Esiste il giornalista «obiettivo»?

Nessuno è obiettivo. L’importante è usare correttezza,
prudenza, onestà. E sottrarsi ai condizionamenti
che assediano questo difficile lavoro.

Mi chiedono spesso come faccio a essere obiettivo. Faccio fatica
a rispondere perché se dicessi di esserlo sarei un bugiardo,
ma so anche che, se dico di non esserlo, passo per un cattivo
giornalista. Spiegare certe cose richiede tempo. E richiede
anche una certa attenzione da parte di chi ascolta. Invece il tempo
è poco e spesso anche chi ha fatto la domanda si stanca presto.
Siamo ormai tutti abituati a risposte brevi, essenziali, le preferiamo
a quelle lunghe, complesse. Spesso anche rendendoci
conto che le risposte brevi, essenziali, sono spesso anche le più
sciocche e cioè le più false. La televisione ci ha abituati tanto alla
stupidità quanto alla falsità.
Invece, in questa mia rubrica per Missioni Consolata ho un po’
di spazio e di tempo per parlarne. Cioè per dire come la vedo io.
E io la vedo così: obiettivi non si può essere. Nessuno è obiettivo.
Direi di più ancora: guardatevi da chi afferma di essere obiettivo,
perché probabilmente sta cercando di piazzare della merce
avariata dandola per buona.
Dire che si è obiettivi nel riferire un evento è come affermare
che ci si può spogliare della propria visione del mondo,
delle proprie idee, della propria storia. È come scrivere, o mostrare
immagini, lasciando a casa la testa, e anche il cuore.
Nessuno lo può fare. Chi dice di poterlo fare è automaticamente
un bugiardo.
Naturalmente il criterio è un altro, come tutti i giornalisti degni
di questo nome hanno sempre saputo: distinguere il resoconto
dei fatti dal commento. Essere quanto più possibile fedeli a ciò
che si è capito, e poi – avvertendone il lettore o lo spettatore – commentare
ciò che si è capito con il corredo delle proprie opinioni,
esplicitamente esposte e non fatte passare come delle verità obiettive.
È la regola aurea che l’autorevole tradizione del giornalismo
anglo-sassone ci ha tramandato.
Ma voi avrete notato che ho messo in corsivo quattro parole. Sono
decisive. Perché oltre alla correttezza con cui si deve riferire, o
mostrare, un evento, c’è anche la prudenza necessaria nell’interpretare
ciò che si è visto. Perché si dà il caso che uno abbia visto
una cosa senza capirla e finirà quindi per riferire e mostrare ai telespettatori
e ai lettori soltanto il suo errore d’interpretazione.
Cioè la correttezza di chi fa il giornalista consiste non soltanto nell’essere
quanto più possibile fedele ai fatti, ma anche poco corrivo
a dare per certe cose che invece certe non sono, perché non le
si è comprese fino in fondo.
Ecco un’altra difficoltà che si erge contro l’obiettività. Ma quanti
sono i giornalisti che fanno esplicita professione di incertezza?
Io ne conosco così pochi che starebbero comodamente sulle dita
di due mani. Di regola si fa il contrario: cioè si manifesta certezza
anche quando si è consapevoli che esiste il dubbio. Anche
perché il signor Direttore non ti permetterebbe di spaccare il capello
in quattro. «La gente – direbbe – non vuole dei cacasenno,
vuole cose chiare, sintetiche, essenziali. Vuole delle verità». Forse
ha ragione il signor Direttore, ma questo rende molto difficile essere
obiettivi, anche a chi volesse provarci.
E poi c’è il problema della complessità. Il mondo è sempre stato
una cosa complicata, ma negli ultimi tempi lo è diventato ancora
di più. Fare bene il giornalista significa sapere un sacco di cose,
studiare molto. Capire comporta un grande sforzo. E una grande
indipendenza intellettuale, una grande capacità di sottrarsi ai
condizionamenti che ti circondano, agli ostacoli che vengono attivamente
frapposti tra il giornalista e la verità e la realtà. Se non
hai tutte queste doti nel tuo bagaglio, cui aggiungere una discreta
dose di coraggio (non sto parlando di sprezzo del pericolo, mi
riferisco alla capacità di tenere la schiena diritta quando cercano
di fartela piegare), difficilmente si può essere obiettivi.
Ecco perché io penso che da un giornalista non si debba pretendere
l’obiettività. Al contrario si pretenda che egli sia onesto, che
dica con franchezza ciò che ha capito, e con altrettanta franchezza
dica ciò che non è sicuro di aver capito. Che esprima le sue opinioni,
apertamente, affinché chi lo legge o lo vede in tv sappia che
sono le sue opinioni e nient’altro che le sue opinioni. Sarà il lettore
a decidere se gli piacciono, oppure non gli piacciono.
Un buon giornalista è un buon educatore. Non nel senso che
deve fare prediche, come quelle che si leggono su certi editoriali
seriosi dei giornali paludati «d’opinione», ma nel senso
che deve aiutare chi legge (e chi guarda la tv) a difendersi dai
finti giornalisti «obiettivi», insegnando ai primi a esercitare il
massimo spirito critico nei confronti di tutto ciò che viene loro
propinato.
A proposito: avrete notato che ho messo in corsivo anche la parola
opinione. Già, perché essa rivela involontariamente che i
giornali d’opinione non sono obiettivi. Fanno opinione proprio
perché non sono obiettivi. Cioè il loro scopo è quello di creare
un’opinione. Che poi è la loro, mica la vostra. Hanno diritto di
farlo, naturalmente, purché non spaccino la loro opinione con
l’oggettività. Il che, invece, purtroppo, è quello che pretendono
di fare. Tutti i giorni.

Giulietto Chiesa




CATASTROFI INNATURALI?

Esistono le catastrofi naturali?
La risposta è ovviamente sì.
Moltissime potrebbero però essere
evitate grazie ad un migliore,
e minore, utilizzo
delle risorse e ad una
pianificazione
territoriale coerente
con il creato.
In poche parole
con il buon senso.

Da gennaio a settembre
2002, si sono verificati
526 disastri naturali significativi:
195 in Asia, 149 nelle
Americhe, 99 in Europa, 45 in
Australia, 38 in Africa; a causa di
questi eventi sono morte 9.400
persone, delle quali 8.000 solo in
Asia, centinaia di migliaia sono i
senzatetto e milioni i feriti. Le
maggiori perdite economiche
sono state subite dall’Europa:
circa 33 miliardi di euro. Un terzo
dei 526 eventi è legato alle
piogge: inondazioni in Cile, Giamaica,
Nepal, Spagna, Francia e
anche Germania, dove le medie
delle precipitazioni annuali sono
state raggiunte in uno o due giorni.
L’intensità delle piogge ha
raggiunto livelli unici, facendo
segnare record mai registrati nelle
statistiche dei meternorologi.
Queste sono solo alcune delle
conclusioni di uno studio della
compagnia assicurativa Munich
Re, membro dell’Unep (Programma
ambientale delle Nazioni
Unite), presentato a Nuova
Delhi in concomitanza dei negoziati Onu sui cambiamenti climatici.
Il numero delle calamità naturali e
l’intensità di molti eventi estremi sono
in continuo aumento, con conseguenze
che possono essere rilevanti
sull’ambiente e ecosistemi, agricoltura,
benessere delle popolazioni, salute
e incolumità delle persone.
Cosa si intende per «disastro naturale
» o «emergenza ambientale»?
Esiste una differenza tra «catastrofe
naturale» e «catastrofe ecologica»?

UNA DEFINIZIONE
I termini «catastrofe» e «disastro
naturale» fanno immediatamente
balzare alla mente immagini di terremoti,
eruzioni vulcaniche, maremoti,
uragani, cicloni, conseguenti perdite
umane, edifici crollati e allagati,
colate di fango che permeano gli abitati,
paesaggi urbani e agricoli devastati
dalla furia della natura.
In realtà, definire cosa si intenda
per catastrofe naturale non è semplice.
Un terremoto che si verifica in
pieno deserto, per esempio, può provocare
nessun effetto sugli uomini né
su altri esseri viventi di quel determinato
habitat; eventi che, invece, provocano
la morte di molte vite umane
possono non influire sugli ecosistemi
interessati; mentre calamità che, al
contrario, non danneggiano direttamente
le popolazioni possono causare
gravi alterazioni all’ambiente naturale.

LE CATASTROFI GEOFISICHE
I disastri naturali che più colpiscono
l’immaginario collettivo sono
sicuramente i terremoti. Le cause di
questi fenomeni sono puramente
geofisiche, legate cioè ai fenomeni fisici
che avvengono sulla superficie e
all’interno della terra. Anche se possono
sembrare fenomeni improvvisi,
sporadici e casuali, i sismi sono un
evento naturale diffuso come pochi
altri: in un anno, sulla terra, gli strumenti
registrano circa un milione di
terremoti: 1 ogni 30 secondi. Solo
qualche migliaio di essi è abbastanza
forte da essere percepito dall’uomo,
e solo qualche decina causa gravi
danni a persone e cose.
Se nel tempo questi fenomeni si
verificano in continuazione, nello
spazio essi si manifestano all’interno
delle cosiddette «zone sismiche»;
nelle «zone asismiche», invece, non
si generano i terremoti, ma se ne possono
sentire gli effetti, dovuti al propagarsi
delle vibrazioni provenienti
dalle zone sismiche vicine.
La conseguenza fondamentale dei
terremoti sulla superficie è l’oscillazione
del suolo, che si trasmette agli
oggetti sovrastanti: case, ponti e altre
costruzioni possono vibrare fino
al crollo totale. Le cause di questi fenomeni
sono puramente naturali,
ma le conseguenze sono difficili da
classificare.
Gli effetti dipendono, da una parte,
dall’intensità e durata complessiva
delle oscillazioni e dalla natura del
suolo (i danni sono maggiori se il terreno
è incoerente, cioè costituito da
sabbie e ghiaia); dall’altra, dall’inosservanza
delle indicazioni dell’edilizia
antisismica nella costruzione di edifici
in zone note come particolarmente
sismiche, come è accaduto a
San Giuliano di Puglia.
Anziché promettere di impiegare
milioni di euro in grandi opere (probabilmente
non necessarie), è forse
più opportuno utilizzare gli stessi
soldi per la previsione di tali fenomeni,
per un’oculata politica di gestione
del territorio e, soprattutto,
per la prevenzione del rischio, sia elaborando
piani di soccorso, sia applicando
l’ingegneria antisismica; e
ciò non solo nelle nuove costruzioni,
ma anche nella ristrutturazione dell’esistente
e nella costruzione di dighe,
vie di comunicazione, grandi
complessi industriali.
Molte vittime e danni possono essere
inoltre causati dalla rottura di linee
elettriche e condutture del gas,
con conseguenti incendi difficilmente
domabili per la contemporanea
interruzione delle condutture
dell’acqua.
Bisogna inoltre ricordare la formazione
di fratture nel terreno, il sollevamento
o abbassamento del suolo,
in grado di provocare dislivelli lungo
strade e ferrovie e addirittura capaci
di deviare il corso dei fiumi. A questo
punto la gravità delle conseguenze
si dirama: la situazione può tornare
alla «quasi-normalità» in breve e
medio termine, oppure trasformarsi
in catastrofi a lungo termine, quali carestie
ed epidemie, a seconda delle
condizioni iniziali della popolazione
colpita (situazione di benessere, ristrettezza
o estrema povertà).
Queste considerazioni sulle cause
e conseguenze dei terremoti possono
essere estese, a grandi linee, anche
ad altri fenomeni di natura geofisica,
come maremoti ed eruzioni
vulcaniche, uno dei segni più evidenti
dell’irrequietezza del pianeta.
Più di 500 sono i vulcani attivi, fonti
di lava e gas ad alta temperatura,
di materiale fuso lungo gli oltre 60
mila km delle dorsali oceaniche.
Le eruzioni vulcaniche sono forse
l’emblema più spettacolare di un affascinante
paradosso: se da un lato i
vulcani possono rappresentare veri e
propri disastri naturali, d’altro canto
rappresentano uno dei processi fondamentali
attraverso cui si è svolta, e
continua a svolgersi, l’evoluzione della
terra. Basti pensare all’imponente
trasferimento di materiali dall’interno
all’esterno del pianeta, in grado di
accrescere la stessa crosta della superficie
terrestre, formare e mantenere
gli equilibri dell’atmosfera e degli
oceani, rendere fertili i suoli derivanti dalle ceneri vulcaniche.
Anche l’Italia non è risparmiata da
questi tipi di fenomeni: pensiamo al
maremoto dovuto all’eruzione dello
Stromboli (anche se non paragonabile
agli tsunami dell’Oceano Pacifico),
o all’attività dell’Etna. Proprio
quest’ultimo evento può porci di
fronte a un interrogativo ignorato
dai media: è «colpa» dell’Etna se il
Rifugio Sapienza e gli impianti sciistici
sono abbattuti dalla forza devastatrice
della lava?

CATASTROFI AMBIENTALI
E TECNOLOGICHE

Se i disastri geofisici derivano esclusivamente
da fenomeni naturali,
esiste al contrario una classe di eventi
catastrofici che hanno come unica
causa l’azione dell’uomo.
Quali sono? L’opinione pubblica
risponderebbe immediatamente: «I
grandi disastri industriali». Molte,
troppe, infatti, sono state le situazioni
più o meno recenti nelle quali, da
attività finalizzate a scopi utili, sono
scaturiti danni gravissimi per la collettività
e l’ambiente circostante. Alcune
catastrofi ecologiche, dovute a
incidenti industriali, sono state causate
da un utilizzo affrettato e approssimativo
della tecnologia; altri da
eventi accidentali, che hanno evidenziato
l’inadeguatezza delle misure
di sicurezza e l’entità sproporzionata
dei rischi ai quali si era sottoposti;
altri ancora da una scoperta più o
meno improvvisa di problemi, le cui
cause operavano da molto tempo.
Basti pensare ad alcuni disastri del
secolo appena terminato: tragedia
della diga del Vayont (1963), emissione
di diossina a Seveso (1976),
Acna di Cengio (1988) ed emissione
di anidride solforosa al confine tra
Piemonte e Liguria; mercurio fuoriuscito
a Bhopal, in India (1984),
per un livello di 6 milioni di volte oltre
la soglia di tolleranza, tuttora causa
di contaminazione del territorio
circostante; disastro di Cheobyl
(1986), definito «la peggiore catastrofe
tecnologica della storia umana
», il cui rilascio di radioattività è
200 volte superiore alle esplosioni di
Hiroshima e Nagasaki insieme e nei
cui territori vigono ancora restrizioni
all’uso del cibo locale, a conferma
dell’alterazione profonda dell’ecosistema
interessato.
Exxon Valdez (1989, Golfo dell’Alaska),
Haven (1991, Mar Ligure),
Erika (1999, Bretagna-Francia),
sono solo alcuni dei nomi che rievocano
un’altra tipologia di disastri ecologici
provocati esclusivamente
dall’uomo: la fuoriuscita di petrolio
dalle ormai troppo tristemente famose
«carrette del mare».
Anche in questo ambito, uno degli
ultimi disastri petroliferi è dovuto
a controlli e sanzioni insufficienti
e a normative assolutamente inadeguate,
che permettono la circolazione
a flotte di petroliere che non dovrebbero
viaggiare: si tratta in questo
caso della Prestige, petroliera
vecchia e a scafo unico, affondata
nelle acque della Galizia. Le conseguenze
sono sempre le stesse: danni
incalcolabili alle acque e coste, spesso
di grande bellezza e valore naturalistico,
migliaia di tonnellate di olio
combustibile pesante giacenti a
migliaia di metri di profondità, migliaia
di uccelli marini destinati a
morire, insieme a pesci, cetacei, fino
ad alghe e molluschi, primi anelli
della rete di relazioni fra le specie viventi.
Se il disastro ecologico non commuove gli animi, è bene sottolineare
che i danni sono enormi anche a livello
economico e occupazionale:
come nel caso della Prestige, se la popolazione
vive sulla pesca e maricoltura,
l’economia locale può cadere in
ginocchio; lo stesso vale ovviamente
per il turismo.
L’entità del rischio appare immensa
se si leggono le cifre legate al petrolio:
60 milioni sono i barili di petrolio
trasportati in mare ogni anno,
3.400 circa le petroliere; il trasporto
di greggio rappresenta il 40% del
traffico marittimo mondiale di materie
prime e quasi il 73% delle importazioni
di petrolio dell’Unione
Europea avviene proprio via mare;
dal 1955 sono stati più di 1.300 gli incidenti,
dei quali più di 20 gravissimi;
l’età media della flotta petrolifera
mondiale è di 15 anni, mentre per
il 25% delle carrette, di età superiore
ai 20 anni, non esiste più un margine
di sicurezza.
C’è ancora un tipo di disastro ecologico
causato dall’uomo e mai considerato:
le conseguenze ecologiche
e sanitarie delle guerre.
In senso lato, la guerra non provoca
solo l’annientamento di vite umane
e beni materiali, ma anche un enorme
degrado dell’ambiente, con
indubbie conseguenze sulla salute.
Sostanze tossiche e radioattive utilizzate
nei bombardamenti espongono
l’ambiente a una contaminazione
che si protrae nel tempo: inquinamento
atmosferico a breve e
medio termine, inquinamento del
sottosuolo a lungo termine, specialmente
delle falde acquifere.
La conseguenza inevitabile è l’esposizione
della popolazione a rischio
sanitario per molti anni: la non
disponibilità di acqua pulita, l’entrata
nel ciclo alimentare di molte sostanze
nocive, con la caratteristica di
concentrarsi in piante e animali, costituisce
infatti un grande rischio per
la salute, compreso l’aumento della
frequenza di tutti i tipi di cancri e
malformazioni congenite.
Tutto questo senza considerare il
flagello delle mine, nemico invisibile
che, se non uccide, condanna a una
vita minorata.
Incidenti industriali, petroliere,
guerre e mine. Anche se l’emozione
sollevata nell’opinione pubblica è indiscussa,
questi eventi rappresentano
nel lungo periodo una minaccia
forse meno pericolosa dell’azione
degli inquinanti di natura antropica
immessi nell’aria, acqua e suolo.
È vero che l’inquinamento dell’ambiente
da parte dell’uomo non è
un fatto recente; tuttavia, dalla rivoluzione
industriale, la velocità delle
conoscenze scientifiche e dello sviluppo
tecnologico, la crescita incessante
del consumo di energia e materiali,
la produzione di un numero
sempre maggiore di composti sintetici,
hanno conferito al problema una
dimensione planetaria: inquinamento
atmosferico e dell’acqua,
piogge acide, buco dell’ozono, effetto
serra, sono solo alcuni dei fenomeni
antropici che minacciano gli ecosistemi
e la stessa salute degli uomini.
Solo in Italia, l’inquinamento
da traffico, non riconosciuto, causa
6 mila morti all’anno.

