NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione scottante

<b<CHIRURGIA DI COSTUME


È possibile rimanere fedeli alla propria identità, pur
rinnovando tradizioni non più compatibili con la dignità umana e il
rispetto delle persone? Ci hanno provato i «mangbetu», con un’assemblea
che, certamente, farà storia.

15 maggio
2001: una data che oserei definire «storica» per i miei mangbetu, famosa
etnia nel nord della Repubblica democratica del Congo. È il giorno del
loro grande incontro sul tema: «Si deve ancora pagare il cadavere?».

Nessuno si
stupisca, perché la questione non è così strana come sembra; anche perché,
dopo un interessante dibattito, ne è uscita una risposta che rivoluziona
consuetudini secolari.

Ma
procediamo con ordine.

La
famiglia come è concepita in Europa (papà, mamma, figli) va un po’ stretta
all’Africa. Il bambino deve, fin da piccolo, conoscere molto bene gli zii
matei, perché la vita viene di là. Quando è ormai cresciuto, torna dai
genitori, oppure, se ha raggiunto la maturità, inizia egli stesso una
nuova famiglia.

Solamente
la morte del nipote rompe definitivamente questo strettissimo legame
vitale. Inizia, allora, un cerimoniale, e chi ne fa le spese è la famiglia
ristretta dove il nipote è deceduto.

Perché
avviene questo? Qual è il significato di avvenimenti che si ripetono ad
ogni morte? Gli antropologi parlano di risarcimento o compensazione. È
come se il congiunto (degli zii matei) fosse stato solamente «prestato»
alla famiglia (come sposo, sposa, figlio); la sua morte impoverisce la
famiglia di origine (zii matei) e, quindi, occorre risarcirla, darle un
compenso. E chiamano questa operazione «kofuta ebembe», ossia pagare il
cadavere.

I banoko
partono dal luogo della sepoltura del nipote con capre, polli, maiali,
soldi e vari oggetti (coltelli, pentole, vestiti…). Ma questo crea
l’impoverimento improvviso (a volte totale) della famiglia dove è avvenuto
il decesso. Si scoprono sempre più vere tragedie familiari.

La morte è
così frequente (anche a causa dell’Aids) che è difficile trovare una
famiglia che non abbia vissuto tale problema. Per cui si scopre che i
figli del defunto non vanno a scuola, perché i soldi non ci sono: li hanno
presi i banoko. Uno muore perché non può permettersi l’ospedale: i banoko
hanno portato via tutto. La vedova resta sovente in una situazione
pietosa: le hanno portato via persino gli utensili da cucina e il prezioso
bidone per attingere acqua alla sorgente.

Le
lamentele sui banoko e sul loro intervento alla morte del nipote è un
fatto generalizzato. Tutti piangono. Ma occorre pure dire che tutti sono
banoko e, presto o tardi, arriverà l’occasione di appropriarsi delle cose
alla morte di un nipote. Allora ci si rifarà. Resta tuttavia il fatto che
di questa usanza, anche se seguita da tutti, si farebbe volentieri a meno.

Ma i capi,
gli anziani, i detentori della tradizione sono d’accordo di abolirla? E
come accordarla con il vangelo?

I
partecipanti furono 2.119, così ripartiti: 1.028 uomini, 717 donne e 374
ragazzi. Interessante anche l’atmosfera ecumenica: i lavori furono aperti
dalle parole di padre Simon Tshiani, missionario della Consolata, e dal
pastore protestante Thomas, che ha presentato in lingua mangbetu le
tradizioni della tribù su questo tema scottante. Suggestivo è stato pure
il suo modo di esporre i problemi, intercalati da canti tradizionali, da
lui stesso composti, che invitavano al cambiamento di mentalità.

È seguito
un lavoro a gruppi, costituiti dalle diverse «collettività» (entità
amministrative), presieduti ciascuno dal capo tradizionale, dagli
«intellettuali» e dagli agenti pastorali: una vera concertazione a largo
raggio. Dopo un acceso dibattito in assemblea, è stato elaborato e votato
un documento finale, scritto in lingala (una delle lingue nazionali del
Congo) e firmato dai tre capi tradizionali, vincolante per tutti (vedi il
riquadro)… Ho fatto pervenire la documentazione all’amico Stefano
Allovio, grande conoscitore dei mangbetu. In una lettera mi ha risposto:
«Questa operazione di chirurgia sui costumi ancestrali è molto
interessante… Ma terrà?».

È quanto
ci chiediamo tutti, missionari e mangbetu. Finora la risposta è: tiene!

 


Se così stanno le cose

Nodadai:
gli zii del defunto sono chiamati a dare una somma di denaro. È possibile
che, da vivo, il defunto abbia dato frecce o lance agli zii, affinché alla
sua morte, facciano scorrere del sangue (vendetta). Questa si chiama «nongu».
A noi mangbetu giudicare se è un buon testamento.

Amuteno: è
il diritto di sepoltura da attribuire agli zii del defunto. Senza amuteno,
il cadavere rimarrà senza sepoltura, anche se il corpo va in
decomposizione. A noi mangbetu giudicare se questa pratica è buona.

Neposo:
dopo la sepoltura, è obbligatorio dare agli zii da mangiare: maiale o
capra, da uccidere subito, e il necessario in banane, manioca, olio e
tutti i condimenti.

Nekuwe
andreti: significa cercare i parenti remoti del defunto, affinché possano
anch’essi trarre profitto del neposo.

Nemongimbo:
è obbligatorio; per cui si comincia subito a trattare, mettendo da parte
la tristezza. Nemongimbo è una multa esigita dagli zii ed è in stretta
relazione con l’importanza del defunto: molti soldi, parecchie teste
d’animali, banane… senza contare i condimenti. A volte tutti gli animali
del defunto sono consegnati agli zii del defunto; così i figli e la vedova
rimangono senza niente. A noi mangbetu giudicare tale modo di fare.

Nuodutulu:
le donne sposate (sorelle del villaggio) possono ritornare dai loro sposi
solo dopo aver pagato o essersi liberate da questi obblighi; altrimenti le
donne rimangono prigioniere nel villaggio d’origine. Tale usanza può
portare al divorzio o all’adulterio. I bambini sono abbandonati alla loro
sorte. Tocca a noi mangbetu vedere se ciò è buono.

O ubwho:
sono gli obblighi, i lavori forzati o le pene inflitte sia al vedovo che
alla vedova, sia ad un membro prossimo della famiglia, come può esserlo un
cognato del defunto. Ecco alcuni esempi di pene inflitte: non mangiare né
bere senza permesso o pagare una somma di denaro prima di poterlo fare;
non lavarsi e non pettinarsi; obbligo di camminare sul ciglio della strada
o in mezzo all’erba. Lavori forzati, quali costruire una casa, cercare
legna speciale per il fuoco…  A noi mangbetu giudicare se queste
pratiche vanno bene.

Decisioni
finali

1. Noi,
mangbetu, non faremo più pagare per il cadavere, perché questa pratica non
contribuisce allo sviluppo della persona e del paese; perché i soldi che
si ricevono per un cadavere non aiutano l’individuo per molto tempo (Ez
24, 15-16).

Antonello Rossi




ARMENIA: «reportage» da un paese da futuro incerto

L’ESODO DI UN POPOLO SENZA SPERANZA


Quale domani per l’Armenia? È una domanda che sorge
naturale girando per le strade semideserte di Erevan. Il futuro di un
paese dipende dai suoi abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando:
preferiscono spendere il proprio talento ed energia all’estero, piuttosto
che in patria. E poi è difficile vivere spalla a spalla con l’Azerbaigian
e la Georgia.

Il jumbo
che mi portava a Erevan, capitale dell’Armenia, era quasi vuoto: solo una
ventina di passeggeri, spaparanzati negli spaziosi saloni. «Bella idea
utilizzare un aereo così grande per un pugno di viaggiatori!» mi dicevo.

Ma, al
ritorno, mi sono ricreduta sulle capacità commerciali delle linee aeree
armene: lo stesso jumbo, arrivato a Erevan vuoto, ripartiva quasi pieno.
Al check in (che mi aspettavo di fare in tutta tranquillità) c’era una
calca incredibile: gruppi di amici e amiche, famiglie, bambini,
passeggini, pacchi, baci, abbracci, sospiri. Si andava a Francoforte.

Ma per i
più non era quella la destinazione finale. A Francoforte, infatti, c’erano
due impiegati della compagnia che indirizzavano i passeggeri, appena
sbarcati, verso gli aerei in partenza per Los Angeles, Detroit e altre
località americane… La ragazza, seduta accanto a me durante il volo,
andava a Los Angeles. Vi si trasferiva definitivamente per vivere col
marito statunitense, sposato da poco. Un passo importante. Sembrava
tranquilla e sicura della scelta.

D’altra
parte, cosa avrebbe potuto fare a Erevan con la sua laurea in lingue
straniere?


Musei deserti

Così ho
potuto constatare un fenomeno iniziato all’indomani della fine dell’URSS e
dell’apertura delle frontiere: l’Armenia si sta svuotando. Di questo
passo, chi rimarrà a popolare la patria storica degli armeni? La
sonnolenza o aria di sbigottimento colta sul volto dei pochi passanti a
Erevan non era, dunque, come avevo ritenuto, da attribuirsi al carattere
nazionale.

Trovare
lavoro in Armenia è assai difficile. La caduta dell’URSS ha messo in crisi
un’economia che si reggeva solo all’interno di un sistema molto più ampio.
In Armenia, senza risorse naturali, le materie prime giungevano dalle
altre repubbliche dell’Unione, venivano trasformate dalle industrie locali
e il prodotto andava poi ad alimentare l’onnivoro mercato sovietico.

Ora questa
catena si è spezzata. Le fabbriche sono state chiuse una dopo l’altra e la
disoccupazione raggiunge il 50%. Chi può se ne va; chi non può resta e
campa alla meglio. Nelle campagne c’è l’orto a dare una mano. Chi ha un
parente all’estero (in molti, a dire il vero) si fa mandare un po’ di
soldi, che servono a sbarcare il lunario. I più intraprendenti cercano di
farsi assumere dalle poche ditte o ambasciate straniere presenti nel
paese.

Non è
facile neanche per chi ha un lavoro; gli impiegati statali, ad esempio,
sono così male pagati che non fingono nemmeno di mostrare solerzia
nell’eseguire il loro compito.

Il
Matenadaran (la famosa biblioteca-museo dei manoscritti antichi, orgoglio
di Erevan e di tutta l’Armenia) apre alle 10. A quell’ora mi sono
presentata davanti al suo massiccio portone in bronzo e l’ho trovato…
semichiuso. Consapevole dei miei diritti di visitatrice, mi sono
intrufolata dallo stretto pertugio… per essere fermata nell’atrio dal
custode, accorso dalla guardiola dove l’avevo visto sonnecchiare. Non
potevo entrare: l’autobus con il personale addetto alla sorveglianza non
era ancora arrivato. Toccava aspettare.

Sono
ritornata sulla spianata antistante il museo a scrutare il traffico:
inesistente. Dopo una ventina di minuti, ho visto il pulmino, col suo
carico di lavoratori, arrancare per l’erta strada che porta al museo e ho
pensato che ne sarebbe precipitosamente uscita una frotta di impiegati,
ansiosi di recuperare qualche minuto di ritardo. Invece, con grande calma,
fermandosi per scambiare qualche considerazione col guardiano, quattro
signore, già stanche, hanno varcato la soglia del museo.

E perché
si sarebbero dovute affrettare?  Per me, unica visitatrice?

In tutti i
musei mi sono ritrovata sola. Poco male quando si trattava di un piccolo
museo, come quello del pittore Martiros Sarjan, nelle cui modeste sale non
è evidente il senso di vuoto. Diverso, però, è aggirarsi da soli per il
Matenadaran, a cinque piani, nel cuore di Erevan, che ospita il museo
storico e la pinacoteca. Le ampie sale e i soffitti altissimi non fanno
che sottolineare la solitudine. Le vetrate offrono generose viste sulle
vie vicine: un ammasso di catapecchie, alcune in rovina, fra le quali
spicca per contrasto l’Hotel Yerevan, egregiamente ristrutturato e gestito
da una ditta italiana.

Il mio
arrivo in una sala causava sempre un po’ di scompiglio tra le signore
della sorveglianza; prima ancora dei quadri appesi, colpiva i sensi l’aria
pregna dell’odore di pesce in scatola e di nescafè, insieme alle
chiacchiere, loro magro conforto nelle lunghe ore del servizio. Una volta
sono stata raggiunta da una sorvegliante anziana, che, appena siamo
rimaste sole, mi ha chiesto di aiutarla a pagare la bolletta della luce. A
guardarla, non potevo dubitare che si trovasse nella miseria. Le ho dato
il piccolo obolo che mi chiedeva, mentre ascoltavo la sua filippica contro
i governanti corrotti che affamano il paese.


Armeni e
azeri in guerra

In Armenia
corruzione, malgoverno e lotte di potere affliggono il paese e sono causa
di altri mali, che si aggiungono a quelli inflitti dalla natura.

Si vive in
un paese di sassi, che lasciano spazio pure a campi e frutteti; ma il
terreno sembra buono, soprattutto, per far pascolare le pecore e qualche
mucca. Il sottosuolo è povero. Luce e riscaldamento nelle case ci sono,
grazie alla contestatissima centrale nucleare, costruita in epoca
sovietica alla porte di Erevan. Ma in zona sismica. Il sud del paese non
si è ancora completamente ripreso dal terribile terremoto del 1988.

A ciò si
deve aggiungere la guerra iniziata nel 1992 per la conquista del Nagoo
Karabakh, regione che apparteneva all’Azerbaigian, ma a maggioranza
armena. Il conflitto ha avuto pesanti conseguenze umanitarie. Stime non
ufficiali parlano di circa un milione di profughi, tenendo conto sia degli
azeri fuggiti in Azerbaigian, sia degli armeni che ne sono scappati
altrove.

In
territorio azerbaigiano vivevano da secoli diverse comunità armene. La più
consistente, anche se non la più antica, risiedeva a Baku. Ma, prima il
pogrom sovietico contro gli armeni nel 1988 a Sumgait, vicino a Baku, e
poi l’odio e la furia scatenati dalla guerra hanno posto fine alla loro
presenza tra gli azeri.

Dal 1994
le armi tacciono, ma la pace non c’è. I negoziati sono a un punto fermo,
perché l’Azerbaigian non è disposto a cedere una regione che costituisce
il 14% della sua superficie e include Shusha, uno dei maggiori centri
storici e culturali azeri; né gli armeni intendono rinunciare alle proprie
conquiste e a un territorio rivendicato da tempo.

Un accordo
sembrava in vista nel 1999, dopo una serie di incontri tra i due capi di
stato; ma nell’ottobre di quell’anno un’incursione armata nel parlamento
di Erevan, durante la quale vennero uccisi il primo ministro e sette
deputati, seppellì ogni speranza di una rapida soluzione del conflitto.

Tuttavia,
calamità naturali e guerra non bastano a spiegare alcuni aspetti della
vita sociale e politica in Armenia, dove la situazione circa i diritti
civili non è ideale. Come nelle altre repubbliche ex-sovietiche, sono
pesanti le conseguenze del recente passato totalitario.

L’Armenia
è ancora lontana dall’essere autenticamente democratica. La scena politica
è alquanto travagliata: ad ogni nuova elezione gli osservatori rilevano
brogli e irregolarità; l’informazione, sebbene formalmente libera, è
condizionata dal partito al potere; dopo alcuni casi clamorosi di
maltrattamento e arresto di giornalisti, le redazioni praticano una sorta
di autocensura.

La
costituzione garantisce tutti i diritti, ma in pratica spesso non c’è
sufficiente volontà di farli rispettare. La polizia agisce indisturbata e
ricorre a violenze, confidando sull’impunità che le viene di fatto
assicurata; sono normali gli arresti senza regolari ordini da parte della
magistratura. Il potere giudiziario è controllato da quello politico,
nonostante che sulla carta ne sia indipendente.


Il risveglio
della dignità

Sono
diverse le organizzazioni umanitarie presenti in Armenia. Le prime
arrivarono subito dopo il terremoto. Fu un fatto che suscitò scalpore,
perché era la prima volta, dopo decenni di totale chiusura verso gli
stranieri, che si permetteva loro di operare in un territorio sovietico.
Arrivarono anche degli italiani. Tra loro un medico siciliano, Antonio
Montalto, che dal 1994 si è stabilito definitivamente nel paese.

Passata
l’emergenza terremoto, sono emerse altre difficoltà, legate alle gravi
carenze di strutture sociali e sanitarie. C’è chi, come i «Medici senza
frontiere», si occupa dei «bambini difficili». Costoro subiscono violenze
psicologiche e fisiche dagli adulti, vengono mandati ad accattonare o sono
utilizzati da circoli mafiosi; una volta acciuffati dalla polizia, sono
rinchiusi in orfanotrofi simili a carceri.

