeologici,
grandi e piccoli, vicini e remoti,
si incontrano famiglie iraniane.
La valorizzazione del passato preislamico
è pure un modo per prendere
le distanze dagli arabi conquistatori,
con cui non vogliono essere
confusi e rispetto ai quali si sentono
superiori. Non è un caso che la festa
più popolare del calendario iraniano
sia il no ruz (capodanno), celebrato
il 21 marzo, e non una ricorrenza islamica.
Per questa celebrazione, nonostante
lo scontento delle autorità
islamiche, è stato recentemente ripristinato
anche il «salto del fuoco»,
una tradizione legata a Zoroastro.
L’Iran che cambia chiede anche a
noi di fare la nostra parte: uno sforzo
di conoscenza che permetta di
andare oltre i vecchi cliché con cui
troppo spesso lo etichettiamo, senza
sapere quanto diversa, ricca e feconda
sia la realtà di quel
paese.

Mariachiara B.




MATIRI (KENYA): progetto «Acqua per la vita»

STREGATI DA UN SOGNO
È quello di padre Orazio
Mazzucchi, parroco di Matiri
(Kenya): dare elettricità,
acqua potabile e irrigua
alle popolazioni assetate
della sua missione.
Il progetto ha contagiato
numerose persone
e organismi, fino a tradurre
il sogno in realtà.

Indimenticabile Matiri! Vi arrivai
una sera dell’ottobre 1998, dopo
un paio d’ore di viaggio, fendendo
la polvere sollevata dall’auto
che ci precedeva. Nonostante i finestrini
chiusi, penetrava implacabile e
si amalgamava al sudore provocato
dal calore crescente a mano a mano
che dall’altopiano del Meru si scendeva
verso la regione del Tharaka.
Una bella doccia era in testa a tutti
i desideri; ma dovetti mettermi in
fila e attendere un paio d’ore prima
che il serbatornio dell’acqua si riempisse
nuovamente.
Il giorno dopo compresi le cause
dell’inghippo, quando padre Orazio
Mazzucchi mi portò sul ciglio della
collina dove sorgono le numerose
strutture della missione, mi indicò il
fiume Mutonga, sotto uno strapiombo
di un centinaio di metri, e una
pompa asmatica che rifoiva l’acqua
a tante opere.
«Presto un grande acquedotto foirà
acqua in abbondanza per le attività
della missione e le coltivazioni
agricole della gente della zona» disse
padre Orazio. E cominciò a spiegare
il progetto che aveva in mente e
i contatti già avviati con alcune associazioni
di sostegno.
In verità, quelle spiegazioni furono
subito cancellate dalla memoria,
sia dal sole canicolare che mi annubilava
la mente, sia perché mi sembravano
un progetto faraonico.
A quattro anni di distanza il sogno
si è materializzato: un tubo di 5 pollici
rifornisce in continuazione acqua
potabile a tutta la missione.