DISASTRI NATURALI
LEGATI ALLA METEOROLOGIA

Tra le due classi di catastrofi esaminate,
da una parte quelle con cause
esclusivamente naturali e dall’altra
totalmente antropiche, esiste una
serie di fenomeni che possono avere
effetti devastanti e le cui cause non
sono facilmente definibili. Si tratta di
due tipologie di fenomeni di natura
meternorologica: da un lato eventi che
si manifestano in maniera improvvisa
e che, negli ultimi anni, hanno fatto
registrare un consistente aumento
di frequenza e potenza: alluvioni
e cicloni in particolare; dall’altro fenomeni
che derivano da fattori di degrado
a lungo termine: siccità, desertificazione,
deforestazione, erosione
del suolo, mancanza d’acqua, carestie,
epidemie.
Mentre i fenomeni geofisici si sono
manifestati negli ultimi anni con
lo stesso numero di eventi, quelli di
origine climatica sono stati invece
più frequenti. Se si classificano gli eventi
catastrofici in base al numero
di vittime per morte violenta, inondazioni
e cicloni superano terremoti,
eruzioni vulcaniche e inquinamento
accidentale. Se questa classifica
si basasse, invece, sulla mortalità
dovuta agli effetti a lungo termine, la
siccità deterrebbe il triste primato e
l’inquinamento dell’ambiente supererebbe le eruzioni vulcaniche.
Proprio inondazioni, cicloni e siccità
sono fenomeni che subiscono le
conseguenze dell’ormai accertato, in
ambito scientifico, cambiamento climatico,
dovuto all’aumento della
concentrazione atmosferica di anidride
carbonica (CO2) emessa dalle
attività umane (riscaldamento, trasporti,
industria). La crescita dei livelli
di CO2 è il risultato del massiccio
utilizzo di combustibili fossili
(carbone, petrolio, gas naturale…) e
rappresenta il principale fattore dell’incremento
dell’effetto serra, ossia
dell’aumento della temperatura media
sul pianeta.
I dati del Goddard Institute per gli
Studi spaziali della Nasa indicano
che i 15 anni più caldi mai registrati,
dal 1867, hanno avuto luogo dopo il
1980. Escludendo una drammatica
caduta delle temperature nel mese di
dicembre 2002, si può affermare che
i tre anni più caldi sono stati registrati
negli ultimi cinque.
Oltre alla lettura dei termometri,
molti altri segnali indicano una crescita
della temperatura media: ondate
mortali di calore, disseccamento
di raccolti, scioglimento dei ghiacci.
Se da un lato una temperatura
media maggiore comporta siccità
più forte e scioglimento dei ghiacci,
dall’altro causa tempeste più violente,
inondazioni più distruttive e aumento
del livello del mare. La conseguenza
principale dell’effetto serra,
infatti, consiste nell’evaporazione
di grandi masse di acqua che determinano
cambiamenti climatici, spesso
imprevedibili, e aumento degli eventi
estremi.
In particolare, Alberto Di Fazio,
del Global Dynamics Institute di Roma,
ha trovato una perfetta correlazione
tra la serie storica dei cicloni
negli ultimi cento anni e l’aumento
di CO2 nell’atmosfera. Tali cambiamenti
a loro volta influenzano sia la
sicurezza alimentare e abitabilità di
aree situate a livello del mare (ne è
un esempio il Bangladesh), e quindi
il possibile propagarsi di carestie ed
epidemie, sia la composizione delle
specie degli ecosistemi locali.

IN CONCLUSIONE
Alla luce di quanto analizzato, è evidente
che studiare in maniera
scientifica i fenomeni catastrofici significa,
innanzitutto, cercare di distinguerli
in base a due criteri: cause
e conseguenze. Le cause possono essere
rappresentate da fenomeni naturali
(geofisici, climatici…), di origine
umana, oppure da fenomeni naturali,
aggravati da componenti
umani; le conseguenze possono risultare
calamitose per la popolazione,
per l’ambiente o per entrambi.
Un evento può essere definito disastroso
a seconda delle conseguenze
provocate. Per quanto riguarda gli
effetti sulla popolazione, generalmente
una catastrofe naturale di una
determinata intensità provoca molte
più vittime nei paesi poveri che in
quelli ricchi, e questo per varie ragioni:
l’aumento demografico e la
concentrazione altissima della popolazione
in zone fertili o a ridosso delle
grandi città, a causa degli esodi dovuti
allo sconsiderato sfruttamento
delle risorse naturali (generalmente
da parte del Nord), e quindi alla
deforestazione e perdita del territorio
coltivabile; il degrado dell’ambiente,
appunto; la vulnerabilità delle
popolazioni stesse, ossia la capacità
di reagire agli eventi disastrosi, strettamente
connessa alla miseria.
Per quanto riguarda invece gli effetti
sull’ambiente, esiste una linea
sottile e difficilmente definibile, che
delimita gli eventi catastrofici da
quelli che non lo sono. A un occhio
attento, rientrano sicuramente fra gli
eventi catastrofici anche fenomeni
non improvvisi e straordinari, ma subdoli
e insidiosi, che evolvono lentamente
nel tempo e magari in modo irreversibile,
come la desertificazione,
cambiamento climatico, scomparsa
di specie vegetali o animali, rischiando
di alterare gli equilibri degli ecosistemi
e quindi la stessa salute e sopravvivenza
umana.
Certe azioni umane incontrollate,
sottoforma di cambiamento climatico,
di uso smodato delle risorse, cause
essenziali della deforestazione, erosione
del suolo, desertificazione e
scomparsa di specie viventi, hanno
quindi il potere di amplificare alcuni
fenomeni naturali, conferendo loro
una dimensione catastrofica.
Il «potere del consumatore» può
allora agire anche in questa direzione.
Diminuire la nostra impronta ecologica
(MC, giugno 2002) può significare
contribuire alla diminuzione
della dimensione catastrofica di
alcuni fenomeni naturali.

Silvia Battaglia




Moto na Ngando L’uomo e il coccodrillo

Due giorni la settimana gli uomini
del villaggio, vicino al grande fiume
prendevano reti, esche, coltelli,
lance, frecce e zattere, si dividevano
in gruppi di tre, due o da soli e andavano
a pescare. Il pesce serviva come sostentamento
agli abitanti del villaggio. La
divisione avveniva così: ogni pescatore
lasciava tre pesci del suo pescato come
contributo alla comunità, il resto era per
la famiglia. Questa sorta di tassa veniva
utilizzata per aiutare gli anziani e gli
ammalati, oppure per venderlo al grande
mercato dove si riunivano tutte le tribù
del vicinato.
Un abile pescatore che preferiva uscire
solo, quel giorno non pescò nulla; la seconda
uscita settimanale fu lo stesso.
L’uomo non riusciva a capire; era uno dei
migliori, ma in quel momento la fortuna
non gli sorrideva; si arrabbiava e non accettava
quello che gli stava capitando.
Gli amici lo incoraggiavano dicendogli:
«Questo capita un po’ a tutti». Ma l’uomo,
molto orgoglioso, non voleva essere
consolato. Si sentiva il miglior pescatore
del villaggio e non voleva essere secondo
a nessuno.
E poiché la sfortuna continuava, il pescatore
decise di consultare il coccodrillo,
padrone in assoluto del grande fiume.
Arrivato alla sua tana bussò, si presentò
e iniziò a raccontare la sua vicenda.
– Non riesco più a pescare. Facciamo un
patto: se tu mi sveli i nascondigli dei pesci
ti pagherò con una lancia, un coltello
e tre monete d’oro.
– Non so cosa farmene del tuo oro. Non
vivo nel vostro mondo; il mio mondo ha
parametri ben diversi dal vostro – rispose
il coccodrillo -. È vero, in questo momento non riesci a pescare, ma se avrai pazienza ti assicuro
che i bei giorni ritoeranno.
– Ho una moglie e cinque figli, voglio che crescano
sani, forti e intelligenti; il mio pescato, quello
di dovere sarà donato ai membri del villaggio, il
resto alla famiglia.
– Pur essendo la creatura più forte del fiume, io
non abuso del mio potere: dalla natura prendo solo
ciò che mi necessita.
– Non farmi prediche, dimmi cosa vuoi in cambio e
ti darò tutto quello che mi chiedi.
– Non voglio niente in cambio; solo voi umani volete
essere contraccambiati per ogni azione o
informazione data. Questa smania di accumulare
beni più del dovuto non ci appartiene. Comunque
ti svelerò i nascondigli dei pesci di questo fiume,
ma attenzione a non abusae: usalo da persona
saggia; ricordati sempre del tuo prossimo e delle
risorse che Dio ci ha messo a disposizione.
L’indomani l’uomo toò a pescare e prese
pesci in abbondanza. Arrivato al villaggio,
tutti si complimentavano con lui. E continuò
a pescare tutti i giorni, prendendo ogni sorta
di pesce e sempre in grandi quantità.
Il coccodrillo scrutava i suoi movimenti e non era
affatto contento del suo comportamento; così decise
di andarlo a trovare.
– Ti ricordi cosa ti avevo detto? Non devi abusare
del tuo sapere! – disse il coccodrillo -. Se hai bisogno
di dieci pesci al giorno, perché ne catturi quaranta?
Tre pesci vanno alla comunità, il resto, per
la tua famiglia, ma tu non hai così tanti figli da
sfamare. Attenzione, stai pescando più del dovuto!
Avanzi tanto di quel pesce che potresti donarlo
ai pescatori meno fortunati, come lo sei stato
anche tu, ti ricordi quei giorni? Invece tu lo butti
via.
– Non ho mai mancato a un versamento comunitario;
io non sono indispensabile alla mia comunità!
Comunque il pesce l’ho pescato io e ne faccio ciò
che voglio.
– Il tuo comportamento non ti aiuterà ad essere il
pescatore più stimato del villaggio: non sarai mai
una persona buona e onorata; svegliati e renditi
responsabile delle tue azioni; quello che fai è solo
vanità! Farsi santi da soli non serve!
– Io volevo pagarti, ma tu non hai voluto niente:
peggio per te! Il segreto che mi hai svelato lo uso
a mio favore.
Così dicendo, il pescatore prese il coltello e uccise
il coccodrillo.
Morale: «Non lavorare solamente per il tuo
orgoglio e interesse: queste cose accecano
l’animo dell’uomo e lo rendono schiavo di
se stesso».

Giovanni Fumagalli




IL SOGNO DI SAN GIROLAMO

«La Vulgata di san Girolamo
è il libro che ha unito l’Europa
e ha cambiato il mondo».
Julio Bressane, regista brasiliano

«San Girolamo è il più importante
e sconosciuto intellettuale
dell’Occidente…
Oggi, con questa nuova fantasia
dell’unificazione europea, Girolamo
ricompare, perché è stato lo scrittore
che in qualche modo ha creato
l’unità dell’Europa e ha fissato un
pensiero occidentale. Tutto si deve
alla sua traduzione-creazione della
bibbia latina Vulgata… Con il cinema
possiamo immaginare e ricreare
il vero “viaggio”, lo sforzo al limite
estremo, agonico, che si è imposto
Girolamo nella sua impresa di creare
un nuovo linguaggio, modificando,
civilizzando la sensibilità del suo
tempo e quella futura… Il fatto di
portare avanti questa impresa per
l’umanità e lontano da essa, nel deserto,
è ciò che affascina. Questa
epopea del testo, del deserto, di
quell’uomo in lotta, questo è cinema. E le sue creazioni
verbali, metafore, profusione di immagini, improvvisazioni:
cinema».
Con queste acute osservazioni il regista brasiliano
Julio Bressane ci rivela di essere stato rapito ed
ispirato dall’ascetica figura di san Girolamo.
Eppure Bressane è stato definito dai critici brasiliani «il
più ateo dei registi nazionali» e «monaco di se stesso».
Il film autobiografico Miramar ci racconta infatti come
il regista, nato nel 1946 a Rio de Janeiro e formato
alla scuola dei gesuiti, sia stato affascinato giovanissimo
dalla cinepresa, sua grande musa e compagna. Molto
presto Bressane si cimentò nella produzione di cortometraggi
e film in modo indipendente, ma, purtroppo,
il regime dittatoriale del Brasile lo costrinse nel 1970 a
un esilio di circa tre anni in Inghilterra e non permise
che i suoi film partecipassero alle rassegne inteazionali
fino al 1988.
In tutti i suoi lavori, presentati nell’omaggio a lui dedicato
al Torino Film Festival,
Bressane si dimostra un valente
«poeta dell’immagine». In San
Girolamo, film realizzato nel 1999 e
purtroppo non ancora tradotto in
italiano, Bressane ci offre un vero
capolavoro, capace di affascinare
credenti e non credenti. Come è
stato possibile produrre questo
«miracolo», che ricrea lo straordinario
«viaggio» ai limiti dell’umano
del santo traduttore? Bressane confessa:
«Ho dedicato cinque anni alla
lettura dell’opera di san
Girolamo. Ho una vera biblioteca
su questo argomento, forse la più
foita di Rio de Janeiro, circa duecento
libri. Ho letto tutta la sua opera
e soprattutto i commenti, perché
si tratta di un’opera in latino, e
molto difficile… Ho adattato al
Brasile i luoghi in cui san Girolamo
è vissuto. Quelle pietre, quella terra arida hanno una
memoria. Tutto questo processo di transcreazione si è
rivelato accettabile in lingua portoghese, dando prova
della vitalità del principio dell’ascetismo. Questo dimostra
la forza dei testi di san Girolamo che tutta la
grande pittura dal Rinascimento in avanti ha raffigurato.
Possiedo una raccolta iconografica di san Girolamo
tra l’altro molto rara».
Il film inizia nell’arido e inospitale sertão brasiliano,
con il parto di una capretta, quasi un preludio al
«miracoloso» parto intellettuale di san Girolamo.
La figura austera del monaco vaga tra sassi e sabbia dai
colori grigio, bianco ed ocra, che rievocano il deserto
di Calcis (Siria), sua prima ascetica dimora, dopo essere
stato «sfamato al latte del cristianesimo» dalla ricca
famiglia di Stridone, dove nacque intorno al 340, e il
soggiorno a Roma, dove ricevette una «raffinata educazione
classica» sotto la guida del principale retore latino
dell’epoca, il celebre Elio Donato.
La voce di Girolamo, infatti, ci narra: «Molti e molti
anni fa, con un taglio netto, mi sbarazzai della casa, dei
miei genitori, della sorella, dei parenti e, cosa più difficile
ancora, dell’abitudine a una mensa piuttosto raffinata,
per il regno dei cieli, e puntai su Gerusalemme per
abbracciare la milizia di Cristo. Tuttavia non sapevo rinunciare
alla biblioteca, che mi ero allestito a Roma con
tanta dovizia di zelo e fatica. E così, dominato dalla stoltezza,
prima digiunavo e poi leggevo Cicerone».
La voce continua a narrare il sogno che vede il
Giudice di fronte al quale Girolamo si proclama cristiano,
sentendosi rispondere: «Tu menti; tu sei ciceroniano,
non cristiano. Dov’è il tuo tesoro, ivi c’è pure il
tuo cuore». Rievoca Girolamo: «Da quel giorno mi sono
applicato alla lettura dei testi sacri con tale passione,
quale giammai ci avevo messo nel leggere i testi
profani».
Isimboli presenti nei quadri dei grandi pittori, che
hanno ritratto il santo, sono rievocati con maestria
da Bressane artista: il teschio a perenne «memento
», il leone guarito dal santo, quasi a esprimere il suo
spirito regale e battagliero, la croce e il flagello, la penna
d’oca, pergamene e libri monumentali, suo unico
simbolico pesante bagaglio.
Girolamo arricchisce le sue conoscenze con il maestro
Gregorio Nazianzeno nei tre anni trascorsi a
Costantinopoli, per poi approdare a Roma come segretario
del colto papa Damaso. Qui diventa direttore
spirituale di ricche e aristocratiche donne romane dalla
cultura raffinata, che parlano greco e cantano i salmi
mattutini in ebraico. Girolamo crea con loro gruppi
per lo studio della bibbia, ricordando che «Platone ci
presenta Aspasia durante una discussione. Saffo era in
corrispondenza con Pindaro e Alceo. Temista dissertava
di filosofia con i grandi sapienti di Grecia. Una moltitudine
di romane, fino agli ultimi tempi della paganità,
veneravano Coelia, madre dei Gracchi, cioè la
nostra madre…».
Girolamo, esigente, chiede a queste donne di consacrarsi
interamente a Dio: Marcella e Paola diverranno
sante.
Papa Damaso, semplice nella sua grande saggezza
ed erudizione, ritiene che le attuali versioni della
bibbia non «siano molto più che il liso tessuto di
favole orientali». Preoccupato, perciò, di far conoscere
il messaggio biblico con un testo solido, redatto in modo
chiaro ed elegante, chiede all’erudito Girolamo di
tradurre direttamente dall’originale.
Girolamo scrive al papa: «Mi costringi a una nuova
opera. Analizzare e decidere quale esemplare delle
scritture, tra tutti quelli diffusi nel mondo, si adatti meglio
alla verità del testo greco ed… ebraico».
Rientrato, dopo tre anni di vita romana, nel deserto
di Betlemme con rigore, fantasia e determinazione, lavorando
per 50 anni fino alla morte, san Girolamo produce
«la Vulgata, il libro che ha unito l’Europa e ha
cambiato il mondo».
Ricorda Bressane: «L’uomo di studi, recluso nel
suo ambiente, il deserto, in martirio che crea bellezza,
cercando e conoscendo, masticando, come
dice il santo, semi amari che producono frutti dolci…».
La morte di san Girolamo, avvenuta nel 419, è scritta
in cielo come un trionfo. Una vecchia e melodiosa
canzone del nord est del Brasile, suonata da una chitarra,
esalta la bellezza di un immenso cielo azzurro,
cosparso di nuvolette bianche, che ruota sullo schermo
per alcuni minuti, riuscendo a dilatare l’anima del
pubblico ammirato e commosso.

