16 FEBBRAIO festa del beato Giuseppe Allamano

QUASI UNA VITA…

La corrispondenza spedita e ricevuta dal beato Giuseppe Allamano e altri documenti che lo riguardano: vi si colgono lo snodarsi di tutta la vita o «quasi» e gli infiniti tratti della sua poliedrica figura.

Con la pubblicazione dell’ultimo
volume della corrispondenza
del beato Giuseppe Allamano
(ottobre 2002), padre Candido
Bona ha posto la parola fine a un
lavoro immane, durato 12 anni. Sono
dieci, anzi, undici tomi (il nono volume
è doppio), per un totale di 8.045
pagine, che racchiudono 4 mila documenti,
di cui 1.812 lettere autografe
dell’Allamano.
Un’edizione integrale: lettere, relazioni,
cartoline postali, biglietti da
visita, saluti aggiunti ad altri scritti,
fatture di pagamenti, foglietti sparsi.
Tutto è stato pubblicato, senza tagli
né censure. Accanto agli scritti del
fondatore, figura pure una massa
notevole di lettere da lui ricevute.
Non è una semplice raccolta,
bensì un’edizione «critica»: qui
sta il suo straordinario valore,
anche storico. L’autore, infatti,
ha voluto offrirci la produzione
epistolare dell’Allamano
inquadrandola nel suo
tempo (la precisione delle
date!), arricchendola con
spiegazioni e chiarimenti,
riportando i dati biografici
delle innumerevoli persone citate,
anche le più umili e sconosciute;
stabilendo collegamenti sicuri o
probabili; rispettando, fino
allo scrupolo, il testo
originale; interpretando
perfino silenzi
e allusioni,
per rendere
meno oscuri
avvenimenti e
personaggi.
Un lavoro
scrupoloso
fatto di pazienti
ricerche, prime stesure, decine di
persone consultate, confronti d’ogni
tipo; poi correzioni, aggiunte e verifiche,
stesure definitive… E tutto con
lo stile di un ricercatore attento,
esigente e pignolo, fino a
spedire qualcuno due volte
sul campanile del santuario
della Consolata, per
verificare l’esattezza delle
iscrizioni sulle campane.
A Padre Candido Bona (che qualcuno chiama affettuosamente
«la storia») un bel grazie!
Come è nata questa «passione»
per il fondatore e l’idea di
pubblicarne il carteggio?
«Nel 1960 – inizia padre Bona – ricorreva
il centenario della morte di
san Giuseppe Cafasso, zio dell’Allamano.
La reliquia del suo braccio,
dopo aver fatto il giro delle parrocchie
e prigioni di Torino, arrivò pure
in casamadre. Fui incaricato di tenere
la commemorazione sul tema Il
Cafasso e le missioni. Cambiai tema
e titolo: Il servo di Dio Giuseppe Allamano
e un secolo di movimento
missionario in Piemonte. Per stendere
la relazione potei consultare liberamente
le lettere autografe del fondatore».
Quella conferenza, pubblicata e
ripubblicata in varie forme, diventò
uno stimolo e punto di riferimento
per ulteriori ricerche sulla figura del
fondatore e la storia dell’istituto. Fino
a quell’anno, infatti, esistevano una
biografia ufficiale dell’Allamano,
Dottrina Spirituale, alcune conferenze
e lettere circolari: missionari e
missionarie della Consolata sembravano
felici e contenti.
La relazione di padre Bona mette
in luce il grande fervore missionario
nato e cresciuto in Piemonte e nel resto
del Regno Sardo, per influsso
d’oltralpe, durante il secolo XIX, contagiando
e coinvolgendo vescovi,
preti e laici. Basti pensare che, nel
1858, c’erano «600 missionari sardi»
sparsi per il mondo e la chiesa piemontese
raccoglieva per l’Opera della
propagazione della fede più denaro
di tutte le diocesi italiane messe insieme.
In tale clima l’Allamano crebbe e
progettò la fondazione di un istituto
missionario, già nel 1885-1886: «fondazione
che va inserita nell’alveo di
tale movimento e, in certo senso, ne
è erede e coronamento» si legge in
quella relazione.
«Negli anni ’60 – continua padre
Bona – il superiore generale, Domenico
Fiorina, m’incaricò di fare ricerche
sui documenti riguardanti
l’Allamano, essendo in corso il processo
di canonizzazione. Per anni ho
battuto a tappeto tutti gli archivi di
chiese, santuari e diocesi, comunali
e nazionali, di dicasteri romani e istituti
religiosi… ovunque potessero
esserci tali documenti: scoprii una
mole di materiale e lettere, in gran
parte fino ad allora sconosciute: “Un
giorno dovranno pur essere pubblicate”
mi dissi».
Alla raccolta dei documenti si accompagnava
il lavoro di studio critico,
compilazione e pubblicazione:
negli anni ’80 uscirono tre volumi
con le conferenze e nel 1990 il primo
volume delle lettere.
Perché pubblicare anche le lettere
ricevute e perfino i frammenti
dei suoi scritti?
«Una briciola contiene tutta la sostanza:
a volte una persona si rivela
meglio in poche righe che in lunghe
composizioni – risponde padre Bona
-. Circa la corrispondenza ricevuta,
prima di tutto, essa rivela la vasta
gamma di relazioni che aveva
l’Allamano e di attività in cui era
coinvolto».
Basta scorrere l’indice dell’epistolario
per avere un’idea della molteplicità
delle relazioni: familiari e amici,
vescovi, cardinali e papi, principi
e re di casa Savoia, autorità civili
e religiose, benefattori e, soprattutto
i suoi figli, i missionari e missionarie
della Consolata.
È altrettanto sorprendente, sfogliando
qualche lettera, scoprire la
diversità di toni: dall’ufficialità burocratica,
sempre elaborata con cura,
magari con l’aiuto dei collaboratori,
alla spontaneità delle lettere
personali, scritte con lessico semplice,
talora con sottofondi dialettali,
con stile sobrio, misurato e incisivo,

