IL GIGANTE IN TRAPPOLA

La Rete di Lilliput è nata nel 1998 dall’incontro tra
alcune associazioni nazionali (Aifo, Ctm, Mani Tese,
Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Wwf Italia, Rete
Radiè Resch, Centro nuovo modello di sviluppo, ecc.),
la rivista Nigrizia e diversi promotori di campagne nazionali di pressione e sensibilizzazione (Chiama l’Africa,
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Banca Mondiale,
ecc.).
Il nome e il significato di «Rete di Lilliput» derivano
da un’analogia ed una riflessione. Nella favola «I viaggi
di Gulliver» (1725), dello scrittore e politico irlandese
Jonathan Swift, i minuscoli «lillipuziani», alti appena
pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante
molto più grande e potente di loro,
legandolo nel sonno con centinaia di fili.
Gulliver avrebbe potuto schiacciare
qualsiasi «lillipuziano» sotto il suo stivale,
ma la fitta rete di fili lo immobilizza
e lo rende impotente (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 2000).
D i fronte a poteri schiaccianti e istituzioni
globali, cittadini e associazioni
possono usare le forze modeste di
cui dispongono ed unirle a quelle di altri individui
e movimenti in vari luoghi. Il sogno è che
tanti gruppi, presenti in ogni angolo del paese, diventino
una grande voce, capace di farsi sentire e incidere
sulle scelte economiche che stanno alla base dei gravi
problemi sociali e ambientali che affliggono il pianeta.
In concreto, la Rete di Lilliput crea collegamenti con
tutte le realtà locali e nazionali che già operano nell’economia
di giustizia, nella non-violenza, nella difesa
dell’ambiente e nei diritti umani, per rendere più efficace
la promozione di nuovi stili di vita, la denuncia dei
rischi sull’ambiente di scelte politiche (che dovrebbero
invece contribuire allo sviluppo sociale). La Rete promuove
pressioni su governi e istituzioni nazionali e inteazionali,
affinché intraprendano iniziative concrete
per la pace e il benessere dei popoli.
I «lillipuziani» non sono mancati alle principali mobilitazioni:
per esempio, durante il vertice dei G8 a Genova,
quello di Mobilitebio nel 2000, la marcia per la
pace Perugia-Assisi nel dicembre scorso. I «lillipuziani»
hanno partecipato ad entrambe le edizioni del World Social
Forum di Porto Alegre (Brasile).
O ggi in Italia esistono 69 «nodi» della
Rete di Lilliput: sono il riflesso di
una presenza omogenea sulla nazione
e la prova di un forte incremento numerico
nel corso di questi anni (in
particolare si è registrata una crescita
alta in occasione dei G8 di Genova).
Nei «nodi» operano gruppi, associazioni
e individui, che non si sono dati regole
scritte o un’organizzazione formale,
ma decidono secondo il consenso generale in
assemblea. Esistono «gruppi tematici di lavoro» che
hanno carattere nazionale; ad essi partecipano persone
aderenti a un «nodo» e particolarmente interessate
all’argomento.
Il gruppo tematico più «antico» è quello sull’«impronta
ecologica e sociale». È già attivo uno nuovo, che
si occupa di non-violenza e conflitti. Altri gruppi sono
stati promossi durante l’assemblea di Marina di Massa.

Luca Graziano e Cristina Coppo




«PUNTI» E «NODI»…PER LEGARE ANCORA DI PIÙ

RETE DI LILLIPUT
la grande assemblea di Marina di Massa

Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».
Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».

NON-VIOLENZA SEMPRE
«Jambo a tutti i lillipuziani!». Con
questo saluto affettuoso di padre Alex
Zanotelli, si è aperta la seconda
Assemblea nazionale della «Rete di
Lilliput», svoltasi a Marina di Massa
il 18-20 gennaio 2002.
Era un appuntamento molto atteso.
Centinaia di gruppi e persone, che
da oltre due anni lavorano insieme
per una economia di giustizia, sentivano
il bisogno di riflettere sul proprio
cammino, anche perché il 2001
fu un anno drammatico. Le violenze
inaudite durante il vertice dei G8 a
Genova e l’incredibile tragedia
dell’11 settembre negli Stati Uniti
(con la guerra in Afghanistan) hanno
scosso l’animo fortemente pacifista
della Rete di Lilliput.
L’incontro di Marina di Massa ha
ribadito, in modo netto, l’opzione
della non-violenza come scelta strategica.
Questa ha rappresentato il filo
conduttore dei lavori, che si sono intrecciati
nei tre giorni di dibattito.
Sulla non-violenza è intervenuto
un gruppo di lavoro specifico: ha
programmato un percorso di formazione
teorica e pratica, con lo scopo
di fornire alcuni nuovi strumenti di
comunicazione; ha indicato un modo
più consapevole di stare in piazza e
progettare le mobilitazioni. Per concretizzare
quella che rischia di essere
solo un’adesione ideale a principi, si
prevede di organizzare gruppi di azione
non-violenta distribuiti sul territorio.