C’è chi
offre assistenza alle donne vittime di violenze da parte degli sfruttatori
della prostituzione o all’interno delle mura domestiche: un fenomeno,
quest’ultimo, più ampio di quanto non si creda, perché i maltrattamenti in
famiglia vengono raramente denunciati.

Antonio
Montalto ha scelto di occuparsi della ristrutturazione dei
reparti-mateità negli ospedali, ultimamente soprattutto in Karabakh, e
della formazione del personale che vi lavora. La scelta di assistere le
donne in un momento delicato come la mateità non è casuale, né è casuale
il nome che ha voluto dare alla propria organizzazione: Family care.

Antonio è
convinto che molti dei problemi nascano dalla mancanza di solidarietà tra
la gente, anche all’interno delle famiglie. Il suo progetto è ambizioso, e
va al di là della semplice offerta di aiuto. «Non sono qui solo per
rispondere a bisogni concreti – mi spiega -. Ho la pretesa di proporre dei
valori. Ad esempio, quando si tratta di far nascere un figlio, i papà se
ne disinteressano; la reputano una questione da donne. Nell’emergenza devi
occuparti della mamma e del bambino, e poi del papà. Noi cerchiamo di fare
le due cose contemporaneamente».

Così,
oltre a formare il personale, equipaggiare i reparti di mateità e
assistere le madri durante il parto, i volontari di Family care incontrano
anche i padri e chiedono loro di partecipare a tutte le fasi della nascita
dei loro figli.

Antonio
presenta il suo lavoro come un tentativo per ridare dignità alla persona.

«Per un
direttore d’ospedale, che occupa questo posto perché messo dai politici,
il paziente è solo un mezzo per ottenere soldi, oppure un onore. Ad una
madre (che può sentirsi dire: “Dammi 50 dollari, altrimenti non ti faccio
nascere il figlio”), noi facciamo capire che a lei teniamo. Le offriamo
una struttura che non risponda solo al bisogno di assistenza medica, ma
che vuole essere accogliente, curata nei particolari. Mettiamo molta
energia per fare dei nostri reparti dei luoghi giorniosi, dove si stia bene.
L’attenzione alla persona e la cura delle cose può contribuire a cambiare
la mentalità, se le porteranno con sé quando ritoeranno a casa. D’altra
parte, è proprio quando ci sentiamo guardati con rispetto che ci
accorgiamo del nostro valore. Bisogna risvegliare nella gente la coscienza
della propria dignità e dei diritti, che hanno perso».

La non
certezza del diritto e il disprezzo da parte di coloro che ricoprono
cariche pubbliche sono una triste realtà quotidiana nelle ex repubbliche
sovietiche. E l’Armenia non fa eccezione.


La gente se
ne va

Fra tanti
guai, l’Armenia deve fare i conti anche con la sua posizione geopolitica,
essendo circondata da musulmani con cui ha sempre avuto rapporti
difficili. Però, attualmente, sono migliori le relazioni con l’Iran degli
ayatollah che con la cristiana Georgia, per una disputa territoriale che
rischia di rendere molto precario il confine tra i due paesi e aggravare
ulteriormente una situazione pesante: l’Armenia vive già in uno stato di
semi-isolamento, con le frontiere turca e azerbaigiana chiuse. L’unico
confine tranquillo è quello iraniano, ma si tratta di pochi chilometri.

Quale
futuro per l’Armenia? È una domanda che sorge naturale girando per le
strade semideserte di Erevan. Il futuro di un paese dipende dai suoi
abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando, preferiscono spendere il
proprio talento ed energia all’estero, piuttosto che in patria.

Come si fa
a non capirli?

La vita di
un uomo è breve e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la ruota della
storia compia il suo giro e restituisca al paese pace e prosperità. Chi ha
voglia di bruciare i propri anni a faticare per un risultato che, forse,
vedranno solo le generazioni future?

Eppure
qualcuno continua a sperare e a credere. Simbat, un armeno dolente, come
tanti altri da me incontrati, è convinto che l’Armenia stia solo
attraversando un brutto momento, ineluttabile, ma passeggero. Egli vive a
Teheran (Iran) e vorrebbe tornare in patria: uno dei pochi. Prima, però,
deve trovare lavoro, impresa oltremodo difficile.

Gli
auguriamo con tutto il cuore che ce la faccia. E che il tempo gli dia
ragione.

Scheda paese


Superficie: 29.800 kmq


Popolazione: 3.500.000 (93% armeni)


Capitale: Erevan (1.500.000 ab.)

Goveo:
repubblica presidenziale

Religione:
cristiano-armena (66%), con pochi cattolici

Economia:
in pianura si coltivano cereali, cotone, tabacco, barbabietola da zucchero
e vite; in montagna si alleva bestiame; il sottosuolo contiene rame,
alluminio, oro… Indicatori: reddito annuo pro capite: 460 dollari ($);
inflazione annua: 349%; importazioni: 990 milioni di $; esportazioni: 360
milioni di $; debito estero 800 milioni di $ (dati del 1998)


 L’Armenia, già repubblica federata nell’ambito dell’URSS, divenne
indipendente nel 1991

 


Khomeini in
cattedrale

Fuori
della patria storica, gli armeni hanno sempre dimostrato intraprendenza,
capacità imprenditoriale e creatività, fondando comunità floride da ogni
punto di vista, non ultimo quello culturale e artistico. Ne è una
dimostrazione la loro presenza nell’Impero persiano, che ha lasciato segni
importanti: basti ricordare le bellissime chiese dei santi Taddeo e
Stefano nel nord dell’Iran, autentici capolavori d’arte, o il quartiere
armeno di Nuova Julfa a Isfahan, uno dei maggiori poli turistici.

Numerosa e
prospera ai tempi dell’ultimo scià, la comunità armena in Iran è oggi in
profonda crisi.

La crisi
interessa anche l’Iran. A più di 20 anni dalla rivoluzione di Khomeini, il
paese ha una grande voglia di cambiamento, però frustrata
dall’impossibilità di agire secondo meccanismi democratici. Il potere è in
mano ad una cricca di musulmani ultraconservatori. Parlando con la gente
si ha l’impressione che, se avesse la possibilità, prenderebbe il volo
verso lidi con maggiore libertà. Alcuni lo hanno già fatto e altri sono in
procinto di farlo.

Questo
desiderio è, a maggior ragione, vivo tra gli armeni, il cui esodo
dall’Iran è massiccio. Gioo dopo giorno la comunità armena di Teheran si
assottiglia. Negli uffici della cattedrale sono stata testimone di un
andirivieni di persone con passaporti e moduli per chiedere informazioni
sulle pratiche di espatrio. I più si dirigono verso gli Stati Uniti, altri
in Europa e pochi in Armenia. Erano 300 mila prima della rivoluzione. Ora
si parla di 50-60 mila persone, ma le cifre reali sembrano essere
inferiori: 25 mila al massimo. Gli armeni paiono proprio decisi a porre
fine al loro secolare insediamento in Iran.

Il club
armeno di Teheran è l’unico luogo pubblico dove le donne sono libere di
vestire come credono; per questo le autorità hanno preteso che l’entrata
fosse proibita agli iraniani. Sono stata invitata da due amiche armene:
Aida, divorata dalla nostalgia per la famiglia negli Stati Uniti (mentre
lei non è ancora riuscita ad ottenere il visto), e Charlotte, anch’ella
desiderosa di lasciare il paese, magari per l’Italia, di cui conosce
splendidamente la lingua. Sono loro a farmi entrare in un’ala del club,
attrezzata per i ricevimenti.

Vi si sta
celebrando una festa di nozze e sono curiosa di darci un’occhiata. Quella
che a me sembra una naturale animazione non le rallegra; al contrario, i
loro occhi sembrano diventare ancora più tristi. Aida me lo spiega:
«Stringe il cuore vedere queste sale semivuote. E pensare che un tempo non
si riusciva a far stare tutti gli invitati!».

Ci sono
«circostanze» che valgono solo per i cristiani. Davanti alla legge il
cristiano non è uguale al musulmano: è la costituzione a stabilirlo. Se un
cristiano ha una vertenza con un musulmano, quest’ultimo ha quasi sempre
la meglio; se il primo commette una colpa, va incontro a sanzioni più
gravi rispetto al secondo. Mi è stato riferito il «prezzo del sangue»; la
legge prevede in alcuni casi pene pecuniarie come risarcimento alla
famiglia per l’uccisione di un congiunto; se un armeno uccide un
musulmano, la penale è di 7 mila dollari; ma, se l’uccisore è musulmano,
la penale scende a 300 dollari.

Nelle
assunzioni pubbliche i musulmani sono privilegiati (nelle imprese private
sembra, invece, che gli armeni siano benvisti). Anche nello sport: nella
squadra nazionale non possono giocare calciatori armeni. Ma gli obblighi
di un armeno verso la collettività non sono minori, a cominciare dal
servizio militare. Anche gli armeni sono tenuti a difendere l’Iran e hanno
pagato il loro tributo di morti negli otto anni di guerra contro l’Iraq.

G li
armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni,
nemmeno dopo la rivoluzione islamica di Khomeini; le autorità non hanno
mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una presenza politica
riconosciuta, con due loro membri in parlamento; hanno diritto a quote di
studenti nelle università e a scuole proprie.

Ciò che
caratterizza la scuola armena non è l’insegnamento della religione
cristiana (svolto nei locali della chiesa), ma un’ora settimanale di
lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano.
Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti sono sempre di
meno, le scuole chiudono e l’edificio viene rilevato per legge dallo
stato. A Teheran resiste ancora una decina di scuole.

La prima
cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande
ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con
scrupolo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la
vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano
sulle attività e iniziative in atto.

La stessa
cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore
della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun
problema, che la gente sta bene e non ha intenzione di andarsene. Poi ho
saputo che due suoi figli vivono a New York.

Mi ci sono
recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso
pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di
altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trattava di
musulmani. Questo luogo è per la comunità armena il più potente «autoreclame».
Tra i visitatori della cattedrale c’è chi si informa per sapere di più
sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città esiste una
facoltà di armenistica, che sembra essere alquanto popolare, sebbene
nessuno sia riuscito a spiegarmi quali siano le possibilità che si aprono
agli studenti una volta laureati. I ricchi affreschi della cattedrale e
gli straordinari oggetti esposti al museo suscitano sempre interesse.
Recentemente è stata anche aggiunta una teca, che illustra i luoghi del
genocidio perpetrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una
delle impiegate del museo mi ha assicurato che non c’è iraniano che non
sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni
pubbliche in occasione dell’anniversario del genocidio, tra cui un corteo
per le vie della capitale.

Un paese
musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la
tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la
maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915,
vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trovato rifugio dalla
persecuzione turca.

L’Italia
per anni si è rifiutata di riconoscere ufficialmente il genocidio, cedendo
alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno
2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del genocidio?
Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla
recente visita del papa in Armenia.

Però lo
stupore era sincero. La gente non sa che l’armeno ha uno «status» di
cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente
non ci avrebbero creduto.

Gli armeni
hanno con gli iraniani buoni rapporti nell’ambito del lavoro e della vita
pubblica; ma non intrattengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata
diffidenza, è determinante l’impossibilità di stringere legami di sangue.
Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove.
Il mondo che li circonda non li interessa: ne parlano con un certo
disprezzo.

Ma c’è
anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi
riconosciuto il diritto di essere cittadino alla pari di altri; c’è chi
non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti
secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro
sembra promettere un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto l’Iran chiede un ordinamento più liberale e democratico.

Alcuni
cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale
trasformazione del paese saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a
vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nessuno di noi sarà più
qui a salutarla!».

Biancamaria Balestra




Lettere


Anna, 98
anni…

la vostra
rivista, letta in famiglia da moltissimi anni, è sempre graditissima. La
mamma Anna, di 98 anni, fisicamente invalida, ma lucidissima, vi legge
tutti i mesi e prega…

Ci piace
il vostro dialogo e la vostra apertura: date spazio a tutti con rispetto e
comprensione, ma senza connivenza.

Alberta
Popoli, Parma

Signora
Alberta, chieda a mamma Anna di pregare un po’ anche per noi.


Chi è
imbecille?

sono
nauseato dalla rivista, la quale potrebbe anche essere buona se non fosse
che, da anni, è diventata odiatrice dell’occidente ricco. È ora che la
smettiate di seminare odio e vi decidiate a dire chiaro che i popoli
dell’Africa, indipendenti da molti anni, e del Sudamerica devono
rimboccarsi le maniche e tirarsi fuori dalla melma in cui li costringono i
loro governanti.

Queste
nazioni stavano meglio quando erano colonie «sfruttate». Logicamente,
oltre a rimboccarsi le maniche, devono avere l’aiuto delle nazioni
«ricche» dell’Europa e degli «odiati» Stati Uniti. Pur riconoscendo che
tanti colonizzatori hanno commesso abusi e uccisioni, mi sa indicare lei,
direttore, dove ciò non sia avvenuto, non avvenga e non avverrà?

Tralascio
l’argomento «crociate», «compiute in nome di Cristo» da criminali
«cattolici». Però mi fanno anche sorridere le continue «scuse» del papa.
C’è mai stata una scusa da parte degli «altri» per gli infiniti massacri
di cattolici? Perché non alzate la voce (avete forse paura?) contro Arabia
Saudita, Sudan, Cina, ecc., nazioni dove è vietata o ostacolata la pratica
religiosa cattolica, quando non perseguitata?

Invece
difendete l’invasione in Italia di milioni di musulmani ed altri, che
foraggiate, pur senza avvedervi (o fate finta!). Così essi prendono sempre
più piede, diffondendo le loro pseudo religioni, che di fede non hanno
nulla, essendo atti di fanatismo.

Quello che
non riesco a capire è che voi, preti, andate anche in missione per
diffondere la fede di Cristo, e intanto difendete gli «invasori», vi
mischiate con loro senza rendervi conto (sarà poi vero?) che, invece di
convertirli, fate sì che moltissimi cattolici abiurino la loro fede per
passare all’altra sponda. Bravi!

Io non
sono un senza-Dio, anzi! Provengo da una famiglia nella quale i genitori
hanno allevato me e sette fratelli nella fede di Cristo più schietta; sono
nipote di un grande prete salesiano; sono fratello di una missionaria in
Burundi, fino a quando i miserabili governanti di tuo (africani, non
europei o statunitensi!) l’hanno cacciata con altre suore e preti; sono
papà di una suora salesiana, da tanti anni in Africa. Pertanto non sono un
mangiapreti.

Sono uno
che ritiene, come diceva Totò, che «ogni limite ha una pazienza»! Non si
possono solo e sempre scrivere accuse pesanti e gratuite, oppure fare di
ogni erba un fascio contro i «potenti» e i «ricchi», imputando loro ogni
responsabilità nelle loro ex colonie. Molti «padroni» africani e
sudamericani, quando non sono disonesti e criminali, sono quanto meno
inetti e, quindi, non meritevoli dei posti che occupano.

Invece di
propagandare (la vostra è spesso propaganda) le religioni di altri popoli,
dovreste diffondere unicamente la nostra religione, la sola e vera
religione! Qualora lei, direttore, contestasse tale affermazione, farebbe
meglio a spretarsi!

Quando mai
gli altri hanno parlato (non dico bene, ma semplicemente parlato) della
fede cattolica? Siamo solo noi gli unici imbecilli, al pari di chi vede
l’erba del vicino più verde della sua? Mi pare che il vangelo non insegni
a «vendersi» o a «leccare» i nostri «concorrenti»!

Aiutare i
popoli è un dovere di noi cattolici (non semplicemente cristiani), ma alla
tassativa condizione di non farci turlupinare o sedurre dalle loro
credenze (non fedi). Vi siete forse fatti preti per imboscarvi e trovare
una comoda sistemazione? Gli unici fratelli (a parte quelli di sangue)
sono i cattolici: tutti gli altri possono essere dei «bisognosi»,
meritevoli di aiuto e basta!

Avrei
ancora tanto da dire (immigrazione di farabutti, sfruttatori, prostitute),
ma smetto ben sapendo che lei, da bravo prete, cestinerà schifato la
presente lettera; oppure, nel migliore dei casi, mi risponderà con
arroganza e disprezzo.

Però
ancora una domanda: perché, nonostante tutte le cattiverie gratuite che
dite a riguardo dei paesi ricchi, accettate (eccome!) le elemosine degli
stessi e non le respingete al mittente? Io credo di saperlo: perché gli
aiuti (fossero anche di satana) sono sempre bene accetti!

Lettera
firmata, Torino

I
missionari non ricevono offerte dai «ricchi», ma da «quelli che sono
poveri davanti a Dio». (Mt 5, 7)… E sorridere di fronte ai mea culpa del
papa non ci pare un bel sorriso.

 

CCP
33.40.51.35

quando
posso, cerco di fare qualche offerta per i vostri interventi nei paesi
bisognosi. Le offerte potrebbero essere maggiori, se ci fosse il numero di
un conto corrente Onlus, in modo da detrarre l’importo dalla dichiarazione
dei redditi, rendendo così la cifra a mia disposizione maggiore.