Silvana Bottignole




DIALOGO il «laboratorio» delle scuole

«MAMMA, IL MIO COMPAGNO DI BANCO È…»
… latinoamericano, marocchino, albanese, cinese, nomade. La convivenza con l’altro è ormai un dato di fatto: sull’autobus, per strada, nei luoghi di lavoro.
Ma come si fa a passare dalla «convivenza» (dettata dalle circostanze) all’«incontro» (dettato dall’essere persona)?
L’esperienza nelle scuole, dove i bambini italiani condividono i banchi con coetanei
provenienti da ogni paese, è fondamentale per costruire la società del futuro, in cui «l’altro» sia accettato nella sua diversità, senza «se» e senza «ma».

Quale significato ha ancora
oggi il nostro essere cristiani?
Se ci analizziamo senza
veli, ci accorgiamo che siamo sempre
più influenzati dal vivere secondo la
nuova fede emergente, l’economia,
il mercato, e sempre meno secondo
il significato più profondo della nostra
fede, l’amore e la fratellanza per
i nostri simili.
Il consumismo sfrenato, il consumismo
ad ogni costo è ciò che detta
legge al nostro agire, anche ora che
da tutti i pori traspira aria di crisi, aria
di recessione.
Consumismo come unico piacere
che ci rimane, che ci illude perché
abbiamo perso il gusto per la gioia di
vivere vera, quella che scaturisce dalle
piccole cose, dall’incontro con gli
altri, dal vivere insieme.
Se siamo persone che hanno ancora
valori saldi in cui credere, dobbiamo
cercare di disinquinarci da
questo mondo, ritornare all’essenza
delle cose, a ciò che vale profondamente,
anziché autornassolverci sempre
perché… «tanto così fan tutti».
Ed è proprio per questo che noi,
come occidentali e specie in quanto
cristiani, abbiamo ancora qualcosa
da imparare e questo qualcosa lo
possiamo scoprire ricercando l’incontro
con l’altro, il diverso da noi,
con il quale conviviamo ormai gomito
a gomito: sull’autobus, per la
strada, nei luoghi di lavoro.
Tuttavia convivere non vuol dire
ancora incontrarsi per davvero; anzi,
spesso è solo un passarsi a fianco
di stranieri e italiani che si guardano
furtivamente, a volte con fastidio.
LA SCUOLA, LUOGO PRIVILEGIATO
La scuola, in particolare, è uno dei
luoghi privilegiati in cui la molteplicità
delle culture è chiamata a convivere.
I nostri istituti scolastici sono
sempre più popolati da bambini di
tutte le nazionalità: albanesi, senegalesi,
marocchini, cinesi, latinoamericani,
nomadi.
Noi insegnanti siamo chiamati ad
accogliere i bambini di queste famiglie
straniere: non avere atteggiamenti
di chiusura o
rifiuto, dettati dal pre-giudizio,
è già un primo passo.
Ma cosa vuol dire accogliere
veramente?
Spesso è, ancora una
volta, qualcosa che sta
sulla carta (il progetto
bello, che produce finanziamenti),
lontano
dalle persone reali.
Così non spostiamo di
una virgola la nostra
progettualità, non mettiamo
in discussione noi
stessi.
Si dice: «La nostra cultura
è quella cui loro si devono
adeguare. Non c’è altro da
aggiungere». Al massimo si
chiede al genitore di fede islamica
di tradurci in arabo
una frase augurale per il nostro
natale. Quale umiliazione
può essere più grande?
Negare la loro fede è negare
la loro identità.
Noi occidentali siamo abituati
da ormai lungo tempo ad esistere
come se fossimo il centro del
mondo e poi, suvvia, «sono loro che
sono venuti qui da noi… a rompere…;
che lavorino e stiano zitti… è già
tanto che li ospitiamo…».
Queste persone popolano i nostri
ambienti, la scuola in modo umile e
silenzioso, non ci si accorge di loro,
a meno che non si voglia aprire gli
occhi.
Se li apriamo e li guardiamo anche
con il «cuore», ci viene voglia di incontrarli
e conoscere la loro vita. Se
poi ti fermi un attimo e fai parlare loro
cominci a… vergognarti di essere
italiana.
Ti vergogni di far parte di una nazione
che ha approvato una legge
razzista com’è, di fatto, la legge Bossi-
Fini.
È capitato così un giorno di novembre.
Dopo aver aderito all’appello
per la giornata del «Dialogo
cristiano-isl-Amico» indetta per il
29/11/02, mi rileggo l’appello (vedere
riquadro) e penso che quanto si sta
organizzando è bellissimo. Occorre
tuttavia che ciascuno di noi concretizzi
questi ideali, calandoli nella
realtà quotidiana in cui opera. Ovvero:
dobbiamo dare risvolti sempre
più concreti alle nostre parole.
A scuola si parla di fare il presepe
perché «non dobbiamo rinnegare le
nostre tradizioni…» (anche se spesso
dentro di noi la fede è qualcosa di
così appiccicaticcio che, per sentirci
cristiani, dobbiamo accendere tutte
le luci e addobbarci come tanti alberi
di natale: non sarà perché siamo
spenti dentro?).
Va bene per il presepe, ma propongo
di dare spazio anche al ramadan.
La proposta inaspettatamente
passa. Così incontro e conosco Yasine,
la madre di Dalal, e le altre.

YASINE: MAMMA E IMMIGRATA
Queste mamme sono tutte persone
timide, umili, silenziose. Non ti rivolgono
la parola se tu non lo fai per
prima; caso mai un timido cenno di
saluto col capo.
Insieme cerchiamo di raccontare
semplicemente cos’è il ramadan: è un
piccolo spiraglio per favorire l’incontro
tra famiglie di culture diverse.
È un’opportunità da sperimentare.
Parlando e dialogando scopro e
ammiro la serenità, la forza, la convinzione
con cui queste persone vivono la loro fede. Penso a quanto abbiamo
da imparare noi cristiani sempre
più tiepidi, sempre meno praticanti
o praticanti per abitudine. Forse,
se c’è una cosa che dobbiamo
temere, è questa: la forza con cui
queste persone sostengono la loro fede
che a sua volta rafforza la volontà
di non perdere le proprie radici e la
propria identità.
E la serenità con cui vivono un periodo
di digiuno e sacrificio com’è il
ramadan fa a pugni con la realtà quotidiana
che sono costretti a vivere.
La mamma di Dalal, per esempio,
colta e istruita, qui in Italia non è nulla.
Il marito e lei hanno perso il lavoro,
perché la cornoperativa ha chiuso;
così da luglio in avanti tirano a campare.
«Come non so – mi dice -, ma
di certo… tutti i risparmi se ne sono
andati».
Hanno 2 figli: il più piccolo quest’estate
l’hanno lasciato in Marocco:
«…perché qui… come faccio a sfamarlo?». Poi il cuore ha battuto più
forte; così papà e mamma si sono fatti
imprestare i soldi da amici e l’hanno
riportato in Italia, con loro.
Ora pensano di vendersi la vecchia
macchina. Se hanno la macchina gli
vengono negati i sussidi, ma senza
come fare se capitasse al marito di
trovare un lavoro anche distante?
Per fortuna hanno il permesso di
soggiorno, ma questa vita quanto
può durare? E quanti sono quelli che
vivono nelle medesime condizioni?
Le insegnanti della vicina scuola elementare
hanno ripreso una vecchia
abitudine da tempo dimenticata:
riempire cartelle e zaini di diversi dei
loro alunni stranieri con i resti delle
merendine avanzate. In silenzio le famiglie
accettano queste offerte che
tamponano i loro enormi bisogni,
ma purtroppo sono ben lungi dal risolverli.
Le difficoltà del vivere tornano ad
essere sempre più presenti. Ce ne
stiamo accorgendo anche noi, o meglio
lo stanno sperimentando con
sempre più angoscia gli operai della
Fiat: di colpo le loro vite sono allo
sbaraglio.
Incertezza e insicurezza si fanno
strada. Forse questo ci dovrebbe far
capire, in questi momenti, che sono
più le cose che ci uniscono che quelle
che ci dividono.
Dobbiamo iniziare ad incontrarci
tra fratelli al di là delle religioni, delle
culture, delle appartenenze, cercare
quanto ci unisce e non quanto
ci divide.
Ed è stato questo l’obiettivo che ha
spinto molti credenti cristiani, in diverse
città d’Italia, ad attivare una
giornata di «Dialogo amico» tra persone
di fede cristiana e islamica.
Il 29 novembre vuole diventare a
tale scopo una ricorrenza per gli anni
a venire.
Le difficoltà della vita ci conducono
ormai a capire che, anziché strapparci
dalle mani una coperta sempre
più stretta, dobbiamo imparare a lottare
e costruire insieme.
Così anche le nostre fedi, in apparenza
così diverse, ci accomunano nei
valori che sono alla loro base: «… la
ricerca e costruzione della pace, della
giustizia, della dignità umana per
tutti, il rifiuto dell’oppressione del
debole, dell’emarginato».

PROVIAMO A PARLARCI
Anche a Torino sono stati organizzati
dal gruppo interreligioso «Insieme
per la pace» e dall’«Istituto islamico
per la pace» due momenti significativi
cui hanno aderito varie
associazioni tra cui: Il Foglio, Pax
Christi, il Centro culturale italo-arabo
Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Centro studi Maitri
Buddha, Meic-Laboratorio islam
«conoscere per dialogare».
Un primo momento a carattere evocativo
e spirituale è stata una preghiera
comune alla moschea di corso
Giulio Cesare che per l’occasione
si è aperta ad accogliere uomini e
donne di fede cristiana. A seguire vi è stata una cena comune
presso il Centro culturale italo-
arabo Dar al-Hikma. Si è così partecipato
alla consueta rottura del digiuno
del ramadan.
In serata vi è stato un vero incontro
e dialogo tra la nostra cultura occidentale
e quella araba, a partire
dalle nostre fedi islamica e cristiana.
La partecipazione è stata notevole,
specie da parte dei musulmani: erano
presenti molti giovani e piccoli
gruppetti di familiari. Si avvertiva un
clima di grande attenzione-interesse
e rispetto per il momento che tutti
i presenti avvertivano come fortemente
significativo.
Hanno preso la parola molti musulmani
ponendo diverse domande
o facendo interventi improntati a capire
noi occidentali e a farsi ascoltare,
raccontando la loro esperienza, le
difficoltà del vivere qui, cercando di
sottolineare i valori di fondo del loro
credo religioso.
Ci sono stati anche interventi rivolti
a comprendere la diversità: tra
questi ampio spazio è stato dato alla
condizione della donna nella loro
cultura. Il dialogo è risultato ricco e
intenso.
Molti giovani hanno proposto agli
organizzatori di dare corso ad altri
momenti analoghi, affinché questa
occasione non rimanga un fatto isolato,
ma possa aprire uno spazio di
vero incontro tra la loro cultura e la
nostra per capirci e incontrarci. E soprattutto
per metterci in atteggiamento
di ascolto. L’unico
che può portare ad un reciproco
rispetto.

(*) SILVANA VERGNANO, insegnante, è
membro di Pax Christi (sito internet:
www.paxchristi.it).

Il dialogo? Forse inizia da qui
Gli avvenimenti politici degli ultimi 16 mesi (l’attacco al World Trade
Center di New York, l’intervento militare in Afghanistan, le minacce di
guerra contro l’Iraq, la drammatica esasperazione della crisi israelo-palestinese
e di quella russo-cecena…) pesano sulle relazioni tra due comunità,
definite cristiano-occidentale e islamica, che ormai da anni convivono nelle
nostre città. Un certo tipo di informazione-spettacolo sta trasformando i
conflitti di interessi economico-politici in una contrapposizione fra due
civiltà e due tradizioni religiose che troppo sbrigativamente vengono presentate
come inevitabilmente contrapposte.
CONDANNIAMO un tale sfruttamento del sentimento religioso e una tale distorsione
delle due espressioni (storicamente e culturalmente differenti) della
fede che ci accomuna nei principi della pace, della giustizia, della dignità
umana per tutti, del rifiuto dell’oppressione del debole e dell’emarginato.
CHIEDIAMO a tutte le parti in causa di trovare soluzioni affinché la città di
Gerusalemme possa esprimere realmente la santità che le attribuiscono tutte
le fedi abramitiche, ma che è stata un punto di riferimento per la religiosità,
secondo l’ordine di Melchisedech, anche per chi si appella a un’immagine
pre-abramitica di Dio.
AFFERMIAMO che in tutte le espressioni religiose – a seconda delle intime scelte
di ciascuno – si possono coltivare i semi della giustizia e della pace che
possono condurre l’umanità a una concorde fratellanza universale, oppure le
radici dell’intolleranza e dell’autoritarismo che si nasconde dietro al nome di
Dio e all’apparente ossequio per le religioni, per provocare divisioni, dominare
e sfruttare i popoli governandoli con la menzogna.
RICONOSCIAMO che nella storia quasi nessuna religione è stata immune da questi
equivoci e ci impegniamo a vigilare affinché, per quanto può dipendere
da ciascuno di noi, non intervengano a guastare la trasparenza delle nostre
intenzioni, nei rapporti con i bambini, con i nostri familiari, con i colleghi
di lavoro, nell’impegno culturale, politico e sindacale.
CHIEDIAMO, soprattutto alle pubbliche amministrazioni (comuni, provincia,
scuola), per quanto di loro competenza, di favorire e promuovere la cultura
del dialogo offrendo spunti, spazi e momenti d’incontro tra coloro che abitano
le nostre città da molto tempo e quelli di più recente immigrazione,
affinché tutti possano meglio conoscersi e meglio conoscere la storia propria
e altrui.
INTENDIAMO impegnarci, inoltre, affinché il dialogo cristiano-islamico porti
effettivamente a un incontro AMICO tra tutte le persone che vivono quotidianamente
le stesse speranze e le stesse angosce, facendoci carico di portare
gli uni i pesi degli altri in una convivenza che sappia dare motivi di serenità
anche nei momenti più difficili.