SAVANA INFUOCATA
Matiri è la prima missione fondata
nel cuore del Tharaka, una regione
dove il termometro sfonda spesso
i 40° gradi all’ombra e che i missionari
hanno sempre descritto
come un «foo», per non dire «inferno
». Anche il paesaggio, disseminato
di colline e neri massi vulcanici,
per la maggior parte dell’anno
non ha nulla di paradisiaco, ma solo
erba bruciata dal sole, cespugli spinosi
e serpenti velenosi.
Per questo il Tharaka e i suoi abitanti
furono sempre ignorati dall’amministrazione
coloniale, ma non
dai missionari che, stabilitisi negli altipiani
del Meru, cominciarono ad esplorare
la zona già nel 1911, vi costruirono
le prime scuole e, nel 1957,
si stabilirono definitivamente a Matiri,
dando poi origine ad altre due
missioni in quella landa infuocata.
Il Tharaka rimane ancora una delle
zone più povere del Kenya a causa
di diversi fattori: isolamento geografico,
mancanza d’acqua, scarsità di
strade e mezzi di comunicazione, disoccupazione
e malanni vari, come
alcolismo e presenza endemica di varie
malattie (malaria, tubercolosi, lebbra,
parassitosi, tracoma…).
La regione, dal tipico paesaggio
della savana, ha scarso potenziale agricolo;
ma esistono, lungo i pendii
delle colline e negli avvallamenti, aree
fertili, dove la gente cerca di trarre
il sostentamento per una vita grama,
coltivando miglio, sorgo, legumi
e fazzoletti di granoturco. Nel resto
pascolano alcune capre, pecore e pochi
bovini, allevati per avere un po’
di latte e carne, ma solo in occasioni
di feste e celebrazioni: il bestiame,
secondo il costume tradizionale, serve
per «comperare» la sposa.
Ma la sopravvivenza di uomini e
bestie è alla mercé del cielo: se un anno
non piove, è fame nera.
Le strade sono sterrate e impraticabili
durante la stagione delle piogge
e polverose nel periodo asciutto.
Manca lavoro e futuro, per cui si assiste
a una continua emorragia di
giovani, che cercano fortuna a Nairobi
o nelle città della costa.
Non esistono ospedali nella zona;
quei pochi sono lontani e proibitivi e
qualche volta si rifiutano di attendere
ai pazienti del Tharaka, sapendo
che non hanno un soldo in tasca.
Per rispondere alle esigenze della
popolazione della parrocchia, 46 mila
abitanti su un territorio di 600
kmq, Matiri si è sviluppata enormemente
e offre servizi d’importanza vitale:
un dispensario, dove ogni giorno
vengono curate circa 300 persone
e che sta diventando un piccolo ospedale,
grazie alla presenza continua
di una infermiera professionale, Rita
Drago, e alla presenza periodica di
medici volontari; una mateità con
20 posti letto, dove nascono circa 50
bambini al mese; una scuola matea
con 50 allievi, una scuola elementare
con 300 alunni, una scuola secondaria
maschile con 80 allievi; il Village
Politechnic (scuola professionale)
con 90 studenti.

UN LAVORO A OPERA D’ARTE
Con tante opere e persone, l’acqua
è questione di vita o di morte. Stufo
dei grattacapi causati dalla pompa asmatica, tre anni fa padre Orazio lanciò
una duplice sfida, riassunta nel
motto «Acqua per la vita»: portare
acqua potabile alla missione e quella
del fiume nei campi della popolazione
circostante.
Nel 2001 il guanto fu raccolto dal
gruppo missionario «La sola verità è
amarsi» di Barzanò, da decenni legato
al missionario, e dall’associazione
non governativa «Mondo giusto
» di Lecco, che stesero il progetto
e cominciarono ad attuarlo.
Un gruppo di volontari brianzoli
raggiunse Matiri e spianò la strada
per il passaggio dei macchinari dalla
missione al fiume. Altri membri delle
due associazioni avviarono la raccolta
di fondi, coinvolgendo in una
catena di Sant’Antonio persone, organismi
e istituzioni varie, compreso
il comune di Mairago, paese natale di
padre Orazio, sindaco in testa.
Proprio a Mairago, in una giornata
di raccolta, era intervenuto per caso
Osvaldo Felissari, presidente del
Consorzio acque potabili di Milano
(Cap), che fu contagiato dal progetto
e lo presentò al consiglio di amministrazione:
seduta stante fu deciso di
fornire tubature e assistenza tecnica.
Prima, però, bisognava studiare
bene la fattibilità del piano. Mappe,
elementi tecnici e indicazioni verbali
non erano sufficienti per un’impresa
così seria. Il Cap decise di inviare
un tecnico per studiae meglio
la fattibilità sul luogo. Si offrì volontario
un ex dipendente in pensione,
Marino Anselmi, che il 20 maggio
2002 raggiunse Matiri. Per un mese
e mezzo egli studiò il terreno e, via telefono,
chiedeva gioalmente aiuto
all’ingegnere capo del Cap per risolvere
i problemi che incontrava.
Quindi, da Milano furono spediti
vari container con tubi, pompa, filtri,
generatore e materiale di consumo;
da Barzanò furono inviati una ruspa,
martello pneumatico e ricambi; dalla
Malpensa partirono idraulici ed elettricisti
che, arrivati a Matiri, si misero
subito al lavoro, attorniati da un
nugolo di ragazzini e altri curiosi.
Si cominciò a riattivare un pozzo,
trivellato da tecnici svedesi a poche
decine di metri dal fiume Mutonga e
mai usato. Con l’impiego di 60 operai
locali, ne fu ampliata la bocca fino
a 37 metri di profondità e posta
la pompa: dopo una settimana il
pozzo era riattivato.
Ma il diavolo ci mise subito la coda:
la pompa si rivelò inadeguata e si
guastò irrimediabilmente. Nel giro
di pochi giorni, il Cap spedì per via
aerea altre due pompe (una di riserva)
di potenza superiore alla prima.
Ma i funzionari della dogana di Nairobi,
con scuse cavillose, fermarono
la cassa con i macchinari per una decina
di giorni, mettendo a dura prova
la pazienza dei tecnici milanesi.
Le nuove pompe erano perfette
per il pozzo africano: potevano erogare
1.000 litri di acqua in 8 minuti,
il tempo necessario per svuotare il
pozzo, che ritorna al livello primitivo
dopo 40 minuti. Una scelta tecnica
azzeccata: consentiva di risparmiare
carburante e non si rischiava il cedimento
delle pareti del pozzo, essendo
questo circondato dalla roccia.
A questo punto iniziò la seconda
fase dell’intervento: la posa delle tubature,
per una lunghezza complessiva
di 1.200 metri e con un dislivello
di 200.
Con la ruspa venne scavata la trincea
e disposta una duplice linea di
tubi: l’una in plastica (Pvc), destinata
all’acqua potabile; l’altra, molto
più grande, in acciaio, per il futuro
impianto di irrigazione. La saldatura
di questi ultimi richiese un lavoro
acrobatico, data la natura rocciosa e
il dislivello della collina.
Mentre si ponevano i tubi, i volontari
di Barzanò cornordinarono il
lavoro dei muratori nella costruzione
di una cabina per il pozzo riattivato
e un locale per la stazione di
pompaggio, a fianco del quale Anselmi
istallò un filtro a sabbia, per
depurare l’acqua dall’argilla, e un
bypass per il contro lavaggio, per facilitare
la manutenzione dell’impianto.