capace di andare al cuore, caldo e
persuasivo.
«Molte lettere dell’Allamano sono
andate perdute – continua padre Bona
-: è dalle risposte che possiamo conoscere
contenuti e toni di quelle inviate.
Mancano, per esempio, le lettere
scritte per promuovere la causa
di beatificazione del Cafasso. Se non
avessimo le risposte, non avremmo
che una pallida idea della complessità
di tale processo, specialmente a
quei tempi, i problemi e difficoltà da
lui incontrate. Tra l’altro, sappiamo
che l’Allamano poté testimoniare per
uno speciale permesso della Santa
Sede, essendo parente del santo e
non avendo avuto esperienza diretta
dello zio, morto quando il fondatore
aveva nove anni; ma lo conosceva a
fondo, grazie alle innumerevoli testimonianze
sentite da altre persone.
Ci sono lettere «difficili», situazioni
complesse come la
beatificazione dello zio?
«Molte, come il carteggio con
mons. Jarosseau, vicario apostolico
dei galla, per definire dove avrebbero
dovuto lavorare i suoi missionari.
Consultando mappe e prendendo le
dovute informazioni, l’Allamano fece
presente che il territorio designato
dal vescovo con le cornordinate geografiche
non era sotto la sua giurisdizione,
che il luogo era malsano e
i galla erano stati cacciati dalle razzie
di vari gruppi etnici.
Scottante è pure il carteggio con Alexandre
Le Roy, superiore generale
dei padri dello Spirito Santo. In attesa
di tempi propizi per entrare in Etiopia,
i missionari della Consolata
furono accolti nel Kenya, ma l’Allamano
dovette promettere che essi
non avrebbero preteso un territorio
proprio, perché “i kikuyu sono una
etnia troppo piccola per due istituti”
diceva Le Roy. Ritardando la possibilità
di condurre in porto il progetto
originario, i missionari della Consolata
furono incoraggiati dagli stessi
padri dello Spirito Santo a fondare
missioni ed espandersi tra i kikuyu,
finché l’Allamano chiese a Propaganda
fide piena autonomia sul territorio
in cui lavoravano i suoi figli.
Le Roy gli rinfacciò di aver mancato
di parola. Nella lettera del 30
settembre 1905, l’Allamano ammise
e spiegò le ragioni del suo comportamento,
con delicatezza e fermezza,
concludendo: “Vôtre grandeur non
è al corrente dei fatti”.
Quando Giacomo Camisassa visitò
le missioni del Kenya (1911-12),
inviò al fondatore relazioni non troppo
consolanti su situazioni di personale
e problemi scottanti; l’Allamano
rispondeva con la sua istintiva
saggezza. Non meno sofferte sono le
lettere degli ultimi anni, indirizzate a
mons. Filippo Perlo, rimasto in Africa
per 14 mesi dopo l’elezione a vice
superiore dell’istituto con diritto
di successione».
Allora si può davvero definire
il fondatore «il Salgari della
missione»?
«Ma che Salgari! Costui ha inventato
tutto con la fantasia. L’Allamano,
invece, insieme a Camisassa, prima
di fondare l’istituto e, poi, prima
di inviare i suoi missionari, aveva letto
libri e resoconti di esploratori e
missionari, si era informato e aveva
fatto ricerche minuziose sui territori
in cui sarebbero andati i missionari.
E continuò a documentarsi. Nella
lettera a Propaganda fide del 18 dicembre
1912, per definire i confini
dell’erigenda prefettura del Kaffa e
smontare le obiezioni di Jarosseau,
viene citato perfino un esploratore
russo, Alexandr Bulatovic.
Quando il fondatore parlava ai
suoi missionari dell’Africa, dei suoi
popoli e costumi, problemi e situazioni,
lo faceva da esperto e innamorato,
come se in quel continente ci
fosse stato e continuasse a viverci.
Nel carteggio con Giulio Pestalozza,
console italiano a Zanzibar, per esempio,
le lettere dell’Allamano e del
Camisassa mostrano una profonda
conoscenza di tutti i problemi politici
e amministrativi, geografici e pratici,
e vengono studiate strategie per
entrare in Etiopia. Tra l’altro, si progettava
la costruzione di un battello
per risalire il fiume Tana; ma esso non
doveva avere più di mezzo metro di
pescaggio, poiché in certi punti il fiume
era troppo basso».
Oltre alla passione per l’Africa,
quale figura emerge dalle sue
lettere?
Padre Bona si lascia cadere le
braccia, poi risponde: «È impossibile
sintetizzare in poche righe la sua
personalità poliedrica che, di volta
in volta, è amico, parente, confratello,
rettore, padre, fondatore, consigliere, guida spirituale… È meglio
leggersi le lettere».
Ho capito l’antifona. Cambio la
domanda e gli chiedo di indicarmi
qualche lettera che lo ha particolarmente
impressionato. Scrive quattro
nomi e rispettive date, foendo
qualche dritta.
La lettera inviata nel 1882 a mons.
Gastaldi è un capolavoro di abilità
psicologica e diplomatica. Mentre il
clero torinese trema di paura davanti
al suo vescovo, l’Allamano, 31 anni,
gli ricorda le «voci maligne» che
circolano sul suo conto, per avere usato
il guanto di ferro sulla scuola di
morale per i neo-sacerdoti: voci che
solo il vescovo può smentire, ristabilendo
il Convitto ecclesiastico nella
sede naturale, la Consolata. E per facilitare
la soluzione, gli suggerisce
persone che sa gradite a monsignore
e il modo di cavarsela con onore.
Nella lettera ai primi membri della
casamadre (28 luglio 1901) manifesta
tutto il suo cuore paterno: si
rammarica di non poter essere più
frequentemente con loro e detta alcune
regole per il buon funzionamento
della comunità.
La corrispondenza tra l’Allamano
e fratel Benedetto Falda è pervasa da
profondo affetto e confidenza, raggiungendo
toni profetici. Unico superstite
della terza spedizione, il fratello
nutre qualche dubbio sulla propria
resistenza; l’Allamano gli scrive:
«Non mi stupisco delle tentazioni
temporanee di scoraggiamento…
Con la grazia di Dio ti passerà e riuscirai
un missionario di spirito… No,
la nostra missione andrà innanzi e
prospererà, perché è opera di Dio e
della Consolata. Passeranno gli uomini,
con merito più o meno secondo
il loro spirito, cadranno alcune
foglie, ma la pianta crescerà e verrà
albero gigantesco; io ne ho prove
prodigiose in mano. Fortunato chi
persevererà; egli vedrà esiti splendidi.
Felice te che per essere il primo
fratello a fare i voti perpetui, sarai capo
di una grande schiera di santi fratelli
in cielo, e di lassù dovrai anche
ringraziare me che non ti risparmiai
correzioni» (2 settembre 1908).
Quando il fratel Falda gli comunicò
di avere fatto in privato la professione
perpetua, l’Allamano gli
scrisse: «Con la mia benedizione intendo
confermarti come primo fratello
dell’istituto» (8 dicembre 1908).
Non mancano pennellate umoristiche,
come nella lettera a mons.
Ressia, vescovo di Mondovì e compagno
di corso dell’Allamano. Per
celebrare il giubileo sacerdotale
(1923), il vescovo avrebbe voluto i
compagni a Mondovì, ma l’Allamano
gli scrisse: «Siamo vecchi e sciancati;
a Mondovì daremmo ammirazione…
In Torino invece e nella Consolata
resteremmo ignoti».
Brioso è pure l’inizio dell’invito a
mons. Ressia per la beatificazione
del Cafasso (1925): «Nel vedere la
mia brutta calligrafia dirai, già nuovamente
quel noioso. Abbi pazienza;
vecchio con vecchio».
Rivelatrici del suo cuore sono pure
le ultime parole scritte dal beato
fondatore nel gennaio del 1926, pochi
giorni prima della morte: riformulando
il testamento conclude
così: «Arrivederci
tutti nel bel paradiso».

Benedetto Bellesi




SEIMEIZAN (GIAPPONE) dialogo interrreligioso

PAZIENZA E SILENZIO
Esperienza di un giovane italiano
in un centro giapponese,
dove s’impara l’arte
dell’ascolto e del dialogo.

Sulla cima del Narutaki, una
delle innumerevoli colline della
parte meridionale dell’isola
di Kyushu, tra verdi abetaie sorge il
centro di dialogo interreligioso Seimeizan,
termine che in giapponese
significa «Montagna della vita». Da
questa altura si ha una visione incantevole:
dalla vallata sottostante lo
sguardo si spinge sulla penisola di
Shimabara, sul mare di Ariake, fino
a toccare il monte Unzen, il più grande
cratere vulcanico del pianeta.
A Seimeizan tutto invita a guardare
lontano, non solo con gli occhi, e,
al tempo stesso, a scrutare dentro se
stessi.