Pax Christi, Centro culturale italo-arabo Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Meic-Laboratorio islam conoscere per dialogare, Foglio e, inoltre,
Centro studi Maitri Buddha.

Silvana Vergnano




MESSICO viaggio tra le aspirazioni della gente

L’ERBA DEL VICINO…
Al di là dei monumenti delle varie civiltà
che si sono succedute nel paese, il Messico offre
una umanità palpitante di speranze e sogni,
sempre in attesa che diventino realtà.

Attraversata la frontiera, mi
trovo d’improvviso in un altro
mondo: dal lindore asettico
di San Diego (Stati Uniti) al degrado
ambientale e umano delle vie
intorno alla centrale Avenida de la
Revolucion di Tijuana, in Messico.
Sporcizia, buche nei marciapiedi,
prostitute, mendicanti, povere bancarelle
di donne indie in costume.
Sono disorientata nel vedere numerosissime
e linde farmacie, una accanto
all’altra. Incredibile anche il
numero degli studi medici, che attirano
i clienti nordamericani con co-
loriti cartelloni. In Usa le cure sono
costosissime; qui, invece, gli stessi farmaci
sono più a buon mercato. I medici
sono preparati, coscienziosi e umani
nel trattare i pazienti.
Ampi viali trafficati mi portano al
quartiere Rio, con i suoi centri commerciali
e direzionali: è un altro aspetto
di Tijuana, città che vuole
cambiare e ha già raggiunto importanti
mete nello sviluppo.
La periferia è immensa, ma non
sono solo favelas dei nuovi immigrati
quelle che si arrampicano sulle colline:
sono le «colonie», cioè i quartieri
di chi si è inserito bene nella
nuova economia.
Avrei bisogno di un prete. Uno
che mi racconti le cose come stanno;
che mi faccia capire.

UN PASSO DAL «PARADISO»
È già notte. Dal campanile di una
chiesa un orologio illuminato segna
le 10,15. Entro. La messa è quasi terminata.
I pochi fedeli escono e mi avvicino al prete. Ha una faccia simpatica;
si chiama padre Francisco Javier
Perez; mi invita a seguirlo per le preghiere
e a condividere la cena.
Mi trovo nel seminario maggiore
di Tijuana, un’oasi di tranquillità e
pulizia nel centro caotico della città.
«Vocazioni? Molte – risponde il padre
-. Abbiamo un centinaio di seminaristi;
stiamo progettando un edificio
più ampio, completo di campi
sportivi. La diocesi di Baja Califoia
del nord, sfoa ogni anno una dozzina
di preti, che si trovano subito oberati
di lavoro.
La città è cresciuta enormemente
in pochi anni e sta ancora ricevendo
immigrazione da tutto il Messico,
specialmente dalle zone più povere
e remote, nella speranza di varcare il
confine e stabilirsi negli Usa. I più
fortunati trovano sistemazione presso
parenti o amici. Chi non ce la fa,
bivacca e vive di espedienti».
In effetti oggi ho visto dei poveracci
dormire ai margini dei viadotti,
in mezzo all’immondizia. Parlare
con padre Francisco mi aiuta a capire
meglio la situazione, al di là del disgusto
provato all’arrivo.
Molti immigrati sono arrivati dopo
il terremoto di Città del Messico
del 1985. Un disastro reso più spaventoso
dal crollo di numerosi edifici
statali nuovi, prova di malgoverno
e corruzione negli appalti pubblici.
Tijuana offre ai nuovi arrivati maggiori
possibilità e un clima migliore
di tante città messicane; soprattutto,
siamo vicini agli Stati Uniti, tanto da
attraversare il confine a piedi. Molti
messicani vanno a lavorare oltre confine
e ritornano la sera. I più benestanti
portano i figli a scuola in uno
dei sobborghi di San Diego; i ricchi
vivono negli Usa, anche se gli affari
li hanno a Tijuana.
La Baja Califoia è la regione che
registra il maggior tasso di crescita economica
del Messico e, dal punto
di vista politico e sociale, si dimostra
più avanzata e intraprendente: è il
primo stato messicano a voltare pagina
nelle ultime elezioni, scegliendo
come presidente il leader dell’opposizione
Fox. Da qui è partita la spinta
al cambiamento, mandando a
spasso il potente e corrotto Partito
rivoluzionario istituzionale (Pri), che
per 60 anni ha gestito il potere a suo
esclusivo vantaggio.
Fox deve aver dato fastidio a molti
potenti, se è continuamente oggetto
di critiche e, recentemente, gli
è stato impedito di prendere parte a
conferenze inteazionali in Canada
e Usa: la costituzione prevede l’approvazione
del parlamento per i
viaggi del presidente all’estero.
Fox è un ricco impresario con una
buona volontà di cambiare le cose,
ma poca abilità politica. Comunque
ha avuto il coraggio di iniziare seri
cambiamenti e «pulizia» della società
messicana, cominciando dai poliziotti
legati al cartello della mafia della
droga. A causa della corruzione
della polizia, il controllo del traffico
di droga viene fatto dall’esercito.
Da quando gli Usa sono riusciti a
bloccare il traffico di stupefacenti
nell’area caraibica, quello di Tijuana
è diventato il più potente e pericoloso
cartello dell’America Latina.

MISSIONARI TORINESI
Fratel Luigi, della Sacra Famiglia
di Torino, abita sulla collina Buena
Vista, una «colonia» della periferia
di Tijuana. Non è facile trovare la sua
scuola, nel dedalo di vie senza nome
o senza numero.
I fratelli della Sacra Famiglia, due
italiani e uno spagnolo, per venire incontro
alle esigenze di una popolazione
in continuo aumento, hanno aperto
una scuola elementare e media
con quattro sezioni. Le famiglie sono
di estrazione medio-bassa, che
hanno capito l’importanza di una
buona educazione e cercano di iscrivere
i figli nelle scuole cattoliche,
perché rispondono a tale esigenza.
«Qui siamo fortunati. In Baja Califoia
il 95% dei bimbi va a scuola,
mentre in alcune zone del Messico
la situazione è molto diversa» racconta
fratel Luigi, entusiasta del suo
lavoro. Ma si lamenta delle difficoltà
create dal governo con cieca e assurda
burocrazia: «Si perde molto tempo
nel preparare i ragazzi a parate,
concorsi dell’inno nazionale, picchetti
d’onore… tutte attività che distraggono
i ragazzi dallo studio».

STORIA AMARA
Da Tijuana, l’aereo mi porta a Zacatecas,
antica città mineraria a 2.500
metri sul mare, che detiene tuttora la
più alta produzione d’argento del
Messico. La miniera Eden, chiusa da
qualche anno, un tempo era un vero
inferno per gli indigeni che vi lavoravano,
dovendo risalire per otto
piani con i massi auriferi e argentiferi
portati a spalla.
All’uscita della miniera, una funivia
mi porta sulla cima di un colle dove
sono i ricordi di un’altra storia:
statue in bronzo ritraggono, tra gli altri,
Pancho Villa, il mitico eroe della
rivoluzione messicana del 1914. In
basso si stende la città, magnifica nel
suo caldo color ocra delle costruzioni
antiche.
La cattedrale ha una ricca ed elaborata
facciata, ma l’interno, un tempo
splendido di ori e argenti, è stato
del tutto spogliato durante i periodi
di rivolta che hanno caratterizzato la
storia del paese. È stata coinvolta anche
la chiesa (vedi riquadro).
Di peggio è capitato al tempio secentesco
degli agostiniani, saccheggiato
dall’alticlericalismo di fine ’800
e trasformato in casinò. Ora ospita
una esposizione di arte modea,
mentre continuano i restauri per ricomporre,
almeno in parte, le decorazioni
barocche.
Tale situazione la ritrovo in varie
parti del Messico, testimone di una
storia amara e sconcertante, segnata
da una sequenza di fatti tragici, governi
corrotti, guerre civili, esecuzioni
e voltafaccia politici.
Storia anche recente, in cui l’arroganza
del potere è rimasta indifferente
ai bisogni della gente. Troppe
regioni, nonostante le loro potenzialità,
sono ancora depresse e lontane
da ogni forma di sviluppo; benché ci
siano stati miglioramenti nell’istruzione
popolare e maggiore presa di
coscienza degli strati poveri della popolazione,
rimane forte la sensazione
d’impotenza di fronte ai soprusi
della classe dominante.

CICATRICI IN MANI E CUORI
Salgo sulla corriera che unisce Ciudad
Juarez, al confine col Nuovo
Messico (Usa), alla capitale messicana.
Siedo accanto a un uomo che rimane
a lungo silenzioso. Poi mi mostra
le mani, grandi e segnate da tagli
e profonde cicatrici: «Machete e
canna da zucchero» mi spiega.
Inizia così la conversazione, anzi lo
sfogo di un uomo che, pur faticando
dalle 5 del mattino fino a tarda sera,
non riesce a risparmiare il denaro per
comprarsi la terra dove vive. «In questo
paese le macchine agricole sono
rare e il terreno che lavoro è ripido,
per cui bisogna fare tutto a mano»
continua Manuel Castillo Abrego.
Sta ritornando a casa, dopo un
lungo viaggio per accompagnare la
suocera al confine con gli Stati Uniti.
Due giorni fa si sono incontrati alla
frontiera con due cognati, da alcuni
anni emigrati in Califoia.
«Mia suocera ha pagato 4 mila dollari
per avere i documenti necessari
per espatriare. L’hanno aiutata i figli
a pagare tale somma. Vorrei anch’io
vivere in un paese dove c’è maggiore
speranza per i miei figli».
Manuel mi parla dei suoi quattro
bambini, da due a dodici anni, della
moglie e della sua casetta, circondata
da alberi di mango, in un villaggio
dello stato di Michoacan. Ha ancora
davanti parecchie ore di viaggio per
arrivare a Morelia, dove prenderà un
altro autobus per arrivare a casa.
Intanto indica sulla mappa la città
di Puruaran, dove ogni settimana
trasporta la canna per la lavorazione:
l’85% del ricavato va al proprietario
del terreno. «Lavorando duro, riesco
a guadagnare quanto basta per
sfamare i miei, nulla di più – continua
-. Se riuscissi a risparmiare qualcosa,
cercherei di emigrare con tutta la famiglia.
Non lascerei moglie e figli in
Messico, come fanno molti disperati,
che in Usa si rifanno una vita».
Manuel perse la mamma all’età di
tre anni, morta di parto dando alla
luce il decimo bambino. Trovatosi
con una nidiata da sfamare, il padre
pensò bene di risposarsi e, ben presto,
arrivarono altri 10 figli. La terra
non bastava per tutti, anche se i più
grandi lavoravano già.
Manuel mi consegna un foglio,
firmato dagli allievi della scuola professionale
San Pedro di Zacatecas: reclamano
il diritto a un posto di lavoro
e denunciano favoritismi. «Chi la-

vora per il governo è in una botte di
ferro; gli altri non hanno alcun diritto
– spiega sconsolato, per continuare
con orgoglio -: mia figlia Jasmine
è molto brava a scuola, ha preso diversi
premi. Ma solo i raccomandati
riescono a ottenere una cattedra
d’insegnante; anzi, possono anche avere
più di due scuole e trascurare le
lezioni».

OASI DI BELLEZZA
Dai 2.500 metri di Zacatecas siamo
scesi ai 1.800 di Guanajuato, una
città giorniello, ricchissima di monumenti,
chiese e palazzi, circondata da
monti metalliferi.
Scendiamo ancora e raggiungiamo
Queretaro, un’altra città coloniale,
dichiarata dall’Unesco patrimonio
dell’umanità. Dovrebbero essere così
tutte le città del mondo: linde, coloratissime,
con ampi spazi verdi a
disposizione di tutti. Le case sono
curate, anche in periferia, dove sorgono
modee imprese e industrie.
Il centro è un giorniello: non un edificio
moderno che stoni col tessuto
antico e ben conservato della città.
Ma ciò che incanta è l’atmosfera festosa
delle piazze, di giorno ombreggiate
dai ficus, la sera allietate da
pianisti e orchestrine, con anziani e
giovani che hanno tempo e spazio
per godersi il fresco.
Sontuose le numerose chiese e
conventi, quasi tutti trasformati in
musei e gallerie. Il più famoso e antico
è il convento francescano de la
Cruz. Lo visito in compagnia dell’anziano
frate Jesus Uzman. «Fondato
nel 1683, fu il primo collegio apostolico
di Propaganda fide. I frati
vi dimoravano due anni per prepararsi
alla missione tra gli indigeni nomadi
del Messico del nord. Successivamente
ne sorsero altri: 5 in Sierra
Gorda, 21 in Baja Califoia, 5 in
Texas, 1 a San Antonio. Per 87 anni,
a partire dal 1824, il convento fu occupato
dalle truppe. Quando lo restituirono,
la fuliggine e lo sporco avevano
ricoperto tutte le pitture».

SOGNANDO L’AFRICA
Sterminata metropoli, congestionata
dal traffico e con l’aria fortemente
inquinata: così viene descritta
la capitale, Città del Messico. Ero
preparata al peggio, ma rimango sorpresa.
I problemi sono ancora molti;
uno, almeno, è stato risolto felicemente:
ci si sposta benissimo con
metrò e bus, che passano in continuazione
e senza causare code alle
fermate.
Raggiungo facilmente Avenida Eugenia,
il viale che attraversa un quartiere
borghese, per visitare suor Edelmira.
La trovo nel suo studio di
direttrice della scuola gestita dalle
clarisse del Santo Sacramento.
Sempre uguale, sorridente e attiva,
mi accoglie con un abbraccio e subito
mi parla della Sierra Leone, dove
la conobbi per la prima volta nel
1992. «Le mie consorelle sono ritornate
da pochi giorni da un sopralluogo
a Lunsar, il villaggio della nostra
missione. Pare che presto si potrà
ritornare e dovremo ricominciare
tutto da capo. Spero proprio di poterci
andare anch’io. Il mio cuore è
rimasto laggiù».
Dirigere una scuola borghese della
capitale può dare soddisfazioni,
specialmente ora che le suore hanno
potuto aggiungere un nuovo edificio
per le varie attività delle studentesse.
Ma 30 anni di vita missionaria in Africa
hanno segnato per sempre l’esistenza
di suor Edelmira. La nostalgia
si fa sentire anche quando il paese
è disastrato, pericoloso
e difficile come è ancora
la Sierra Leone.

La Chiesa in Messico
Da quando arrivarono i primi missionari
nella Nuova Spagna, insieme
ai conquistatori spagnoli, la
chiesa messicana ha sempre sofferto.
Francescani e domenicani si distinsero
per il coraggio con cui cercarono di
difendere gli indigeni dagli eccessi
dei coloni. In breve tempo riuscirono
a convertire gran parte del paese e
fondarono centinaia di monasteri.
L’intera popolazione faceva parte della
chiesa, unica istituzione che assicurava
servizi sociali e istruzione.
Con l’espulsione dei gesuiti dal continente
americano nel 18° secolo, le relazioni
tra stato e chiesa entrarono in
crisi e i governi tentarono di limitare
il potere della chiesa, intervenendo
sulle proprietà che quest’ultima riusciva
ad accumulare più velocemente
dei corrotti capi di governo.
Per due secoli la chiesa cattolica messicana
ha avuto momenti di grande
turbolenza. Fu un parroco cattolico,
Miguel Hidalgo y Costilla, che nel
1810 lanciò il famoso «grito de dolores
» per esortare la gente a ribellarsi
al malgoverno degli spagnoli. I ribelli
riuscirono a conquistare Zacatecas,
ma un anno dopo furono sconfitti e il
povero prete giustiziato. La stessa fine
fece un suo allievo, prete pure lui,
durante la guerra d’indipendenza; una
vittoria che non riuscirà a portare il
paese a una stabilità politica.
La costituzione del 1917 stabilì che
i religiosi non potevano votare, esprimere
opinioni, possedere beni, né
gestire scuole o mezzi d’informazione.
Negli anni ’20 si arrivò alla guerra civile:
i cristeros bruciavano le scuole
statali e uccidevano gli insegnanti; i
governativi distruggevano o saccheggiavano
le chiese e uccidevano i preti.
Solo nel 1992 furono stabilite relazioni
diplomatiche tra Messico e Santa
Sede.
Non bisogna confondere, però, problemi
e persecuzione della chiesa cattolica
con la fede. I messicani restano
profondamente religiosi e legati
alle tradizioni cristiane.