BRINDISI CON ACQUA GELATA
Il 2 giugno 2002 è un giorno storico
per Matiri: da un tubo di 5 esce la
prima acqua potabile, tra il tripudio
della gente. La sera, missionari, volontari
e tecnici brindano con bottiglie
di acqua refrigerata, quella che,
con ironia e malcelato orgoglio, Anselmi
battezza col suo nome: «Acqua
Marino: ha un sapore gradevole, incomparabilmente
migliore di quella
del fiume, da cui attinge la gente del
posto, mettendo a rischio la salute».
Le analisi successive ne confermeranno
la bontà.
Il signor Anselmi è tornato a casa
entusiasta dell’esperienza africana,
non solo per la riuscita del progetto,
ma per le tante cose imparate dalla
gente. «Da quando sono in pensione,
ho fatto tanti viaggi all’estero, in
Cina, Nepal, Africa, Messico; ma
tutti insieme non valgono questa esperienza».
Ciò che maggiormente lo ha sorpreso
è la preparazione tecnica di alcuni
collaboratori, usciti dalla scuola
professionale di Matiri. «Tutti eccellenti
– precisa Anselmi -, uno lo
era in modo particolare, Joseph: si è
dimostrato un bravissimo saldatore,
operaio affidabile e molto intelligente.
A qualcuno ho dovuto insegnare
come tenere il badile: lo imbracciava
all’apice del ferro, facendo fatica
doppia; ma una volta imparato, lavorava
con lena e ammirevole efficienza».