Alberto
Ramagno M., Roma

Il conto
corrente postale è 33.40.51.35 (per altre informazioni, si veda l’ultima
pagina della rivista). Ringraziamo il signor Alberto e quanti sostengono
l’opera dei missionari.

 


Il circo
della «formula uno»


 Spettabile redazione,

avete
fatto bene a evidenziare le responsabilità della tivù per l’insensata
attenzione ai divi della formula uno. Anch’io ho l’impressione che
giornali e telegiornali esagerino nel dare la prima pagina alla Ferrari.
Anche se le «rosse» non hanno la pole position e a vincere sono MacLaren o
Williams, lo spazio per l’automobilismo è troppo.

Molti
parlano di «circo della formula uno», alludendo alla spettacolarità delle
corse, alla disinvoltura con la quale le principali case automobilistiche
si spostano da un punto all’altro del pianeta, all’efficienza con cui si
risolvono i problemi tecnici.

La parola
«circo» esprime l’incredibile docilità con cui piloti e tifosi ubbidiscono
ai loro ammaestratori (Montezemolo, Ecclestone, Williams, Briatore…).
Sono convinto che, quando M. Schumacher proclama «amo la rossa come mia
moglie» e «alla prima curva non ho parenti», lo fa soprattutto per
tranquillizzare i suoi padroni e non far nascere il sospetto che gli
affetti familiari possano condizionare negativamente il suo rendimento.

Una
conferma del rovesciamento della scala naturale dei valori è arrivata dal
circuito di Lausitzring. Costato 300 miliardi di lire e definito un
«giorniello di sicurezza», su questo circuito, dopo pochi mesi di attività,
è morto Alboreto, mentre Zanardi ha perso le gambe…

Venerdì,
14 settembre 2001, per commemorare le vittime delle Twin Towers e del
Pentagono, sul circuito di Monza c’è stato un minuto di silenzio, e non
tre; domenica 16, non c’è stato nessun rallentamento alla prima curva,
nessun accordo tra le scuderie per ridurre il rischio di collisioni.
Perché? Perché altrimenti Ecclestone si sarebbe arrabbiato.

Francesco
Rondina, Fano (PS)

Il signor
Rondina si riferisce alla nostra risposta ad un lettore (Missioni
Consolata, settembre 2001).


 Accendi il
motore

Da anni
collaboro con i salesiani nella formazione dei giovani, credendo nelle
parole «religione, ragione e amore». Ma consideravo solo i giovani che mi
circondavano fisicamente. Mai mi ero chiesta quali e quanti visi di uomini
e donne, sfruttati, vi fossero dietro le etichette dei prodotti acquistati
o quanto costasse, in termini di vite umane, la benzina.

Parlavo di
solidarietà, impegno e coscienza sociale del «buon cristiano e onesto
cittadino», ma in modo astratto. Poi ho cominciato a capire di esser parte
di una rete di ingiustizia e illegalità, di essere piccola, ma anche
potente da rendere «schiavi» altri esseri umani. Schiavi dei miei bisogni.
E ho cominciato a vedere «incarnato» in alcuni il senso di responsabilità
per chi ci è accanto.

Se ami
l’uomo e credi in lui, ami e credi in tutti. Se decidi di essere
consapevole di te stesso, decidi pure di essere responsabile dei tuoi
fratelli, chiunque e dovunque siano.

Nel mio
«viaggio di terra» ho iniziato a conoscere la bellezza delle persone: è la
capacità di riscatto, il dono di un cuore che non si stanca e di una mente
che può arrivare alle «radici» della terra e alle «cime» del cielo.

Ogni uomo
ha un «motore vitale», non inquinante, anzi rigenerante. Ogni persona
merita rispetto e ascolto: anche quelle che hanno nascosto il loro «motore
vitale» sotto logiche di mercato e profitto; anche quelle che ci vogliono
«comparse» nella vita. Ma chi ne è vittima e schiavo merita di più: merita
che il nostro «motore vitale» generi un movimento di coscienze, di piedi
che marciano, di mani che donano e scrivono e di parole che scuotono. Lo
sento come dovere, per guadagnarmi la «fortuna di essere».

Voi
missionari avete «acceso il motore»… Accendete una lampada e ponetela
sul lampadario, perché chi entra veda la luce (cfr. Lc 8, 16).

Anna
Salzano, Torino

 


Arrivederci Etiopia

Ci sono
tanti bambini senza i genitori (ma alcuni vengono adottati dai nostri
amici italiani). Ci sono ammalati senza ospedale, perché senza soldi; così
la sofferenza li fa morire. Ci sono tanti sfortunati, ma anche fortunati.
Fortunata sono anch’io. Ringrazio Dio di essermi stato vicino e aver avuto
la famiglia a consolarmi.

Ora sto
trascorrendo un bellissimo periodo con una famiglia italiana e voglio
ricordare anche padre Domenico Zordan, che è stato l’inizio della mia
fortuna. Sarei felice se lo avessi vicino, per ringraziarlo con tutto il
cuore.

Etiopia,
non ti dico addio, perché, se Dio vuole, toerò a rivedere la mamma, i
fratelli, gli amici. Arrivederci dunque.


Testimonianza pervenutaci attraverso la famiglia di Ivo Babolin, presso la
quale Zennash, etiope di 18 anni, è ospite per cure mediche.

Padre
Domenico Zordan, missionario della Consolata, è deceduto nel 1997.

 


 LA POLITICA DEL
DISPREZZO NO!

 


Problemi a
valanga

Su
Missioni Consolata di settembre, pagina 11, riportate cosa ha fatto il
vescovo di Kyoto, senza alcun commento. Chi tace acconsente! La cosa è di
una gravità eccezionale: come può un vescovo predicare l’odio politico e
religioso?


L’imperatore del Giappone è pure capo religioso per i suoi seguaci. Dov’è
il dettato di Gesù «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di
Dio»?

Come si
permette di criticare l’inno nazionale, che celebra l’imperatore come capo
dello stato (e non il popolo), quando anche il papa è capo di stato e, per
di più, assoluto e non democraticamente eletto dal popolo? Un vescovo può
sbagliare, ma un redattore non deve riportare un errore, come se fosse una
cosa bella.

A
pagina 64 dello stesso numero vi è uno dei soliti articoli contro le
multinazionali. Queste sono società di extraterrestri e vogliono
colonizzarci? Nelle multinazionali lavorano migliaia di persone (e molte
azioni sono del Vaticano): costoro sono anch’essi colpevoli, perché
eseguono gli ordini e interessi delle multinazionali?

Mi
sapete spiegare perché una multinazionale deve, a proprie spese,
stipendiare ricercatori, costruire laboratori con attrezzature costose e,
forse, scoprire ogni tanto qualche prodotto che fa bene all’umanità e poi,
sempre a proprie spese, deve darlo a poco prezzo ai poveri? Perché i
governi dei poveri (e non i governi dei «ricchi»), invece di spendere in
armamenti, non spendono nei medicinali delle multinazionali?

Se
l’Iraq avesse fatto controllare tutti i suoi siti industriali dagli
incaricati dell’Onu, non ci sarebbero state sanzioni e, quindi, potrebbe
spendere in medicinali e vitto per il proprio popolo. E il prete che va a
«Porta a Porta» (forse un missionario della Consolata?) non avrebbe da
lamentarsi per i bimbi iracheni che muoiono! La chiesa cattolica perché
non vende le sue proprietà immobiliari (i sacerdoti potrebbero vivere come
Gesù Cristo), per investire il ricavato in medicine per i poveri?

È bello
dire sempre «dovete dare» e mai… «diamo»!…

Sul
numero di ottobre, pagina 69, già il titolo fa ribrezzo. Gli «otto nani
miopi e prepotenti» sono stati eletti democraticamente dai loro popoli e,
quindi, non sono né nani né miopi. Questi titoli vanno bene per Paolo
Moiola e per il direttore che ne autorizza la stampa: l’uno e l’altro, non
eletti democraticamente, dimostrano di essere presuntuosi!

Sono
spiacente anche di verificare come, oggi, si dica che ogni religione è
valida: così pagani, buddisti, indù, maomettani, testimoni di Geova,
mormoni, luterani… saranno premiati come i cattolici, se si comportano
secondo il loro credo. Allora Gesù ha sbagliato a dire di convertire i
popoli e anche i missionari non hanno più scopo di esistere…

Io
faccio la carità perché, conoscendo Cristo, la tua anima si salvi; ma, se
la mia carità serve solo a darti da mangiare e tu rimani buddista o
maomettano, preferisco darla ai veri cristiani-cattolici.

Cesare
Verdi – Riva di Chieri (TO)

 


Del vescovo di Kyoto, Otsuka, si parla in «La chiesa nel mondo», una
rubrica che da sempre riporta fatti senza commenti. Ma la notizia non
accenna ad alcun «odio politico e religioso» da parte del vescovo.


Per rispondere alle altre questioni, l’intera rivista non basterebbe.

  


Marce
di pacifisti


e guerra

 Egregio
direttore, da anni leggo la sua rivista e, in varie occasioni, mi sono
irritato di fronte a posizioni parecchio oltranziste, sostenute dai
redattori nei confronti degli Stati Uniti d’America. Sicuramente non è
tutto oro quel che brilla oltreoceano; ma, quando la critica negativa è
continua, sistematica e totale, mi pare ovvio dedurre che c’è una grave
mancanza di obiettività.


Domenica, 10 novembre, alcuni di loro avranno sicuramente preferito
marciare con gli spaccatori di vetrine (certo, non tutti lo sono). Ma, se
lei ha visto la diretta di «Rai 1», avrà notato un’anziana donna che,
avendo avuto l’ardire di raccogliere da terra e baciare una malridotta
bandiera statunitense, è stata strattonata da alcuni giovani
eroi-marciatori e sicuramente pacifisti, per riprendersi il vessillo e
nuovamente calpestarlo. Sono fatti che non hanno bisogno di alcun commento.

Per
quanto riguarda le varie «etnie» di pacifisti, pongo a lei, che non vedo
mescolato ai «marciatori», la domanda: ritiene che la questione afghana si
sarebbe potuta risolvere (come pare stia accadendo) con marce e striscioni
contro la guerra tout court?

Guido
Laurenti – Isera (TN)

 


No, la questione afghana non si risolve con marce e striscioni. Ma si sta
risolvendo con le bombe?


 

 Povera

«Missioni Consolata»!

 Non di
soldi, ma di articoli. Quando la rivista per mesi (dico mesi) continua a
battere sul G 8 di Genova con articoli alla… Bertinotti, non solo è
povera, ma poverissima. Quando poi l’articolista Pa.Mo. (Missioni
Consolata di ottobre-novembre 2001) afferma di essere stato a New York a
ferragosto, io mi fermo.


Spariamo sul G 8, però andiamo a New York, abbiamo il telefonino, beviamo
coca-cola, mangiamo ai McDonald’s… Non vogliamo il G 8, però prendiamo
tutto ciò che il progresso ci dà e, se possibile, ancora di più.


Piangiamo per gli affamati in Iraq. Ma chi è che li ha portati alla fame,
se non Saddam stesso che investe capitali all’estero e spende a larghe
mani per avvelenare il mondo? Perché dovremmo essere noi a sfamare il suo
popolo? Lo stesso dicasi per Bin Laden e i vari sceicchi!

Caro
Pa.Mo., io non sono andato a New York, non ho il telefonino, non vado al
McDonald’s, non bevo coca-cola… ho solo una vecchia macchina da scrivere.
A Genova buona parte dei danni sono stati provocati dal sostegno dei
pacifisti, tipo Bettazzi (il vescovo Bettazzi, ndr) e compagni. Costoro
avrebbero fatto meglio a pregare. Se l’avessero fatto 10 mila dei 200 mila
presenti a Genova, le cose sarebbero andate diversamente. La preghiera,
dice la Madonna, ferma anche le guerre. Ma è più comoda una scampagnata a
Genova!

Tutte
le pagine del vostro articolo sono un inno alla violenza contro Bush,
Berlusconi e Israele… Voi sì che, con scritti del genere, portate la
guerra e non la pace.


Giovanni Viotto – Torino

 


Forse risulterà strano… Ma il nostro redattore non ha il telefonino, non
beve coca-cola, non mangia ai McDonald’s. A New York non è stato in
vacanza, ma per lavoro.

  



Il cervello all’ammasso

 Recentemente
Missioni Consolata è stata duramente attaccata da alcuni lettori, mentre
altri l’hanno apprezzata. Io apprezzo anche il pizzico di autornironia con
cui il direttore risponde ad offese assurde.

Noto
una grande differenza fra gli accusatori e i sostenitori della rivista: i
primi insultano, ricattano e ostentano scandalo (accusando persino
Missioni Consolata di avere abbattuto le Torri Gemelle); i secondi si
sforzano di capire, propongono e riflettono sui problemi che la rivista
pone.

Se
Missioni Consolata, per esempio, critica una multinazionale con nome e
cognome (perché disbosca in modo selvaggio o inquina), non basta dire: «Ragionate
da comunisti»; bisogna dimostrare che i fatti contestati non sono veri…
Se la rivista attacca la politica estera degli Stati Uniti (perché, ad
esempio, è implicata nella guerra civile del Congo), non basta dire: «Gli
Usa mandano sacchi di farina, mentre i capi africani pensano solo ad
arricchirsi». Il fatto che i presidenti africani siano corrotti scagiona
gli Usa dalla loro responsabilità, specie se corruttori e venditori di
armi? Un male non ne giustifica un altro.

In
Italia mi preoccupa «la politica del disprezzo», forte di una maggioranza
numerica. Mi preoccupa, perché schiavizza milioni di persone, che si
sottraggono al dialogo e riportano sempre la voce del padrone o fanno la
predica. Hanno portato il cervello all’ammasso: lo dimostra il fatto che
qualcuno disdice l’abbonamento alla rivista, rifiutando così il confronto
con una parola diversa dalla propria.

Trovo
poi assurdo che si critichi Missioni Consolata, perché non sarebbe
religiosa e cattolica. La rivista si avvale sempre dei documenti della
chiesa, oltre che del vangelo, e soprattutto invita all’attenzione verso
tutti i poveri in spirito… È invece cattolico don Baget Bozzo, che
critica il digiuno per la pace del 14 dicembre, osservato dal papa e da
tanti altri?

Se «religioso»
significa non scomodare nessuno, dovremmo prendere la bibbia e strappare
le pagine «non religiose». Alla fine ci troveremo, forse, solo con la
copertina.

Ancora
una riflessione. Le lettere a Missioni Consolata sono poche quando la
rivista parla dell’«altro mondo» (i 4 quinti dell’umanità), ma ne arrivano
tante quando parla dei fatti di casa nostra (guerra in Kosovo e
Afghanistan, G 8). Mi viene in mente Giovanni Battista, che diceva:
bisogna che l’interesse per me diminuisca e cresca l’attenzione per
l’altro… Giovanni era proprio una voce nel «deserto».

E
Missioni Consolata anche.

Guido
Brambilla – Milano

 


Tuttavia Giovanni Battista, il più grande di tutti (cfr. Mt 11, 11),
continuava la sua missione, e la gente andava da lui, compresi i farisei…
La nostra rivista, con semplicità, cerca di fare altrettanto… sperando
di non fare la fine del profeta.


A Missioni Consolata sono pervenute numerose lettere anche in altre
occasioni. Ad esempio: l’editoriale di luglio-agosto 1985 «Attenti al
cane» scatenò quasi… una cagnara. La nostra tesi era: vi sono uomini che
trattano i propri simili da cani e i cani da uomini. Comunque, sempre
fatti di «casa nostra».


Caro signor Guido, anche a lei raccomandiamo pacatezza e un pizzico di
autornironia.

 



L’«utile idiota»

 Caro
direttore, mi riferisco al numero di ottobre-novembre della sua rivista.
Ritengo patetico il tentativo di offrire una versione «cattolica» dei
fatti di Genova, senza analizzare quanto è avvenuto: la
strumentalizzazione a fini nazionali (da parte di un abile «politburo»)
delle associazioni cattoliche, che hanno svolto il ruolo dell’«utile
idiota».


L’articolo su «dopo l’11 settembre» mi ha disgustata per il tono e per il
contenuto: a me pare una semplicistica e retorica esibizione dei più
tristi luoghi comuni del terzomondismo; al di là delle buone intenzioni, è
pervaso da spirito manicheo ed integralista, assai vicino al
fondamentalismo islamico.

Non
credo che, con queste sparate verbali, si aiuti la gente a pensare e
capire.


Giuliana Piaia – Montebelluna (TV)

 


La signora ha pensato. Forse non ha capito. Succede anche a noi.

AAVV




16 FEBBRAIO: APPUNTAMENTO CON IL BEATO ALLAMANO

ASPETTANDO LE ROSE


Il 16 febbraio 1926, «dies natalis» del beato Giuseppe
Allamano, fa parte della storia dei missionari e missionarie della
Consolata, e non solo. È però «curioso» notare come il loro Istituto sia
stato fondato da un uomo che sapeva ridimensionarsi, relativizzare,
attendere. Con lui c’era Giacomo Camisassa, l’amico insostituibile.