Claudia Caramanti




VILANCULOS (Mozambico): Riflessioni missionarie

IL FUTURO CHE VERRÀ
Uomo
di «due continenti»,
padre Sandro Faedi
riflette sulla sua
esperienza missionaria.
Per tirare anche alcune
conclusioni sul futuro
che si sta delineando…

Dopo aver lavorato per circa
20 anni in America del Sud
(Venezuela), padre Sandro
Faedi si trova ora a Vilanculos, in
Mozambico. Direttore delle pontificie
Opere missionarie venezuelane,
ha dovuto occuparsi sia della pastorale,
che dell’animazione missionaria.
L’esperienza fatta gli può
dunque permettere di stabilire alcune
proiezioni interessanti circa il futuro
della missione.
Nel contesto attuale della chiesa,
molte sono le persone che si chiedono
quale sia il futuro della missione.
La globalizzazione ci ha portato il
mondo in casa e le realtà dei popoli
del Sud ci sono più familiari; il dialogo
interreligioso, l’evangelizzazione
e la promozione umana diventano
più che mai una sfida per la chiesa.
Ma, oggi, dove sono i missionari?
Le partenze sono sempre meno frequenti,
gli istituti missionari diminuiscono
di numero nei loro componenti,
le nuove entrate non riescono
più a sostituire coloro che, per
motivi di età, malattia o morte, sono
costretti a lasciare il proprio posto.
La domanda merita, dunque, di essere
posta. Ed è padre Sandro che
spiega un po’ le cose…

MISSIONE
SENZA MISSIONARI?

La missione, come noi
l’abbiamo pensata da anni
(cioè, una delle attività
della chiesa) avrà ancora un
posto significativo nel futuro?
Io credo che non rivedremo mai
più le spedizioni missionarie del passato!
Lo slancio e il dinamismo della
missione ad gentes sono state spazzate
via dal secolarismo, l’abbandono
della pratica religiosa e l’indifferenza;
d’altra parte, molte comunità
missionarie si sono ripiegate su
se stesse e, sull’esempio dei vari organismi
governativi, investono più
tempo in personale, soldi e problemi
interni, dimenticando lo scopo
per cui sono stati fondati.
Ma la chiesa non «ha una» missione,
perché essa stessa «è» missione!
Proprio come una pietra lanciata
nel mezzo di un lago, che continua
ad espandere le sue onde fino ai bordi.
Mi viene in mente la chiesa primitiva
e il modo con cui i primi discepoli
di Gesù hanno «pubblicizzato
» la nuova fede in tutto il mondo
conosciuto di allora. Penso anche alla
città di Milano, ai tempi di
sant’Ambrogio: metà dei suoi abitanti
erano pagani, l’altra metà divisa
tra cattolici e ariani. Non c’era ancora
la congregazione di Propaganda
fide. La predicazione di Ambrogio e
la testimonianza di vita dei fedeli furono
gli unici mezzi per raggiungere
i non credenti.
Ritoeremo a quei tempi? Probabilmente
no, anche se oggi la chiesa
ha questa nuova coscienza: definirsi
missionaria all’interno e all’esterno.
Ho chiesto ad un giovane che
era appena stato battezzato: «Perché
Dio ci ha creati?». Spontaneamente,
mi ha risposto: «Per conoscerlo, amarlo
e farlo conoscere e amare dai
miei compagni!».
È suonata l’ora di «ridare» la missione
alla chiesa: tutta la chiesa è missionaria,
ad intra e ad gentes. Anche
se sono meno numerosi, i praticanti
hanno una fede più dinamica e contagiosa:
ciò che noi abbiamo visto e
toccato, noi ve lo annunciamo.
«Ringraziamo le chiese d’Europa
che ci hanno portato Cristo; ma non
possiamo ringraziarle per non aver
fatto di noi dei missionari». Mi vengono
in mente queste parole di un
vescovo brasiliano in un congresso
missionario, alla vigilia delle celebrazioni
per i 500 anni di evangelizzazione
del continente latinoamericano. Parole vere: cristiani sì, missionari
no; una chiesa oggetto della
missione, una chiesa che riceve e non
dona. Lo zelo di cui tanti missionari
erano infiammati non è stato trasmesso
nel cuore delle chiese che
hanno fondato. Perché?
Quando un alunno viene bocciato,
ci sono due possibilità: o che sia
pigro, oppure il maestro un incapace.
Occorre cercare di risvegliare
l’interesse dell’alunno e migliorare il
metodo del professore. È ciò che si
cerca di fare in America Latina. Tutto
il lavoro e la riflessione teologicopastorale
di questi anni hanno avuto
di mira la costruzione di un nuovo
modello di chiesa: tutta apostolica,
meno centrata sui sacramenti e più
sul vangelo, meno portata all’interno
e più all’esterno, meno sui vicini
e più sui lontani, meno di parole e
più di testimonianza…
I frutti non sono tardati a venire:
l’entusiasmo missionario ha raggiunto
associazioni, comunità religiose,
preti, famiglie e… ammalati! Nella
chiesa tutti sono chiamati ad annunciare.
In Venezuela, soprattutto, abbiamo
visto rinascere una chiesa cosciente
e dinamica. Manifestazione
speciale e sorprendente di questo risveglio
sono stati i giovani laici missionari,
che hanno accettato di consacrare
un periodo delle loro vacanze
per andare a «fare missione» nei
villaggi, dove la presenza della chiesa
era minima; o ancora giovani laici
che, dopo aver ottenuto il diploma,
hanno deciso di «buttare» qualche
anno della loro vita al servizio degli
ultimi, in un vicariato apostolico o in
una missione fuori della patria.

LO SPIRITO SANTO E… LORO
Certo, per padre Sandro, la realtà
del Mozambico, dove si trova ora, è
ben diversa. La pasqua scorsa sono
stati celebrati 336 battesimi, dopo tre
anni di catecumenato: il 60% di loro
avevano più di 18 anni. Uomini e
donne che cercavano Cristo e hanno
trovato nella chiesa una risposta alla
loro fame e sete di Dio. Il numero è
quasi sempre lo stesso, tutti gli anni.
«Padre, cosa devo fare per essere
cristiano? Per pregare Dio, come
voi, la domenica?». Allora, chiedo
loro: «Perché vuoi essere cattolico?
». Quasi sempre la loro risposta
è: «È un mio vicino, un parente, un
amico che mi ha invitato… Ho visto
come siete uniti e organizzati, come
aiutate i poveri…».
Nel Mozambico di oggi, l’offerta
religiosa è importante: oltre alla nostra
chiesa, si trova una moltitudine
di sètte (cristiane o no) e pure l’islam.
La gente cerca qualcosa che riempia
il cuore e dia senso alla loro esistenza.
Non sono i missionari che chiamano,
non sono stato io ad avvicinare
queste persone, ma lo Spirito Santo,
la comunità cristiana. I veri
missionari sono i nostri cristiani che,
con la parola e l’esempio della loro
vita, condividono la gioia di credere,
trovarsi in comunità e servire i poveri;
per questo richiamano alla vita in
Gesù.
La missione è stata restituita alla
chiesa! Un catechista spiegava ad un
neo battezzato: «Dove è scritto che
tu hai ricevuto il battesimo per venire
a messa la domenica? Non sai che
Dio ti ha fatto battezzare perché aiutassi
i tuoi fratelli?». Questa è la chiesa
nuova che cresce, risposta alla nostra
angoscia e promessa per l’avvenire.
Oggi l’urgenza è «come» essere
missionari. Il missionario «capace di
fare tutto» è morto da tempo. Ora
abbiamo bisogno di missionari «dietro
le quinte», animatori, formatori,
e moltiplicatori di una chiesa nata
per annunciare. L’avvenire della
missione è stato così restituito alla
chiesa, cosciente di essere
inviata ovunque, sino ai
confini della terra!

C’è posto… per tutti
La missione cambia, lentamente, ma decisamente… Prima del concilio Vaticano
II, i missionari erano tutti preti, religiosi e religiose. Ma è lo stesso
concilio ad insegnare che tutti i discepoli di Cristo devono collaborare
alla missione. Visitando il Mozambico ho effettivamente incontrato laici impegnati
in questo senso, giovani e meno giovani.
Alcuni giovani – È a Cuamba che incontro alcuni laici missionari, che hanno
preso la decisione di dedicare un periodo di vita al servizio dei più poveri. È il
caso di Nuno Miguel Reis Prazeres, 28 anni. Pienamente integrato nell’équipe
pastorale della parrocchia di Cuamba, è professore sia nella scuola superiore,
come alla facoltà di agricoltura della nuova università cattolica del Mozambico.
Mi presenta anche tre ragazze, della stessa età, che lavorano tutte nell’insegnamento
o nell’amministrazione. In più, sono impegnate pure in parrocchia:
alla biblioteca, con i giovani e per dei corsi di informatica. Tutti questi giovani
missionari laici hanno un contratto con la diocesi e l’università.
Un pensionato – Titus Pereira risiede nel vescovado di Lichinga. È un portoghese
in pensione; ha lavorato tutta la vita nelle costruzioni. Non è architetto
né geometra, ma ci sa fare; per questo ha messo il suo talento al servizio della
diocesi ed è lui che cornordina la maggior parte delle nuove costruzioni.
Un laico IMC – Ma vi è pure un’altra possibilità: un contratto come laico missionario
della Consolata. Ne ho visto uno, a Vilanculos: Wilfer Javier Ramirez,
uno dei giovani formati in Venezuela da padre Nelson Lachance, con «Joven
Mission». Mentre il padre lavorava nelle pontificie Opere missionarie, aveva
fondato un’associazione di giovani: Javier ne divenne membro e, in seguito,
continuò ad interessarsi alle missioni, collaborando nelle pontificie Opere con
padre Sandro Faedi. Mi racconta come ha maturato la sua vocazione missionaria:
«In tutta la mia formazione e nei vari incontri, ho imparato molte cose
sulla missione. Sempre più volevo mettere in pratica ciò che avevo imparato e
avvertivo che, per rispondere alla chiamata del Signore, dovevo lasciare il Venezuela
e andare in un paese lontano». Era pronto, ma fu molto difficile per
via dei famigliari. Per questo, allo scadere del suo contratto dei tre anni, ritoerà
in Venezuela per sposarsi e occuparsi della famiglia.
Gli chiedo della sua esperienza: «Bella e interessante. Mi sentivo ben preparato.
È stato più duro per i miei genitori e la mia famiglia». Ora, a Vilanculos, aiuta
nel cornordinamento materiale delle tre scuole matee della missione. In ognuna
c’è una sessantina di bambini, è necessario procurare acqua e cibo: ed è proprio
Javier che si interessa di tutto. J. P.

Jean Paré




Attraversando l’isola-continente dell’Australia

Un mosaico affascinante (e crudele)

Le «tessere» sono vescovi rattristati, bambini rubati, immigrati italiani,
medici volanti, guide tutto-fare. E costoni rocciosi, strade interminabili,
foreste, praterie, parchi con fiori smaglianti e timidi canguri.
E gli aborigeni?
Ovunque si balla il «valzer di Matilde».

IN CHIESA E I «BAMBINI RUBATI»
Sydney. Partecipiamo alla messa
nella parrocchia cattolica di St. Canice.
L’altare è in marmo di Carrara,
eseguito dallo scultore italiano «Signor
Primo Fontana» nel 1888. La
St. Canice’ Church, costruita verso il
1880 sul modello dell’omonima cattedrale
di Kilkenny (Irlanda), fu il
primo centro comunitario di ispirazione
cattolica della città.
I canti ci ricordano quelli delle funzioni
protestanti. Alla «preghiera dei
fedeli» sono ricordate anche, con nome
e cognome, le persone particolarmente
bisognose. Dopo l’eucaristia,
vengono serviti dolci, bibite e si
scambiano saluti e notizie.
Il parroco, un simpatico castigliano,
ci informa che i cattolici australiani
non sono organizzati come chiesa,
ma sentono molto l’amore verso
il prossimo e praticano ogni forma
di carità.
I primi cattolici sbarcarono in Australia
nel 1800: erano sacerdoti irlandesi
deportati dall’Inghilterra. Oggi
la presenza della chiesa è notevole
soprattutto nel campo educativo:
sono circa 2 mila le scuole, frequentate
da oltre 600 mila studenti. I vescovi
superano la trentina.
Da un giornale parrocchiale di Sydney
apprendiamo che la chiesa è rattristata
da una decisione della Corte
di giustizia; questa ha respinto la denuncia
di «sottrazione forzata», presentata
da due aborigeni appartenenti
alla stolen generation (generazione
rubata). Sono Loa Cubillo
e Peter Gunner. La coppia ha dichiarato
che, da bambini, sono stati
sottratti con la forza alle loro famiglie
per essere inseriti nel mondo
dei bianchi come addetti a lavori
umili e faticosi. Loa Cubillo e Peter
Gunner si sono appellati al Commonwealth.
I vescovi affermano che, se è vero
che alcuni indigeni permettevano che
i figli fossero loro tolti per ricevere
un’istruzione, questo non fu il caso
di Loa e Peter. Si richiede una risposta
adeguata al dramma, che non
si risolve con indennizzi economici,
bensì con il riconoscimento dei soprusi
commessi.
La Corte ha replicato che, allora, la
legge permetteva ad un funzionario
di prendersi cura di bambini nativi,
quando fosse nel loro interesse, anche
contro la volontà della famiglia.
Però questa non fu la sorte di Loa
e di Peter, vittime di viziose violenze
sessuali nelle case di Darwin, dove
crebbero infelici (anche senza mangiare),
riportando gravi traumi per
tutta la vita. Ma le vittime non hanno
convinto la Corte. Loa e Peter furono
sottratti ai loro genitori rispettivamente
nel 1947 e 1956.
Dalla decisione della Corte di giustizia,
dalle sue motivazioni, dagli
autori della denuncia e dal dibattito
svoltosi in tribunale è emerso un capitolo
crudele della storia australiana,
di cui si è venuti a conoscenza
solo nel 1997, ma che si estende ben
oltre la metà del 20° secolo.

IL SOGNO DEGLI IMMIGRATI ITALIANI
Dopo la prima guerra mondiale,
numerosi giovani italiani incominciarono
a parlare dell’Australia, la
«terra sottosopra», dove il cielo stellato
è all’«incontrario», con vastissimi
territori ancora da conquistare.
Sognavano quell’isola in fondo al
mappamondo, perché laggiù il governo
regalava ricchi terreni a chiunque
avesse il coraggio e la forza di
trasformare la foresta in fattorie,
strade, città. E, per gli appassionati, c’era la possibilità di cacciare dall’alba
al tramonto animali e uccelli
di ogni genere.
Il governo australiano, per evitare
costi sociali, preferiva che gli immigrati
sud-europei avessero un parente
cui appoggiarsi; costui firmava un
documento, impegnandosi a fronteggiare
ogni necessità del nuovo arrivato.
Dai rapporti governativi dell’epoca
si apprende che si favorivano
lombardi, veneti e piemontesi, «più
simili agli anglosassoni, educati, laboriosi
». Siciliani e calabresi erano
graditi solo per la pesca.
Ancora oggi gli anziani agricoltori
del Queensland ripetono che, quando
la canna da zucchero si lavorava
a mano, gli italiani tagliavano il
doppio dei giapponesi e dei maltesi.
Molti hanno fatto fortuna.
I nostri connazionali partivano dal
porto di Genova. Approdati in Australia,
raggiungevano una città appena
sorta, con strade di fango e baracche
di legno, il tetto in lamiera.
Lavoravano a cottimo: si presentavano
all’alba agli ufficiali della Colonial
Sugar Refining, che formavano
gruppi di tagliatori composti da tre
lavoratori esperti, sei nuovi e una
donna per la cucina. Gli ufficiali davano
la precedenza agli inglesi, poi
venivano i neri e gli italiani. Lavoravano
il più possibile.
Gli italiani, appena mettevano da
parte qualche soldo, compravano dei
cavalli, un carro, qualche suppellettile
e partivano verso le terre vergini
da disboscare, molto fertili, dove c’era
solo giungla, serpenti e coccodrilli
nei fiumi. Piantavano la canna, e
morivano di fatica per far vedere agli
inglesi che erano più bravi di loro.
Da un lato un paradiso di libertà,
con la casa dei vicini a mezza giornata
di cammino; dall’altro una vita
piena di insidie, con cicloni che duravano
giorni e giorni trasformando
le valli in laghi e le strade in fiumi.
Case intere venivano spazzate via in
un attimo, se gli uomini non vincevano
questa lotta immane salendo a
decine sul tetto, oppure legandosi alla
vita delle funi, dopo averle fatte
passare intorno alle travi del tetto e
tirandole con tutte le forze.
Le città sorgevano dal nulla, appena
un avventuriero scopriva che la
regione nascondeva giacimenti auriferi;
migliaia di cercatori vi si riversavano
seguendo il profumo della
fortuna. Intanto molti poveri disperati,
giungevano da altre città: non
conoscevano i pericoli del bush e, in
tanti casi, morivano di sete prima
che fosse costruito l’acquedotto per
portare l’acqua da centinaia di chilometri
di distanza.

