Attraversando l’isola-continente dell’Australia

Un mosaico affascinante (e crudele)

Le «tessere» sono vescovi rattristati, bambini rubati, immigrati italiani,
medici volanti, guide tutto-fare. E costoni rocciosi, strade interminabili,
foreste, praterie, parchi con fiori smaglianti e timidi canguri.
E gli aborigeni?
Ovunque si balla il «valzer di Matilde».

IN CHIESA E I «BAMBINI RUBATI»
Sydney. Partecipiamo alla messa
nella parrocchia cattolica di St. Canice.
L’altare è in marmo di Carrara,
eseguito dallo scultore italiano «Signor
Primo Fontana» nel 1888. La
St. Canice’ Church, costruita verso il
1880 sul modello dell’omonima cattedrale
di Kilkenny (Irlanda), fu il
primo centro comunitario di ispirazione
cattolica della città.
I canti ci ricordano quelli delle funzioni
protestanti. Alla «preghiera dei
fedeli» sono ricordate anche, con nome
e cognome, le persone particolarmente
bisognose. Dopo l’eucaristia,
vengono serviti dolci, bibite e si
scambiano saluti e notizie.
Il parroco, un simpatico castigliano,
ci informa che i cattolici australiani
non sono organizzati come chiesa,
ma sentono molto l’amore verso
il prossimo e praticano ogni forma
di carità.
I primi cattolici sbarcarono in Australia
nel 1800: erano sacerdoti irlandesi
deportati dall’Inghilterra. Oggi
la presenza della chiesa è notevole
soprattutto nel campo educativo:
sono circa 2 mila le scuole, frequentate
da oltre 600 mila studenti. I vescovi
superano la trentina.
Da un giornale parrocchiale di Sydney
apprendiamo che la chiesa è rattristata
da una decisione della Corte
di giustizia; questa ha respinto la denuncia
di «sottrazione forzata», presentata
da due aborigeni appartenenti
alla stolen generation (generazione
rubata). Sono Loa Cubillo
e Peter Gunner. La coppia ha dichiarato
che, da bambini, sono stati
sottratti con la forza alle loro famiglie
per essere inseriti nel mondo
dei bianchi come addetti a lavori
umili e faticosi. Loa Cubillo e Peter
Gunner si sono appellati al Commonwealth.
I vescovi affermano che, se è vero
che alcuni indigeni permettevano che
i figli fossero loro tolti per ricevere
un’istruzione, questo non fu il caso
di Loa e Peter. Si richiede una risposta
adeguata al dramma, che non
si risolve con indennizzi economici,
bensì con il riconoscimento dei soprusi
commessi.
La Corte ha replicato che, allora, la
legge permetteva ad un funzionario
di prendersi cura di bambini nativi,
quando fosse nel loro interesse, anche
contro la volontà della famiglia.
Però questa non fu la sorte di Loa
e di Peter, vittime di viziose violenze
sessuali nelle case di Darwin, dove
crebbero infelici (anche senza mangiare),
riportando gravi traumi per
tutta la vita. Ma le vittime non hanno
convinto la Corte. Loa e Peter furono
sottratti ai loro genitori rispettivamente
nel 1947 e 1956.
Dalla decisione della Corte di giustizia,
dalle sue motivazioni, dagli
autori della denuncia e dal dibattito
svoltosi in tribunale è emerso un capitolo
crudele della storia australiana,
di cui si è venuti a conoscenza
solo nel 1997, ma che si estende ben
oltre la metà del 20° secolo.