Padre
Umberto Costa, uno dei primi missionari della Consolata, morto a soli 33
anni, riporta una confidenza del fondatore, il beato Giuseppe Allamano: «È
un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha
costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza
di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi si medita, ed
io ho meditato come non v’è nessuno necessario; quando un’opera è di Dio,
egli la fa procedere senza bisogno di alcuno».

Poche
parole per cogliere dalla sua stessa voce una personalità senza finzione,
temperata all’ombra dei vigneti di Castelnuovo d’Asti, piccolo centro
agricolo, dove religione e onestà si fondevano in una stessa liturgia di
vita e di morte, e i rintocchi dell’Ave Maria scandivano le ore della
fatica e del riposo rincorrendosi su e giù per le colline, lungo i filari
di viti.

A
Castelnuovo Giuseppe Allamano nasce nel 1851 e conclude la vita a Torino
nel 1926 presso il santuario della Consolata, di cui è stato rettore per
46 anni. Il santuario, ampliato e ristrutturato, è uno dei suoi
capolavori.


A tu per tu
con Leone XIII


L’occasione per uscire da Torino gli viene offerta dai festeggiamenti che
tutto il mondo tributa al pontefice Leone XIII (1810-1903) nel 50° della
sua ordinazione sacerdotale, il 1° gennaio 1888. Eletto papa all’età di 68
anni, quasi a conclusione di una vita intensa di lavoro, il pontificato di
Leone XIII non è, come le previsioni l’hanno preconizzato, di transizione,
ma d’incontenibile dinamismo e innovazione.

La chiesa,
per 40 anni condizionata all’interno da una mentalità conservatrice e,
all’esterno, da leggi restrittive fatte eseguire con metodi violenti e
giacobini, si muove ora su un nuovo versante: domina lo spirito di
concordia e dialogo con tutte le realtà che popolano il vasto orizzonte
del cristianesimo.

Ne fanno
fede le tante encicliche che papa Leone, più avanti del suo tempo, scrive
nei suoi 25 anni di pontificato: ad esempio sull’abolizione della
schiavitù (In plurimis, 1888); sull’istituzione di seminari per i
sacerdoti autoctoni e la creazione della gerarchia ecclesiastica locale
(Ad extremas Orientis oras, 1893).

Il papa
scrive pure sulle devozioni care all’Allamano: il Rosario (Supremi
Apostolatus, 1883), San Giuseppe (Quamquam pluries, 1889), la Santa
Famiglia (Novum argumentum, 1890), il Sacro Cuore (Annum Sacrum, 1899). La
questione sociale, che esplode tra poco con la pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum, è uno dei tanti temi passati al vaglio da
Leone XIII.

C’è un
altro argomento al centro del magistero leoniano, «la missione della
chiesa», destinato ad aprire vasti orizzonti sul mondo. È su di esso che
il pensiero dell’Allamano si identifica con quello di papa Pecci: «La
città santa di Dio che è la Chiesa – scrive Leone XIII, – non essendo
circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal
fondatore di “allargare ogni giorno lo spazio della tenda e di stendere i
teli della dimora senza risparmio” (Is 54, 2)».

A Roma l’Allamano
avvicina alcune personalità del mondo missionario (ciò fa supporre che sia
questa la principale ragione del suo viaggio), in particolare il card.
Giovanni Simeoni e mons. Domenico Jacobini, rispettivamente prefetto e
segretario di Propaganda Fide, nonché il cappuccino card. Massaja. A
costoro, presumibilmente, sottopone la prima bozza del Regolamento
dell’Istituto, con lo scopo di «raccogliere giovani sacerdoti aspiranti
alle missioni, prepararli convenientemente e quindi metterli a
disposizione di Propaganda Fide, che li avrebbe inviati nelle missioni
alle dipendenze delle varie Congregazioni già esistenti».

L’Allamano
incontra anche il papa, ma non lascia alcun commento scritto su quell’incontro,
che ha come scopo principale quello di sondare la fattibilità di un
progetto ancora in fase preliminare. L’udienza dura quanto basta per
ricevere una benedizione per il santuario, i sacerdoti del convitto, e una
raccomandazione: «Bene, bene quel santuario… Sì, do una speciale
benedizione. Dite loro che studino molto».

Una
raccomandazione scontata per un uomo che è dichiaratamente contrario a
qualsiasi forma di ignoranza nella chiesa e che ha offerto la sua vita
alla formazione del giovane clero.

Sulla
tabella dei festeggiamenti, oltre alla messa giubilare del papa, è
compreso anche un avvenimento di risonanza mondiale, promosso da
Propaganda Fide con il concorso degli istituti missionari. Si tratta
dell’Esposizione vaticana. È una rassegna dei doni e degli oggetti di
valore inviati dall’Europa cristiana in omaggio al papa, un pastore che
con abilità e tatto è riuscito ad attenuare il dissidio tra lo stato
moderno e la chiesa cattolica, dimostrando che le due realtà erano
diverse, non opposte.


L’Esposizione, inoltre, presenta una grande varietà di manufatti di
carattere etnografico provenienti dalle missioni di Indocina, India,
Giappone, Cina, Corea, Africa.

Sotto
l’aspetto culturale, la mostra si inserisce nel contesto dei canali di
comunicazione sociale, di cui il magistero papale e la missione odiea
fanno largo uso. Si calcola che i visitatori della mostra siano stati 380
mila. Tra essi c’è pure l’Allamano, che prende visione del mondo
missionario e raccoglie immagini e consigli utili per la sua futura opera.

La
permanenza a Roma si conclude il 15 gennaio 1888, con la partecipazione
alla solenne canonizzazione di san Pietro Claver, missionario tra gli
schiavi di Cartagena, in Colombia. Il mercato sul quale si svolge la
compravendita di esseri umani, trasportati dalle coste dell’Africa
occidentale, segna l’inizio di un cammino di dolore e orrore, destinato a
consumarsi nelle piantagioni di tabacco, cotone, canna da zucchero e nelle
miniere aurifere.

Pietro
Claver morì l’8 settembre 1654. L’Allamano gli affiderà la protezione del
nascente istituto.

Uomo
avvezzo a marcare pazientemente i ritmi delle cose e a dare a ciascuna il
suo valore, l’Allamano osserva con occhi disincantati gli avvenimenti.
Egli sa che non gli resta che attendere il momento giusto, senza forzare i
tempi, per non correre il rischio di costruire sulla sabbia.

Conta
sulla collaborazione di una personalità eccezionale, Giacomo Camisassa.
Tra i due corre una affinità di sentimenti, vedute e obiettivi, anche se
non di stile. È determinante il contributo del Camisassa in ogni
realizzazione che porti la firma dell’Allamano.

Insieme
attendono il fiorire delle rose. La pazienza non è forse la virtù dei
forti?

(*)
L’articolista, missionario

della
Consolata in Kenya, è autore

di
numerose pubblicazioni.


Significativa l’ultima opera

sul beato
Giuseppe Allamano:

La mia
vita per la missione,

Emi,
Bologna 2001.

Giovanni Tebaldi




AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?


LO
SCANDALO CONTINUA


di Alberto Chiara (*)

 


L’Afghanistan è sì un paese affamato, assetato, povero; è sì uno stato
imbavagliato per colpa della crudele ottusità dei talebani; è sì rifugio
di Osama bin-Laden e di tanti altri terroristi, ma è anche e soprattutto
una nazione quotidianamente dilaniata dalle mine antiuomo e anticarro,
posate in 21 anni di guerra ininterrotta. (…)

Già le
mine. Non distinguono un soldato da una donna: colpiscono alla cieca
chiunque le calpesti. Non rispettano tregue o trattati di pace: esplodono
anche 30/40 anni dopo essere state sotterrate. Sono armi vigliacche, di
cui il mondo fatica a sbarazzarsi una volta per sempre.

Le mine
antiuomo hanno costi di produzione relativamente bassi, ma costi sociali
altissimi. «Il prezzo di un singolo ordigno varia da 3 a 30 dollari»,
osservava anni or sono il Comitato internazionale della Croce rossa (la
cifra non è variata di molto). «Per togliere una mina occorrono diverse
centinaia di dollari, mentre il costo di un arto artificiale, per chi
rimane mutilato, è di 125 dollari». Un bambino cui bisogna amputare la
gamba dilaniata dallo scoppio di un ordigno, deve cambiare 15 protesi nel
corso della vita.

Nel
dicembre 1997 il mondo sembrò mettere fine a un colpevole disinteresse. Ad
Ottawa, in Canada, fu messo a punto un Trattato internazionale che metteva
al bando queste armi vigliacche vietando l’uso, la produzione,
l’immagazzinamento e il commercio di tutte le mine antiuomo. (…)

Al 10
ottobre 2001, il Trattato di Ottawa risultava firmato da 142 paesi e
ratificato (ovvero recepito nelle rispettive legislazioni nazionali) da
122 stati. Tra chi non ha firmato figurano purtroppo grandi potenze (Stati
Uniti, Russia, Cina), nonché potenze regionali di rilievo, come India e
Pakistan; Siria, Libano, Egitto e Israele; Iran e Iraq. Le mine, intanto,
continuano a esplodere.

 (*)
Alberto Chiara è inviato del settimanale «Famiglia Cristiana». Questo
passo è tratto da «Italia Caritas» (novembre, 2001), il mensile della
Caritas italiana.

 

 


sfogliando s’impara

… i media tra guerra e pace

 


a cura di Paolo Moiola



«DALLA GUERRA NON NASCE GIUSTIZIA»

«Ogni
vittima è una parte di noi che muore. (…) La metà dei soldi usati per
questo primo mese di guerra sull’Afghanistan avrebbero consentito a 20
milioni di esseri umani di quel paese di vivere in prosperità e ricchezza
per tutto il resto della loro vita. Con il 3 per cento dei fondi destinati
alla militarizzazione dei soli e delle stelle, il cosiddetto scudo
spaziale, potremmo dare acqua potabile a chi oggi vede preclusa questa
vitale possibilità. La guerra non è solo ciò che distrugge o uccide con le
armi: è tanta intelligenza, tanta cultura scientifica, tante risorse
finanziarie bruciate per la morte anziché per la vita. Il terrorismo è
nostro nemico. Solo la pace può sconfiggerlo.

Il
terrorismo è nostro nemico. Esso si annida e si nutre nelle tante aree di
sofferenza prodotte da un sistema ingiusto. Esso è protetto nei paradisi
fiscali, nel riciclaggio di denaro sporco, dai trafficanti di armi, dai
rialzi e dai crolli delle borse».

Appello
pubblicato dal settimanale «Carta» del 6 dicembre 2001, firmato tra gli
altri da: mons. Luigi Bettazzi, don Luigi Ciotti, don Tonio dell’Olio (Pax
Christi), padre Alex Zanotelli



 SIAMO TUTTI AMERICANI?

«Era
dal 10 giugno 1940 che un governo non convocava una grande manifestazione
di piazza, nella quale poter dire con orgoglio “L’Italia è in guerra”.
Infatti l’Alleato, esaminata la pratica, ci ha concesso di schierare anche
le nostre navi e i nostri aerei. (…) Ma cosa vuol dire “siamo tutti
americani”? (…) Significa che anche noi ci sentiamo colpiti dall’attacco
al pentagono e alle due Torri e che anche noi siamo responsabili della
risposta che gli si dà; e infatti entriamo nella stessa guerra. Ciò però
ci legittima a parlare come se fossimo americani. La prima cosa che
pertanto possiamo dire è che siamo pessimamente governati. (…)

Elevare
al rango di nemico il terrorismo significa creare un nemico universale,
onnipresente (…). Universale il nemico, universale la guerra, universale
la militarizzazione, universale il passaggio dai codici di pace ai codici
di guerra. E così, col terrore, in nome del terrore e contro il terrore si
governa, e si trasforma la vita quotidiana in un inferno (…).

Di
questo ci potremmo lamentare, come americani. E anche di aver esibito
questa immagine di un’America puritana, farisea, che si ritiene la
migliore e più giusta, benefica per l’intera umanità, stupita di non
essere amata».

Raniero
La Valle, su «Rocca», quindicinale edito da Pro Civitate Christiana
(Assisi), 15 novembre 2001



 «O CON NOI O CONTRO DI NOI»

«Non
contano i pensieri e le opinioni: durante la guerra non è lecito avere
dubbi, porsi delle domande, esercitare il proprio spirito critico; ogni
forma di opposizione diventa un tradimento.

Lo
slogan "o con noi o contro di noi" è un esempio di questa deriva verso
l’intolleranza».

Gruppo
Pace Valsusa, su «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
novembre 2001



 CENSURA E OMOLOGAZIONE

«Disarmante
è, poi, la rinuncia a capire e a spiegare cosa c’è dietro a quello che è
successo e sta succedendo, cosa ha fatto nascere un odio così feroce e
devastante, come è possibile contrastarlo senza per questo far uso di
missili e bombe. Chi cerca di farlo di volta in volta viene demonizzato,
deriso, minacciato e da qualcuno anche considerato alla stregua dei
terroristi che si sono abbattuti su New York. (…)

Se non
resistiamo oggi alla "tentazione" del silenzio, della censura e
dell’omologazione, domani sarà troppo tardi. Dopo l’informazione toccherà
ad altre libertà e ad altri diritti civili. Nel nome della lotta al
terrorismo e all’integralismo tutto sarà possibile e – quel che è peggio –
tollerato. Siamo disposti ad accettarlo? Spero proprio di no».

Beppe
Muraro sul mensile «Azione nonviolenta», novembre 2001

 COS’È
IL TERRORISMO?

«Due
crimini mostruosi hanno segnato l’inizio del nuovo millennio: gli
attentati dell’11 settembre e la risposta a questi attacchi, che
certamente ha fatto molte più vittime innocenti. Le atrocità dell’11
settembre sono considerate ovunque un evento storico, e questo è
assolutamente vero. Ma bisogna anche capire perché. Questi crimini hanno
causato la morte simultanea del più alto numero di persone nella storia,
fatta eccezione per il tempo di guerra.

La
parola “simultanea” non dev’essere trascurata: purtroppo i crimini sono
tutt’altro che rari negli annali della violenza che non dipende dalla
guerra. (…) Soltanto negli anni di Reagan, gli stati terroristici
finanziati dagli Stati Uniti nell’America centrale hanno ucciso, torturato
e mutilato centinaia di migliaia di persone, hanno provocato milioni di
storpi e di orfani, e hanno mandato in rovina quattro paesi. (…) Dire
che il terrorismo è “un’arma dei poveri” significa commettere un grave
errore di analisi. In realtà il terrorismo è la violenza contro gli Stati
Uniti. Chiunque ne sia l’autore».

Noam
Chomsky, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore insegna al «Massachusetts Institute of Technology» (M.I.T.) di
Boston



 STATI UNITI DI POLIZIA

«Vivo a
pochi isolati di distanza dal World Trade Center. A New York siamo ancora
in lutto dopo l’11 settembre. Vogliamo arrestare e punire i colpevoli,
smantellare la rete dei terroristi e impedire nuovi attentati. Ma le
misure adottate dal governo per combattere il terrorismo limitano in modo
allarmante la libertà e i diritti civili. (…) Diritti che credevamo
sanciti dalla Costituzione e tutelati dal diritto internazionale sono in
grave pericolo o sono già stati cancellati.

Non è
esagerato affermare che stiamo andando verso uno Stato di polizia. (…)
Ma neanche uno Stato di polizia potrebbe fermare i terroristi. L’illusione
della Fortezza americana ci impedisce di analizzare le cause di fondo del
terrorismo e le conseguenze di decenni di politica estera statunitense in
Medio Oriente, in Afghanistan e in altri paesi. Se le accuse mosse agli
Stati Uniti non verranno studiate e affrontate, il terrorismo continuerà».

Michael
Ratner, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore, avvocato esperto in diritti umani, insegna alla «Columbia Law
School» di New York



 «LE MARCE COSIDDETTE DELLA PACE»

«Gli
orfani di Stalin si sono aggregati al carro del terrorismo musulmano,
sperando che dalle piaghe e dalle pieghe della storia esca un po’ di pus
per nutrirli nuovamente. (…)

Il
clima persecutorio verso le forze di polizia cominciato a Genova, la
connivenza tra terrorismo islamico e le stesse frange che andarono in
soccorso delle Br, le marce cosiddette della pace ma, nei fatti, a favore
della guerra altrui, sono segnali da non sottovalutare».

Piero
Laporta, sul quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



 «IL CHIODO FISSO DELL’AMERIKA»

«Trent’anni
fa, vent’anni fa, i democratici e i pacifisti avevano un chiodo fisso: il
Cile di Pinochet. (…) E adesso? Trent’anni dopo, vent’anni dopo, i nuovi
cortei hanno ancora il chiodo fisso dell’Amerika e dell’imperialismo
malvagio (…). Ma stranamente sono evasivi ed evanescenti sui Pinochet
dei tempi d’oggi: loro, i talebani. Si respira nelle piazze una strana
aria: se non di giustificazione, quanto meno di superficialità. Eppure,
siamo di fronte a un regime decisamente più crudele e disumano del pur
crudele regime di Pinochet. Niente, è secondario: il problema è
l’interventismo amerikano».