TRE PERCORSI
Alla guida del Seimeizan c’è padre
Franco Sottocornola, 67 anni, missionario
saveriano, liturgista, poliglotta,
in passato docente di teologia al seminario
di Parma. Arrivato in Giappone
25 anni fa, ha fondato il Seimeizan
nel 1987 con un religioso buddista,
scomparso lo scorso anno.
Della comunità fanno parte suor
Maria De Giorgi, 55 anni, missionaria
saveriana, teologa, studiosa del
buddismo, in Giappone da quasi 12
anni, che segue le relazioni inteazionali
del centro; suor Shoji, giapponese,
70 anni, orsolina, che si occupa
dei rapporti tra il centro e l’amministrazione;
padre Yoshioka, 31 anni,
conventuale francescano, che cura tre
parrocchie della provincia rimaste
senza parroco; da ultimo sono arrivato
anch’io, discepolo alle prime armi.
La nostra vita è ritmata da un programma
che prevede quasi tre ore di
preghiera comunitaria giornaliera. Il
mattino inizia con lo zazen (meditazione);
seguono lodi e messa. Nel
primo pomeriggio abbiamo una breve
preghiera; prima di cena i vespri;
la giornata si conclude con la preghiera
di compieta.
Lodi e vespri sono recitati all’aperto,
rispettivamente nell’esatto
momento dell’alba e del tramonto;
di conseguenza i nostri orari variano
ogni tre o quattro settimane, seguendo
il ritmo del sole.
Parte della giornata è impiegata
nella manutenzione del centro. In
questo periodo mi occupo della pulizia
del parco: alberi cresciuti storti
da tagliare, con mio grande dispiacere;
sottobosco da ripulire e
quintali di foglie da raccogliere e
bruciare. Sto anche completando il
lavoro di veiciatura dell’ultimo edificio:
una casetta a due piani in legno,
costruita secondo lo stile tradizionale,
con un sistema di incastri
senza utilizzare un solo chiodo. A
tali occupazioni si aggiunge l’impegno
degli ospiti.
Oltre al lavoro e preghiera, mi dedico
allo studio in tre diverse direzioni.
Prima di tutto la lingua giapponese:
un ottimo libro mi aiuta a
memorizzare rapidamente gli ideogrammi;
lo studio della grammatica
e la conversazione coi membri della
comunità mi permettono le conversazioni
più elementari.
La seconda direttiva riguarda lo
studio del buddismo giapponese, attraverso
la lettura di libri, conversazioni
con padre Franco e suor Maria
e periodi di condivisione di vita. Ho
da poco trascorso quattro giorni in
un tempio zen, su una montagna a
un paio d’ore da qui. Ci si alzava alle
tre del mattino, si stava sempre a
piedi nudi e si praticava lo zazen
quattro ore e mezza al giorno. A parte
il dolore alle gambe, sono tornato
molto soddisfatto: ho imparato cose
nuove sulla meditazione e la vita
quotidiana nel tempio; ho fatto amicizia
con un aspirante bonzo giapponese.
Spero di ripetere una simile
esperienza in un tempio di Nagasaki.
Il terzo percorso consiste nella lettura,
sotto la guida di suor Maria, dei
documenti della chiesa riguardanti il
dialogo interreligioso, a partire dal
Concilio Vaticano II.

INCONTRI
In questo periodo abbiamo compiuto
una serie di visite particolarmente
interessanti: a un sito archeologico
dell’età del bronzo, un tempio
shintornista e monastero buddista, nel
quale abbiamo avuto un incontro
con un bonzo della scuola Tendai.
Altrettanto significativi sono gli
incontri con gli ospiti. Abbiamo avuto
12 seminaristi e giovani preti,
appartenenti a vari istituti missionari,
per un corso di introduzione alla
cultura e spiritualità giapponesi, con
conferenze tenute da padre Franco,
suor Maria e padre Sonoda.
In un altro incontro abbiamo invitato
al centro una maestra della cerimonia
del tè (cha-do) e della disposizione dei fiori (ka-do) per offrire ai
nostri ospiti un primo approccio a
queste arti tradizionali. Con grande
sorpresa ho notato che i giovani missionari
provenivano tutti da paesi del
sud del mondo: Filippine, Indonesia,
Messico, Congo e Vietnam.
Un momento particolare l’abbiamo
vissuto quando sono venuti al
centro 24 membri di un’organizzazione
protestante di Kyoto, in maggioranza
giapponesi, con alcuni tedeschi,
inglesi e un finlandese. Tale
organizzazione è stata la prima, in
Giappone, a occuparsi di dialogo interreligioso:
ora vorrebbe creare un
proprio centro sul modello del Seimeizan.
Per alcuni giorni si è parlato
della storia, organizzazione e spirito
del nostro centro. Tutti hanno
partecipato ai nostri momenti di
preghiera.
Spesso tutta la comunità si reca a
celebrare la messa domenicale nella
cittadina di Tamana, una delle tre
parrocchie che seguiamo. La chiesetta
è piccola e, come ovunque in
Giappone, bisogna togliersi le scarpe
prima di entrare. La comunità
parrocchiale è molto unita; prevalgono
le donne di una certa età; mentre
i giovani, una ventina, frequentano
solo raramente.
La domenica, infatti, le scuole organizzano
saggi e gare sportive, alle
quali gli alunni sono praticamente
obbligati a partecipare. Gli studenti
degli ultimi anni di scuola superiore,
invece, la domenica frequentano
corsi speciali di preparazione agli esami
di ammissione all’università.
Tempo fa, la parrocchia ha orga-

nizzato un bazar, cioè una serie di
bancarelle per la raccolta di fondi.
Sono finito nel reparto cucina e mi
sono distinto nel preparare la soba,
una pasta simile agli spaghetti che,
dopo essere lessata, viene grigliata alla
piastra con pancetta, insalata, carote,
germogli di soia e salsa.
Ciò che maggiormente ci procura
gioia e fiducia è il cammino delle persone
che si preparano al battesimo.
Suor Maria sta seguendo una signora
sposata, di 40 anni, e un ragazzo
di 18. Ogni mese teniamo un ritiro
di preghiera. Vi partecipano i fedeli
delle tre parrocchie e vari non cristiani
in ricerca.
Al «nucleo storico» dei partecipanti
a questi ritiri appartiene una signora
simpatica e attiva, splendido
esempio di laicato missionario: fin
dalla fondazione del Seimeizan ha
portato a questi ritiri amiche e conoscenti
non cristiane. Alcune di esse
hanno intrapreso il cammino dei catecumeni.
Alla messa domenicale nella parrocchia
di Tamana arriva pure, a piedi
e da sola, una signora di 90 anni.
È una maestra di sho-do, l’arte tradizionale
della calligrafia; alla sua veneranda
età, ha incominciato a
prendere lezioni di inglese. È interessata
al cristianesimo; per questo
ha iniziato a frequentare la messa
domenicale. Personaggi così non
sono rari qui in Giappone.
Non è facile entrare nell’animo
giapponese e cogliee le infinite
sfumature. Ma ciò che
è bello è l’atteggiamento che si vuole
instaurare nel confronto degli altri
credenti: rispetto, ascolto, armonia,
attenzione e… tanta pazienza.
Perché da tutto ciò nasca
in tutti la ricerca sincera
della verità.

Fabio Limonta, di Oggiono (LC), 30 anni,
è laico missionario della Consolata:
ha frequentato il nostro Centro di Bevera
e ha alle spalle alcune esperienze di
volontariato in Kenya, India e Giappone
(proprio presso il Seimeizan).