IL SOGNO CONTINUA
Terminato il primo acquedotto, i
tecnici del Cap hanno lasciato Matiri,
ma non è detto che non possano
tornare a dare gli ultimi ritocchi al lavoro
compiuto fino a oggi e a quello
ancora in corso e provvedere all’addestramento
di personale locale per
la manutenzione dei vari impianti idraulici.
Nella missione, infatti, è rimasto un
volontario di Barzanò per chiudere il
cerchio del progetto «Acqua per la
vita»; un sogno non meno ambizioso
di quello già portato a termine.
Superati gli intoppi provocati dalle
rivalità dei clan, è già stato scavato
un canale di 2,5 km per prelevare
l’acqua a monte del fiume e, con una
caduta di 15 metri, alimentare una
turbina elettrica, per poi essere convogliata
nei tubi di acciaio e irrorare
alcune aree agricole attorno alla missione.
Tale acquedotto permetterà alla
popolazione di rendersi economicamente
autonoma, coltivando prodotti
non solo per il sostentamento
familiare, ma destinati anche alla
commercializzazione.
La centrale idroelettrica, invece,
foirà la corrente necessaria alle numerose
strutture della missione. Il
surplus energetico diuo e notturno
sarà utilizzato per il pompaggio
dell’acqua potabile e irrigua.
Si prevede che per la seconda metà
di quest’anno l’opera sarà in funzione.
«Avremmo potuto ingaggiare
una compagnia di Nairobi, che avrebbe
fatto il lavoro in pochi mesi –
spiega Franco Godina, presidente
del gruppo “La sola verità è amarsi”
e sindaco di Barzanò -, ma abbiamo
preferito coinvolgere la gente, dando
lavoro e facendo in modo che
sentano il progetto come cosa propria,
anche se la realizzazione definitiva
richiederà un paio d’anni. Al
tempo stesso si prepara il personale
che possa curare la manutenzione
e gestione ordinaria
della struttura».

Benedetto Bellesi




DUE «ACUTI » IN UN QUARTETTO

Manifestiamo apprezzamento per la
collaborazione a Missioni Consolata di
Giulietto Chiesa, giornalista che stimiamo
per la sua documentazione e coraggiosa
denuncia. Lo ha dimostrato anche
con il suo primo articolo «La strega Saddam
e l’inquisizione di Bush», da voi pubblicato
in dicembre.
Sperando che i pressanti appelli del papa
alla pace e alla giustizia possano trovare ascolto
non solo fra chi segue la vostra rivista, noi
continuiamo a leggerla con interesse. Apprezziamo
l’impegno sociale, proprio dei missionari, e le testimonianze dei vostri redattori.
ALDO DA BOIT E TAMARA PREST

Anche il cardinale Camillo Ruini, a nome dei vescovi
italiani, ha condannato la guerra.

Ho letto il dossier sull’Iraq di dicembre.
Sono rimasta delusa.
Non mi aspettavo dalla vostra rivista
idee del genere. Certamente,
se i vostri giornalisti
sono Giulietto Chiesa e altri
che non conosco (tipo Cesare
Allara), non ci si può aspettare
qualcosa di diverso.
Criticare totalmente l’operato
degli Stati Uniti, unica vera democrazia,
e quasi assolvere governi dittatoriali (dove
non c’è libertà di voto, di parola, di religione) è
inaccettabile. Attribuire tutte le conseguenze dell’embargo
agli Stati Uniti, senza tener conto delle
colpe di un dittatore quale Saddam, è immorale.
Trovo non giusto, inoltre, l’atteggiamento di don
Fredo Olivero nel trattare con i musulmani in Italia.
Pare che egli dimentichi che Gesù Cristo ci chiede
di predicare il vangelo a tutti i popoli, mentre
sembra che lui voglia nascondere la propria fede,
non so se per paura di ritorsioni o per quieto vivere.
Non è questo l’atteggiamento di un cattolico.
MARIA MONETTI

La «strega» Saddam Hussein non viene assolta. D’altro
canto, ci pare un po’ esagerato definire gli Stati Uniti
«unica vera democrazia».

Complimenti per Missioni Consolata! È l’unico vero
faro nell’editoria non di parte… Mi chiedo: fino
a quando continueremo ad essere schiavi di Washington?
Trovo scandaloso che i paesi civili si considerino
democratici, mentre in realtà sono più incivili
dei cosiddetti «paesi canaglia». Questi sono
«canaglia», perché non amano più i super-eroi Usa,
che decidono tutto su tutti.
Faccio presente al patrono del petrolio, G.W. Bush,
che per sconfiggere il terrorismo non lo si alimenta.
Non è scovando il cattivo Bin Laden o rovesciando
il diavolo Saddam che l’israeliano andrà in
pizzeria tranquillo. Finché si fanno gli interessi solo
di una parte, l’altra inevitabilmente non ha nulla
da perdere… Perché chi dice «no» all’America o
non la comprende è giudicato terrorista?
Io forse, signor direttore, sogno, ma mi lasci sognare.
L’Onu dovrebbe sanzionare gli Usa! Solo così
noi, paesi leccapiedi, capiremmo che l’America è
un paese troppo intrigoso.
Complimenti anche ai vostri collaboratori Francesco
Rondina e a Giulietto Chiesa.
ALESSANDRO

Alessandro, esageri anche tu, specie
quando ritieni Missioni Consolata l’«unico
vero faro nell’editoria non di parte». È
poi necessario distinguere tra la politica
del presidente Bush e il comportamento
del popolo statunitense.
Sbaglia chi colpevolizza l’intera
nazione americana.