Cristiano Gatti, sul quotidiano «il Gioale» dell’11 ottobre 2001



«QUESTA GUERRA GIUSTISSIMA»

«La
gente si è abituata e la tragedia dell’11 settembre sembra ormai passata.
Ci vorrebbe forse un missile talebano sul Vaticano per far ricordare alla
gente che il mondo giusto sta cercando di mandare all’inferno per sempre
la nuova minaccia musulmana? (…)

Non è
una critica a Voi, che oggi dedicate 4 pagine a questa guerra giustissima,
bensì ai nuovi giovanissimi presuntuosi che si fanno abbindolare dai
teorici della pace sempre e per forza».

Lettera
firmata pubblicata dal quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



CATTOLICI, MARXISTI E BUONI SENTIMENTI

«Le
culture ideologiche, di fronte alla guerra contro il terrorismo, si sono
preoccupate più di mobilitare la piazza su temi generici come la pace e le
ingiustizie nel mondo che di suggerire cosa fare in concreto, subito, qui,
ora. (…)

In
tutta la sua storia, il pacifismo non è riuscito a evitare una sola guerra
e i buoni sentimenti non hanno mai risolto i problemi del mondo. (…)

Da Gesù
Cristo, attraverso quel buon sentimento che è la fede, a Karl Marx,
attraverso quelle buone intenzioni che è la socializzazione dei mezzi di
produzione, c’è chi ha auspicato un cambiamento della natura umana. Gesù
Cristo è finito sulla croce, Marx in soffitta. E l’uomo è rimasto quello
di sempre: lupo dell’uomo. (…)

Ho
l’impressione che le culture ideologiche, cattolica e marxista e
collaterali, abbiano prodotto danni irreparabili alla nostra cultura
politica nazionale».

Piero
Ostellino, sul quotidiano «Corriere della Sera» del 24 novembre 2001



 «NOI SIAMO IL BENE»

«Visto
che sono un leale cittadino americano, non dovrei dirvi perché è accaduto
tutto ciò: del resto non è nostra abitudine indagare sul perché qualcosa –
qualsiasi cosa – accada. Preferiamo accusare gli altri di malvagità
immotivata. “Noi siamo il bene”, ha dichiarato un profondo pensatore alla
Tv americana, “loro sono il male”: e il pacchetto è pronto. A metterci,
per così dire, il fiocco è stato poi Bush in persona con il suo discorso
davanti alle Camere riunite, occasione in cui il presidente ha elargito ai
parlamentari – e in qualche modo a tutti noi della cerchia – la sua
profonda conoscenza delle astuzie e delle usanze dell’islam: “Odiano ciò
che vedono in quest’aula”».

Gore
Vidal, sul quotidiano «la Repubblica» del 16 novembre 2001



 «NON IN NOSTRO NOME»

«Gli
italiani che combatteranno in Afghanistan non lo faranno in nostro nome.
Noi non siamo in guerra. (…) È facile parlare di necessità della guerra
in un’aula di Parlamento o in una piazza tra lo sventolio delle bandiere.
Un po’ meno se la si vede da vicino, se gli “effetti collaterali” hanno un
nome, un’identità, un lavoro, degli affetti.

Se le
macerie che vediamo sono quelle di una casa o di un ospedale, se il
bambino mutilato ha un volto. Se, dietro i discorsi retorici, scorgiamo i
listini di borsa in cui le azioni delle fabbriche delle armi aumentano di
valore, o seguiamo le vie del petrolio. Se scopriamo che i buoni di oggi
erano i cattivi di ieri, e viceversa, e che le donne, con o senza burqa,
continuano ad essere usate, magari per la propaganda».


Redazionale di «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
dicembre 2001

 

 

 



Bibliografia essenziale

– 
Chalmers Johnson, «Gli ultimi giorni dell’impero americano. I contraccolpi
della politica estera ed economica dell’ultima grande potenza», Garzanti,
Milano 2001 (l’autore è un professore statunitense)

– 
Franco Foari, «Psicoanalisi e cultura della pace», Edizioni Cultura
della pace, Fiesole (l’autore è uno psicanalista italiano, scomparso
qualche anno fa)

– 
Samuel P. Huntington, «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale»,
Garzanti, Milano 2001 (il libro sostiene la diversità tra la cultura
occidentale e quella islamica, nonché l’inevitabilità dello scontro)

–  Noam
Chomsky, «Egemonia americana e "stati fuorilegge"», Edizioni Dedalo 2001 (l’autore
è un professore statunitense del M.I.T. di Boston)

–  Noam
Chomsky, «11 settembre. Le ragioni di chi?», Marco Tropea Editore 2001

–  Gore
Vidal, «La fine della libertà», Fazzi Editore 2001 (l’autore è uno
scrittore statunitense)

– 
Ahmed Rashid, «Talebani», Feltrinelli, Milano  2001

– 
Giulietto Chiesa/Vauro, «Afghanistan anno zero», Guerini e Associati,
Milano 2001

–  Ana
Tortajada, «Il grido invisibile. La vita negata delle donne afghane»,
Sperling & Kupfer, Milano 2001

– 
AA.VV., «No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà,
sull’ambiente e sul debito»,  Zelig Editore, Milano 2001

–  Gino
Strada, «Pappagalli verdi», Feltrinelli, Milano 1999

(un
medico davanti ai disastri della guerra).

 



Cliccando su

siti
inteazionali:

– 
www.rawa.org

è il
sito dell’«Associazione rivoluzionaria delle donne afghane», nata a Kabul
nel 1977

– 
www.9-11peace.org

è un
sito pacifista statunitense; 9-11 stanno ad indicare la data dell’11
settembre 2001


www.thenation.com

sito
dell’omonima rivista, per trovare un’informazione statunitense meno
schierata con il potere

– 
www.amnesty.org

il sito
di Amnesty inteational

– 
www.landmineaction.org 

il sito
delle organizzazioni che si battono contro la produzione delle mine
antiuomo

– 
www.un.org 

il sito
delle Nazioni Unite.

Siti
italiani:

– 
www.emergency.it

il sito
dell’organizzazione umanitaria italiana fondata nel 1994 dal chirurgo Gino
Strada

– 
www.unimondo.org

sito di
Trento, con moltissime informazioni sulle principali tematiche mondiali,
dal debito alla globalizzazione

– 
www.waews.it 

sito
che informa sui conflitti nei vari paesi del mondo, molto facile da
utilizzare

– 
www.peacelink.it 

storico
sito italiano sulle tematiche della pace

– 
www.nonluoghi.it

sito
per un giornalismo critico, tra fatti, idee e utopia

– 
www.lunaria.org

sito su
volontariato internazionale, immigrazione, razzismo.

 

 


MAI PI
U’

poesia di Meena (*)

 

 Sono
una donna che si è destata.

Mi sono
alzata e sono diventata una tempesta,

che
soffia sulle ceneri

dei
miei bambini bruciati.

Dai
flutti di sangue del mio fratello morto sono nata.

L’ira
della mia nazione me ne ha dato la forza.

I miei
villaggi distrutti e bruciati mi riempiono

di odio
contro il nemico.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Le
porte chiuse dell’ignoranza ho aperto.

Addio
ho detto a tutti i bracciali d’oro.

Oh
compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Ho
visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa,

ho
visto spose con mani dipinte di henna


indossare abiti di lutto,

ho
visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire

la
libertà nel loro insaziabile stomaco.

Sono
rinata tra storie di resistenza, di coraggio.

La
canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei
flutti di sangue e nella vittoria.

Oh
compatriota, oh fratello, non considerarmi

più
debole e incapace.

Sono
con te con tutta la mia forza sulla via

di
liberazione della mia terra.

La mia
voce si è mischiata alla voce di migliaia

di
donne rinate, i miei pugni si sono chiusi insieme

ai
pugni di migliaia di compatrioti.

Insieme
a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

per
rompere tutte queste sofferenze,

tutte
queste catene di schiavitù.

Oh
compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Sono la
donna che si è svegliata.

Mi sono
alzata e sono diventata tempesta

fra le
ceneri dei miei figli bruciati.

I miei
villaggi in rovina e in cenere mi riempiono

di
rabbia contro il nemico.

Oh
compatriota, non mi guardare più debole e incapace.

La mia
voce si mescola con migliaia di donne in piedi,

per
rompere tutte insieme tutte queste sofferenze e queste catene.

Sono la
donna che si è svegliata,

ho
trovato la mia strada e non toerò mai indietro.

 

 (*) 
Meena, nata a Kabul nel 1957, fondatrice dell’«Associazione rivoluzionaria
delle donne dell’Afghanistan» (RAWA), fu assassinata da agenti segreti
russi e afghani a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

 (*)
Davide
Casali


è nato a Torino nel 1974. Fotografo freelance, ha fatto reportages su
Sudan, Kenya, Kosovo, Perù, Colombia, Messico, Pakistan, Afghanistan,
pubblicati da varie testate (la Repubblica, L’Unità, il Manifesto,
Liberazione, La Stampa, Nigrizia, Missione Oggi, Missioni Consolata ecc.).
Ogni tanto, come dimostra questo dossier, si cimenta anche con la
scrittura, ma alla penna e ai tasti del computer dice di preferire la
macchina fotografica.

Davide Casali




AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?

A KABUL NON BASTANO GLI AQUILONI


«Il risultato è che i sovietici se ne sono andati,
mentre  i vincitori – i mujaheddin –   la guerra non l’hanno ancora
smessa, 12 anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro  l’hanno
anche importata,   al loro rientro, nei Paesi d’origine. (…) E quel tale
Osama,   prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col
dichiarare  apertamente guerra…  agli Stati Uniti! E l’Afghanistan,   
in tutto questo? 1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000  di
profughi».

(Gino
Strada, medico e fondatore  di «Emergency»)



Kabul è
caduta !

L’attesa in
una Peshawar invasa dai profughi e poi l’arrivo dell’agognata notizia: i
talebani hanno lasciato Kabul. Siamo entrati in un paese devastato da
trent’anni di guerre. A Kabul abbiamo trovato miseria, macerie e
confusione, ma anche degli italiani che da anni si fanno onore. Come
Alberto Cairo, che riassume così la situazione: anche dopo le bombe e la
caduta dei talebani, per gli afghani la parola chiave è sempre e soltanto
una, «sopravvivenza».

Appena
rientrati nella «guest house» che ci ospita, dalla televisione via cavo
arriva la notizia: Kabul è caduta!

Il giorno
seguente ci rechiamo in vari uffici governativi, dove tentiamo (invano) di
ottenere il permesso per transitare nelle «aree tribali». Ovvero in quelle
zone del Pakistan, che da Peshawar arrivano sino alla frontiera con
l’Afghanistan, in mano a tribù locali. Potremmo quasi definirle zone
franche, perché qui il governo pakistano non ha alcuna autorità. Si limita
solamente al controllo della strada che, attraverso il Kyber Pass, porta
sino alla città di confine di Thorkam.

Il giorno
precedente un convoglio di giornalisti, con l’appoggio di un capo tribù, 
ha «forzato»  il posto di blocco della polizia pakistana, che oggi quindi
non sembra disposta ad accontentare fotografi, giornalisti e cameramen
occidentali che premono per entrare in Afghanistan.

Per
fortuna, arriva una telefonata di un amico del Gr Rai, il quale ci informa
che i pakistani  hanno finalmente deciso di accordare il permesso di
transito attraverso le zone tribali.

Il 17
novembre finalmente riusciamo a partire, con un centinaio di altri
rappresentanti dei media  di tutto il mondo. Arriviamo a Thorkam, dove le
operazioni di controllo dei passaporti  sono estenuanti, un po’ per il
numero di persone da controllare, un po’ per l’estrema meticolosità dei
pakistani.

Alle 19.00
riusciamo ad entrare in Afghanistan.


SULLA STRADA
PER KABUL

«Welcome
to Afghanistan» sorride il mujaheddin, appoggiato al pick-up che ci sbarra
la strada. Alcuni come lui formeranno la nostra scorta sino a Jalalabad.

Al mattino
presto ci sveglia la guida, informandoci che il giorno precedente molte
macchine di giornalisti  avevano percorso la dissestata via del
contrabbando che porta a Kabul e che, anche in quel momento, molti si
stavano mettendo in viaggio.

Lungo la
strada attraversiamo zone desertiche e oasi coltivate (prevalentemente a
cavolfiori), che costeggiano il fiume Kabul. Dopo circa tre ore,
nonostante il ramadan, la nostra guida si ferma per offrirci un tè nel
piccolo ospedale gestito da afghani con fondi di una Ong francese. «Qui i
talebani praticamente non si sono mai visti. Solo qualche ferito in
scontri nelle vicinanze» ci dice un infermiere.

La strada
è ormai una pista. Di tanto in tanto, si incontra qualche nomade con le
sue greggi o bambini, che cercano di racimolare qualcosa tappando le buche
lungo il percorso e chiedendo qualche spicciolo alle vetture che
transitano.

A
ricordarci di essere in un paese in guerra da ormai trent’anni, ci sono
carcasse di carri armati sovietici, arrugginite dal tempo e depredate di
tutto ciò che poteva essere utile.

Eccoci a
Sourubi. Ci sono una grande diga e la centrale elettrica che fornisce la
corrente a Kabul. Qui incontriamo il primo posto di blocco dell’Alleanza
del nord.

I
militari non fanno alcun tipo di problema, sorridono e parlottano con
l’autista.


Arriviamo a Kabul, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, per aver
superato senza problemi il canyon che ci separava dalla capitale.

È
evidente la presenza dei mujaheddin, soprattutto nelle zone strategiche
della città. Ci stupisce  il fatto che in soli 2 giorni l’Alleanza del
nord abbia già occupato tutti i posti di controllo e stia organizzando
l’amministrazione, mentre al nord del paese la guerra prosegue. Gli
americani continuano a bombardare perché i talebani dicono di non volersi
arrendere se non a una forza dell’Onu.

Kabul,
comunque, sembra sicura. I mujaheddin ci rassicurano e ci dicono che
problemi potrebbero esserci solo con alcuni gruppi di arabi e pakistani
che si sono rifugiati sulle montagne. «Di tanto in tanto ne viene
catturato qualcuno, oppure scende dalle montagne per la fame», ci dice
Abdullah, venticinquenne comandante di un piccolo gruppo di uomini che
arriva dal Panshir.

Ci
raccontano che nei giorni precedenti ci sarebbero stati diversi linciaggi,
ma che ora si sono spostati soprattutto fuori città. La gente sembra
cordiale e tutto sommato felice di aver recuperato un po’ delle libertà
perse nel 1994. Molti ragazzi che parlano un po’ di inglese si offrono
come guide ai giornalisti. Per loro significa guadagnare in pochi giorni
quello che di solito racimolano in un anno o più.



LO STADIO DEGLI IMPICCATI

Le
macchine dei mujaheddin sono tappezzate di manifesti del comandante Massud,
«il leone del Panshir», ucciso il 9 settembre. In soli 3/4 giorni sono
spuntati, qua e là, negozi di radio e televisioni, libri e musicassette.
In un piccolo supermercato troviamo persino alcuni prodotti italiani
(Barilla, Nutella), co-flakes, tonno, olio d’oliva, sigarette americane.
«Arriva quasi tutto da Dubai (Emirati Arabi)» ci spiega il proprietario. 

Andiamo
allo stadio. All’ingresso incontriamo il custode.  Abdarsak  ha 48 anni e
lavora qui da parecchio tempo. Ricorda che, in 5 anni di regime, su quel
campo sono state impiccate non meno di 50 persone e almeno altre 500 hanno
subìto il taglio di una mano. «Nell’intervallo allo stadio di Kabul c’era
quasi sempre qualche “fuori programma”».  Racconta di quel sabato 11
agosto 2001: «Sono le due di pomeriggio. I tagiki del Pamir, in maglia
rossa e pantaloni lunghi, e gli azarà di Maivan, in completo verde e
pantaloni lunghi, stanno per affrontarsi. Non è una partita ufficiale
eppure lo stadio è gremito, ci saranno 30 mila persone. Sono così rare le
occasione per divertirsi che una qualsiasi partita di calcio diventa un
evento. L’arbitro dà il fischio di inizio. Si gioca. Mancano 10 minuti
alla fine del primo tempo, quando dall’altoparlante si chiede di fare
silenzio e di sospendere la partita. Eccolo il “fuori programma”!

La voce
dura di Abdrakam Arrà, il temuto capo della polizia religiosa talebana,
annuncia che da lì a pochi minuti verranno puniti, in nome di Allah, 4
uomini macchiatisi di crimini gravissimi. Calciatori, arbitro e
guardalinee hanno già raggiunto le linee laterali per non perdersi lo
spettacolo. L’altoparlante torna a dire qualcosa e i colpevoli, due ladri
e altrettanti assassini,  vengono spinti, ammanettati, a centro campo,
dove sono attesi da una dozzina di boia incappucciati».