BUDDISMO
GIAPPONESE

Idea chiave del buddismo è che tutti
gli esseri viventi sono imprigionati in
un ciclo infinito di reincarnazioni; il
continuo nascere-e-morire è sperimentato
come sofferenza; da qui lo
scopo di questa religione: liberare
l’uomo da tale ciclo di rinascite, culminante
nell’«illuminazione».
Al di là di questa unità dottrinale, il
buddismo si presenta in un’infinità di
correnti con profonde differenze. In
Giappone esistono 13 denominazioni
o correnti, ulteriormente divise in
un centinaio di scuole. Tali differenze
sono di carattere storico, filosofico e
cultuale.
Dal punto di vista filosofico, alcune
denominazioni ritengono l’illuminazione
raggiungibile con le proprie
forze, con lo studio delle scritture,
ascesi, pratiche di tipo magico, meditazione.
A questa categoria appartiene,
il famoso zen.
Per altre correnti l’iIluminazione è raggiungibile
solo grazie all’intervento di
un’entità superiore. Elemento caratterizzante
di queste denominazioni è la
fede in una divinità chiamata Budda
Amida(da non confondere col Budda
storico, Siddharta Gautama), da cui il
nome del movimento: amidismo.
Attualmente, la denominazione più
numerosa è la nichiren(dal nome del
fondatore), che conta più di 30 milioni
di fedeli. Si distingue per una forte
impronta nazionalista e, contrariamente
alla tradizione buddista, manifesta
forti critiche nei confronti di altre
religioni e correnti buddiste.
Solidamente organizzata, è tesa al
proselitismo esasperato, fino a teorizzare
l’uso della violenza per diffondere
il proprio credo.
Benché in Occidente si parli di
«monaci e monasteri buddisti»,
nel buddismo giapponese non esiste
niente di equiparabile alla nostra tradizione
monastica. Quello del monaco
è, in molti casi, un mestiere che si tramanda
di padre in figlio. I «monaci»,
infatti, sono quasi tutti sposati e vivono
gestendo il tempio ereditato dalla
famiglia; i «monasteri» sono luoghi di
formazione dei giovani aspiranti, la
quale può durare da pochi mesi, per i
laureati in una università buddista, a
due anni per chi ha un titolo di studio
inferiore.

CRISTIANESIMO IN GIAPPONE
La prima evangelizzazione del Giappone risale alla metà del 1500, con l’arrivo
di san Francesco Saverio e altri gesuiti. Il cristianesimo conobbe subito una
rapida espansione, con centinaia di migliaia di battezzati, tra cui molti nobili e
signori locali. Ma alla fine di quel secolo sorse il timore che la diffusione del cristianesimo
potesse favorire propositi di conquista del paese da parte delle grandi
potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo. Iniziò, quindi, un’epoca di
tremende persecuzioni, con torture e crocifissioni di massa. Uno degli episodi più
noti ha per protagonisti san Paolo Miki e 25 compagni, religiosi e laici, crocifissi
a Nagasaki il 5 febbraio 1597.
L’apice della persecuzione fu raggiunta nel 1637: 37.000 contadini, in gran
parte cristiani, furono massacrati nella fortezza di Shimabara per essersi ribellati
alle vessazioni dei feudatari locali.
Per più di 200 anni l’intero paese rimase isolato dal resto del mondo, ma i cristiani
scampati alle persecuzioni conservarono di nascosto la propria fede.
Dopo l’apertura forzata dei porti del Giappone nel 1853, a Nagasaki si formarono
alcune comunità di europei e i francesi costruirono una cappella. Nel 1865,
un gruppo di «cristiani nascosti», riconosciuti i simboli della propria fede, si presentò
al sacerdote e si venne così a sapere dell’esistenza di queste antiche comunità
cristiane. La chiesetta fu ribattezzata «chiesa del ritrovamento» ed è uno dei
pochissimi edifici di Nagasaki sopravvissuti alla bomba atomica.
Gli editti contro il cristianesimo, però, erano ancora in vigore e, dal 1867 al
1873, i cristiani dovettero subire una nuova persecuzione con imprigionamenti e
deportazioni. Solo nel 1889, con la promulgazione della nuova costituzione, fu
garantita la libertà di culto.
Oggi il cristianesimo gode piena libertà, ma vari problemi ne impediscono l’espansione.
Prima di tutto l’idea che si tratti di una religione occidentale e,
come tale, estranea. Lo stesso buddismo, prima di essere completamente accettato,
ha impiegato secoli e subito un processo di «giapponesizzazione».
In secondo luogo il cristianesimo, anche dal punto di vista storico e culturale, è
quasi sconosciuto. Meno dell’1% della popolazione è cristiana e i libri di scuola
dicono pochissimo dell’evangelizzazione del XVI secolo. La chiesa cattolica è
conosciuta come ente filantropico, che gestisce scuole e ospedali. L’aspetto propriamente
religioso e spirituale è quasi ignorato.
Tra le difficoltà maggiori ci sono alcune peculiarità culturali. Per esempio, i giapponesi
privilegiano un tipo di pensiero concreto, rispetto a quello astratto a noi
familiare. Soprattutto non esiste l’idea del peccato come è inteso nel cristianesimo:
l’etica giapponese non è fondata sull’obbedienza a una legge morale, ma
piuttosto sul rispetto di un complesso sistema di convenzioni sociali. In altre parole,
il male non è violare un comandamento di Dio, ma rompere l’armonia all’interno
del gruppo d’appartenenza.
Infine, il processo di secolarizzazione e, in certa misura, una vera e propria decadenza
sta portando la
società giapponese all’indifferenza
verso i valori
spirituali, anche quelli
insiti nelle religioni tradizionali,
come il buddismo
e lo shintornismo. La
grave recessione economica
di questi anni sta
modificando molti aspetti
della vita sociale, dal
mondo del lavoro a quello
della scuola, per avvicinare
il paese al modello
occidentale, facendo così
crescere individualismo e
competizione.

Fabio Limonta




MADADENI (SUDAFRICA) iniziative concrete contro l’Aids

UN MARCHIO INDELEBILE UN MARCHIO INDELEBILE

Il Sudafrica ha il più alto numero di malati di Aids.
A Madadeni i missionari della Consolata hanno dato vita a varie iniziative per prevenie la diffusione e accompagnare
persone e famiglie che ne sono colpite.

Da vari anni Nonhlanhla lavorava
come collaboratrice domestica
nella nostra casa. Si
era guadagnata la fiducia di tutti e, in
nostra assenza, la custodiva con
scrupolo e responsabilità.
Un giorno mi confidò di essere incinta.
Ma da quel momento cominciò
a indebolirsi. Si prese il periodo
di licenza per la gravidanza che le
spettava. La visitai… tossiva molto.
Diede alla luce la sua creatura, che
appariva molto fragile. Grazie alla fiducia
vicendevole, le parlai apertamente
e la consigliai di sottoporsi al
test dell’Aids. Accettò. I risultati arrivarono
troppo tardi: Nonhlanhla
era morta il giorno prima.
Thandi è un caso simile. La conobbi
pochi giorni dopo aver partorito
il suo bebè, morto quasi subito.
La donna ne era uscita molto indebolita.
Andai a farle visita: cantammo
e pregammo insieme. Si mostrava
molto forte interiormente.
Due mesi dopo, alla fine di una celebrazione
all’aperto durata più di 5
ore, venne a salutarmi. Stava bene.
Mi confidò un suo desiderio: lavorare
con i malati di Aids.

