AFRICA il calcio, una piccola grande risorsa

VITA… IN CONTROPIEDE
Da oltre 20 anni, centinaia di giocatori africani militano in squadre europee:
al di là del business e rischi connessi al mondo del pallone, questi atleti
si stanno rivelando una risorsa preziosa per il futuro del loro continente.
Lo sostengono gli autori di questo articolo, sintesi di una tesi di laurea
su «Lo sviluppo del calcio africano».

Una delle più importanti risorse
del continente nero è,
oggi, lo sport: non solo coraggiosi
e infaticabili maratoneti, anche
validissimi giocatori di calcio.
Negli ultimi anni, infatti, le rappresentative
africane di football hanno
raggiunto risultati invidiabili: primo
posto nelle ultime due olimpiadi, ad
Atlanta 1996 con la spettacolare Nigeria,
a Sydney 2000 con il Camerun
che ha sconfitto clamorosamente la
Spagna e sempre ottimi piazzamenti
nei toei inteazionali giovanili.
Di fronte a queste certezze, la Fifa,
la federazione internazionale di calcio,
ha aumentato i posti per le squadre
africane nella Coppa del mondo,
la massima competizione per squadre
nazionali. Nell’ultima edizione
nippo-coreana (estate 2002), hanno
partecipato Nigeria, Camerun, Tunisia,
Sudafrica e Senegal. La squadra
senegalese, osannata dagli addetti ai
lavori per organizzazione di gioco e
per individualità, è riuscita a eguagliare
il record del Camerun, datato
1990, approdando ai quarti di finale.
Le prime avvisaglie di raggiunta
solidità del calcio africano,
almeno agli occhi degli europei,
si rivelarono proprio nella Coppa
del mondo del 1982, conquistata
dai nostri azzurri. Azzurri che, nel girone
di qualificazione, faticano inaspettatamente
per strappare un pareggio
ai «leoni indomabili» camerunesi,
che mostrano un’incredibile
esuberanza atletica e impressionante
potenza fisica. In quell’edizione
fece bella figura pure l’Algeria, in
grado di sconfiggere il wunderteam
tedesco, che poi raggiunse la finalissima
assieme all’Italia.
L’attenzione per il calcio d’Africa
si fece, quindi, sempre più forte: la
stessa Coppa d’Africa, il toeo per
le nazioni, si scoprì prestigiosa vetrina
per gli osservatori di tutto il mondo
a caccia di giovani promesse.
Anche nel nostro paese, grazie alla
liberalizzazione dei trasferimenti
avvenuta negli anni ‘80, cominciarono
a sbarcare diversi atleti africani. Il
primo fu François Zahoui, ventenne
della Costa d’Avorio, paese che si rivelerà
inesauribile fonte di talenti,
acquistato nel 1981 dal vulcanico
presidente dell’Ascoli, Costantino
Rozzi. Del giocatore si perdettero le
tracce quasi subito.
Stessa sorte subirono molti altri atleti
che in quegli anni arrivarono in
Europa. Erano ragazzi abituati a un
calcio ben differente da quello europeo,
praticato fin da piccoli sulle
strade, a piedi nudi, in condizioni di
assoluta povertà, come sfogo per dimenticare
o nascondere mille problemi.
Pur essendo abili tecnicamente
e abituati a condizioni climatiche
estreme, trovarono difficile
adattarsi ai rigori del calcio business
e relative regole, tatticismi e durissimi
allenamenti. Tutti limiti difficili
da correggere ancora oggi.
Le difficoltà d’ambientamento
di questi atleti, provenienti da
realtà così diverse, che si portano
dietro costumi, usanze, credi, in
molti casi a noi sconosciuti, sono
spesso insuperabili. Il calciatore africano
resta, tuttavia, un atleta forte,
temprato alla sofferenza, adulto
fin da piccolo, disposto ad abbandonare
casa e girare il mondo pur di
coronare il sogno di sfondare nel calcio
che conta.
Citiamo la storia Mohammed Kallon,
pedina importantissima per l’Inter.
Nato a Free Town (Sierra Leone)
e adocchiato giovanissimo dalla
squadra milanese, fu costretto a
passare, ogni anno, da
una squadra all’altra per
«farsi le ossa»: oggi, ancora
ventiduenne e già da quotazione
stratosferica, Mohammed
è un attaccante affidabile,
certamente più freddo di
fronte alla porta, rispetto a
qualche tempo prima.
Ma non tutti hanno la fortuna
di Kallon. I rischi sono
numerosi: si può anche finire nelle
mani di procuratori senza scrupoli,
veri e propri bracconieri, che
strappano i giovani dalla famiglia
per pochi milioni, li portano in Italia
e in Europa e, in caso di rendimento
inferiore alle aspettative, li scaricano
velocemente, lasciandoli magari a lavorare
vicino a un semaforo.
È la cosiddetta piaga dello sfruttamento
dei baby-calciatori, che si crea
quando gli europei cominciano a interessarsi
ansiosamente alle risorse
sportive del continente nero.
Tale sfruttamento può facilmente
fare leva sulla voglia di evadere degli
stessi ragazzi: essi sanno che in Africa
hanno poche possibilità per maturare
e migliorarsi. Le federazioni
africane, dal canto loro, sono spesso
gestite da personaggi divisi da invidia
e ambizioni personali, i quali
sfruttano malamente il denaro ricavato
dalle sponsorizzazioni. Gli stessi
regimi dittatoriali, alla guida di
molti paesi, non favoriscono certo il
libero e armonioso sviluppo delle discipline
sportive e del calcio: molte
convocazioni nazionali sono dettate
da volontà politiche, ad esempio.
Èsempre la stessa storia, un circolo
vizioso: anche l’Africa
del calcio, carente di strutture,
impianti, tecnologie, esperienza,
con allenatori, tecnici e medici ancora
impreparati, avrebbe
bisogno dell’uomo
bianco
per migliorarsi,
evolversi e diventare
più
competitiva.