Prosegue Abdarsak: «Il rituale era sempre lo stesso: gli assassini
venivano impiccati alle traverse e poi finiti a fucilate; i ladri subivano
il taglio di una mano».  Le esecuzioni non avvenivano solo allo stadio, ma
anche in una piazza, alla periferia residenziale di Kabul, chiamata Charai
Aiana, ma tristemente nota con il soprannome di piazza della morte. Al
centro di quello slargo a luglio hanno penzolato, da una gru, quattro
uomini accusati di aver minato l’Hotel Kabul,  quartier generale dei
talebani; ma era solo un pretesto per liberarsi di quattro scomodi
oppositori. 


IL
DOTTOR CAIRO,

L’«ANGELO
ITALIANO»

Kabul
di notte è una città fantasma. Non vige un vero e proprio coprifuoco, ma
di fatto è come se ci fosse. Solo alcuni giornalisti si muovono (ma
rapidamente) da un albergo all’altro. Mentre mangiamo un piatto di riso
con pollo, un ragazzo ci raccomanda di ricordare che le croci bianche
sulle case segnalano che sono state sminate, mentre quelle con la croce
rossa non lo sono. Ci ricorda anche che nel paese rimangono circa 11
milioni di mine.

Poiché
le stime parlano di circa 8/9 milioni di abitanti, questo significa più di
una mina per afghano! Ecco perché, per strada, è normale vedere persone
con una sola gamba.


Incontriamo il dottor Alberto Cairo (laureato in legge, ma convertitosi
alla fisioterapia) nel suo centro ortopedico, ospitato presso l’ospedale
Wasir Abkhar Khan.

«Sono
appena rientrato dopo 57 giorni, non ce la facevo più a stare lontano da
qui. Non sapevo cosa avrei trovato, ma vedo ottimismo e fiducia. Molti
sperano in qualcosa di nuovo e di buono, specie adesso che tutto il mondo
guarda all’Afghanistan. Tutti sono contenti della fine dei bombardamenti,
ma tutti sono preoccupati per il futuro: la fine degli attacchi e il
cambio di regime non significano, automaticamente, pane, case, caldo,
sicurezza o un governo stabile». Il dottor Cairo vive a Kabul da 12 anni,
il suo centro ortopedico sfoa protesi a getto continuo, avvalendosi a
volte di materiali di recupero, come ad esempio copertoni.

Nel
centro ci sono una sala ed un percorso all’aperto per la riabilitazione.
Il personale dell’ospedale è tutto afghano, formatosi nel medesimo centro,
e la maggior parte di esso è composto di ex pazienti. Continua il dottor
Cairo: «La parola chiave in Afghanistan è sopravvivenza. Gli abitanti
hanno dei meccanismi che io non riesco a comprendere: in qualche modo ce
la fanno sempre, ma pur sempre sopravvivenza è. So che gli afghani hanno
grandi capacità lavorative, ma non mi aspettavo che potessero portare
avanti da soli tutte le nostre attività, pur avendo così tanta pressione
sulle spalle. I laboratori ortopedici hanno fabbricato gambe, braccia,
stampelle; le distribuzioni di cibo sono andate avanti. Il centro è in
perfetto ordine. Ci sono persino i fiori. Temevo che i colleghi afghani mi
avessero mentito, per farmi stare tranquillo. Invece no, è tutto a posto».


Salutiamo il dottor Cairo e continuiamo i nostri giri per Kabul.


A
SPASSO TRA LE MACERIE

DELLA
CAPITALE

Alcune
zone della città sono completamente distrutte. Ci sono milioni di fori di
proiettile, come se un pazzo fosse entrato, casa per casa, sparando
centinaia di colpi in ogni stanza.

Il
museo è devastato; l’università, per il momento, resta chiusa.  L’ex
palazzo reale, alla periferia di Kabul, è uno scheletro di travi e
calcinacci. Peccato, doveva  essere bello. La Tomba del Padre (un anonimo
mausoleo) è stata bombardata. Lo zoo, nonostante tutto, resiste ed ospita
un orso spelacchiato, qualche scimmia ed un leone entrato nella leggenda,
perché è sopravvissuto allo scoppio di una granata lanciatagli da un
mujaheddin per vendicare la morte del fratello, sbranato  dall’animale.
Quella che era l’ambasciata russa è ormai occupata da circa 20 mila
profughi.


Incontriamo due donne, rigorosamente con il burqa, che pare abbiano voglia
di chiacchierare. Anche loro sono sfollate e si sono rifugiate qui per
sfuggire ai combattimenti che per anni hanno bersagliato le zone a nord
della capitale. Si ritengono fortunate, perché anche con i talebani hanno
potuto continuare a lavorare.

Da due
anni lavorano come assistenti sanitarie ed educatrici presso il campo
profughi. Si tratta di un progetto organizzato da «Save the children». Pur
sembrando molto giovani, sono entrambe sposate. Una di loro però non pare
soddisfatta, ed il fatto che ne parli con due stranieri è sorprendente. Si
è sposata da 7 mesi e, dopo appena uno, il marito è partito per l’Iran in
cerca di lavoro. E oggi lei è costretta a vivere con la famiglia di lui.
Gli uomini di casa si affacciano alla finestra, un po’ curiosi e un po’
minacciosi; ma lei non pare scossa e continua a camminare disinvolta fra
la polvere con le sue scarpe bianche, unica parte visibile sotto il  burqa.



LE BOMBE «INTELLIGENTI»

I
soldati dell’Alleanza del nord cominciano a farsi più rigidi con i
giornalisti occidentali. Ci negano il permesso di fotografare alcuni carri
armati talebani bombardati dagli americani, ci impediscono di vedere
alcuni prigionieri arabi e pakistani, rinchiusi in un container, nel mezzo
di una delle basi.

Dietro
la vittoria dell’Alleanza ci sono i bombardamenti anglo-americani, che
hanno lasciato il segno, e non solo sulle basi militari. Nei paraggi di
questi obiettivi molte case civili sono state distrutte. Errori? C’è chi
li ammette e chi no.

 «Non
posso giustificare un errore che ha ucciso tutta la famiglia di mio
fratello» ci dice Abdul. «La casa è stata colpita durante i primi
bombardamenti – spiegano alcuni vicini -. Erano da poco passate le otto
quando, all’improvviso, l’esplosione: 9 morti e 12 feriti». «Mio fratello
non ha mai avuto nulla a che fare con i talebani era un semplice maestro»
racconta Abdul. Ma le bombe, si sa, non guardano in faccia nessuno.

Molte
sono le zone di Kabul colpite dai bombardamenti. Vicino all’Hotel
Continental, dove alloggiano la maggior parte dei giornalisti, nella zona
di Karte Parvan, si trova una villa che era stata donata dal re ad uno dei
suoi consiglieri più fidati. Negli ultimi anni la villa era diventata la
base di alcuni arabi e per questo sarebbe stata bombardata. Sotto il buco
nel tetto ci sono ancora i resti del missile «intelligente» lanciato dagli
americani.

Alcuni
mujaheddin stanno ripulendo lo stabile. Ci dicono che intendono farvi una
guest house per il ministero della Difesa. Ma il fatto di essere tornati
grazie alle bombe americane non vi reca qualche imbarazzo? Ci risponde
Quasim, ventiduenne capo militare dell’Amirat del Panshir, evidentemente
soddisfatto di essere tornato a Kabul: «Certo, le bombe americane ci hanno
aiutato. Hanno colpito i terroristi, nemici dei musulmani, del nostro
paese nonché dell’umanità intera». Invece sulla sorte di possibili
prigionieri preferisce lasciare la risposta ai suoi superiori.

Da ieri
mattina è cominciato l’attacco a un migliaio fra talebani e arabi che si
sono raggruppati a Maidan Shar, una quarantina di chilometri a sud-est di
Kabul. Un punto strategico per entrambi i contendenti, poiché qui passa la
strada che porta ad Herat e Kandahar. Il comandante Haji Shirihalam, in un
improvvisato incontro con i giornalisti, dichiara: «Abbiamo negoziato per
10 giorni. Alla fine, lunedì scorso, i talebani sono venuti a dirci che si
sarebbero arresi e che avrebbero consegnato le armi. Ma così non è stato e
noi questa mattina abbiamo attaccato».

Il
problema è che qui, come in altri posti del paese, i talebani sarebbero
anche disposti ad arrendersi, ma gli arabi e i pakistani che sono con loro
si oppongono, ben sapendo che a loro spetta la sorte peggiore. Fra i
talebani afghani è quasi subentrato un sentimento nazionalista, essendo
consapevoli del fatto che per loro le pene saranno miti, sempre che siano
puniti.

Guljan,
trentaduenne studente di teologia, come ama definirsi, ci dice: «Per il
mio paese io voglio solo la pace». Discute tranquillamente con alcuni
soldati dell’Alleanza, tra sorrisi ed abbracci da vecchi amici ritrovati.
«Era nostra intenzione arrenderci, ma gli stranieri ce l’hanno impedito».
Sanno di non avere via di scampo, che non possono certo tornare a casa. I
combattenti stranieri sono stati i primi ad essere passati per le armi dai
mujaheddin, quando sono stati intercettati, mentre sembra che in alcuni
casi, come a Kunduz, siano stati gli stessi stranieri ad uccidere i
talebani che volevano arrendersi.


Toiamo verso Kabul, lungo la strada che è un continuo sali e scendi. Ai
lati viene continuamente segnalata la presenza di mine. Appostati nei
luoghi strategici, i mujaheddin scrutano l’orizzonte o formano i posti di
blocco, che qui sono più numerosi che altrove.

 L’impatto
con l’entrata sud della capitale è assolutamente impressionante: una città
completamente devastata,  macerie su macerie. Superata la parte distrutta
durante i 20 anni di guerra civile, l’altra, quella sopravvissuta, sta
chiudendo i battenti.

In
tempo di ramadan, al calar della sera comincia la corsa verso casa per
l’agognato pasto dopo il lungo digiuno. Cosa troveranno sulla tavola i
milioni di afghani che vivono solo degli aiuti umanitari? Intanto, al
mercato di Kabul, i prezzi dei beni alimentari sono in costante aumento.
Succede sempre durante il mese di ramadan, ma oggi, in più, ci sono la
guerra e gli stranieri.

 

 



Afghanistan una storia tormentata

Dal
XIII al XVI secolo


L’Afghanistan è governato prima da Gengis Khan, poi da Tamerlano e dai
suoi discendenti.


 1839-1919: le guerre con gli inglesi

Persa
la prima guerra anglo-afghana (1839-1842), gli inglesi si rifanno nella
seconda (1878-1880) e stabiliscono sull’Afghanistan un protettorato. Nella
terza ed ultima guerra (1919), gli afghani si liberano degli inglesi. 

 Dal
1933 al 1963


L’Afghanistan è governato dal re Zahir Shah. Durante la seconda guerra
mondiale, il paese riesce a mantenere l’integrità nazionale e una
difficile neutralità. A partire dagli anni Cinquanta diventa un
protettorato di fatto dell’Unione Sovietica.

 1964:
riforme democratiche

Zahir
Shah approva una nuova costituzione trasformando il regno in una
democrazia con libere elezioni e diritti civili.

 1973:
il re viene detronizzato

Luglio
– Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato organizzato dal
principe Mohammed Daud. L’Afghanistan viene proclamato repubblica e Daud
ne diventa il presidente.

 1978:
nascono i «mujaheddin»

Aprile
– Daud viene ucciso. Il Partito democratico del popolo afghano (PDPA),
filo-sovietico, dà il via alla «Rivoluzione d’aprile», che porta alla
nascita della Repubblica democratica dell’Afghanistan. Al potere sale
Mohammed Taraki, con Babrak Karmal primo vice premier.

Agosto/dicembre
– Le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla
laicizzazione del paese, alimentano il malcontento di larghi strati della
popolazione. Comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata (mujaheddin)
con l’appoggio degli USA.

 1979:
l’invasione sovietica

16
settembre – Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il potere
passa nelle mani di Afizullah Amin. Il PDPA si spacca. L’URSS, che non
gradisce l’ascesa di Amin e teme un’estensione della ribellione islamica
alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide
di invadere l’Afghanistan.

27/28
dicembre – Truppe dell’Armata Rossa entrano nel paese. Amin viene
assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al
potere Babrak Karmal.

 1980:
interessi vitali

In
occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente
USA Jimmy Carter dichiara che «il tentativo da parte di una potenza
straniera di conquistare il controllo della regione del Golfo Persico sarà
considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti e sarà
respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Gli USA
offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari (missili
Sidewinder e Stinger) per arrestare l’avanzata dell’URSS in Afghanistan.

1983:
profughi

Il
numero dei profughi afghani raggiunge livelli altissimi: circa 3 milioni e
mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran e diverse
migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti.

Le
truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a più di 100 mila unità.

 1986:
arriva Najibullah

Maggio
– Babrak Karmal perde l’appoggio dell’URSS e viene costretto a dimettersi.
Lo rimpiazza il medico, ex capo della polizia segreta e segretario del
PDPA, Mohammed Najibullah.

 1988:
accordi di Ginevra

Aprile
– Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i
rappresentanti di USA e URSS, sotto l’egida dell’O.N.U., a Ginevra si
firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico.

Maggio
– L’URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e 35.478 sono
rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in Afghanistan. Il 25
maggio inizia ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa. Ad agosto il
contingente sovietico nel paese è già dimezzato.

Luglio
– A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione, nella sostanza
filosovietico, nonostante la presenza di alcuni ministri non comunisti.

 1989:
i sovietici si ritirano

15
febbraio – Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.

Aprile
– I guerriglieri musulmani mujaheddin, si trasformano progressivamente in
un esercito regolare, organizzato e ben equipaggiato, con il sostegno
della C.l.A. e del Pakistan. Continuano a combattere contro il governo
moderato di Najibullah, ma per il momento controllano solo alcune aree
rurali.

 1991:
crolla l’Unione Sovietica


Novembre – Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin a Mosca
per discutere di un possibile cessate il fuoco. Le parti si accordano per
il trasferimento del potere a un governo islamico ad interim e per lo
svolgimento di libere elezioni entro 2 anni.

8
dicembre – L’URSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di
Stati Indipendenti (CIS).

 1992:
l’ora di Rabbani e Massud

Aprile/giugno
– Kabul è presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e sanguinosi scontri
intestini tra le forze ribelli, si costituisce un governo di coalizione
sotto la guida di Burhanuddin Rabbani.

Vi
entrano rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Il comandante Ahmad
Shah Massud viene nominato ministro della difesa.

 1994:
arrivano i talebani


Novembre – I componenti della fazione più fondamentalista, quella degli
studenti sunniti di teologia coranica, i talebani, compaiono per la prima
volta sulla scena come gruppo armato. Da questo momento i combattimenti
subiscono un’escalation.


Novembre – Kandahar viene presa dai talebani, che assumono anche il
controllo di due province del sud, Lashkargarh e Helmand.

1995: i
talebani avanzano ovunque

5
settembre – Dopo mesi di combattimenti Herat cade nelle mani dei talebani.
ll leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella città, fugge
in Iran. All’O.N.U. il ministero degli esteri di Rabbani accusa il governo
pakistano di «aggressione diretta» per il sostegno fornito ai talebani
nella presa di Herat.


Novembre – Le milizie talebane attaccano Kabul. Le truppe governative
riescono tuttavia a respingere l’offensiva.

 1996:
la caduta di Kabul

20
marzo – La shura dei talebani invita il popolo afghano alla jihad (guerra
santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammed Omar è proclamato
condottiero dei talebani.

26
settembre – I talebani muovono verso Kabul e la conquistano nella notte.
ll presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar fuggono. L’ex
presidente Najibullah viene impiccato a un lampione. Mohammed Omar è
nominato capo di un consiglio provvisorio formato da 6 membri. ll Pakistan
invia una delegazione a Kabul.

28
settembre – L’amministrazione americana esprime «rammarico» per
l’esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni
con il nuovo regime. I talebani intanto avanzano verso il nord del paese.

2
novembre – L’Organizzazione della conferenza islamica decide di lasciare
vacante il seggio dell’Afghanistan.

 1997:
il Pakistan riconosce il governo talebano

La
resistenza moderata antitalebana si concentra nella parte nord del paese,
dove varie fazioni danno vita all’«Alleanza del Nord», appoggiata dalla
Russia che non vuole perdere totalmente il controllo della regione. ll
generale tagiko Massud guida l’Alleanza. La guerra prosegue durissima e a
fasi altee nelle province settentrionali.

24
maggio – I talebani entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la sharia (la
legge islamica) e chiudono le scuole femminili.

26
maggio – Il Pakistan riconosce il governo dei talebani.

4
settembre – Uno dei massimi dirigenti talebani si reca in Arabia Saudita,
dove a Jeddah riceve promesse di aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran,
Russia e Francia di aiutare Massud.

17
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. condanna i rifoimenti
di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e invita le
parti al cessate il fuoco.