IL SOGNO DEGLI IMMIGRATI ITALIANI
Dopo la prima guerra mondiale,
numerosi giovani italiani incominciarono
a parlare dell’Australia, la
«terra sottosopra», dove il cielo stellato
è all’«incontrario», con vastissimi
territori ancora da conquistare.
Sognavano quell’isola in fondo al
mappamondo, perché laggiù il governo
regalava ricchi terreni a chiunque
avesse il coraggio e la forza di
trasformare la foresta in fattorie,
strade, città. E, per gli appassionati, c’era la possibilità di cacciare dall’alba
al tramonto animali e uccelli
di ogni genere.
Il governo australiano, per evitare
costi sociali, preferiva che gli immigrati
sud-europei avessero un parente
cui appoggiarsi; costui firmava un
documento, impegnandosi a fronteggiare
ogni necessità del nuovo arrivato.
Dai rapporti governativi dell’epoca
si apprende che si favorivano
lombardi, veneti e piemontesi, «più
simili agli anglosassoni, educati, laboriosi
». Siciliani e calabresi erano
graditi solo per la pesca.
Ancora oggi gli anziani agricoltori
del Queensland ripetono che, quando
la canna da zucchero si lavorava
a mano, gli italiani tagliavano il
doppio dei giapponesi e dei maltesi.
Molti hanno fatto fortuna.
I nostri connazionali partivano dal
porto di Genova. Approdati in Australia,
raggiungevano una città appena
sorta, con strade di fango e baracche
di legno, il tetto in lamiera.
Lavoravano a cottimo: si presentavano
all’alba agli ufficiali della Colonial
Sugar Refining, che formavano
gruppi di tagliatori composti da tre
lavoratori esperti, sei nuovi e una
donna per la cucina. Gli ufficiali davano
la precedenza agli inglesi, poi
venivano i neri e gli italiani. Lavoravano
il più possibile.
Gli italiani, appena mettevano da
parte qualche soldo, compravano dei
cavalli, un carro, qualche suppellettile
e partivano verso le terre vergini
da disboscare, molto fertili, dove c’era
solo giungla, serpenti e coccodrilli
nei fiumi. Piantavano la canna, e
morivano di fatica per far vedere agli
inglesi che erano più bravi di loro.
Da un lato un paradiso di libertà,
con la casa dei vicini a mezza giornata
di cammino; dall’altro una vita
piena di insidie, con cicloni che duravano
giorni e giorni trasformando
le valli in laghi e le strade in fiumi.
Case intere venivano spazzate via in
un attimo, se gli uomini non vincevano
questa lotta immane salendo a
decine sul tetto, oppure legandosi alla
vita delle funi, dopo averle fatte
passare intorno alle travi del tetto e
tirandole con tutte le forze.
Le città sorgevano dal nulla, appena
un avventuriero scopriva che la
regione nascondeva giacimenti auriferi;
migliaia di cercatori vi si riversavano
seguendo il profumo della
fortuna. Intanto molti poveri disperati,
giungevano da altre città: non
conoscevano i pericoli del bush e, in
tanti casi, morivano di sete prima
che fosse costruito l’acquedotto per
portare l’acqua da centinaia di chilometri
di distanza.