RIMBOCCANDOCI LE MANICHE
Nonhlanhla e Thandi sono due
nomi di una lunga lista: da quando
sono a Madadeni (periferia di Newcastle),
metà dei funerali sono stati di
uomini e donne che non hanno raggiunto
i 40 anni. Le statistiche prevedono
che, ben presto, la speranza
di vita in Sudafrica sarà di 38 anni
per gli uomini e 37 per le donne.
Sarà per questo, forse, che quando
domandai ai familiari di che cosa
è morto un giovane di 25 anni, mi
sentii rispondere: di morte naturale.
L’incontro con Thandi mi toccò
profondamente: non immaginavo di
vederla ristabilita in salute così presto;
il suo desiderio, soprattutto, diede
uno scossone all’abituale ritmo
del nostro lavoro missionario nelle
tre parrocchie di Madadeni.
Invitammo suor Immacolata, religiosa
delle Francescane di Nardini,
a predicare in tutte le messe. Da alcuni
anni, infatti, questa congregazione
si occupa dei malati di Aids:
hanno convertito parte di un convento
benedettino in un ospizio e
promuovono progetti per combattere
il flagello.
La risposta fu immediata e positiva:
alla fine della messa molti si iscrissero
come volontari. Nei mesi
successivi cominciò la loro preparazione.
Furono formati due gruppi
con scopi specifici: prevenzione e accompagnamento
dei colpiti da Aids.
Il primo era composto da studenti
delle scuole secondarie e giovani
che avevano appena finito gli studi.
Loro compito era aiutare i coetanei
a prendere coscienza della natura
dell’Aids e dei modi in cui viene trasmesso,
con la speranza di convincerli
che si trattava di un problema
grave e non di «propaganda» contro
le relazioni sessuali. Oltre 50 giovani
presero parte agli incontri formativi
guidati dalle suore.
L’altro gruppo, in maggioranza adulti,
con un corso di una settimana
fu preparato nell’accompagnamento
dei malati. Questi volontari s’impegnarono
a visitarli a domicilio e, al
tempo stesso, insegnare ai familiari a
convivere con un malato di Aids.

PRIME SFIDE
I corsi furono la parte più «facile»
di tutto il processo. Avevamo i volontari,
le religiose per dettare i corsi,
compreso chi s’impegnava a finanziarli.
Il difficile venne dopo.
Da dove cominciare? I giovani cercavano
spazi che non si aprivano.
Come aggregare i giovani? Da anni
si parla di Aids: molti sono stufi di ascoltare
sempre la stessa storia. Ma
non mancava loro la creatività: cominciarono
a farsi strada nei collegi,
organizzando eventi sportivi e attività
varie a livello locale.
Gli adulti, invece, cozzavano con
una realtà più dura. «Di questo non
si parla» si sentivano ripetere. Nessuno
ammetteva di essere ammalato
di Aids. Pur avendo il Sudafrica la
più elevata percentuale al mondo di
sieropositivi, questa malattia è considerata
un «marchio» infamante per
il portatore e la famiglia. Appena uno
ne è colpito, i parenti lo mandano a
«recuperarsi» o «aspettare» la morte
in casa di qualche familiare lontano,
in modo che i vicini non lo vedano.
Nelson Mandela pose un importante
precedente: durante un congresso
mondiale contro la povertà,
tenuto in Sudafrica, disse che alcuni
suoi parenti erano morti di Aids. Poi
l’ospedale ci aprì le porte: aveva bisogno
di noi. Non poteva trattenere
i malati, ma neppure disinteressarsene,
senza curarli in casa.
Ecco il piano: ogni volta che si fa
l’esame del sangue per scoprire
l’Aids, viene dato appoggio psicologico
prima e dopo il test, informando
l’interessato che, in caso risultasse
positivo, alcuni volontari sarebbero
disposti a visitarlo in casa. Se il
malato accetta, ci viene passata
l’informazione, che, naturalmente,
rimane riservata.
Un’altra idea vincente è la decisione
dei nostri volontari di visitare «tutti
» i malati di cui vengono a conoscenza.
Armati della parola di Dio e
muniti dell’«olio di esultanza», passano
di casa in casa, pregano con cattolici
e non cattolici e amministrano
un rito di unzione consentito pure ai
laici: in questo modo essi possono
rendersi conto della situazione e offrire
appoggio alle famiglie.
In molti casi, però, i volontari devono
sostituire i familiari, poiché
questi si disinteressano dei malati,
che vengono abbandonati in qualche
angolo recondito della casa,
quando non sono spediti da un parente
lontano.

COMINCIARE CON I PICCOLI
Il primo gruppo si dedicava ai loro
coetanei, ma non bastava. Data la
precocità dei nostri giovani, appariva
sempre più chiara la necessità di
cominciare a parlare del problema il
più presto possibile.
La diocesi di Durban aveva preparato
una serie di catechesi per aiutare
gli studenti dai 7 ai 15 anni a
puntualizzare gradualmente il problema.
Abbiamo adottato tale materiale
anche nelle nostre parrocchie.
Ogni sabato le otto classi, corrispondenti
al ciclo scolastico statale,
vengono in chiesa e i catechisti, insieme
ai volontari, portano avanti il
processo formativo degli alunni,
compatibile con la loro età.
Inoltre, una volta all’anno raduniamo
i ragazzi delle tre parrocchie
per una chiacchierata sugli «abusi
sessuali». L’iniziativa è stata suggerita
da un’assistente sociale, preoccupata
dall’alto numero di casi registrati
nella zona.
Vista da lontano, tale iniziativa può
sembrare esagerata; ma nell’ambiente
in cui viviamo, una catechesi che
non tocchi il vissuto quotidiano dei
ragazzi resterebbe alquanto sterile.

ORFANI
Una delle conseguenze più drammatiche
dell’Aids è l’aumento degli
orfani. Sempre più numerosi sono i
nuclei familiari formati solo da nonni
e nipotini; in molti casi i piccoli sono
abbandonati a se stessi: il maggiore,
a 10-11 anni, è già capofamiglia
e deve prendersi carico dei
fratellini più piccoli.
Un giorno un assistente sociale dell’ospedale
venne a dirci: «Nelle vostre
parrocchie avete tanti progetti di
promozione umana: vorrei incontrare
i vostri volontari e studiare insieme
il modo di rispondere al problema
degli orfani».
Tra le varie proposte fu scelta quella
di invitare i vicini a prendersi cura
dei piccoli, per non separarli e non
sradicarli dall’ambiente. Tanto più
che il governo dà un sussidio mensile
a chi si fa carico di un orfano.
L’idea è buona, ma non sempre facile
da realizzare. Bisogna convincere
le famiglie che l’Aids non è una
«macchia» infamante; vagliare la loro
disponibilità, perché non sia il luccichio
del denaro la ragione per
prendersi in casa un bambino. Ancor
più complicata è la trafila burocratica
per ottenere il sussidio.
I volontari si scontrano con un
problema tipico dei paesi africani:
molti figli non sono registrati al momento
della nascita, ma quando iniziano
ad andare a scuola. Se i genitori
muoiono senza aver provveduto
alla registrazione, nel migliore dei
casi tocca ai nonni fae richiesta. È
una pratica lunga ed estenuante, sia
per i vecchi, costretti a lunghe code,
sia per i volontari, che devono sobbarcarsi
il servizio di trasporto e assistenza
nel disbrigo delle pratiche.

CAMBIO DI VITA
Nel suo primo messaggio alla nazione
(1998), il presidente Thabo Mbeki
disse che ogni giorno 1.500
persone contraevano l’Aids; a cinque
anni di distanza, i dati statistici
continuano a parlare di 1.600 casi
giornalieri. In Sudafrica il morbo è
fuori controllo, nonostante gli sforzi
del governo per educare la gente a
combattere l’infezione.
Tali sforzi, però, non toccano la vita
e i comportamenti di giovani e adulti.
Con i volontari stiamo cercando
un cammino alternativo. Non basta
sapere cos’è l’Aids o come si
contrae, bisogna promuovere «un
cambio di vita» o, per usare il linguaggio
cristiano, occorre una radicale
conversione.
Per questo, con l’aiuto delle suore
della Misericordia, responsabili del
centro pastorale diocesano, organizziamo
periodicamente ritiri di fine
settimana per i giovani. Non sono raduni
d’informazione, ma d’incontro
con Cristo, che ci prende per mano
e ci indica la strada che porta alla pienezza, secondo la sua promessa:
«Sono venuto perché abbiate la gioia
e l’abbiate in abbondanza».