«PAPPAGALLI» E CANGURI
Per tanti immigrati il sogno australiano
divenne una dura realtà,
che alcuni pagarono con la vita. Oltre
le difficoltà materiali, erano anche
gravi i problemi psicologici,
dovuti a solitudine e paura. Sorsero
così i «dottori volanti» (flying doctors).
La prima base dei «dottori volanti
» sorse a Cloncurry (Queensland)
nel 1928. Disponeva di un telegrafo
a pedale e di un piccolo aereo di tela.
Fu anche istituito un servizio, organizzato
da donne, chiamato «pappagallo
», per far sentire meno la solitudine
con chiacchiere opportune.
Molti ricordano ancora il «dottore
volante» atterrare nel bush e rimuovere
i grumi di sangue dal cervello dei
pazienti con un trapano da legno…
senza anestesia. Oggi la Royal Flying
Doctor Service è una società no profit
con basi operanti 24 ore su 24 con
radio-telefono. Per molti che vivono
in zone remote è l’unico legame con
il mondo esterno; per altri funge da
sistema di supporto, in caso di malfunzionamento
del telefono caricato
con energia solare… Le chiamate possono
essere effettuate per affari o ragioni
di natura sociale, per ordinare
viveri, per consultazioni mediche. In
caso di emergenza, ogni base può coprire
la propria area con evacuazioni
o trasporto all’ospedale in meno di
due ore.
La prima sensazione che si prova,
di fronte al paesaggio australiano,
è quella di uno struggente infinito.
Si viaggia per centinaia di chilometri
su strade rettilinee, senza incontrare
una casa o incrociare un altro
veicolo, intravvedendo in lontananza
dolci montagne arrotondate,
spesso a forma di tronco di cono.
Colpisce l’armonia dei colori: la
terra rossa, i cespugli di spinnifex di
un verde intenso, gli eucalipti (ne
esistono centinaia di specie). Nel bush
(paesaggio selvatico per eccellenza)
sembra che nulla sia lì per caso e
si capisce da dove vengono i miti degli
aborigeni. L’idea che il paesaggio
sia stato creato durante «il tempo dei
sogni» da qualche antenato, per ottenere
un’opera d’arte fatta insieme
alla natura, diventa lampante.
Attraversiamo le prime e sconfinate
praterie, all’apparenza incontaminate.
La guida ci racconta l’aggressione
ecologica che i suoi antenati,
all’inizio del 19° secolo, scatenarono
contro l’ambiente. L’erba non è australiana,
ma fu portata dagli europei
per le loro mandrie di pecore e
mucche; invadente come i coloni, in
poco tempo si sostituì alla vegetazione
originaria. La natura australiana,
isolata dal resto del pianeta per
milioni di anni, non ha potuto difendersi
dalle invasioni arrivate dall’Europa;
il bush originario è in gran
parte scomparso.
Conigli, cani, gatti, maiali inselvatichiti, rospi della canna da zucchero,
mimose africane, calle inglesi e
molte altre specie di animali e piante,
all’apparenza insignificanti, sono
responsabili della distruzione di interi
ecosistemi.
Attraversiamo un campo di calle
selvatiche; il nome australiano di calla
è white death (morte bianca)… Il
celebre evoluzionista Charles Darwin
era in relazione con i Bussel (proprietari
terrieri inglesi), che abitavano
vicino a Perth ed erano appassionati
di botanica. Darwin, un anno,
inviò loro come regalo di natale un
vaso di calle, imbarcandolo senza
speranza per l’Australia. Dopo due
mesi, la piantina, sopravvissuta al
viaggio, fu trapiantata dai Bussel in
riva al Margaret River. In meno di un
secolo le calle hanno spazzato via i
fiori naturali del bush australiano…
Ecco spuntare canguri grigi, marroni,
rossicci: fermi ai lati della strada
ci aspettano incuriositi con le
zampe anteriori raccolte sul petto,
pronti a tornare con un paio di salti
nel bush quando siamo troppo vicini.
Ci sono anche i wallaby (canguri
più piccoli e timidi), graziosissimi.

QUELLA GUIDA STRAORDINARIA
La vita rilassata degli australiani
dovrebbe essere esportata in tutto il
mondo. Un perfetto esempio di questa
Australia è la categoria delle guide
turistiche.
L’affluenza di visitatori è aumentata
in misura straordinaria con effetto
boomerang… data la diminuzione
dei costi e il miglioramento dei
servizi. Le guide sono preparate da
scuole specializzate per i vari tipi di
accompagnamento. La loro caratteristica
è quella di abbracciare molte
competenze. Sui treni la guida opera
anche come bigliettaio e cameriere,
oltre che fornire informazioni su
località e natura; e non è raro che si
infili la tuta e si trasformi in idraulico…
Percorriamo la Great Ocean Road,
una strada tagliata per centinaia di
chilometri nella scogliera ad ovest di
Melboue. Questa strada fu costruita
nel 1932 a ricordo dei soldati australiani
periti nella prima guerra
mondiale. La guida è anche autista
della corriera: una simpatica ragazzona,
che indossa comodi pantaloni
e camicia maschili.
Osserviamo dallo specchietto laterale
il suo volto pacioso, sempre sorridente
e rilassato, mentre parla per
ore al microfono sospeso alla sua altezza:
spiega la storia geologica della
zona, racconta le vicende degli innumerevoli
battelli che sono naufragati
su questa costa… Apprendiamo
che la città di Melboue fu fondata
nel 1846 con la corsa all’oro e che coloro
che venivano in Australia, al di
là dello spirito di avventura o di altri
motivi, da qualsiasi parte provenissero
e qualunque fosse la loro identità
personale, tutti avevano un
unico scopo: fare tanti soldi.
Ci parla delle raffinerie di petrolio
sorte nel 1950 e di come il governo
fece pubblicità in tutto il mondo per
far venire gente che vi lavorasse, della
Ford che arrivò nel 1924 ed è tuttora
molto popolare. Poi passa dalle
notizie sugli sport nazionali a quelle
sugli allevamenti e la tosatura delle
pecore… Da sola ci ha intrattenuti
dalle 8 del mattino alle 9 di sera, guidando
un pullman per centinaia di
chilometri, con 53 persone di tutto il
mondo, su strade strette, tortuose, a
picco sul mare. Ci ha pure servito in
un bosco una merenda con tè e dolci,
stile Australian bush.
Alla sera, ci complimentiamo con
lei per la professionalità, chiedendole
se non sia faticoso un tale lavoro.
«Non particolarmente – è la risposta
-. Ma si tratta solo di due giorni alla
settimana. Gli altri li passo in ufficio».

IL PARCO NAZIONALE «KAKADU»
Il parco nazionale Kakadu si estende
per circa 20 mila chilometri quadrati,
a nord dell’Australia. È al centro
di dispute fra ecologisti e politici
per le miniere di uranio.
Patrimonio mondiale dell’Unesco
per valori naturali e culturali, il
Kakadu comprende quasi tutto il bacino
del South Alligator e nel suo
habitat prospera un’enorme varietà
di piante e di animali, molte delle
quali uniche. Nuove specie continuano
ad essere scoperte. Abbraccia
inoltre luoghi di grande importanza
artistica e archeologica, che riflettono
la ricchezza della plurimillenaria cultura aborigena.
Il parco è diretto da un Consiglio,
composto in maggioranza da aborigeni,
scelti dai proprietari terrieri. È
la realizzazione di un progetto prestigioso,
che contempla la protezione
di un delicato ecosistema di
foreste, fiumi e monti in un’area ricca
di testimonianze preistoriche. Per
esempio: le mangrovie (che altrove
stanno scomparendo per far posto
agli allevamenti di gamberetti delle
multinazionali) contano qui 20 specie,
divenendo un vivaio naturale di
pesci. In questo ambito, da anni, è
attivo un piano governativo con forti
investimenti e il sogno di diventare
leader mondiale.
Nella visita del Kakadu, siamo accompagnati
dalla solita guida tuttofare:
in questo caso un’esile fanciulla,
biologa, esperta di flora e fauna
locale, che da sola ci ha fatti imbarcare,
ha tolto gli ormeggi, ha staccato
il battello con una lunga canna
dalla riva paludosa e acceso il motore.
Ora manovra in stretti passaggi,
si ferma e riparte. Ci fa visitare insenature
particolari. Illustra con competenza
la complessità dell’ecosistema
che stiamo attraversando.
Nella crociera sul fiume East Alligator
siamo, invece, accompagnati
da due aborigeni: uno, più intellettuale,
risponde alle nostre domande
sulla loro situazione; l’altro, più pratico,
ci illustra le loro attività artigianali.
Costeggiamo l’Ahemland, patria
degli aborigeni e dei loro miti. Poniamo
loro alcune domande. Rammentiamo
anche una scena di pochi
giorni prima ad Alice Springs, una vivace
cittadina di 25 mila abitanti. È
sabato: alcuni aborigeni scendono da
un taxi (!) e raggiungono un parco
per aggregarsi ad altri, sdraiati sull’erba;
tutti fumano e per terra vi sono
lattine di birra e bottiglie. Quando
ripassiamo dopo alcune ore, gli
aborigeni sono ancora là; ci fanno
pensare a persone sradicate dal loro
mondo e per nulla inserite in quello
dei bianchi. Ecco il problema.
Fino al 1860 gli aborigeni (chiamati
anche negritos) erano considerati
animali e i bianchi li trattavano
come la selvaggina. Non conoscevano
armi da fuoco, né sapevano difendere
il loro territorio, dal momento
che fra loro non esistevano proprietà
né si dividevano le zone di
caccia. Tuttavia la loro terra, enorme
ed inospitale, li ha salvati dall’estinzione.
Cinicamente qualcuno sostiene che
sarebbe stato più vantaggioso il contrario,
considerato il dramma passato
e presente degli antichi padroni
dell’Australia: infatti il 90% è vittima
dell’alcornolismo e per questo spesso
in carcere; l’80%, senza lavoro, sopravvive
con sussidi governativi. In
media la vita di un aborigeno è di 50
anni, mentre la mortalità infantile è
tre volte superiore a quella dei bianchi…
Ora siamo di fronte ad un giovane
aborigeno, dall’aspetto intelligente,
che si esprime in un buon inglese: ci
espone le difficoltà del suo popolo
con dignità e malinconia, ma dimostra
anche fiducia nel suo spirito d’intraprendenza.
Gli anziani soffrono
molto, perché le loro tradizioni stanno
scomparendo; i bambini vanno a
scuola e studiano l’inglese, perché i
loro genitori capiscono che l’integrazione
nel mondo dei bianchi è l’unico
futuro, pur con la forte volontà di
non abbandonare i fondamenti della
cultura tradizionale.
Alcuni bianchi rilevano nel comportamento
degli aborigeni una certa
ambiguità: da una parte si atteggiano
a vittime e protestano per i loro
diritti calpestati e i soprusi subiti
dalle istituzioni; dall’altra, proprio di
queste cercano di approfittare per ottenere
vantaggi economici dal turismo,
dalla loro arte e da altre forme
consumistiche di guadagno.

BALLANDO CON MATILDE
È notte. Con emozione ascoltiamo
dalla radio Waltzing Mathilda. È
l’inno nazionale ufficioso dell’Australia,
la canzone più popolare: una
malinconica ballata che spesso sostituisce
(anche per clamorose gaffes)
il vero inno nazionale.
Composto e scritto nel 1891, Waltzing
Mathilda è insieme un inno alla
libertà e un grido contro le repressioni
dei girovaghi da parte del potere.
Il titolo «ballare il valzer con Matilde
» assume il significato di affrontare
gli spazi infiniti dell’outback (interno),
ossia il never-never: la terra
che, una volta vista, nessuno più abbandona.
Matilde, infatti, è il nome
che i girovaghi dell’outback avevano
dato all’oggetto più prezioso del loro
equipaggiamento: il sacco-letto portatile,
che veniva arrotolato e legato
allo zaino.
E la mitica Mathilda Highway è la
pista tracciata dagli esploratori che,
guidati dall’irlandese Burke (agosto
1860 – febbraio 1861), riuscirono ad
attraversare il paese da Melboue al
Golfo di Carpentaria. Tutti i componenti
della spedizione (tranne uno)
morirono di sete durante il viaggio di
ritorno. Oggi quella strada è costellata
da decine di placche e piccoli
musei…
Le ultime e struggenti note di «ballare
con Matilde» si perdono sotto le
stelle nell’isola-continente dell’Australia.

(*) SILVIA PEROTTI
ha visitato l’Australia con il marito
Giovanni e i coniugi Francesco
e Paola Rosso. Già insegnante di
fisica nelle scuole superiori, la signora
Silvia è oggi anche presidente
dell’Associazione «Amici
Missioni Consolata» di Torino.

ALCUNE FONTI
– Australian Aboriginal Culture,
Camberra 1998
– Deirdre Stokes, Desert Dreamings
– Calendario Atlante De Agostini
2003, Istituto geografico De Agostini,
Novara 2003
– Guida del mondo 2001/2002 (il
mondo visto dal sud), Emi, Bologna
2001
– Alex Roggero, Australian Cargo,
Feltrinelli, Milano 2000
– Time, 25 settembre 2000
– Aimis (Agenzia di informazioni
missionarie), 1773/92

UN ABORIGENO A ROMA
Su alcuni edifici della «città eterna» vi sono targhe che ricordano i
soggiorni di tanti personaggi stranieri.
Ma degli australiani non vi è
nulla: nulla, per esempio, che indichi
la casa di Raffaello Carboni, celebre
cronista della rivolta di «Eureka
Stockade» (minatori contro
esercito: unica battaglia combattuta
sul suolo australiano). Né si ricorda
dove alloggiò Mary Mackillop,
prima santa australiana.
Però, nel cimitero dei benedettini
presso la basilica di san Paolo, un
appassionato di curiosità storiche
sarebbe contento di sapere che vi è
sepolto Francio Xavier Conaci, monaco,
morto giovanissimo nel vicino
convento nel 1853.
Conaci era uno dei cinque aborigeni
portati a studiare in Italia nella
metà del 19° secolo; poi alcuni
divennero probabilmente missionari
fra la loro gente: quattro provenivano
da New Norcia, nell’ovest
dell’Australia, e uno da Sydney.
Il missionario Rosendo Salvado,
spagnolo e fondatore di New Norcia,
condusse il Conaci in Italia nel
1849. Lasciata la famiglia, percorsero
i 132 chilometri dal monastero
di New Norcia a Perth su un carro
trainato da una giumenta. Pare
che Salvado si recasse in Europa
per raccogliere aiuti per la missione,
e l’aborigeno lo seguì in Inghilterra,
Francia e infine in Italia. Conaci
aveva 12 anni, capelli rossicci,
intelligenza acuta, di cui Salvado
era entusiasta. L’aborigeno scrisse
brillanti commenti sul suo viaggio
in Europa.
Frequentò con profitto la scuola
del convento a Cava dei Tirreni, vicino
a Napoli, ma il clima
umido gli causò
problemi di salute. Così
nel 1853 raggiunse
il monastero di san
Paolo. Non fu una
scelta felice, data l’umidità
e i problemi ai
bronchi. Infatti, dopo
poco tempo, morì.