«PAPPAGALLI» E CANGURI
Per tanti immigrati il sogno australiano
divenne una dura realtà,
che alcuni pagarono con la vita. Oltre
le difficoltà materiali, erano anche
gravi i problemi psicologici,
dovuti a solitudine e paura. Sorsero
così i «dottori volanti» (flying doctors).
La prima base dei «dottori volanti
» sorse a Cloncurry (Queensland)
nel 1928. Disponeva di un telegrafo
a pedale e di un piccolo aereo di tela.
Fu anche istituito un servizio, organizzato
da donne, chiamato «pappagallo
», per far sentire meno la solitudine
con chiacchiere opportune.
Molti ricordano ancora il «dottore
volante» atterrare nel bush e rimuovere
i grumi di sangue dal cervello dei
pazienti con un trapano da legno…
senza anestesia. Oggi la Royal Flying
Doctor Service è una società no profit
con basi operanti 24 ore su 24 con
radio-telefono. Per molti che vivono
in zone remote è l’unico legame con
il mondo esterno; per altri funge da
sistema di supporto, in caso di malfunzionamento
del telefono caricato
con energia solare… Le chiamate possono
essere effettuate per affari o ragioni
di natura sociale, per ordinare
viveri, per consultazioni mediche. In
caso di emergenza, ogni base può coprire
la propria area con evacuazioni
o trasporto all’ospedale in meno di
due ore.
La prima sensazione che si prova,
di fronte al paesaggio australiano,
è quella di uno struggente infinito.
Si viaggia per centinaia di chilometri
su strade rettilinee, senza incontrare
una casa o incrociare un altro
veicolo, intravvedendo in lontananza
dolci montagne arrotondate,
spesso a forma di tronco di cono.
Colpisce l’armonia dei colori: la
terra rossa, i cespugli di spinnifex di
un verde intenso, gli eucalipti (ne
esistono centinaia di specie). Nel bush
(paesaggio selvatico per eccellenza)
sembra che nulla sia lì per caso e
si capisce da dove vengono i miti degli
aborigeni. L’idea che il paesaggio
sia stato creato durante «il tempo dei
sogni» da qualche antenato, per ottenere
un’opera d’arte fatta insieme
alla natura, diventa lampante.
Attraversiamo le prime e sconfinate
praterie, all’apparenza incontaminate.
La guida ci racconta l’aggressione
ecologica che i suoi antenati,
all’inizio del 19° secolo, scatenarono
contro l’ambiente. L’erba non è australiana,
ma fu portata dagli europei
per le loro mandrie di pecore e
mucche; invadente come i coloni, in
poco tempo si sostituì alla vegetazione
originaria. La natura australiana,
isolata dal resto del pianeta per
milioni di anni, non ha potuto difendersi
dalle invasioni arrivate dall’Europa;
il bush originario è in gran
parte scomparso.
Conigli, cani, gatti, maiali inselvatichiti, rospi della canna da zucchero,
mimose africane, calle inglesi e
molte altre specie di animali e piante,
all’apparenza insignificanti, sono
responsabili della distruzione di interi
ecosistemi.
Attraversiamo un campo di calle
selvatiche; il nome australiano di calla
è white death (morte bianca)… Il
celebre evoluzionista Charles Darwin
era in relazione con i Bussel (proprietari
terrieri inglesi), che abitavano
vicino a Perth ed erano appassionati
di botanica. Darwin, un anno,
inviò loro come regalo di natale un
vaso di calle, imbarcandolo senza
speranza per l’Australia. Dopo due
mesi, la piantina, sopravvissuta al
viaggio, fu trapiantata dai Bussel in
riva al Margaret River. In meno di un
secolo le calle hanno spazzato via i
fiori naturali del bush australiano…
Ecco spuntare canguri grigi, marroni,
rossicci: fermi ai lati della strada
ci aspettano incuriositi con le
zampe anteriori raccolte sul petto,
pronti a tornare con un paio di salti
nel bush quando siamo troppo vicini.
Ci sono anche i wallaby (canguri
più piccoli e timidi), graziosissimi.