COOPERAZIONE ECUMENICA
«Se ci dicessero che un popolo
vorrebbe invaderci, ci troveremmo
uniti per affrontarlo e difendere l’identità
e la vita della nostra gente»
sentii proclamare in un incontro sull’Aids.
Di fatto, il Sudafrica è in guerra;
ma sembra che molti lo ignorino.
E poi, non bastano sforzi isolati per
vincere tale guerra.
«Siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid;
abbiamo la forza per vincere
anche l’Aids», disse tempo fa Desmond
Tutu, il famoso vescovo anglicano
ora a riposo. È questa anche
la nostra speranza. Non ci sentiamo
più soli in questa lotta. Le notizie corrono
veloci e, data la stima di cui godiamo
come chiesa aperta a tutti i bisognosi,
siamo già stati invitati a
prendere parte a incontri con altre
organizzazioni civili e religiose per
scambiarci le idee e unire le forze.
Ogni mese ci riuniamo nell’ospedale
di Newcastle con membri della
polizia, sindacalisti, assistenti sociali
e carcerari… I frutti sono ancora magri;
c’è molta burocrazia; ma almeno
cominciamo a condividere idee, iniziative,
progetti e tentiamo di unire
gli sforzi e di sostenerci a vicenda.
Da parte nostra cerchiamo di mobilitare
tutti: abbiamo costituito un
consiglio di pastori delle chiese cristiane
e procuriamo loro sussidi e li
incoraggiamo ad avviare progetti simili
ai nostri nelle proprie comunità.
È tipico della chiesa cattolica annunciare
un vangelo che promuova
la dignità della persona; le altre denominazioni
cristiane sono più «spiritualiste
», ma qualcosa si sta muovendo
anche in esse.
Padre Rocco Marra, che da anni
lavora in diverse carceri, ha conosciuto
vari pastori che si occupano
dei detenuti: nel 2002 ha potuto organizzare
per loro un corso di quattro
incontri mensili sull’Aids; alla fine
è stato costituito un organismo ecumenico
chiamato: Agape, comfort
and care (amore e consolazione).

LE SFIDE CONTINUANO
Un giorno la madre di una volontaria
mi domandò: «Cosa fate per i
genitori dei giovani? Chi parla loro?
Chi li aiuta a prendere coscienza?
Chi fornisce loro “strumenti” per
aiutare i figli?».
Le questioni poste dalla donna
sottolineano la complessità del problema
e costituiscono un’altra sfida
dell’Aids: l’ho accolta con soddisfazione,
anche se, fino ad ora, non siamo
riusciti a dare una risposta concreta.
Ad ogni modo, questa madre
può essere un punto di partenza per
un’altra iniziativa.
La sfida più grande da vincere è
quella di «rompere il silenzio», quella
tremenda pressione che al danno
unisce la beffa: essere malato e non
potee parlare apertamente. Alcuni
anni fa, Gugu Dlamini, una operatrice
sociale, volle sfidare tale silenzio:
disse di essere malata di Aids.
La gente del quartiere la ammazzò.
Oggi, a Durban, esiste un grande
parco che porta il suo nome.
La gente del Sudafrica è fondamentalmente
cristiana, ma è evidente
che la fede non è ancora penetrata
in profondità, tanto da generare aperture
generose verso le vittime dell’Aids.
È la sfida più forte al nostro
lavoro missionario.
Non solo a Madadeni, ma in tutte
le missioni affidate ai missionari della
Consolata vogliamo dare risposte
concrete a tale sfida, formando i cristiani
alla misericordia e solidarietà,
a essere segni di consolazione di un
Dio che si è incarnato nella storia
quotidiana della gente e
ha trasformato la morte in
vita.

ALCUNI DATI
NEL MONDO
– A dicembre 2002, sono 42 milioni le
persone che vivono con l’Aids/Hiv:
38,6 milioni adulti (19,2 milioni donne)
e 3,2 milioni minori di 15 anni.
– Nel 2002 le nuove infezioni di Hiv
sono state 5 milioni: 4,2 milioni adulti
(2 milioni donne) e 800 mila minori.
– Nel 2002 sono decedute per Aids 3,1
milioni di persone: 2,5 milioni adulti
(1,2 milioni donne), 610 mila minori.
IN AFRICA
– L’Aids è prima causa di morte.
– 28,1 milioni di persone sono infette
da Hiv, con progressione di 3,4 milioni
all’anno: 9.300 al giorno.
– Nel 2002 sono morte di Aids 2,3 milioni
di persone, metà sono donne.
– In 20 anni, 13 milioni di minori sono
«orfani di Aids».
– Entro il 2010 il numero di tali orfani
è destinato a salire a 30 milioni.
– Per quanto riguarda lo sviluppo, l’Hiv
ha riportato indietro di 25 anni l’intero
continente.
AFRICA AUSTRALE
– Il Sudafrica è ritenuto il paese col
più alto numero di portatori di
Aids/Hiv.
– L’11,6% dei sudafricani è colpito da
Hiv; la cifra sale a 15,6% tra le persone
dai 15 ai 49 anni.
– Dei minori tra 2 e 14 anni, il 5,6%
sono sieropositivi e il 13% hanno perduto
uno o entrambi i genitori.
– Entro il 2010 l’epidemia potrebbe
uccidere da 5 a 7 milioni di sudafricani.
– Entro il 2010 in Sudafrica (come pure
in Botswana, Mozambico, Lesotho,
Swaziland) il numero dei morti supererà
quello delle nascite.

Gli Stati Uniti contro tutti
L’«APARTHEID
FARMACEUTICO»

Ginevra, 26 dicembre 2002. Gli
Stati Uniti si sono opposti all’accordo
tra i 144 paesi del Wto
(Omc, Organizzazione mondiale
del commercio) per la diffusione a
basso costo dei farmaci salvavita.
Questi riguardano l’Aids, ma anche
malaria, tubercolosi e una
quindicina di malattie tropicali.
Washington si è schierata a fianco
della potente lobby farmaceutica,
«Big Pharma», che non vuole vedere
intaccati i propri profitti
(+21% nel solo 2001). Nel caso
dell’Aids, per la cui terapia ci sono
i costi più alti (assolutamente inaccessibili
nei paesi del Sud del
mondo), continuerà il monopolio
delle 7 compagnie farmaceutiche
che hanno l’esclusiva dei brevetti
fino al 2016: Pfizer, Roche,
Glaxo-Smith-Kline, Merck, Abbot,
Boehringer, Bristol-Myers
Squibb.
Assediati dalla malattia, alcuni
paesi (tra i quali India, Brasile e Sudafrica)
già producono farmaci generici
(cioè con gli stessi principi
attivi dei farmaci brevettati).
Su queste tematiche si veda:
il «dossier Aids» su Missioni Consolata
di giugno 2001.

José Luis Ponce de León




«PERCHÉ SI FANNO LE GUERRE?» Il «battitore libero» GIUSEPPE TORRE, di Genova, ha fatto discutere.