LA CACCIA ALLA BALENA

«Una notte molti aborigeni si radunarono
nella baia di Encounter
per un rito, ma non avevano il fuoco
per illuminare le tenebre. Allora
invitarono alla cerimonia un potente
uomo, di nome Kondole, perché
possedeva il fuoco. Ma questi, infuriato,
lo nascose ed essi decisero di
prenderlo con la forza. Però nessuno
osava avvicinarsi. Infine un giovane,
Rilballe, scagliò la lancia: ferì
Kondole al collo e gli prese il fuoco.
Tutti gli altri si misero a ridere, ma
furono trasformati in animali. Kondole
corse verso il mare e divenne
una balena. Ora soffia fuori l’acqua
attraverso la ferita del collo» (leggenda
del «tempo dei sogni»)…
Nel 1791 iniziò nel paese la caccia
alla balena da parte dell’equipaggio
del Britannia, dopo aver scaricato
merci e galeotti. Le balene furono
ritenute idonee alla caccia,
perché si avvicinavano alla spiaggia,
galleggiavano da morte e foivano
barili e barili di olio. Si sviluppò così
una vera industria.
Nel 1845 i cetacei, mentre prima
se ne contavano circa 100 mila,
erano quasi estinti: erano così rari
che la caccia fu dichiarata antieconomica
e, in poco tempo, furono
chiusi i centri per la lavorazione
della carne e dell’olio, sorti sulle
coste.
Nel 1931, nell’Australia del sud,
iniziò una campagna di protezione
e, nel 1990, si arrivò alla riserva. Al
presente si contano circa 800 balene:
pesano anche 80 tonnellate e
misurano 17 metri di lunghezza.
Con un po’ di fortuna si possono
ammirare vicino alla costa durante
le migrazioni invernali.

Silvia Perotti




Attraversando l’isola-continente dell’Australia

SOTTO LO SGUARDO DEI CANGURI
«Vagando in solitudine
ho conversato
con me stesso,
e queste sono
le mie parole»
(da una ballata australiana).

Un paese di compagni (o quasi)
Gli aborigeni vi risiedono da circa 40 mila anni.
Ma alla fine del 1700 la loro esistenza viene sconvolta per sempre.
L’Australia diventa specialmente bianca, grazie allo sbarco
di alcune centinaia di galeotti e soldati agli ordini del re d’Inghilterra.
Oggi le cose stanno mutando:
primo, perché ai pronipoti dei criminali si sono aggiunti nuovi immigrati;
secondo, perché gli aborigeni dicono: «Questa terra è innanzitutto nostra!».

È un’isola-continente… In un articolo
corposo apparso su Time
(25 settembre 2000), in occasione
delle olimpiadi di Sydney, lo
scrittore e critico d’arte Robert Hughes,
australiano, residente da circa
30 anni negli Stati Uniti, ha evocato
i pregi e difetti dell’Australia come
soltanto un nativo può fare.
Contrariamente a quanto tutti hanno
pensato, i giochi olimpici non sono
stati per gli australiani l’occasione
per richiamare l’attenzione su di
essi, un evento per diventare sempre
di più come gli americani. Nonostante
la forte tradizione sportiva, l’importanza
dei giochi è stata inferiore
a quella di altri avvenimenti.
Non esiste per gli australiani, sia
realisti sia idealisti, il coinvolgimento
nella teoria dell’«eccezionale».

LAICI E «PAGANI»
La colonizzazione dell’Australia
iniziò con lo scarico di criminali britannici.
La differenza con la colonizzazione
americana fu profonda, perché
l’avventura nelle terre degli indios
si tramutò quasi in un’impresa
religiosa, una missione per liberare il
mondo dal peccato e creare il paese
di Dio. Invece, di fronte agli «australiani
», non c’era alcuna aspettativa
morale, ma nemmeno un‘angosciosa
delusione.
Ancora oggi gli australiani tendono
ad essere «pagani»: accentuano
l’etica del piacere in ogni
aspetto della vita; lo fanno, forse,
perché favoriti dalla natura, dal delizioso
clima delle coste (dove vive il
90% della popolazione), da una cucina
raffinata e da superbi vini; sono
esaltati dalla possibilità di praticare
sport in condizioni ottimali (lo spettacolo
della sabbia dorata e dei surf
che battono le onde è seducente).
La cultura è estremamente laica.
L’istruzione statale è eccellente e
nessun sussidio è dato alle scuole
confessionali. La predicazione sulla
«vita eterna» è debole e inascoltata,
malgrado qualche piccolo
effetto sui giovani a causa dell’influenza
culturale americana… Le
elezioni politiche costano pochissimo,
e non è necessario essere ricchi
per finanziarsi la campagna elettorale.
Non esistono scandali che rivelino
l’ipocrisia di apparire in pubblico
diversi dal privato.
Il maschio australiano, come il protagonista
del film Crocodile Dundee
(l’uomo della selva, con il tipico cappello
in testa, il volto abbronzato e
spesso deturpato dal melanoma, provocato
dall’eccessiva esposizione all’ultravioletto),
non coincide con la
realtà. L’«australiano tipo» è un giovanottone,
buon lavoratore (ma senza
stress), con moglie e due figli, un
mutuo per pagare il bungalow di mattoni
(il più vicino possibile alla spiaggia),
il tosaerba, il computer. I bambini
incontrano il canguro solo allo
zoo, o come vittima della strada.

AMICI SENZA DIFFERENZE
Alcune caratteristiche dell’australiano
moderno derivano dal suo passato,
quando i nonni vivevano nella
foresta e i bisnonni erano galeotti deportati
dall’Inghilterra.
Il valore riposto nell’amicizia, per
esempio, ebbe inizio nel duro mondo
delle colonie penali, continuò nel faticoso
lavoro in foresta come allevatori,
pastori, tosatori. Avere un amico
significava sopravvivere e tradirlo
essere meno di un uomo: questo era
il teorema della vita coloniale. Le sue
tracce sono ancora molto vive oggi.
Mate (compagno) è la parola più
comune; gli australiani riescono a ficcarla
in ogni situazione, e per questo
tutto il mondo li prende in giro. Tuttavia
è bello sapere che esiste un
continente dove il termine più usato
è «compagno», perché sottintende
uno stile di vita rilassato e aperto,
degno di essere esportato ovunque.
Un’altra espressione comune
è no worries
(non c’è problema).
La gente la
usa pure per dire
«prego».
Il rovescio
della medaglia
è costituito
dall’avversione
ad ogni forma
di élite: un’avversione
che è
pregiudizio, assurda
negazione dell’abilità,
intelligenza e competenza
incluse nel funzionamento
di ogni società.
In Australia le classi esistono (anche
se spesso si afferma il contrario)
fin da quando i «nati liberi» si sono
opposti ad abbandonare la loro posizione
di superiorità sugli ex condannati
e i loro figli. Però una sorta di
miopia intellettuale produce un’indifferenza
(che sovente rasenta il disprezzo)
verso chi si distingue per i
risultati raggiunti. Unica eccezione è
lo sport, vera religione dell’isola-continente.
Di conseguenza l’Australia non ha
mai onorato i suoi scrittori, pittori,
musicisti e intellettuali, che sono per
lo più sconosciuti all’estero. Soltanto
l’arte aborigena contemporanea
suscita qualche attenzione
oltremare; ma questo è da
inserire nel fenomeno della
rivalutazione di ogni «arte
tipica», da tempo comune
a tutto il mondo.
I sofisticati milionari di
Inteet di oggi non sono
molto diversi dai loro
antenati, minatori, nella
corsa all’oro di Ballarat del
1851. Lo stile di produrre
ricchezza contiene la convinzione
che la superiorità è fortuna,
e il gioco ne è la metafora
perfetta. Gli australiani,
infatti,
sono fra i più accaniti
giocatori
del mondo.

LA REGINA,
NONOSTANTE TUTTO

Oltre che culturalmente, l’Australia
è oscura anche politicamente: raramente
occupa spazi di rilievo sui quotidiani
stranieri. In definitiva gli australiani
si comportano abbastanza
bene, non hanno avuto guerre civili,
non sono stati invasi (però ci sono
solo andati vicino durante la seconda
guerra mondiale a causa dei giapponesi),
sono carenti di scandali politici
e corruzione, non costituiscono
una minaccia per alcuno, né sconvolgono
il mondo economico con i loro
interessi.
Non provano risentimento verso la
Gran Bretagna, colonialista, che li ha
costretti ad esportare lana e grano a
basso costo, e hanno pagato un pesante
pedaggio di uomini durante la
prima guerra mondiale: il più alto di
tutti gli alleati sia in proporzione ai
soldati che alla popolazione.
Capo di stato è il sovrano d’Inghilterra,
appartenente ad una ricca casata
anglo-germanica conosciuta come
Windsor. Il re governa tramite il
governatore generale, non eletto dal
popolo, che può abolire qualsiasi legge
emanata dal governo australiano,
addirittura dimetterlo e indire nuove
elezioni (avvenne nel 1975).
Nonostante tale anacronistico regime
di tipo coloniale, il referendum
del 1999 si è pronunciato a favore
della monarchia inglese, contro ogni
pronostico (si prevedeva il 70% per
la repubblica). Una logica strana ha
portato il 54% dei votanti a ritenere
più vantaggioso e democratico avere
come capo un ricco sovrano straniero
e ritenere, al contrario, insicuro un
presidente australiano sostenuto da
un governo eletto dalla base: e questo
sempre per la scarsa considerazione
nei riguardi dei «migliori».
I monarchici hanno vinto non perché
gli australiani siano particolarmente
devoti alla regina, ma perché
fra i repubblicani hanno prevalso le
divisioni e non vi è stato accordo sul
tipo di repubblica da appoggiare e
sulle modalità del sistema elettorale.
L’Australia è inoltre povera di simboli.
Si vorrebbe cambiare la bandiera
nazionale, eliminando da essa
il jack dell’Unione, ma non c’è accordo su un nuovo stemma. Le stesse
mascottes delle olimpiadi sono state
banali. A parte il canguro o il koala,
l’Ayers Rock (la più straordinaria
pietra del mondo), la barriera corallina,
l’Opera House di Sydney e
l’Harbour Bridge, si stenta molto a
fissare un’identità culturale.
Eppure gli australiani, così antielitari,
vogliono personaggi da ammirare.
«Se non abbiamo la regina, chi
possiamo rispettare?…»: si ripeteva
nella campagna elettorale del 1999.
Però un decreto del 1986 definì
la Gran Bretagna «paese straniero» e i vincoli economici con questo
paese, seppure non trascurabili, stanno
perdendo importanza rispetto a
quelli con il vicino nord-asiatico.
È dunque questione di tempo: la
monarchia in Australia finirà, come
la stessa Elisabetta II ha ammesso
durante la sua ultima visita all’indomani
del referendum pro o contro la
monarchia. L’anglo-australiano, leale
verso il re, ha tenuto fino a mezzo
secolo fa, quando il 90% degli australiani
era di discendenza inglese.

IMMIGRATI E ABORIGENI
L’infausto provvedimento, secondo
il quale nessun asiatico o discendente
da neri poteva stabilirsi in Australia,
fu abbandonato nel 1960.
Ora l’immigrazione fa il suo corso
e interi sobborghi di Sydney sono enclaves
del sud-est asiatico. Superata
l’iniziale xenofobia e il disagio per le
mescolanze etniche, nel paese si sta
affermando l’idea di multiculturalità
in versione australiana. Sono soprattutto
i più giovani a concretizzare tale
parola, altrove fonte di fumosi discorsi.
Essi capiscono, in modo istintivo,
che il desiderio di avere uguali
possibilità di affermazione riguarda
anche gli immigrati, compresi quelli
di colore diverso.
Fin dagli anni ’50 nella politica australiana
lo spettro era il comunismo:
si temeva un sovvertimento; il «pericolo
rosso» era efficacemente agitato
dai politici conservatori a proprio
beneficio. Oggi anche questo è passato,
e l’Australia sta affrontando un
altro tema scottante: l’identità e i diritti
degli aborigeni, nonché il dovere
di rievocare una storia cupa e crudele.
Circa il 2% dei cittadini è aborigeno:
390 mila persone su 20 milioni;
una piccola minoranza senza
poteri economici, politici e culturali.
Non ci sono aborigeni ricchi, proprietari
di giornali o a capo di compagnie.
Su 224 membri del parlamento
di Camberra, solo uno è negrito.
L’influenza aborigena viene
esercitata (soprattutto attraverso comitati
e tribunali) con l’aiuto di
bianchi illuminati.
Questo è un fatto notevole, considerato
che i bianchi, dal momento in
cui si stabilirono colà nel 1788, iniziarono
una guerra non dichiarata di
conquista e, contemporaneamente,
negarono agli aborigeni ogni diritto.
Furono cacciati dalle terre dei loro
antenati dai coloni, e uccisi se opponevano
resistenza; molti altri morirono
di malattia o di dolore.
Ma le previsioni sulla loro totale
estinzione furono disattese. Allora la
politica fu diretta, con ogni mezzo,
verso l’assimilazione al potere dominante.
Gli aborigeni furono raccolti
in missioni, rette per lo più da pastori
protestanti, dove veniva loro insegnato
il vangelo e le abitudini dei
bianchi per prepararli a lavori umili,
soprattutto come domestici.
Nel 1910 fu introdotta una vergognosa
politica: sottrarre i bambini
aborigeni alle loro madri per assimilarli,
come orfani, nella società bianca,
privandoli del nome e della possibilità
di rivedere i genitori.
Gli aborigeni non furono citati nella
costituzione australiana del 1901
e, fino al 1962, non ebbero diritto di
voto nelle elezioni federali. Oggi diversi
australiani considerano ancora
gli aborigeni un branco di ladri fannulloni
e rifiutano di ricordare quanto
hanno sofferto nel passato, affermando
che gli australiani odiei non
hanno alcuna responsabilità.

QUARANTAMILA ANNI FA
Gli aborigeni sono un popolo antichissimo.
I loro antenati colonizzarono
l’Australia del nord, arrivando
dal mare circa 40 mila anni or sono.
Al tempo dei primi contatti coi bianchi,
nel 18° secolo, erano circa 500
mila, divisi in tante tribù. Seminomadi,
raccoglitori e cacciatori, conoscevano
il fuoco, usavano bastoni,
pietre e poco altro, con uno sviluppo
tecnologico inferiore a quello dell’Africa
o dell’America Latina.
Ma la loro cultura orale tradizionale
è straordinaria. I loro miti sono stati
tramandati per millenni con sorprendente
continuità e coerenza, come
è documentato dalle loro pitture
murali, simili a quelle di altre grotte
(Altamira, per esempio), ma di decine
di migliaia di anni più antiche. Tali
immagini mostrano come lo spirito
della morte è continuamente assorbito
dalla terra per riciclarsi in nuovi
esseri.
La terra, quindi, per gli aborigeni
è assai di più di un appezzamento
di terreno; la terra è teologia e
identità; non possedee significa
essere nessuno; la terra è l’elemento
chiave nella lotta per i loro diritti.
È occorso molto tempo per portare
i tribunali e il governo ad ammettere
che gli aborigeni possedevano la
loro terra prima dell’arrivo dei bianchi
e che la teoria della terra nullius
non era legalmente valida. Ciò è avvenuto
nel 1992, quando un membro
del clan Merian, nel nord, ha sostenuto
con successo di fronte alla
corte suprema che la sua gente era
là prima dei bianchi e che gli antichi
diritti di proprietà non erano mai venuti
meno.
Le conseguenze sono state immediate
ed esplosive, perché ingenti giacimenti
di minerali (compresi i ricchi
depositi di uranio dell’emisfero sud)
giacciono nel loro territorio. Quasi un
migliaio di rivendicazioni di terra, che
coprono il 50% della superficie dell’isola-
continente, aspettano la decisione
dei tribunali, mentre ogni giorno
ne vengono presentate altre. Questa
valanga di richieste ha causato
una paralisi burocratica. Pochi gruppi
aborigeni accettano mediazioni da
bianchi.
Inoltre non c’è accordo fra loro sull’uso
della terra; alcuni gruppi ritengono
che le terre tribali sono sacre e
non devono essere sfruttate; altri sono
favorevoli allo sfruttamento delle
miniere senza condizioni. Poi c’è il
problema di dimostrare l’originaria
proprietà, poiché solo in rarissimi casi
esiste un documento stilato dopo
che iniziarono le registrazioni. Spesso
la rivendicazione è una semplice
affermazione (autocertificazione),
fatta da aborigeni che addirittura vivono
in un’area completamente diversa.
Questo fa infuriare gli allevatori
australiani, i cui ranches sorgono su
terre di cui non hanno la proprietà,
ma solo la concessione dalla corona
britannica. Infatti la sola esistenza
di una debole rivendicazione di terra,
da parte di un aborigeno, può vanificare
un prestito dalle banche e limitare,
quindi, le possibilità finanziarie.
Perché allora non dare credito
ai bianchi che rivendicano un loro
spirito di unione alla terra, proprio
come gli aborigeni?
Questi ed altri problemi, nonostante
la moderazione dei leaders
aborigeni e la buona volontà
di tanti bianchi, sono lontani
dall’essere risolti. È il compito dell’Australia
nel nuovo millennio, per
diventare definitivamente una grande
nazione.