 1998:
Omar e Osama

9
luglio – Un aereo dell’O.N.U. viene colpito da un razzo a Kabul. Il maulvi
Omar mette al bando la televisione e annuncia la deportazione dei
cristiani e punizioni per i comunisti.

18
luglio – L’Unione europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul per
le inaccettabili restrizioni cui è sottoposto il suo personale.

7
agosto – Le ambasciate USA in Kenya e Tanzania saltano in aria: i morti
sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli
attentati sia Osama bin-Laden, un miliardario saudita che sostiene anche
finanziariamente i talebani.

8
agosto – I talebani riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11 diplomatici
iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazara.

18
agosto – L’ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di usare i
talebani come strumento antiiraniano. Il leader talebano Omar dichiara che
il suo governo darà asilo a Osama bin-Laden.

20
agosto – Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di Jalalabad
e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden: 21 morti e 30
feriti.

29
dicembre – L’UNICEF denuncia il totale collasso del sistema educativo
afghano.

 1999:
gasdotti, sanzioni O.N.U. e oppio

9
febbraio – Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati
Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden.

29
aprile – Talebani, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo per la
costruzione di un gasdotto attraverso l’Afghanistan.

14
maggio – Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare
aiuto ai talebani. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un
ritorno a Kabul del re Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma.

22
maggio – I talebani individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto
congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici
sono uccisi.

26
giugno – Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per organizzare una
Conferenza degli Anziani (la «Loya Jirga», tradizionale strumento
istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma i talebani rifiutano
la sua mediazione.

6
luglio – Gli USA impongono sanzioni economiche e commerciali al governo
dei talebani e congelano i loro patrimoni finanziari. I talebani si
preparano intanto a un’offensiva estiva contro le truppe di Massud.
Migliaia di giovani arabi e pakistani si uniscono a loro.

10
settembre – Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in
territorio afghano sia raddoppiata, raggiungendo le 4.600 tonnellate. Il
97% delle coltivazioni è sotto controllo talebano.

12
ottobre – In Pakistan, un colpo di stato militare rovescia il governo di
Nawaz Sharif. Sale al potere il generale Musharraf.

15
ottobre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. vota a favore
dell’imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se, entro 30 giorni,
i talebani non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti.

11
novembre – Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori città
afghane per protestare contro le sanzioni dell’O.N.U. e chiedere il
sostegno dei paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan la
protesta anti-occidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una
serie di gravi attentati.

14
novembre – Le sanzioni delI’O.N.U. diventano operative.

2000:
tentativi di colloquio

Maggio
– Secondo i dati O.N.U. la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto
cifre record, superiori alle 4.800 tonnellate. La superficie coltivata è
cresciuta del 23%.

13
luglio – Il generale Massud lancia una controffensiva militare, ma la
reazione dei talebani si dimostra più efficace del previsto. L’ex
presidente Rabbani lamenta lo scarso sostegno all’Alleanza antitalebani da
parte della comunità internazionale.

Ottobre
– Una delegazione dei talebani è ricevuta a Washington al Dipartimento di
Stato.


Novembre – Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall’inviato
speciale dell’O.N.U. in Afghanistan Francisc Vendrell, i talebani e
l’opposizione dell’Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare
entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21 novembre,
tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l’inasprimento delle sanzioni
contro i talebani.

Le
organizzazioni umanitarie mettono in guardia le Nazioni Unite dai rischi
dell’imposizione di ulteriori sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori
sofferenze alla popolazione civile già duramente provata.

10
dicembre – I talebani minacciano di boicottare i previsti colloqui di
pace.

19
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. adotta una risoluzione (sostenuta
principalmente da Stati Uniti, Russia e India), per l’inasprimento delle
sanzioni contro l’Afghanistan, se i talebani non consegneranno entro 30
giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno i campi di addestramento per i
terroristi islamici e non cesseranno ogni commercio illegale di sostanze
stupefacenti.

 2001:
la situazione precipita

19
gennaio – Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’O.N.U. contro il regime
dei talebani.

28
febbraio – L’ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef,
conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di Bamiyan,
capolavori dell’arte ellenistico-orientale fiorita nel paese prima
dell’islamismo.

27
marzo – Un gruppo di giornalisti occidentali è ammesso nella valle di
Bamiyan per certificare l’avvenuta demolizione delle statue.

5
aprile – Massud viene ricevuto a Strasburgo.

19
maggio – La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM (Programma
alimentare mondiale) dove lavorano donne. La polizia religiosa irrompe
nell’ospedale di Emergency a Kabul.

23
maggio – Diventa legge l’ordinanza che impone agli indù di portare sugli
abiti un segno distintivo.

9
settembre – Il generale Massud viene ucciso.

11
settembre – Attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al
Pentagono.

 DOPO
L’11 SETTEMBRE 2001

 7
ottobre – L’aviazione anglo-statunitense colpisce Kabul e Kandahar.

26
ottobre – Bush firma la legge antiterrorismo denominata «Usa Patriot Act»
(legge del patriottismo americano). Il provvedimento rafforza enormemente
i poteri della polizia e dell’Fbi.

7
novembre – Il Parlamento italiano approva l’intervento militare italiano
accanto agli USA. «Il nostro Parlamento ha scritto ieri una pagina
onorevole della sua storia» (Piero Ostellino, sul «Corriere della Sera»
dell’8 novembre).

13
novembre – Le truppe dei mujaheddin entrano a Kabul.

27
novembre – Scoppia un rivolta nel carcere-fortezza di Qala-e-Jhangi, a 10
chilometri da Mazar-e-Sharif, dove sono detenuti circa 600 talebani, in
gran parte pakistani. Oltre 450 rivoltosi vengono uccisi. Amnesty
Inteational chiede l’apertura di un’indagine. Tra i talebani feriti c’è
anche un cittadino statunitense di 20 anni, John Walker.

5
dicembre – I rappresentanti dei quattro maggiori gruppi etnici e politici
afghani riuniti a Petersberg, vicino a Bonn, sotto l’egida delle Nazioni
Unite, raggiungono un accordo sul futuro dell’Afghanistan.

22
dicembre – Si installa il governo provvisorio di Hamid Karzai, leader
pashtun di 44 anni. La nuova amministrazione è composta da 29 ministri,
tra cui 2 donne (Sima Samar vicepremier e Suhaila Seddiqi ministro della
sanità), che rappresentano tutte le etnie. Vi sono 11 pashtun, 8 tagiki, 5
hazara, 3 uzbeki e altri esponenti di etnie minori.

31
dicembre – Un bombardamento statunitense provoca più di 100 vittime tra i
civili. È il terzo «effetto collaterale» in 10 giorni. Il governo di
Karzai chiede la sospensione dei raids aerei.

12
gennaio 2002 – Bendati e

legati
arrivano nella base


statunitense di Guantanamo (Cuba) i primi prigionieri talebani.


(a cura di Paolo Moiola)

 


Il
commento



Caduta libera verso la barbarie

di Gino Strada (Emergency)

Il
secolo passato ha visto numerose catastrofi umanitarie. Io speravo, fino a
qualche tempo fa, di non vedee più. Sono state firmate ogni tipo di
carte dei diritti, una montagna di carte: per l’uomo, per la donna, per il
bambino, per il vecchio, per la mezza età. Nonostante questo, ciò che sta
accadendo in questo momento storico si può definire come una caduta libera
verso la barbarie. Vorrei raccontare cosa sta accadendo in due delle sette
corsie dell’ospedale di Emergency a Kabul.

Una è
la corsia pediatrica. Ogni giorno arriva qui un bambino mutilato, ferito,
tagliato in due pezzi dall’esplosione di una «cluster bomb» (1) americana.
Gli americani si sono rifiutati di indicare agli sminatori i luoghi
bombardati con quegli ordigni. Quando le cluster bombs non esplodono
nell’impatto con il suolo, la loro dispersione le trasforma in mine sparse
sul territorio per un ampio raggio. È stata fatta una grande propaganda
sul lancio degli aiuti, i famosi sacchetti gialli, che anch’io ho visto.
Ora quei pacchi lanciati dal cielo hanno lo stesso colore delle… cluster
bombs americane. Sono lì, sparse dentro e fuori ai villaggi, pronte per
essere raccolte dai bambini, bramosi di trovare i famosi aiuti. Bene, io
chiamo questo terrorismo!

Queste
lanciate dal cielo sono mine antiuomo, mine contro la giustizia, la pace,
la libertà, la verità! Io non ci sto. Non ci sto. Credo che Emergency
faccia bene a denunciare questo gioco al massacro.

 All’interno
del nostro ospedale di Kabul, c’è poi un’altra corsia: quella destinata ad
ospitare i pazienti che hanno preso parte alle ostilità.

Ci sono
combattenti talebani non afghani, pakistani, uomini di Al Qaeda. Con i
talebani hanno combattuto uomini di 22 diverse nazionalità.

Questi
pazienti non sono stati portati feriti in ospedale. Siamo andati a
prenderli nelle carceri di massima sicurezza, dove erano abbandonati a
morire. Siamo andati perché, altrimenti, sarebbero stati brutalmente
uccisi. E con loro sarebbero stati uccisi i più basilari diritti umani.
Diritti che valgono anche per i combattenti talebani. D’altronde, questa è
la politica degli Usa: non fare prigionieri. Una politica che pratica e
genera terrore. Per questo dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi,
prima che le retroazioni simmetriche giungano anche in Europa. Noi viviamo
in un’Europa meno sicura, perché gli Usa hanno deliberatamente scelto di
occupare tutti i luoghi sacri del Medio Oriente. Questa politica estera
americana è da fermare. È un dovere morale per tutti!

Alcuni
sostengono che quella statunitense sia «la verità della civiltà». In
realtà, si tratta solo dell’attuazione di una politica imperialista volta
a combattere i disastri di una recessione economica intea al paese.


Naturalmente, l’Italia si è schierata in prima linea.  Abbiamo un
parlamento che per il 95% ha votato a favore dell’ingresso in guerra
contro l’Afghanistan. Oppure è la guerra contro Osama bin-Laden, che forse
in questo momento si sta nascondendo in uno dei rifugi fatti costruire
dalla CIA vent’anni fa.


Purtroppo, in questo contesto storico io sono molto meravigliato della
mancanza di un serio movimento per la pace. Noi proponiamo il dialogo come
alternativa alla guerra. Dobbiamo fare cultura per opporci a questa
catastrofe. Un esempio concreto in questa direzione è proprio Emergency.

Io dico
questo e poco importa se dal parlamento italiano arrivano insulti
personali gratuiti (2). L’unica forma di resistenza in questo momento è
parlare di fratellanza per evitare che si cada in una spirale di
disperazione per tutti. Spero che questo non accada mai. Dipenderà tutto
da noi. Ma dobbiamo muoverci! (3)

 (1)  
Termine per indicare le «bombe a grappolo», tipo di ordigno che,
all’impatto con il suolo, libera circa 50 bombe di dimensioni ridotte che
si sparpagliano sul terreno circostante.

(2)  Il
dottor Strada si riferisce a Silvio Berlusconi, che lo ha definito «un
uomo confuso».

(3) 
Questo intervento è stato fatto lo scorso 15 dicembre 2001 presso la
Camera del lavoro di Milano in occasione della presentazione del libro
«Afghanistan anno zero». È opportuno ricordare che questo lavoro di
Giulietto Chiesa e Vauro è stato scritto PRIMA dell’11 settembre.

 

 


A Kabul, con i nuovi padroni e i problemi di sempre



 «Non vogliamo solo speranze»

 


Musica, televisione, cinema, aquiloni. Tutto sembra tornare,
a Kabul. Ma sono questi i veri problemi? Forse è meglio concentrarsi sui
diritti e sulla rappresentanza all’interno dei nuovi organismi statali,
dicono le donne afghane. Con o senza burqa.

 

Kabul.
Nella capitale afghana è tornata la musica; qua e là spuntano antenne
paraboliche; si vedono di nuovo i libri e i bambini possono giocare con
gli aquiloni senza rischiare una severa punizione. Tutto cambia, ma le
donne restano invisibili. Le strade sono affollate di uomini, mentre le
afghane continuano a camminare rasentando  i muri, nascoste sotto i loro
burqa, nonostante la vittoria dell’Alleanza del nord.

In un
negozio di televisioni, aperto a tempo di record, incontriamo Soraja: sta
scegliendo un videoregistratore. E il televisore? «L’abbiamo tenuto
nascosto durante tutti questi anni, ma adesso possiamo utilizzarlo senza
paura». E come mai un videoregistratore? «Un passatempo per noi donne, che
dobbiamo restare in casa».


SHAMSIA
E RAHIMA,

DONNE E
MEDICI

Negli
anni dei talebani (1996-2001) le donne hanno potuto lavorare solo in casi
eccezionali e solo a contatto con altre donne. Se le possibilità di lavoro
erano così strettamente limitate, il problema dell’educazione e della
formazione delle bambine era risolto con il divieto alle ragazze di
studiare. La sanità poi era un vero dramma. All’inizio tutti gli ospedali
furono interdetti alle donne, poi furono ricavati degli spazi a loro
dedicati.


Un’amica giornalista italiana, che per girare inosservata (per quanto sia
possibile a degli occidentali), ha scelto di muoversi sempre con un velo
sulla testa, ci racconta: «Tre anni fa avevo trovato a Kabul una
situazione disastrosa: nel reparto di ginecologia di un ospedale le donne
venivano dimesse circa un’ora dopo il parto (quasi certamente si trattava
di situazioni complicate, altrimenti non avrebbero fatto ricorso alla
clinica, ndr), per lasciare il posto ad altre donne in attesa (a volte già
con le doglie) sulle panche di legno nel cortile dell’ospedale».

La
strada che porta all’ospedale Rabia Balki è affollatissima, frotte di
donne, con il burqa alzato sulla fronte, si accalcano contro il portone di
ferro che separa la strada dal cortile dell’unico ospedale per donne di
Kabul. In realtà ce n’è un altro, ma solo per problemi ginecologici.
Questo, invece, tratta tutte le patologie e c’è anche un reparto
chirurgico. È un grande edificio (un po’ fatiscente, ma abbastanza pulito),
suddiviso in stanze con 6/8 letti ciascuna, sala operatoria, ambulatori,
65 medici (tra cui 5 maschi) per un totale di 250 degenti.

Shamsia,
camice rigorosamente bianco e velo trasparente viola, è una delle
chirurghe. È arrivata all’ospedale due anni fa, appena finiti gli studi.
Ha frequentato, all’università di Kabul, l’unica facoltà rimasta aperta
alle donne: quella di medicina, indispensabile visto che le pazienti
possono essere visitate solo ed esclusivamente da altre donne. Anche se
adesso in questo ospedale si fa un’eccezione per i 5 medici maschi.

Rahima
è invece la direttrice sanitaria e medico internista. Shamsia e Rahima
dicono di non aver mai avuto particolari problemi per il loro lavoro in
ospedale. I problemi con i talebani erano quelli di tutte  le donne
afghane. E ora? Per loro non è cambiato nulla con l’arrivo a Kabul degli
uomini dell’Alleanza del nord, ma sperano in un cambiamento. E sono in
spasmodica attesa dei risultati della conferenza di Bonn (conclusasi con
un accordo lo scorso 5 dicembre, ndr), anche se l’Onu ha già fallito molte
volte nel tentativo di trovare una soluzione per l’Afghanistan.

Che
cosa si aspettano? «Un governo rappresentativo di tutti, che possa portare
la pace» dice Rahima, mentre Shamsia concorda. Con la partecipazione dei
talebani?  «Devono partecipare tutti, tranne i gruppi armati che hanno
combattuto per 23 anni (sia talebani che  mujaheddin) distruggendo il
paese. Sono loro i responsabili di questa catastrofe, quindi devono
restare fuori dal governo».


Un’utopia, anche se, contrariamente ad altre donne, come quelle di Rawa («Associazione
rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan») che contestano tutti i
fondamentalismi, Shamsia e Rahima non pensano ad un governo laico, ma
islamico: «Siamo un paese musulmano e l’oppressione della donna non
dipende certo dal corano. Diversamente da quanto credete voi occidentali,
il corano non impone l’adozione del velo, ma si limita a raccomandare che
il corpo della donna non sia oltremodo scoperto. Soltanto in un versetto
si parla di velo come elemento di abbigliamento. Altrove il  libro fa
riferimento al velo in quanto indumento indossato per tutelare il pudore
femminile».

Sperano
invece che torni il re deposto ed in esilio a Roma, Zahir Shah. Ma non è
troppo anziano? «Non importa l’età, contano  l’esperienza e le capacità
intellettuali». E le donne? «Le donne sono oltre il 50 per cento della
popolazione e devono avere una partecipazione almeno al 25 per cento nei
luoghi di decisione». E Rahima, come molte altre afghane, contesta la
rappresentatività delle donne che partecipano alla conferenza di Bonn:
«Non sono presenti donne che hanno vissuto in Afghanistan in questi anni.
Quelle andate a Bonn hanno vissuto fuori dal paese».