QUELLA GUIDA STRAORDINARIA
La vita rilassata degli australiani
dovrebbe essere esportata in tutto il
mondo. Un perfetto esempio di questa
Australia è la categoria delle guide
turistiche.
L’affluenza di visitatori è aumentata
in misura straordinaria con effetto
boomerang… data la diminuzione
dei costi e il miglioramento dei
servizi. Le guide sono preparate da
scuole specializzate per i vari tipi di
accompagnamento. La loro caratteristica
è quella di abbracciare molte
competenze. Sui treni la guida opera
anche come bigliettaio e cameriere,
oltre che fornire informazioni su
località e natura; e non è raro che si
infili la tuta e si trasformi in idraulico…
Percorriamo la Great Ocean Road,
una strada tagliata per centinaia di
chilometri nella scogliera ad ovest di
Melboue. Questa strada fu costruita
nel 1932 a ricordo dei soldati australiani
periti nella prima guerra
mondiale. La guida è anche autista
della corriera: una simpatica ragazzona,
che indossa comodi pantaloni
e camicia maschili.
Osserviamo dallo specchietto laterale
il suo volto pacioso, sempre sorridente
e rilassato, mentre parla per
ore al microfono sospeso alla sua altezza:
spiega la storia geologica della
zona, racconta le vicende degli innumerevoli
battelli che sono naufragati
su questa costa… Apprendiamo
che la città di Melboue fu fondata
nel 1846 con la corsa all’oro e che coloro
che venivano in Australia, al di
là dello spirito di avventura o di altri
motivi, da qualsiasi parte provenissero
e qualunque fosse la loro identità
personale, tutti avevano un
unico scopo: fare tanti soldi.
Ci parla delle raffinerie di petrolio
sorte nel 1950 e di come il governo
fece pubblicità in tutto il mondo per
far venire gente che vi lavorasse, della
Ford che arrivò nel 1924 ed è tuttora
molto popolare. Poi passa dalle
notizie sugli sport nazionali a quelle
sugli allevamenti e la tosatura delle
pecore… Da sola ci ha intrattenuti
dalle 8 del mattino alle 9 di sera, guidando
un pullman per centinaia di
chilometri, con 53 persone di tutto il
mondo, su strade strette, tortuose, a
picco sul mare. Ci ha pure servito in
un bosco una merenda con tè e dolci,
stile Australian bush.
Alla sera, ci complimentiamo con
lei per la professionalità, chiedendole
se non sia faticoso un tale lavoro.
«Non particolarmente – è la risposta
-. Ma si tratta solo di due giorni alla
settimana. Gli altri li passo in ufficio».

IL PARCO NAZIONALE «KAKADU»
Il parco nazionale Kakadu si estende
per circa 20 mila chilometri quadrati,
a nord dell’Australia. È al centro
di dispute fra ecologisti e politici
per le miniere di uranio.
Patrimonio mondiale dell’Unesco
per valori naturali e culturali, il
Kakadu comprende quasi tutto il bacino
del South Alligator e nel suo
habitat prospera un’enorme varietà
di piante e di animali, molte delle
quali uniche. Nuove specie continuano
ad essere scoperte. Abbraccia
inoltre luoghi di grande importanza
artistica e archeologica, che riflettono
la ricchezza della plurimillenaria cultura aborigena.
Il parco è diretto da un Consiglio,
composto in maggioranza da aborigeni,
scelti dai proprietari terrieri. È
la realizzazione di un progetto prestigioso,
che contempla la protezione
di un delicato ecosistema di
foreste, fiumi e monti in un’area ricca
di testimonianze preistoriche. Per
esempio: le mangrovie (che altrove
stanno scomparendo per far posto
agli allevamenti di gamberetti delle
multinazionali) contano qui 20 specie,
divenendo un vivaio naturale di
pesci. In questo ambito, da anni, è
attivo un piano governativo con forti
investimenti e il sogno di diventare
leader mondiale.
Nella visita del Kakadu, siamo accompagnati
dalla solita guida tuttofare:
in questo caso un’esile fanciulla,
biologa, esperta di flora e fauna
locale, che da sola ci ha fatti imbarcare,
ha tolto gli ormeggi, ha staccato
il battello con una lunga canna
dalla riva paludosa e acceso il motore.
Ora manovra in stretti passaggi,
si ferma e riparte. Ci fa visitare insenature
particolari. Illustra con competenza
la complessità dell’ecosistema
che stiamo attraversando.
Nella crociera sul fiume East Alligator
siamo, invece, accompagnati
da due aborigeni: uno, più intellettuale,
risponde alle nostre domande
sulla loro situazione; l’altro, più pratico,
ci illustra le loro attività artigianali.
Costeggiamo l’Ahemland, patria
degli aborigeni e dei loro miti. Poniamo
loro alcune domande. Rammentiamo
anche una scena di pochi
giorni prima ad Alice Springs, una vivace
cittadina di 25 mila abitanti. È
sabato: alcuni aborigeni scendono da
un taxi (!) e raggiungono un parco
per aggregarsi ad altri, sdraiati sull’erba;
tutti fumano e per terra vi sono
lattine di birra e bottiglie. Quando
ripassiamo dopo alcune ore, gli
aborigeni sono ancora là; ci fanno
pensare a persone sradicate dal loro
mondo e per nulla inserite in quello
dei bianchi. Ecco il problema.
Fino al 1860 gli aborigeni (chiamati
anche negritos) erano considerati
animali e i bianchi li trattavano
come la selvaggina. Non conoscevano
armi da fuoco, né sapevano difendere
il loro territorio, dal momento
che fra loro non esistevano proprietà
né si dividevano le zone di
caccia. Tuttavia la loro terra, enorme
ed inospitale, li ha salvati dall’estinzione.
Cinicamente qualcuno sostiene che
sarebbe stato più vantaggioso il contrario,
considerato il dramma passato
e presente degli antichi padroni
dell’Australia: infatti il 90% è vittima
dell’alcornolismo e per questo spesso
in carcere; l’80%, senza lavoro, sopravvive
con sussidi governativi. In
media la vita di un aborigeno è di 50
anni, mentre la mortalità infantile è
tre volte superiore a quella dei bianchi…
Ora siamo di fronte ad un giovane
aborigeno, dall’aspetto intelligente,
che si esprime in un buon inglese: ci
espone le difficoltà del suo popolo
con dignità e malinconia, ma dimostra
anche fiducia nel suo spirito d’intraprendenza.
Gli anziani soffrono
molto, perché le loro tradizioni stanno
scomparendo; i bambini vanno a
scuola e studiano l’inglese, perché i
loro genitori capiscono che l’integrazione
nel mondo dei bianchi è l’unico
futuro, pur con la forte volontà di
non abbandonare i fondamenti della
cultura tradizionale.
Alcuni bianchi rilevano nel comportamento
degli aborigeni una certa
ambiguità: da una parte si atteggiano
a vittime e protestano per i loro
diritti calpestati e i soprusi subiti
dalle istituzioni; dall’altra, proprio di
queste cercano di approfittare per ottenere
vantaggi economici dal turismo,
dalla loro arte e da altre forme
consumistiche di guadagno.