Purtroppo mia mamma è deceduta.
Pertanto non inviate più la rivista al
suo recapito, anche perché ho fondate ragioni per
ritenere che alcuni numeri siano stati cestinati da
alcuni condomini maleducati e contrari alla nostra
religione. Della mamma restano i suoi santi insegnamenti.
A fronte di una lettrice che per forza maggiore vi
ha lasciato, eccone uno nuovo: il sottoscritto. A
questo proposito, mi permetto di suggerire una politica
promozionale con uno sconto ai nuovi abbonati
e, magari, un piccolo dono a chi effettua nuovi
abbonamenti a parenti e conoscenti.
Leggo con piacere Missioni Consolata, anche se
ogni tanto non condivido le opinioni espresse in
qualche articolo (vedi il dossier sull’Iraq).
LETTERA FIRMATA

Essendo Missioni Consolata diventata Onlus (Organizzazione
non lucrativa di utilità sociale), non sono
consentiti lanci promozionali di abbonamenti. In compenso
si possono sostenere progetti di solidarietà…
Benvenuto nella grande «famiglia» dei lettori della
rivista e grazie anche del suo cortese rilievo critico.

AAVV




«Secondo me» e «secondo Dio»

Egregio direttore,
sembra che il solo portare
il nome di Cristo includa
spesso il martirio. Fra tanti
episodi, c’è stata anche
la strage in Nigeria in occasione
del concorso di
bellezza (come se fossero
stati i cristiani a volerlo).
Razionalmente parlando,
diventa assai difficile,
davanti a certe situazioni,
accettare ed aiutare molti
immigrati, quando essi,
nel loro paese, annientano
ogni presenza che non sia
sostenuta dal vessillo della
mezzaluna. L’integralismo
islamico avanza con
disinvoltura, sfruttando la
rabbia di molti, promuovendo
terribili iniziative.
Detto questo, propongo
una riflessione su che cosa
significhi essere cristiano,
oggi come ieri. La riflessione
non parte dal
mio «sentire», altrimenti
non è più il cristiano che
parla. Il «secondo me»,
molto spesso, non corrisponde
al «secondo Dio».
«Noi predichiamo Cristo
crocifisso, scandalo
per i giudei e stoltezza per
i pagani» diceva l’apostolo
Paolo, conscio che l’evento-
Cristo aveva portato
una tale rivoluzione di
sentimenti da lasciare per
lo meno stupiti. Cristo-
Dio, per amore, decide di
farsi piccolo e morituro
come la sua creatura; non
sceglie ricchezze né sfarzi
mondani, ma povertà e umiltà;
vive in prima persona
le cose straordinarie
che predica e sconvolge ogni
nostro ideale di santità
e giustizia.
E noi cristiani, se vogliamo
definirci tali, siamo
chiamati a seguire le
sue orme, anche se può
sembrare impossibile. Egoismi
e pregiudizi ci impediscono
di vedere come
Lui vede. Saremo giudicati
proprio sullo spazio che
abbiamo fatto all’«altro»,
diverso, povero, emarginato,
malato. Il capitolo
25 del vangelo di Matteo
(sublime affresco del giudizio
divino che ci attende
tutti) non lascia dubbi al
riguardo.
Cadono allora tutti i discorsi
di salvaguardia della
fede in modo chiuso ed
arroccato sulle proprie sicurezze
e presunte superiorità,
che non fanno che
generare «cristiani» smarriti
e paurosi, i quali, dietro
lo scudo crociato, difendono
solo i propri interessi
e comodità. Il
Crocifisso non può mai
essere simbolo di arroganza
e prevaricazione…

Grazie delle ricche riflessioni.
La lettera ne
contiene altre, che ci auguriamo
di presentare
nel prossimo numero.