E il
burqa? Per Shamsia e Rahima  non è la priorità, come lo sono invece
l’educazione e il lavoro. Rispondono con una certa insofferenza, stanche
che molti occidentali vedano nel burqa il simbolo dell’oppressione.
Naturalmente non lo portavano prima dell’avvento dei talebani, ma ora è
diventato un modo per garantirsi la sicurezza. E c’è da giurare che non
saranno di certo i mujaheddin dell’Alleanza a garantire alle donne la
libertà di decidere se portarlo o no.



DOPO IL BURQA, I DIRITTI

Molte
donne afghane non vog

Davide Casali




La morte è morte (ma non è sempre uguale)


Attentati, bombe, guerra e messaggi di guerra. In questi ultimi mesi la morte è entrata nelle case e nei discorsi della gente.

Riflettendo sulla «morte dolce», mi sono venute in mente alcune morti alle quali ho assistito personalmente ed altre su cui ho provato a ragionare.

È vero: la morte è morte e basta. Ma così, quasi per vezzo, ho provato a mettere ordine alla mia esperienza dando un aggettivo ad alcune di esse. L’ho fatto, come mia abitudine, parlando prevalentemente di cose concrete e senza pretendere di dare giudizi, che non competono a nessun medico. Noi medici, in fondo, siamo solo persone che accompagnano la vita di ciascuno sulla base della cultura della comunità, della tecnologia a disposizione, della porzione di finanziamenti messaci a disposizione dalla società e dall’intuito che a volte accompagna i migliori di noi.

La morte prima

Il mio primo morto lo ricorderò per sempre.

Viveva in un isolato all’altro lato della piazza del quartiere di Villa El Salvador (Perù) nel quale da poco mi ero trasferito provenendo direttamente, e fresco di studi universitari, da Roma dove ero cresciuto ed avevo studiato.

Saranno state le due o tre di notte e sentii bussare freneticamente alla porta. Mi alzai e, rendendomi conto dell’agitazione della persona che mi cercava, mi infilai un paio di pantaloni e, con la borsa da medico alle prime armi, le corsi dietro.

Era già morto (probabilmente un infarto). Tutti mi chiedevano di fare qualche cosa e, nella coscienza di ingannare me stesso e gli altri, iniziai un inutile tentativo di massaggio cardiaco. La gente, sicuramente più cosciente di me dell’inutilità di quanto stavo facendo, mi incitava a continuare gridando disperatamente il nome del morto, sperando forse in un miracolo. Aveva una cinquantina d’anni e morire a quest’età, lasciando moglie e figli, era percepito come un tradimento. Quella morte non doveva succedere. Ma la morte (probabilmente) è indifferente alla volontà dei vivi.

La morte falsa

Un’altra volta, sempre di notte, mi chiamarono (perché mai si muore più spesso di notte?) perché un giovane era moribondo. Corsi come sempre disarmato e mi trovai nel bel mezzo di una festa a base d’alcornol, con la musica assordante che continuava ad uscire da uno sgangherato ma efficiente stereo e con la gente che urlava, minacciandomi. Un giovane apparentemente in coma era disteso su di un letto, circondato da familiari ed amici.

Mi misi ad urlare più di loro, cacciai via tutti e, non ricordo come, riuscii a fargli vomitare i litri d’alcornol che aveva in corpo.

Venni trattato come il più grande medico, ma non ne fui orgoglioso.

La morte improvvisa

Mi lasciò molto perplesso trovare un bambino morto, quella volta che mi chiamarono (sempre di notte). Erano due gemellini; uno di loro si era addormentato senza risvegliarsi. Morte improvvisa?

Il bambino era ben curato, di poco più di un anno, grassottello, i lineamenti sereni. Sembrava addormentato.

La morte prima della nascita

Era buio, ma non ancora notte. Il bambino era nato morto in una baracca, forse assistito da una partera, che nulla aveva potuto fare. In realtà, il bimbo era già morto nell’utero.

Mi chiesero di non fare alcun certificato, perché non avevano i soldi per portarlo al cimitero ufficiale. Non lo feci e quel bimbo (che mai era nato) non morì mai.

La morte ingiusta 1 (una delle tante)

Arrivò correndo al mio ambulatorio una madre con un involtino fra le braccia. Tutti i pazienti in attesa urlarono che c’era un’emergenza e la donna appoggiò il fagotto sul lettino e, aprendolo, scoprì il corpicino di un bimbo denutrito ed ormai freddo.

Quella volta urlai contro la donna. Urlai che io ero in ambulatorio sempre e che lei non poteva portare il piccolo solo all’ultimo momento. Urlai che cosa voleva da me, che io ero un medico e che forse avremmo potuto salvarlo. Urlai (lo dico a mia discolpa) perché non era giusto e urlerei ancora adesso (ogni volta che ricordo quel fatto, mi viene un nodo in gola) perché, se la morte è ingiusta, non penso che si possa trovare pace.

Forse il mio urlo era rivolto contro questo nostro mondo, ma solo quella madre disperata (e forse incosciente) ed un piccolo gruppo di pazienti in attesa mi potevano sentire.

La morte ingiusta 2 (un’altra delle tante)

Era una bimba piccola e denutrita. La madre ce l’aveva portata e non eravamo riusciti a salvarla.  Avevamo però lottato insieme a lei e insieme avevamo perso.

Ero andato a visitarla nella sua baracca e la bimba giaceva vestita di bianco, il volto si era rasserenato ed era quasi bella (i bambini denutriti sono sempre brutti).

Avevo notato che la madre non piangeva e le chiesi perché.

Mi rispose molto dignitosamente che la bimba non aveva ancora vissuto e che, quindi, non poteva lasciare il vuoto che lascia un anziano quando muore. Lo capii, sinceramente, anche perché sapevo che la madre aveva lottato per farla vivere.

La morte ingiusta 3 (ancora una)

Maria Elena (sì, proprio quella che morì di morte assassina per mano di Sendero Luminoso) un giorno arrivò correndo a casa mia. L’accompagnava un’altra donna e fra le braccia aveva un piccolo bambino.

«Sono arrivata troppo tardi – mi disse appena entrata -, ho sentito l’anima del piccolo sfuggirmi».

Il bambino era morto fra le sue braccia e, nel suo sguardo profondo, capii il suo immenso dolore e la sua grande sorpresa. Il bambino era figlio di una donna che aveva incontrato per strada e che stava cercando un medico.

La morte giusta

Mia nonna è morta a 97 anni. Sapeva che era giusto morire e quasi desiderava raggiungere mio nonno, ma…. era attaccata alla vita e non voleva farsi vincere dalla morte. Ha lottato fino all’ultimo, non perché non voleva morire, ma perché voleva vivere.

Questo è bello e giusto.

La morte desiderata

L’assistente sociale (e torniamo in Perù) mi aveva avvisato che in una casa nelle vicinanze dell’ambulatorio c’era un vecchietto e che da tempo i familiari dicevano che doveva morire.

Andai a casa sua e, entrato, mi abituai lentamente all’oscurità. C’era un letto e su questo era disteso un vecchio avvolto dalle coperte.

Gli parlai serenamente e gli chiesi che cosa aveva. «Sono vecchio – mi rispose – e mio figlio non aspetta altro che la mia morte; ma io non ho nessuna intenzione di morire».

«Che problema c’è?» chiesi. Mi mostrò allora la cassa da morto preparata al suo fianco, lamentandosi per questa stupida spesa che suo figlio aveva fatto con troppo anticipo.

Aiutai in quell’occasione l’assistente sociale a portare via la cassa e, lasciata la casa, non potei che aggiungere quest’altra esperienza (la fantasia dell’uomo è senza limiti) alla mia collezione di «cose umane».

La morte assassina

Maria Elena è stata uccisa da Sendero Luminoso.

Due colpi di pistola davanti ai propri figli e poi un candelotto di dinamite per fare a pezzi il suo corpo nel tentativo di fare a pezzi la sua memoria. Più tardi un altro candelotto per distruggere la sua tomba.

Maria Elena  aveva trent’anni. Era una bellissima ragazza negra, una dirigente popolare sincera e preparata, una leader politica di sinistra e rivoluzionaria, cosciente e democratica, un’amica.

Maria Elena vive nei nostri cuori, Sendero Luminoso è morto.

La morte per chi rimane

Don Rubio era un dirigente popolare e viveva a lato della mia casa. Un cancro lentamente l’ha portato via. Alla sua morte la gente si è riunita intorno alla salma e, chiacchierando, ha ricordato passo passo la storia vissuta con lui.

Le avventure, le lotte, gli scioperi, gli scherzi, le risate. Insomma la vita.

Dopo una notte passata a vegliare la salma, a bere e a mangiare, i suoi resti sono stati portati a spalla da una casa all’altra e tutti si sono fermati per un ricordo ufficiale al centro della piazza, dove spesso aveva arringato la folla.

La morte sulla coscienza

Ero stanco quella sera. Bussò un signore e mi disse di un bambino che stava male. Gli diedi alcuni suggerimenti e mi feci dare l’indirizzo per visitarlo la mattina successiva.

La mattina trovai la famiglia che vegliava il bimbo morto.

Perché, perché, perché… non mi ero mosso quella sera come avevo fatto tante volte? Quante volte mi sono ripetuto la domanda! Non ho mai trovato una risposta che potesse assopire la mia coscienza.

La morte cercata

La libertà che ha l’uomo è immensa. La decisione più estrema è il suicidio. Ricordo che in gioventù avevo assistito ad una messa nella quale un curato di campagna aveva negato il cimitero cattolico ad un suicida.

Per il nostro ordinamento il suicidio non è più un reato da tanti anni. Rimane reato, e mi pare giustissimo, l’istigamento al suicidio.

La nostra libertà è immensa e nessuno può essere giudicato per l’uso della propria libertà, quando ciò non limiti o condizioni la libertà degli altri.

La morte violenta

Morire per strada è esperienza che ha toccato i sentimenti di molti di noi.

È la prima causa di morte fra i venti ed i trent’anni. È una morte che grida vendetta perché spesso causata da nostra leggerezza.

In Perù è ancora più frequente; un paese povero è anche un paese nel quale le auto hanno le gomme lisce, i freni possono non funzionare, i semafori sono scarsi, gli autobus sovraffollati e vedere morti per strada coperti di fogli di giornale è esperienza quotidiana.

Non mi piace questa morte.

La morte in ospedale

Nel territorio dell’ospedale che contribuisco a dirigere, muoiono circa 1.500 persone all’anno (quelle che nascono sono meno).

Di queste, più del 60% muoiono in ospedale, altre nelle case di riposo e un piccolo numero anche in casa (forse il 20, massimo il 30%; tra l’altro, se si è ammalati terminali, è anche molto costoso morire in casa).

Noi non siamo più capaci di convivere con la morte.

La morte dolce

L’eutanasia è un problema di noi ricchi, non dei paesi poveri.

È facile morire in Perù, come è facile nascere. Più difficile è vivere e, se si muore anziani e/o malati, lo si fa in silenzio e senza tante discussioni. Le terapie del dolore sono un lusso e morire negli ospedali è uno spreco.

No, non sono d’accordo con l’eutanasia, pur conoscendo la sofferenza. Non mi sento però di giudicare chi decide autonomamente di fare propria l’estrema libertà di cui disponiamo. Però diverso è farne una professione.

Noi medici lavoriamo per la vita e solo per questa dobbiamo spendere le nostre forze senza accanirci contro la morte che ci aspetta sempre e che è parte della vita stessa.

La morte mia

Un ragazzo con tubercolosi, che ero riuscito a ricoverare, è stato dimesso perché oramai doveva morire. È morto solo nella sua baracca. Vomitando sangue.

Non conosco la morte in guerra. Me ne hanno parlato i miei nonni e spero di non raccontarla mai a mio figlio.

Quando morirò, se i miei amici vorranno sedersi intorno a quello che resta di me e ricordarsi della vita vissuta insieme e se lo faranno ridendo e bevendo un buon bicchiere di vino, saranno i benvenuti. Se poi invece, per la fretta della nostra vita, non avranno il tempo di farlo, non ne serberò rancore.

E ancora io dico pubblicamente: se servissero, prendete i miei organi, le cornee ed i tessuti che possano aiutare a dare vita a qualche altra persona. La vita continua anche dopo la morte.

Guido Sattin


L’antrace e le guerre dimenticate

I morti dei vincitori e quelli dei perdenti

L’emergenza carbonchio (comunque limitata a pochi casi) è stata affrontata con grande clamore, mentre per Aids, malaria, tubercolosi, febbre gialla, dengue, colera…

Sul treno che da Venezia mi porta a San Donà di Piave (dove ha sede uno degli ospedali nei quali lavoro) si è formato un interessante gruppo di pendolari che, nella mezz’ora di viaggio, si scambiano liberamente le impressioni sul mondo. Siamo medici, psicologi, ingegneri, bancari, funzionari pubblici e privati ed un portiere di notte di un albergo di Venezia, che smonta dal lavoro quando noi andiamo verso il nostro.

Gino è uno del gruppo. È un veterinario con un’esperienza di tanti anni alle spalle. È stato proprio lui a raccontarci del carbonchio, degli animali che ricorda aver visto con questa antica malattia, di alcuni pascoli vietati nella zona di Belluno a causa della sua presenza.

In treno discutevamo con stupore ed incredulità sulle notizie relative al primo caso di terrorismo «biologico» nella storia dell’umanità e cercavamo di ricostruire nella memoria le nostre conoscenze sul carbonchio senza, in verità, ricordarci molto.

Nei nostri ricordi, il carbonchio era una malattia degli erbivori, che solo raramente veniva trasmessa all’uomo e che fondamentalmente colpiva addetti ai lavori (pastori, allevatori, addetti alla macellazione) con una forma cutanea benigna e sensibile alla terapia. Ricordavamo anche una forma intestinale, per consumo di carni infette, e sinceramente nessuno di noi conosceva la forma polmonare.

In Perù, nell’anno 2000, ci sono stati 43 casi di carbonchio cutaneo e intestinale, mentre nei paesi dove vi è un controllo costante ed effettivo della produzione degli alimenti, la malattia umana è pressoché scomparsa.

È quindi una malattia animale, detta anche antrace, dovuta ad un batterio che sopravvive nell’ambiente sotto forma di spora. Nulla di preoccupante, quindi? Tutto sotto controllo? Sì, tutto sotto controllo. Apparentemente. La fantasia distruttiva dell’uomo ha però individuato in questo bacillo e nella sua spora uno strumento di guerra.

Il ragionamento è semplice. Le spore in natura si trovano, in concentrazione molto bassa, in alcuni terreni. È bastato moltiplicarle, renderle in qualche modo più leggere, concentrarle ed ecco che una malattia animale si può trasformare per l’uomo in una temibile infezione polmonare. Dato poi che la fantasia non ha limiti, inserire queste spore leggere in buste della posta ed inviarle a casa delle vittime prescelte, è un gioco quasi da ragazzi.

Se poi le vittime sono le segretarie che aprono le buste ed i postini che distribuiscono la posta, questi sono solo risultati collaterali di una follia che non ha pari e le cui origini nessuno di noi ancora conosce.

No, non mi terrorizza tutto questo, semplicemente mi lascia allibito. Che nei confronti di questo attacco batteriologico si dovesse rispondere con la massima energia, non vi è alcun dubbio. Ma qualche domanda… permettetemi… mi sovviene.

L’antrace, la peste, il vaiolo, il virus Ebola… quante saranno le armi batteriologiche pronte ad ammazzare in maniera casuale e indiscriminata?

Ma, oltre ai responsabili diretti delle azioni (assassini come coloro che hanno fatto crollare le Torri gemelle), quali sono le responsabilità di chi ha studiato e prodotto per anni queste armi in laboratori, più o meno segreti, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Chi ha venduto le tecnologie a paesi terzi? Chi si è rifiutato di firmare la convenzione sulla messa al bando delle armi batteriologiche?

E poi ancora una domanda: perché gli Stati Uniti (colpiti da questo attacco) hanno ottenuto di acquistare gli antibiotici (il «Cipro») a prezzo scontato, dietro la minaccia di togliere il brevetto alla società produttrice (la Bayer), mentre non si riesce ad ottenere la stessa cosa per altre epidemie? (*)

La guerra quotidiana all’Aids, alla malaria, alla tubercolosi… le milioni di vittime di queste tre malattie (per non parlare delle altre più dimenticate, come le diarree infantili, la febbre gialla, il dengue, il colera e chissà quante altre) forse avranno ottenuto meno finanziamenti della produzione dell’antrace nei laboratori di chi ora ne è vittima.

Si sa, i morti dei vincitori pesano sempre più di quelli dei perdenti; quelli poi di chi nasce perdente, non trovano neanche chi osi contarli.

La guerra al terrorismo va fatta, anche duramente. Quella alla povertà è una guerra dimenticata.

(*) Nella riunione dello scorso novembre, a Doha, l’Organizzazione mondiale del commercio ha dovuto fare qualche concessione in materia di brevetti farmaceutici. Ne parleremo prossimamente.

Guido Sattin