BALLANDO CON MATILDE
È notte. Con emozione ascoltiamo
dalla radio Waltzing Mathilda. È
l’inno nazionale ufficioso dell’Australia,
la canzone più popolare: una
malinconica ballata che spesso sostituisce
(anche per clamorose gaffes)
il vero inno nazionale.
Composto e scritto nel 1891, Waltzing
Mathilda è insieme un inno alla
libertà e un grido contro le repressioni
dei girovaghi da parte del potere.
Il titolo «ballare il valzer con Matilde
» assume il significato di affrontare
gli spazi infiniti dell’outback (interno),
ossia il never-never: la terra
che, una volta vista, nessuno più abbandona.
Matilde, infatti, è il nome
che i girovaghi dell’outback avevano
dato all’oggetto più prezioso del loro
equipaggiamento: il sacco-letto portatile,
che veniva arrotolato e legato
allo zaino.
E la mitica Mathilda Highway è la
pista tracciata dagli esploratori che,
guidati dall’irlandese Burke (agosto
1860 – febbraio 1861), riuscirono ad
attraversare il paese da Melboue al
Golfo di Carpentaria. Tutti i componenti
della spedizione (tranne uno)
morirono di sete durante il viaggio di
ritorno. Oggi quella strada è costellata
da decine di placche e piccoli
musei…
Le ultime e struggenti note di «ballare
con Matilde» si perdono sotto le
stelle nell’isola-continente dell’Australia.

(*) SILVIA PEROTTI
ha visitato l’Australia con il marito
Giovanni e i coniugi Francesco
e Paola Rosso. Già insegnante di
fisica nelle scuole superiori, la signora
Silvia è oggi anche presidente
dell’Associazione «Amici
Missioni Consolata» di Torino.