Nell’intervento del signor Giuseppe
Torre ci sono affermazioni
false. La verità è che:
1) la Repubblica Jugoslava è collassata
dall’interno, come tutte le altre
dell’Europa dell’Est;
2) le stragi perpetrate dai serbi sono
state terribili e documentate;
3) il regime irakeno è feroce e sanguinario
(stragi di comunisti, di serbi,
ecc.: vedi l’articolo di Cazzullo su
La Stampa);
4) l’attacco alle torri gemelle è stato
rivendicato dall’organizzazione di
Bin Laden e dal mullah Omar;
5) la lotta al terrorismo (che comportava
interventi in Afghanistan) è
stata votata anche da una buona
parte della sinistra che ragiona.
Il signor Torre non ha nulla da dire
sul regime dei talebani? Sulla lapidazione
di adultere in paesi islamici?
Sulle stragi di turisti in Indonesia?
Sulle donne considerate puri
oggetti? Sulle ricchezze enormi di
alcuni paesi arabi, che vengono spese
a finanziare il terrorismo? Sui kamikaze,
giovani fanatizzati che si
uccidono e uccidono adolescenti,
donne e bambini?
Potrei continuare, ma mi pare che
il livore antioccidentale e antiamericano
stia raggiungendo limiti patologici.
Il cristianesimo cosa ha da
guadagnare nel condividere una visione
così travisata della realtà?
Realtà che è complessa, difficile,
non riconducibile a una divisione
manichea tra buoni (i popoli del
Terzo mondo) e cattivissimi (noi
dell’Occidente).
Su La Stampa Spinelli scriveva che
il regime comunista è stato caratterizzato
dall’uso sistematico della
menzogna e che i suoi epigoni, in Italia,
continuano su questa strada. È
curioso che, dopo la caduta del comunismo,
gli epigoni di questa ideologia
si trovino in campo cattolico!

Silvia Novarese




«PERCHÉ SI FANNO LE GUERRE?» Il «battitore libero» GIUSEPPE TORRE, di Genova, ha fatto discutere.

Scrivo in merito alla lettera di
Giuseppe Torre. Sono contento
che qualcuno abbia ancora il coraggio
e l’onestà intellettuale di dire
la verità. I fatti citati sono documentati
e le prove sono sotto gli
occhi di tutti.
Nonostante ciò, chiunque cerchi
di affrontare questi argomenti
«tabù» viene sistematicamente denigrato
e tacciato di sovversione,
collaborazione con i terroristi e di
essere «antiamericano».
Risultato: molte persone sono già
state messe a tacere e, su tutte le
televisioni e sulla maggior parte dei
giornali, si sente esclusivamente una
voce, la «versione ufficiale»,
quasi esistesse un «ufficio di propaganda
» anche in Italia. «La guerra è
umanitaria e preventiva. Libereremo
gli iracheni dalla tirannide».
Ma come è possibile che i più
spietati dittatori si trovino sempre
in luoghi di forte interesse petrolifero
e mai altrove? Come è possibile
che non ci accorgiamo che ci stanno
prendendo in giro?
Spero che Missioni Consolata rimanga
sempre una voce fuori dal
coro, indipendente ed onesta. Non
smettete di dirci la verità. Grazie.

Simone Naretto




«PERCHÉ SI FANNO LE GUERRE?» Il «battitore libero» GIUSEPPE TORRE, di Genova, ha fatto discutere.

Lettore di Missioni Consolata da
molti anni, mi sono trovato in
più occasioni in parziale disaccordo
con le posizioni assunte da uno dei
suoi redattori.
Su «Battitore libero» di
ottobre/novembre 2002 mi avete,
però, allibito e scioccato per un lungo
momento. D’accordo che la rubrica
è aperta a tutte le opinioni; ma
non per questo credo che lei, signor
direttore, sarebbe disponibile a pubblicare
un proclama di Bin Laden o il
calendario di una delle bellocce di
tuo.
La lettera del signor Giuseppe Torre,
di Genova, è un tale cumulo di
menzogne e di falsi della realtà storica
che il solo fatto di averla pubblicata
rischia di gettare un’ombra
su tutto l’operato della rivista. Offrire
la possibilità di esprimere libere
opinioni è sicuramente un merito
primario della sua rivista; però la
lettera menzionata non esprime
un’opinione su un problema, ma ne
costruisce un altro sulla base di falsi
ed illazioni, solo per gettare fango
su una parte del mondo al quale sicuramente
il Torre non appartiene e
del quale è sicuramente nemico.
Lettera che, a mio avviso, meritava
di finire in un posto ben preciso.
Neppure il remoto dubbio che la
lettera sia stata pubblicata per mettere
in risalto il metodo di travisare
la realtà, adottato da una certa parte
del mondo ed utilizzato per sostenere
tesi antioccidentali, mi trova
consenziente alla pubblicazione.

Guido Laurenti




L’OPPIO DEI POPOLI, IERI E OGGI

Sono stato chiamato in causa da SILVIA NOVARESE, che
vuol sapere cosa penso sulla «religione oppio dei
popoli», (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2002).
La frase di Karl Marx, invece di creare panico, dovrebbe
stimolare i credenti a disintossicarsi da egoismi
e ipocrisie, che impediscono di essere «dono, buona
notizia, nazione santa, sacerdozio perfetto».
Nelle opere di Marx che ho letto non ho trovato alcuna
affermazione contro Dio, Gesù Cristo, la Vergine
Maria, i vangeli e la chiesa, intesa come comunità di
persone che si riconoscono peccatrici e si impegnano
in una seria conversione.
Tenendo conto del contesto in cui l’affermazione
«religione, oppio dei popoli» è inserita e dell’ambiente
in cui Marx maturò le sue convinzioni, ho l’impressione
che la religione criticata sia soprattutto
quella protestante, non la cattolica. Come credente
in Dio uno e trino e nella chiesa una,
santa, cattolica e apostolica, non mi sento offeso
da Marx. Il cristianesimo è molto di più
di una religione, e sono contento quando mi
imbatto in dichiarazioni di cattolici che sottolineano
tale aspetto.
Uno è il cardinale Giacomo Biffi, il quale in
«Gesù unico salvatore del mondo» scrive: «Il
cristianesimo in sé non è una concezione della
realtà, non è un codice di precetti, non è una
liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà
umana, né una proposta di frateità
sociale. Il cristianesimo non è neanche una
religione… Oggi si sente dire che tutte le religioni
si equivalgono, perché ognuna ha qualcosa
di buono. Probabilmente è anche vero.
Ma il cristianesimo non è una religione, ma è
Cristo. Cioè una persona…».
Già 2 mila anni fa un «altro Giacomo» invitava
a stare alla larga dalla religione «vana». E, se ammettiamo
che il cristianesimo non è riducibile solo ad
una religione, non possiamo prendercela con Marx. Dovremmo
riconoscere che spesso le religioni (specie se
degenerate in sètte) non solo hanno annebbiato e
frantumato la coscienza di individui e popoli, ma, con
il loro silenzio e pusillanimità e «teologie d’avanguardia
», hanno fatto sì che l’oppio stesso diventasse
religione.
Non dimentichiamolo: mentre in Europa Marx levava
il grido contro la religione-oppio e contro le teorie
antinataliste del reverendo Malthus, in Asia, Inghilterra
e Francia (già la Francia, «figlia prediletta» di
santa romana chiesa, che fino all’ultimo s’oppose all’annessione
dello stato pontificio al regno d’Italia),
scatenavano le guerre dell’oppio contro i cinesi, «rei»
di non potee più degli effetti devastanti della polverina,
«rei» di avere sequestrato ai mercanti stranieri
e bruciato 20 mila casse di oppio proveniente
dall’India e da altri paesi dell’Asia, «rei» di aver leso
il «diritto» degli uomini di sua maestà britannica di
praticare questo turpe commercio «liberamente».
Inglesi e francesi vinsero quelle guerre e sua maestà
britannica (capo della chiesa anglicana) si prese
pure Hong Kong, un’indennità di 21 milioni di dollari
messicani e ottenne il controllo del commercio con
l’estero a Canton, Shanghai, Xiamen, Fuzhou, Ningho.
Oggi oppio, eroina e altri stupefacenti stanno seminando
morte e degrado fra tanti giovani inglesi,
e neppure la casa reale si può considerare immune.
Ma l’Inghilterra continua a credere nella teoria delle
guerre giuste, ed è sempre pronta (con gli Stati
Uniti) a trarre profitto dalla miseria e vulnerabilità in
cui si dibattono tanti popoli.
Ieri era l’oppio a far litigare Londra e Pechino; oggi
sono anche la cocaina, il petrolio, il coltan, l’uranio, i
diamanti, il legno delle ultime foreste tropicali… a innescare
i conflitti più sanguinosi.
Ieri era Malthus a raccomandare il controllo delle
nascite; oggi sono la Banca mondiale, il Fondo monetario
internazionale, la fondazione Rockfeller, l’organizzazione
mondiale della sanità… a imporre, persino
nei paesi che dicevano di ispirarsi a Marx, Proudhon e
ad altri avversari di Malthus, l’aborto, la sterilizzazione
e i contraccettivi, in nome dello sviluppo sostenibile,
della lotta contro l’Aids e contro la povertà.
Fortunatamente c’è anche un movimento che, pur
nella sua eterogeneità, fra difficoltà e contraddizioni,
ha trovato un’alternativa a questo modo criminale
di concepire lo sviluppo economico, le relazioni commerciali
e i rapporti umani.