Anni significativi
1788: giungono i primi britannici e stabiliscono una colonia
penitenziaria a Botany Bay. Gli aborigeni, che popolano
il territorio da circa 40 mila anni, vengono espropriati
delle terre e ridotti in schiavitù.
1830: sono circa 60 mila i galeotti deportati in Australia
(ladri, marinai disertori, oppositori irlandesi, ecc.); devono
lavorare per i proprietari terrieri europei. Le colonie
penali sono anche valvole di sfogo per le tensioni sociali,
generate dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna.
1890-1900: l’urbanizzazione è coronata da uno sviluppo
industriale accentuato, specie a Sydney e Melboue.
I flussi immigratori cambiano la società: nascono una classe
media rurale e una ricca borghesia.
1901: sei colonie britanniche (Nuovo Galles del sud, Victoria,
Australia meridionale, Australia occidentale, Queensland
e Tasmania) si costituiscono in stati indipendenti.
1911: dall’unione delle colonie indipendenti e da altri territori
nasce l’Australia odiea con il nome di «Commonwealth
of Australia». Segue un periodo di prosperità
economica.
1939-45: durante la seconda guerra mondiale cadono
circa 30 mila australiani e 65 mila sono feriti. I rapporti
con il Regno Unito si indeboliscono. Garanti della sicurezza
diventano gli Stati Uniti.
1951: alleanza tra Australia e Stati Uniti, che negli anni
’70 coinvolge il paese nella guerra del Viet Nam danneggiandone
l’immagine a livello internazionale.
1967: referendum che riconosce agli aborigeni il diritto
di cittadinanza. Ma restano sempre discriminati.
Anni ’80: su 100 mila abitanti, i carcerati bianchi sono
67 e gli aborigeni 775, di cui due al mese muoiono. Amnesty
Inteational conferma (1987).
1983: le compagnie minerarie (interessate a diamanti e
uranio) lanciano una campagna contro gli aborigeni; i loro
diritti sulla terra lederebbero gli interessi della nazione.
1995: test nucleari francesi sull’atollo di Mururoa. L’Australia
interrompe i rapporti diplomatici con la Francia.
1999: un referendum popolare decide, con la maggioranza
del 54%, di mantenere la regina Elisabetta d’Inghilterra
a capo dell’Australia… Il paese guida le forze dell’Onu
per pacificare Timor Est.
2000: in occasione delle olimpiadi gli aborigeni protestano
per i soprusi patiti nei secoli. Molti australiani auspicano
una riconciliazione nazionale.
2002: dopo il rifiuto del governo conservatore di John
Howard di accogliere 400 naufraghi afghani (settembre
2001), le Nazioni Unite aprono un’indagine.

Il paese oggi
Superficie: 7.741.220 chilometri quadrati. È il gigante
del continente Oceania.
Popolazione: 20 milioni. I due terzi sono discendenti di
britannici e un terzo è costituito da immigrati asiatici, latinoamericani
ed europei. Gli aborigeni sono circa 390
mila e sono trattati come cittadini di serie B.
Capitale: Camberra (350 mila abitanti). Economicamente
le città più importanti sono Sydney e Melboue,
entrambe con oltre 3 milioni di persone.
Ordinamento dello stato: monarchia parlamentare, con
un governatore generale (designato dal re d’Inghilterra) e
un primo ministro. Due i maggiori partiti: conservatore e
laburista.
Lingua: inglese.
Risorse economiche: ingenti in ogni settore.
?¡ Settore primario: abbondanti i cereali, specie frumento.
Si segnalano anche canna da zucchero e cotone. Importante
l’allevamento di ovini (il paese è il primo produttore
al mondo di lana).
?¡ Settore secondario: il sottosuolo è ricco di minerali (oro,
petrolio, carbone, ferro, lignite, piombo, rame, ecc.). Tra
i «minerali strategici» c’è l’uranio.
?¡ Settore terziario: si esportano prodotti
industriali e agricoli (il paese è il primo
esportatore di carbone, il secondo di lana,
il terzo di frumento).
Il turismo è incoraggiato da convenienti
tariffe aeree e da una buona organizzazione.
Indicatori sociali: l’istruzione è obbligatoria
da 6 a 15 anni; previdenza e assistenza
medica sono gratuite; il servizio
militare (con uomini e donne) è facoltativo.
Reddito annuo pro capite: 20.950 $
USA, inflazione 1,5%; disoccupazione
7,2% (dati del 1999).
Religioni: prevale il cristianesimo, con i
protestanti pari al 42% e i cattolici al
28%. Minoritari sono i cristiani ortodossi,
buddisti, musulmani, ebrei.

NATA SULLA ROCCIA
Le origini dell’Australia dei bianchi

Verso la fine del 1700 l’impero britannico fondò una colonia penale
nel Nuovo Galles del sud, per risolvere il problema del sovraffollamento
delle carceri in patria. Nel gennaio 1788, dopo otto mesi di difficile
navigazione, una flotta di 11 navi gettò l’ancora nella baia di Sydney,
così chiamata dal nome del segretario britannico per le colonie, lord Sydney.
Un gruppo di 1.200 persone (galeotti e soldati con famiglie al seguito)
costituì il primo insediamento bianco del paese. I primi edifici in legno
sorsero lungo alcune sporgenze rocciose naturali e per questo furono
chiamati «The Rocks».
Nel giro di qualche decennio, mentre le deportazioni penali diminuivano,
lo sviluppo rapidissimo dell’allevamento delle pecore (con il conseguente
ricco commercio della lana) incominciò a richiamare anche coloni
liberi.
Nel 1829 fu nominato un governatore, ed ebbe inizio anche la vita
politica. Presto si incominciò ad usare la locale pietra arenaria e sorsero
edifici commerciali, ritrovi ed altre abitazioni. Per oltre un secolo «The
Rocks» furono il crocevia di mescolanze di umanità, ricchi e poveri, galeotti,
militari e coloni provenienti soprattutto da Inghilterra, Irlanda e altri
stati europei, ma anche da Cina ed Estremo Oriente.
Con il crescere della popolazione si diffusero anche il crimine e le malattie.
Nel 1900 la peste bubbonica colpì l’insediamento. Un’altra
minaccia si profilò negli anni ’60 da parte di gruppi di costruttori-speculatori,
che avevano progettato di cambiare per sempre l’aspetto de «The
Rocks» innalzando edifici a molti piani. La protesta popolare, che difendeva
l’importanza dello storico sito, prevalse. Oggi a Sydney la gente del
posto e i visitatori possono godere di un affascinante spazio vivibile in
una delle baie più belle del mondo.
I siti storici come il Cadman’s Cottage (la prima residenza bianca fissa
di tutta l’Australia, che ospita ora un piccolo museo), i magazzini Argyle,
la casa del mercante, il palazzo del governatore… sono stati magnificamente
restaurati e ospitano eleganti negozi di artigianato, piccole gallerie
d’arte e musei, caffè e ristoranti.
Passeggiando attraverso vicoli tranquilli o entrando in vecchi cortili,
mentre si scoprono ad ogni angolo scorci del passato, è possibile ascoltare
gratis ogni giorno jazz dal vivo e assistere alle esibizioni di artisti del
teatro di strada o a deliziosi spettacoli e attività per bambini.
Un monumento in pietra arenaria, costituito da tre personaggi in un
unico blocco (colono, militare e galeotto), ricorda la singolare nascita di
questo popolo, mentre girando lo sguardo si profila a pochi passi la sagoma
dell’Opera House, dell’Harbour Brigde e dei modeissimi grattacieli
delle compagnie multinazionali più importanti del mondo.

Silvia Perotti




SENEGAL: viaggio tra le aspirazioni della gente

CAMARÀ O MARABOUT?
Islam, calcio, telenovelas
e tradizione del Senegal.
Come nasce l’antipatia per l’occidente?
Anche da una rovesciata volante.

Camarà e Marabout: chi sono?
Il primo è l’unico vero idolo
nazionale del Senegal, autore
del goal più importante della storia
dei «leoni» contro la Francia nell’ultima
coppa del mondo.
Se c’è una data che un senegalese
mai dimenticherà, questa è il 2 luglio
2002. A distanza di mesi, l’intero
paese freme ancora dalla gioia per la
vittoria sull’ex colonizzatore. Gli articoli
di giornale si sprecano, cartelloni
megagiganti, piazze commemorative,
ricordi da raccontare ai nipotini,
che accrescono il mito.
Non è da escludere che fra qualche
anno il risultato della partita sarà
lievitato dal reale uno a zero a un più
leggendario cinque a uno, gol della
bandiera generosamente concesso ai
francesi.
Il secondo, il marabout, un marabout
qualsiasi, è una figura tipicamente
maliana e senegalese dell’islam:
capo della scuola coranica della
città o villaggio, mezzo muezzino,
mezzo santone, mezzo autorità religiosa,
mezzo chissà cos’altro. Un ibrido,
un biohazard religioso quasi.
Lui, l’ibrido, sta combattendo una
guerra che non gli dispiace perdere;
anzi, più che una guerra, un derby.
Dall’alto dei minareti le nenie continuano
assordanti; la faccia del leader
spirituale della confrateita più
importante del Senegal, Mustafà
Cheick Mouhamadou Bamba, è
stampata in ogni dove; gli adesivi di
Osama Bin Laden sono in bella mostra
su tutti gli autobus… Nonostante
tutto, il marabout (ossia l’islam radicale
e oppressivo) perde d’interesse
soprattutto tra i giovani.
Isani valori dello sport: fatica, sacrificio
e anche la vittoria finale,
gettano nel cestino le cantilene
spacca-cervelli degli invasati, le varie
jihad, l’islam peloso che ingrassa sulle
spalle dei più deboli.
Dove non arriva la guerra del «bene
» contro il «male», di bushiana ideologia,
arrivano gli ubriacanti dribbling
di Henry Camarà e compagni.
Già, così potrebbe essere; ma così
non è: i giovani senegalesi si trovano
in un bel guaio, schiacciati tra il furore
islamico e la nuova religione laica,
spargisogni di plastica.
Parlando con questi ragazzi che
detestano ideologicamente l’occidente,
ma sbavano per tutto ciò che
questo gli propina, la situazione diventa
terribilmente complicata e pericolosa,
quanto un’illusione troppo
inseguita.
L’illusione della ricchezza materiale
trova il suo apice nel calcio e deborda
oltre i limiti della passione, per
diventare ossessione.
E non già tra i giovani poveri o poco
scolarizzati, bensì tra gli studenti
liceali: come prima cosa sognano il
pallone in una squadra italiana; poi,
in successione, il tecnico informatico
in Francia, il designer a Berlino, per
arrivare giù giù in fondo: qualsiasi lavoro,
purché fuori dal Senegal.
Coloro che potenzialmente potranno
guidare questo paese hanno
tutti, letteralmente, il desiderio di andare
via: in Italia soprattutto, ma anche
Francia, Spagna, Germania.
Il calcio, con i suoi stereotipi inossidabili
ricevuti in tutte le case
del Senegal, grazie alle paraboliche
che captano i segnali europei,
diventa una punta diamantata
nel processo di rimbambimento di
una generazione.
Quale può essere il futuro di un
paese dove il padre desidera che almeno
un figlio vada via dal Senegal e
tutti i figli desiderano scappare?
Fuggire non da qualcosa (la situazione
economico-politica senegalese
non è il paradiso, ma neppure l’inferno),
ma verso i peggiori cliché che
l’occidente esporta all’estero a palate:
soldi facili, sesso, dissolutezza,
mancanza di valori, ateismo.
Basta accendere il televisore e
guardare la telenovela più seguita del
Senegal: la storia di una ragazza che
s’innamora di uno spasimante telefonico,
che finge di essere un ricco
emigrato in Italia; è invece uno studente
squattrinato che, svenandosi,
la ricopre di regali e gingilli vari.
Calcio e televisione: episodi di costume,
si dirà. No! Anche il nuovo
presidente, Wade, spinge sui tasti
della religione e del progresso, a noi
tanto caro. Il suo credo si riassume
in due parole: Allah e sviluppo economico.
Progresso che comincia ad avere
aspetti inquietanti: esso potrebbe
essere rappresentato
dalle foreste vergini abbattute a colpi
di bulldozer per fare tamburi da
vendere ai turisti che, a casa, faranno
poi bong bong due volte; oppure dalla
totale sudditanza alimentare dalle
importazioni, a caro prezzo, di qualsiasi
prodotto, dimenticando gli alimenti
senegalesi tradizionali, perché
ormai troppo vecchi, non modei.
E ancora i mari depredati dalle meganavi
giapponesi, che in cambio donano
ai villaggi di pescatori qualche
scuola o fatiscente punto sanitario.
Anche i villaggi turistici per bianchi
sono chicche imperdibili. È particolarmente
istruttivo, ad esempio,
godersi la piscina in riva all’oceano,
oppure l’erbetta all’inglese, innaffiata
tutto il giorno, o ancora le fontanelle
a getto continuo. Però, fuori
dei muraglioni di cinta stile gulag sovietico
dei centri-vacanze, i senegalesi
fanno chilometri per attingere
qualche secchio d’acqua, poiché la
falda è scesa troppo nel sottosuolo.
Certo, tutto questo permette a
molte persone, soprattutto sulla costa,
di mettere insieme il pranzo con
la cena, una televisione e, magari, anche
un’auto. Tutto, però, appare precario
in questa economia, basata sul
desiderio consumistico dei «tubab»
(bianchi). Quest’anno, per esempio,
il mancato arrivo del rally Parigi-
Dakar, spostato sulle più danarose
spiagge egiziane di Sharm ash
Chaykh, ha provocato un tracollo di
entrate agli abitanti di Lac Rose.
E il marabout ride sotto la fluente
barba per questo crollo economico…
Così scorre il tempo e il fatalismo
attendista africano appare
addirittura meno pericoloso
di questo continuo indaffararsi dei
nuovi rampanti senegalesi.
Per tutti arriva il momento della caduta
dei miti e capiscono che non ci
sarà mai la possibilità di essere calciatore
della Juventus, tecnico informatico
a Parigi, designer della Volkswagen;
e nemmeno giù giù in fondo,
nei lavori più umili, li vorranno, perché
l’Europa ha chiuso le porte e non
si passa più.
Peccato che anche le foreste stiano
terminando, il mare diventi giorno
dopo giorno meno pescoso e la
gente dei villaggi adiacenti ai centri
turistici risulti sempre più infuriata,
a causa del viavai di ragazze, talvolta
anche bambine, che varcano le porte
carraie la sera per uscie al mattino
dopo…
Indovinate: nelle braccia di chi finisce
questa massa di disillusi, arrabbiati?
Chi gode per questo crollo
dei sogni made in Europe?
Bravi, avete capito.
Ecco come s’ingrossa l’odio verso
l’occidente (e anche contro i cristiani):
prima esso abbaglia con le sue lucine
e rovesciate volanti; poi lascia
tutti a bocca asciutta e li scaraventa
nelle braccia ben tese del radicalismo
musulmano. Così una generazione
si sente rifiutata da quei luoghi
che un tempo adoravano, ma che ora
disprezzano.
Dove risiede la speranza? Nell’interno
del paese; ed è molto
più di una speranza. Nei
villaggi ove sopravvivono ancora forti
tradizioni e culture antiche; dove
sia Camarà che il marabout altro non
sono che due esseri mal sopportati,
entrambi estranei al Senegal.
Villaggi dove si mangia ancora tutti
insieme, con le mani e dallo stesso
piatto; dove l’economia, sostanzialmente
chiusa, fa rima baciata con sobrietà
e, quindi, con felicità.
Qui nessuno ha l’ossessione della
maglietta del Manchester United;
perciò il marabout ha poco da aizzare
contro l’occidente, predone e infedele,
traditore di tante promesse.
Qui una partita a calcio resta ancora
un momento di svago e la preghiera
un attimo di gioia e
riflessione interiore, non
un giuramento di vendetta.

Maurizio Pagliassotti