Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.
La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).
Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.
Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.
La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.
Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.
Achille Da Ros