Mario Manescotto




Natale a Mogadiscio

Cari amici,
il natale 2002 è stato davvero
speciale. L’ho trascorso
nel «Villaggio Sos»
di Mogadiscio, con alcune
missionarie della Consolata.
È un’oasi di pace nella
lotta, un piccolo paradiso
circondato dall’inferno.
Qui hanno trovato rifugio
anche orfani di guerra e,
nel vicino ospedale, vengono
curati malati che
non saprebbero dove andare
altrove.
La mattina di natale,
mentre la vita in città procedeva
come sempre (il
paese è musulmano), le
suore hanno avuto una visita
inattesa. Alle porte
della comunità cattolica
(l’unica in Somalia) è
comparso Abdiqasim Salad
Hasan, presidente incaricato
del governo di
transizione.
Il presidente ha detto di
aver scelto il natale di Gesù,
un profeta tenuto in
grande considerazione dai
musulmani, per rendere
omaggio alle missionarie
della Consolata che hanno
lavorato nel paese per tutti
questi anni, senza interruzione,
neanche nei momenti
più duri della guerra
civile. Un impegno di
dedizione alla gente, che
ha attirato su queste donne
l’affetto di tutta la popolazione,
anche islamica.
Per esempio, quando fu
rapita suor Marzia, tutti
gli abitanti di Mogadiscio
si riversarono sulle strade
per chiedere che venisse
immediatamente liberata,
come poi accadde. Nella
capitale tutti ricordano
l’episodio, e lo stesso Abdiqasim
l’ha citato.
Davanti alla gente che si
accalcava di fronte alla casa
delle missionarie, il
presidente ha detto che,
nella nuova Somalia, ci
sarà sempre posto per la
chiesa cattolica. Un bel
dono natalizio alla comunità
della Consolata.
Il discorso del presidente,
trasmesso per radio e
televisione, è stato diffuso
in tutta Mogadiscio e in
gran parte dei territori vicini.
È stato un discorso
che sollecita il dialogo e la
collaborazione per il bene
comune tra persone di religioni
diverse.
Le missionarie in Somalia
continuano a pregare e
lavorare, affinché il paese
sia ricostruito, per il bene
di tutti, sulle fondamenta
della riconciliazione e della
pace.

Da anni il paese è in
preda all’anarchia, diviso
in tre stati: Somaliland,
Puntland e Somalia. Ma
il 27 ottobre 2002 a Eldoret
(Kenya) «i signori
della guerra» hanno sottoscritto
un fragile accordo
per il «cessate il fuoco». Però è un passo verso
la direzione giusta.

p. Vincenzo Salemi




Incalzati dal corano

Egregio direttore,
scrivo a proposito della
lettera anonima, inserita
nell’articolo «da musulmani
a cattolici» (Missioni
Consolata, dicembre
2002). Io sono d’accordo
con la lettera, e non rimango
certo anonimo.
Finché in Arabia Saudita
e Yemen non verrà legalizzata
la costruzione di
chiese o di altre espressioni,
come si può parlare di
democrazia e libertà?
La dichiarazione dei diritti
dell’uomo sulla parità
di opportunità fra uomini
e donne non è stata firmata
dall’Arabia Saudita.
Tutti gli stati arabi sono
retti da sistemi non democratici.
Egitto, Tunisia e
Marocco, che si dicono
«tolleranti» (?), sono governati da anni dagli stessi
politici; nei matrimoni misti
o nel rispetto di altre
fedi sono ben lungi dall’essere
liberali.
L’islam è strutturalmente
contro una società aperta
(vedi Popper) e liberale:
quindi nei fatti
contro la carta dei diritti
dell’uomo. Il serafico
dott. Scialoja le sa queste
cose o continua a far finta
di nulla? Anche la chiesa
cattolica è stata, per secoli,
non liberale e totalitaria.
Dobbiamo attendere
ancora tre secoli per vedere
un islam rispettoso dei
diversi?

Il rispetto dei diritti umani
può essere accelerato
dal confronto fra tutti.
Fra cristiani e musulmani,
il confronto deve riguardare
l’organizzazione
della vita civile, le leggi
dello stato e i diritti di
libertà, uguaglianza, reciprocità.
I musulmani possono
essere incalzati dal loro
stesso corano; per esempio
con: «Gareggiate nelle
opere buone, ché a
Dio tutti toerete. Allora
egli vi informerà di
quelle cose per le quali ora
siete in discordia» (sura
V, 48).