ALCUNE FONTI
– Australian Aboriginal Culture,
Camberra 1998
– Deirdre Stokes, Desert Dreamings
– Calendario Atlante De Agostini
2003, Istituto geografico De Agostini,
Novara 2003
– Guida del mondo 2001/2002 (il
mondo visto dal sud), Emi, Bologna
2001
– Alex Roggero, Australian Cargo,
Feltrinelli, Milano 2000
– Time, 25 settembre 2000
– Aimis (Agenzia di informazioni
missionarie), 1773/92

UN ABORIGENO A ROMA
Su alcuni edifici della «città eterna» vi sono targhe che ricordano i
soggiorni di tanti personaggi stranieri.
Ma degli australiani non vi è
nulla: nulla, per esempio, che indichi
la casa di Raffaello Carboni, celebre
cronista della rivolta di «Eureka
Stockade» (minatori contro
esercito: unica battaglia combattuta
sul suolo australiano). Né si ricorda
dove alloggiò Mary Mackillop,
prima santa australiana.
Però, nel cimitero dei benedettini
presso la basilica di san Paolo, un
appassionato di curiosità storiche
sarebbe contento di sapere che vi è
sepolto Francio Xavier Conaci, monaco,
morto giovanissimo nel vicino
convento nel 1853.
Conaci era uno dei cinque aborigeni
portati a studiare in Italia nella
metà del 19° secolo; poi alcuni
divennero probabilmente missionari
fra la loro gente: quattro provenivano
da New Norcia, nell’ovest
dell’Australia, e uno da Sydney.
Il missionario Rosendo Salvado,
spagnolo e fondatore di New Norcia,
condusse il Conaci in Italia nel
1849. Lasciata la famiglia, percorsero
i 132 chilometri dal monastero
di New Norcia a Perth su un carro
trainato da una giumenta. Pare
che Salvado si recasse in Europa
per raccogliere aiuti per la missione,
e l’aborigeno lo seguì in Inghilterra,
Francia e infine in Italia. Conaci
aveva 12 anni, capelli rossicci,
intelligenza acuta, di cui Salvado
era entusiasta. L’aborigeno scrisse
brillanti commenti sul suo viaggio
in Europa.
Frequentò con profitto la scuola
del convento a Cava dei Tirreni, vicino
a Napoli, ma il clima
umido gli causò
problemi di salute. Così
nel 1853 raggiunse
il monastero di san
Paolo. Non fu una
scelta felice, data l’umidità
e i problemi ai
bronchi. Infatti, dopo
poco tempo, morì.

LA CACCIA ALLA BALENA

«Una notte molti aborigeni si radunarono
nella baia di Encounter
per un rito, ma non avevano il fuoco
per illuminare le tenebre. Allora
invitarono alla cerimonia un potente
uomo, di nome Kondole, perché
possedeva il fuoco. Ma questi, infuriato,
lo nascose ed essi decisero di
prenderlo con la forza. Però nessuno
osava avvicinarsi. Infine un giovane,
Rilballe, scagliò la lancia: ferì
Kondole al collo e gli prese il fuoco.
Tutti gli altri si misero a ridere, ma
furono trasformati in animali. Kondole
corse verso il mare e divenne
una balena. Ora soffia fuori l’acqua
attraverso la ferita del collo» (leggenda
del «tempo dei sogni»)…
Nel 1791 iniziò nel paese la caccia
alla balena da parte dell’equipaggio
del Britannia, dopo aver scaricato
merci e galeotti. Le balene furono
ritenute idonee alla caccia,
perché si avvicinavano alla spiaggia,
galleggiavano da morte e foivano
barili e barili di olio. Si sviluppò così
una vera industria.
Nel 1845 i cetacei, mentre prima
se ne contavano circa 100 mila,
erano quasi estinti: erano così rari
che la caccia fu dichiarata antieconomica
e, in poco tempo, furono
chiusi i centri per la lavorazione
della carne e dell’olio, sorti sulle
coste.
Nel 1931, nell’Australia del sud,
iniziò una campagna di protezione
e, nel 1990, si arrivò alla riserva. Al
presente si contano circa 800 balene:
pesano anche 80 tonnellate e
misurano 17 metri di lunghezza.
Con un po’ di fortuna si possono
ammirare vicino alla costa durante
le migrazioni invernali.

Silvia Perotti

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