Ma dell’uomo bianco, purtroppo,
non c’è mai da fidarsi, dato che ha
già tante colpe per la precarietà e instabilità
delle strutture sociali del
continente in generale.
Ci sembra che anche su questa immensa
risorsa dello sport e, in particolare,
del calcio, ci siano violente intromissioni
da parte degli stranieri,
con modalità ancora di tipo colonialista.
Eppure la prima a trae beneficio
dovrebbe essere la stessa Africa.
Anche i presidenti dei più prestigiosi
club africani hanno colpe gravi
ed evidenti, non esitando a vendere,
a cifre modeste, i giocatori più interessanti,
per ingrassare velocemente
le proprie casse, senza aiutare lo sviluppo
generale delle loro città, non
solo calcistico.
Spesso questi personaggi comprano,
a poco prezzo, squadre di serie
A, per poi smembrarle con la svendita
dissennata dei tesserati al resto
del mondo, facendole retrocedere
rapidamente di categoria, fino a farle
morire.
Il calcio, è uno dei più potenti fenomeni
mediatici; ogni evento che
gli è collegato ha una cassa di risonanza
estesissima; ai padroni e grandi
multinazionali di abbigliamento
sportivo (tra l’altro accusate a più riprese
di sfruttare la manodopera infantile
dei paesi in via di sviluppo)
conviene investire anche nelle realtà
più povere, come quella africana.
L’ultima edizione della Coppa
d’Africa ne è un esempio: si è disputata
in Mali, uno fra i dieci stati più
poveri al mondo, grazie a ingenti finanziamenti
francesi e cinesi, che
hanno consentito la costruzione di
imponenti impianti sportivi.
Ma il contatto con la cultura occidentale
è sempre rischioso, conduce
a compromessi pericolosi. È certo innegabile
che l’arrivo di molti allenatori
di stampo europeo nel continente
nero sia un fatto positivo: i nostri
Scoglio, Dossena, Mattè, Bersellini,
per esempio, hanno offerto il proprio
bagaglio di esperienze a squadre della
Tunisia, Ghana, Mali e Libia.
È altrettanto giusto ricordare che
gli stessi giocatori africani, militanti
in Europa, portano esperienza alle
proprie federazioni e squadre nazionali.
Sono centinaia, ormai, i giocatori
africani (camerunesi, nigeriani,
ghanesi, avoriani, senegalesi, tunisini,
marocchini, mozambicani, sudafricani),
insediatisi in Europa e soprattutto
nelle nazioni colonizzatrici,
Francia e Portogallo in testa.
Molti di questi hanno fatto fortuna,
vantano contratti principeschi e,
imitando i loro colleghi europei, reclamano
ricchi premi anche quando
giocano nelle proprie nazionali.
Quando si parla di calcio africano,
quindi, non bisogna fare troppa poesia,
pensando solo ai bimbi scalzi
che tirano calci nelle paludi a palloni
sgonfi. In Africa il calcio ha fatto
molta strada, sebbene difficilmente
potrà raggiungere quello europeo,
semplicemente per questione di risorse.
La stessa Fifa, in questi anni,
ha sprecato capitali in feste ed eventi
allo scopo di sviluppare nuovi progetti
in Africa.
In fondo, però, dobbiamo ammetterlo,
speriamo che questo
tipo di calcio non si occidentalizzi
troppo e conservi quella genuinità
e allegria che sinora lo ha contraddistinto.
Da un certo punto di vista, lo stesso
Senegal, protagonista di questi ultimi
mondiali, può essere criticato
perché, avendo tutte le potenzialità
per andare oltre i quarti, non ci è riuscito
forse per mancanza di ferrea disciplina:
i giocatori sono stati lasciati
troppo liberi nel ritiro e si è lasciato
spazio a feste, balli, cerimoniali.
D’altronde, è proprio grazie a questo
spirito che è riuscito a mostrare il
gioco più spumeggiante e divertente,
rimanendo al tempo stesso tatticamente
molto accorto, come una qualsiasi
nazionale europea dalla lunga
tradizione. E non per caso, dal momento
che quasi tutti i suoi atleti militano
nel campionato transalpino.
Mettendo da parte per un attimo
il calcio-business, vogliamo ricordare
come lo sport, il calcio, contribuiscano
alla realizzazione di progetti in
zone degradate dell’Africa, per lo
sviluppo non solo atletico, ma anche
culturale ed educativo dei ragazzini.
Naturalmente, alcuni di questi
progetti, magari finanziati da blasonati
club europei, non nascondono
l’obiettivo di scovare e allevare campioni
da far sbarcare in Europa; ma
molti altri sono votati alla mera beneficenza.
Gli stessi giocatori africani,
che in Europa hanno fatto fortuna
e miliardi, sono spesso coinvolti
in tali iniziative. Ne è un esempio
George Weah, prodigatosi come attivo
finanziatore, oltre che giocatore-
allenatore, per la propria nazionale,
la Liberia, paese stremato da fame
e da guerra. Anche per questo è
riconosciuto il più grande calciatore
africano di tutti i tempi; più di Roger
Milla che, a 38 anni, a suon di
goals, aveva portato il Camerun ai
quarti di finale nei mondiali del ‘90.
Weah ha fatto vincere tanto al Milan,
da essere insignito del pallone
d’oro, massima onorificenza per un
giocatore che milita in Europa, e diventare
un simbolo dell’espressione
calcistica africana
nel vecchio continente.

Gaetano Farina Malù Mpasinkatu

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