È un movimento dove trovano spazio anche molti
credenti, i quali (anche senza andare a Seattle, Goteborg
o Genova) ritengono loro dovere ribellarsi ogni
giorno (e non solo nelle settimane dei social forum o
degli anti G8) al capitalismo selvaggio, alla globalizzazione
dei neoliberisti, allo sfruttamento indiscriminato
delle risorse naturali, al massacro di tanti innocenti.

FRANCESCO RONDINA




«Sono malato di Aids…»

Quante volte mi sorprende
il constatare che,
nel mio andare in missione,
«Uno» è già passato:
questo Dio che ci ama tutti
in uguale maniera, e che
solo la gioia di testimoniare
questa realtà ci fa diventare
contagiosi…
È sera in questo lembo
di Kenya. Il sole sta scomparendo,
in un breve tramonto
senza crepuscolo, e
illumina con i suoi raggi
gli alti alberi di eucaliptus
che circondano la missione,
facendo capolino tra i
rami… Un uomo, esile e
mingherlino, con occhi
grandi e lucidi, è seduto
sul muricciolo, vicino alla
nostra casa, e chiede di
parlare con una sister.
«Sorella – mi dice -, sono
un malato di Aids: come
vedi, ho già le piaghe
che sanguinano. Ho 35
anni; mia moglie è morta
tre anni fa; ho quattro figli
tutti sieropositivi e vivono
a Kitale con la nonna. Io
sono dovuto venire a Nairobi,
per essere più vicino
all’ospedale Kenyatta e
sono stato ospitato da amici
nella baraccopoli di
Karinde, qui vicino a Karen.
Oggi l’ospedale mi ha
congedato: non c’è più
nulla da fare. Ho dovuto
dirlo agli amici che mi
hanno ospitato, i quali mi
hanno risposto che è meglio
che ritorni dai miei figli
a Kitale, anche perché,
se muoio qui, è molto costoso
trasportare il mio
corpo a Kitale, dove c’è la
mia terra e dove è già sepolta
mia moglie…
Sorella, le chiedo un bicchiere
d’acqua e i soldi
per il biglietto del pullman;
partirò stasera stessa
da Karen alle ore 20 e
arriverò a Kitale domani
mattina verso le 6. Vado a
morire a casa mia…».
Le lacrime mi scendono
silenziose e, senza volerlo,
osservo le mie mani se
hanno una qualche (anche
minima) ferita, per poi
mettergliele sulla spalla e
di cuore dirgli: «Non aver
paura, fratello mio!».
Una tale sofferenza esige
solo rispetto, presenza
silenziosa, un gesto di appoggio
e di accoglienza…
«Sono cristiano – continua
l’uomo -. Pensi, sorella,
che andrò in paradiso?
». «Non avere il minimo
dubbio!» rispondo
con un nodo che mi stringe
la gola. E lui: «Quando
sarò là, pregherò per te,
sorella». Si rimane ammutoliti
di fronte a simili esperienze,
che incidono
profondamente il cuore e
che fanno meditare seriamente.
Chi accoglie il Signore
sono proprio questi
umili crocifissi della storia,
che accettano il Suo
intervento nella loro vita.
Sono proprio questi coloro
che, per misericordia
divina, possono chiamare
Dio «padre» e ti insegnano
a fare altrettanto.

Sr. Adriana Prevedello




«Ho smesso di fumare» e…

Cari missionari,
mi presento: ho 65 anni e
qualche acciacco (colpa
della «gioventù»). Però la
vita va vissuta e… «perché
– mi sono detta – non adotti
un bambino?».
Così, senza pensarci
molto, ho smesso di fumare
e… ho raccolto la somma
di 104,00 euro, che vi
ho spedito. Scrivo queste
righe non pretendendo
nulla, ma semplicemente
perché conosciate un pochino
anche me.
Sono vedova e pensionata.
Sono stata accanto a
mio marito finché Dio
non ha deciso di riprenderselo
e posso dire di essere
stata con una persona
stupenda. Abbiamo avuto
due belle e brave figlie e adesso
faccio la nonna a
tempo pieno a tre nipoti.
Il desiderio di curare la
crescita culturale di un
bambino, in qualche paese
povero, spero che venga
accolto, anche se ho
un’età avanzata. Se Dio
mi dà una mano, perché
non provare?
Se me lo permettete, vi
abbraccio tutti con affetto,
specialmente padre
Stefano Camerlengo, missionario
in Congo e mio
conterraneo.

Ecco una lettera (ne riceviamo
tante!) che rinfranca
il cuore. Grazie.

Lettera firmata




Brasile: gioia con… Lula

Cari amici,
la frase di san Paolo «ho
combattuto la buona battaglia
e ho conservato la
fede» è importante e sintomatica
per chi, come me
(da 30 anni in Brasile),
sente la necessità di fare
delle verifiche sulla propria
esistenza…
Tuttavia la vittoria di
Lula, nelle elezioni presidenziali,
mi ha procurato
momenti di gioia quasi adolescenziale.
Mi sono
commosso varie volte, alla
televisione e nelle conversazioni
con la gente, nel
vedere e rivedere alcune
immagini, nel ricordare e
progettare qualcosa che
sembrava ormai scomparso
dall’orizzonte collettivo.
Valeu a espera! (è valsa
la pena sperare).
Non saranno le solidali
e realistiche battute, quali
«speriamo che lo lascino
governare e non solo regnare
», a toglierci la gioia
profonda, come pure la
consapevolezza dei limiti
del nuovo presidente del
Brasile…

In «Tocca a Lula!» (editoriale
di gennaio) anche
noi abbiamo salutato con
piacere la vittoria di Lula,
dopo tre tentativi andati a
vuoto. Tra i primi atti del
nuovo presidente: i soldi
per i nuovi caccia militari
«dirottati» sul cibo . Chi
ben inizia…

p. Luciano Beardi