Alfio Tassinari




Per evitare incendi, abbatti gli alberi…

Cari missionari,
circa il summit di Johannesburg
e l’antiamericanismo
cui si riferisce Mercedes
Bresso, presidente
della provincia di Torino
(vedi Missioni Consolata,
dicembre 2002, pag. 25),
credo necessarie alcune
puntualizzazioni.
1 – Mentre a Johannesburg
le Ong si davano da
fare per evitare che il vertice
si risolvesse nel solito
fiasco, in Oregon G.W.
Bush, dopo l’ennesima estate
di incendi ed altri disastri
provocati in gran
parte dall’irresponsabilità
umana, proclamava: «Per
diminuire il rischio di incendi
e danni a persone e
cose, facciamo abbattere
più alberi alle compagnie
del legname… così le fiamme
non avranno più combustibile».
Chi sono, dunque, i veri
antiamericani? Come fa il
presidente del paese più
potente del mondo a sorvolare
su tantissimi suoi
concittadini che hanno già
pagato un prezzo altissimo
alla dissennata politica
di deforestazione? Come
può ignorare che gli Usa
hanno già perso oltre il
90% delle loro foreste e
che il taglio di alberi ha innescato
una catena di alterazioni
ecologiche che ha
distrutto habitat preziosi,
provocato l’estinzione o
quasi di specie animali e
vegetali un tempo diffusissime,
compromesso l’integrità
fisica di milioni e milioni
di americani?
2 – Non tutti gli ecologisti
sono antiamericani e
non tutti gli americani sono
antiecologisti. Come
ha dimostrato Julia Butterfly
Hill (con i due anni
passati sulla sequoia
Luna), ci sono negli Usa
persone che compiono
grossi sacrifici, pur di evitare
che la Pacific Lumber
(una compagnia che Bush
ha invitato ad aumentare il
taglio dei boschi per il
«bene dell’economia» e la
«sicurezza» dei cittadini)
aggiunga alla pingue lista
dei suoi scempi anche le
ultime foreste di sequoie
(alberi, tra l’altro, assai resistenti
agli incendi; tant’è
che i fabbricanti di estintori
hanno «copiato» le
molecole presenti nella
corteccia di questi stupendi
giganti). Sono più antiamericani
quelli che si riconoscono
nelle idee di Julia,
espresse nel libro La
ragazza sull’albero, o quelli
che si riconoscono nelle
idee degli uomini della
Timber Pacific e della Casa
Bianca?

Il summit di Johannesburg
(settembre 2002)
ha riguardato lo sviluppo
sostenibile: quindi rispettoso
dell’ambiente.
Ma i risultati sono stati
modesti… Sul tema scottante
«ecologia», forse
possiamo imparare qualcosa
dall’Australia (cfr. il
dossier di questo mese).

Mario Pace




Spirito di famiglia

Caro direttore,
ricordi ancora il sottoscritto?
Sono stato allievo dei
missionari della Consolata
a Bevera (1961-1966)…
Non ho smesso mai di leggere
con interesse Missioni
Consolata (insieme ad
Amico e Da Casa Madre).
La mia formazione è merito
esclusivo dei missionari
e, pertanto, mi considero
parte della vostra famiglia,
cui rimarrò sempre riconoscente.
Desidero, caro direttore,
esprimerti un augurio
per l’importante incarico
che hai assunto come responsabile
della rivista.
Essa continui a rimanere
un faro acceso sull’attività
dei missionari e sui problemi
che affliggono i popoli
poveri e dimenticati.
Ben venga la pluralità di
voci e opinioni! È importante
l’equità nel riportare
notizie e idee: ecco il tuo
delicato nuovo incarico.
Un grazie vada anche al
direttore precedente per la
sua illuminata guida.

Altri lettori ci hanno
scritto o telefonato per
augurarci buon lavoro e
per ringraziare l’ex direttore.
Ci è piaciuto, soprattutto,
il loro «spirito». È motivo di soddisfazione
constatare come
la nostra sia veramente
«la rivista missionaria
della famiglia».

Giovanni Pirovano




TRE DOMANDE

1. Quante delle cose che fa la chiesa oggi nel mondo
(dal papa ai vescovi, parrocchie, istituti missionari,
associazioni di laici, ecc.) sono «comunicazione
del vangelo»? Quante di esse non sarebbero
fatte da ogni buona religione o ente
umanitario? Esigenza di riscoprire l’essenziale, di
tornare al nocciolo della questione. «Marta, Marta,
tu ti affanni per troppe cose! Di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte buona e nessuno gliela
porterà via» (Lc 10,41-42). Le nostre riviste «missionarie» sono comunicazioni di vangelo? Come?
2. Il problema principale della comunicazione
del vangelo è dato dal fatto che esso è legato
alla nostra vita. Teologicamente la cosa ha uno
spessore molto più grande
di un banale invito alla
coerenza: noi siamo il
Cristo risorto! Certo,
non solo noi, ma il «corpo
esteso» del risorto è la
chiesa nel mondo, dalla
«prima domenica» alla
fine della storia («Ecco,
io sono con voi tutti i
giorni fino alla fine…»
Mt 28). La resurrezione
di Gesù va mostrata,
non dimostrata. Quindi
non c’è che una strada:
la conversione, la costante riforma della chiesa, il
tornare ad essere comunità cristiane.
Oggi il più grande problema missionario è una
chiesa che non intende convertirsi al vangelo. Ogni
discorso missionario – anche sulle nostre riviste – non
può che essere un discorso di radicalismo evangelico
(per esempio, sulla nonviolenza, ma anche sulla
povertà, lavarsi i piedi gli uni gli altri, perdono dei
nemici, sull’indissolubilità del matrimonio…).
Queste due domande potrebbero far nascere il sospetto
di un certo fondamentalismo (nec nominetur
in nobis!), se non fossero accompagnate da una
terza domanda, la più profonda e la più disattesa.
3. Continuiamo a concepire l’incarnazione, e
quindi la missione, come la venuta di Dio nel
mondo, per cambiare il mondo («il Verbo si è
fatto carne» Gv 1,14; «Dio ha tanto amato il mondo
da mandare il suo figlio unigenito… perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» Gv 3,16.17; «Dio
ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché
avessimo la vita per mezzo di lui» 1 Gv 4,9).
Questa è la teologia giovannea, che esprime senza
dubbio una realtà fondamentale della nostra fede.
Ma l’abbiamo un po’ assolutizzata. In qualche
modo confondiamo la preesistenza del Verbo con la
preesistenza di Gesù Signore.
La prospettiva dei sinottici e specialmente di Paolo
è diversa: è quella di un Dio che prende un uomo
concreto, storico, Gesù di Nazaret, e lo assume all’interno
della Trinità. Un Dio che prende un volto
umano. Abbiamo mai pensato che, con l’incarnazione,
l’uomo Gesù è entrato in Dio e ha cambiato
il volto di Dio? Dio si è reso permeabile a tutto ciò
che passa nella storia
umana e nel cosmo.
È una riflessione, questa,
che cambia tutta la
rigidità dell’istituzione
ecclesiastica: la chiesa
non preesiste all’assunzione
della realtà
umana nel suo divenire.
La chiesa si forma come
un bambino nel seno
della madre e il sangue
che gli porta
nutrimento è ciò che
succede nel mondo.
Certo l’essere è già prefigurato, ha un codice (il codice
è Cristo, è il vangelo), ma non sappiamo ancora
quello che sarà. Della chiesa non abbiamo scoperto
che un lembo: sappiamo ciò che è stata, non
ciò che sarà.
Le riviste missionarie sono un po’ quel cordone
ombelicale che portano sangue all’«embrionechiesa
»: esse non devono avere solo la prospettiva
del «portare la chiesa al mondo», ma anche quella
di «portare il mondo alla chiesa».
Portare il mondo alla chiesa significa in concreto valorizzare
tutto ciò che è salvabile nel mondo d’oggi,
anche in un mondo così dissacrato e dissacrante, ateo
e disumano. Le riviste missionarie sono riviste di denuncia,
ma anche di annuncio di tutto ciò che di buono
il mondo d’oggi presenta; a servizio di un dialogo
esistenziale difficile, pluriforme, spesso rifiutato, ma
essenziale al divenire della chiesa-regno di Dio.

Francesco Grasselli