UNA «RETE» ARTICOLATA
Uno scoglio da appianare è stato
quello dell’organizzazione. La Rete
di Lilliput in questi anni si è estesa e
il contesto si è fatto più complesso;
da molti membri si avverte l’esigenza
di darsi una struttura, di individuare
dei ruoli, pur non perdendo di vista
la volontà di arrivare sempre a «decisioni
comunitarie», frutto del pensiero
della totalità dei lillipuziani.
Infatti uno dei punti cardine della
Rete di Lilliput, oltre alla non-violenza,
è la democrazia partecipativa, che
si manifesta nel dare a tutti la possibilità
di incidere nelle scelte, senza
creare sovrastrutture o ruoli di leadership.
Obiettivo non facile da rag-giungere, vista la vastità e capillarità
della Rete sul territorio italiano.
Il cammino decisionale è iniziato
a settembre dello scorso anno, con
il dibattito all’interno di ogni singolo
«nodo» della Rete, che ha visto una
prima sintesi negli incontri regionali.
Questi si sono svolti a Milano,
Firenze e Roma, rispettivamente
per i «nodi» del nord, centro e sud
della penisola; hanno prodotto dei
documenti che sono stati portati all’Assemblea
di Marina di Massa e
discussi in un apposito gruppo.
Nel gruppo si sono confrontati i
referenti di ogni «nodo», tutti accompagnati
da un osservatore. Il risultato
è confluito in un documento
di 11 punti, che raccolgono i principi
basilari e i criteri condivisi da tutti
gli aderenti alla Rete. Fra questi: la
non-violenza, il rifiuto del personalismo,
la professionalità nell’impegno
politico, la fiducia reciproca, l’esauriente
e rapida circolazione delle
informazioni.
Si è definito il «punto» di Lilliput,
che rappresenta il primo momento
di incontro per le realtà locali, dove
non esiste ancora un «nodo» articolato.
L’evoluzione dei «punti» è rappresentata
dai «nodi», elementi fondanti
della Rete: essi sono luoghi di
incontro per associazioni, gruppi e
singoli, aventi il compito di estendere
la Rete nelle realtà locali, portandovi
contemporaneamente la dimensione
nazionale e quella internazionale.
Ogni «nodo» gode di una
propria autonomia e non è auspicabile
l’adesione ad esso di partiti politici
o sindacati.
Vi è poi l’Assemblea nazionale
(come quella di Marina di Massa),
cui è affidato il compito di verificare
il percorso fatto e di proporre iniziative
per l’anno successivo. L’Assemblea
si tiene con decorrenza annuale
ed è aperta a tutti.
A livello nazionale esistono pure i
«gruppi tematici di lavoro», aperti
a tutti, con il compito di approfondire
gli argomenti ritenuti importanti
per la Rete (non-violenza, ecologia,
economia di giustizia); inoltre
propongono iniziative concrete.
Infine, a Marina di Massa, la Rete
ha raccolto i temi delle campagne di
mobilitazione generale del passato.
Si sono organizzati gruppi di lavoro,
per fare il punto sulle attività presenti
e discutere gli impegni da privilegiare
quest’anno.

ECOLOGIA E BANCHE ARMATE
Ebbene, che sta facendo e cosa intende
fare la Rete di Lilliput?
Circa la cosiddetta «impronta e-cologica e sociale», è in corso il progetto
«pagine arcobaleno»; esso mira
a censire l’offerta di servizi e prodotti
rispondenti a criteri di eticità e
compatibilità ambientale, per offrire
strumenti utili (database on line e
guide regionali) sui produttori e fornitori
di beni a chi è attento alla qualità
dei propri consumi.
Questo si inserisce in un più ampio
percorso di formazione e sensibilità
verso il mercato; vorrebbe favorire
un cambiamento degli stili di
vita, a partire dalla propria quotidianità,
e aprire un approfondito
dibattito su nuovi indicatori di benessere,
in grado di dare strumenti
adeguati ai decisori politici e alla società
civile, ridimensionando la funzione
del prodotto interno lordo.
È già stato fatto un lungo lavoro di
elaborazione teorica, che ha portato
alla formulazione di un sistema di indicatori
che tengano in considerazione
anche i parametri ambientali e
sociali, oltre a quelli economici. Il
progetto è stato anche presentato al
Forum sociale mondiale di Porto Alegre
in un laboratorio organizzato
dalla Rete di Lilliput.
Analizzando gli aspetti più commerciali
e finanziari, un gruppo di
lavoro ha individuato nella campagna
«banche armate» un possibile
tema unificatore del lavoro di tutti i
«nodi». Considerata l’attuale situazione
di guerra e ribadita la scelta di
non-violenza, è emersa come urgente
la necessità di spostare risorse dalle
armi ad altre attività.
Pertanto si continuerà l’opera di
pressione sulle banche: si chiederà
maggiore trasparenza sugli investimenti
e si solleciterà che non siano
più finanziate attività legate al traffico
d’armi, mettendo in rilievo le
conseguenze drammatiche che il fenomeno
ha nei paesi del Sud del
mondo. Inoltre è stato proposto di
chiedere il disimpegno dal settore
«armi» alla Sace (Agenzia italiana di
credito all’esportazione), che copre
con fondi pubblici i rischi degli investitori
privati all’estero.
La campagna «banche armate» si
inserisce in un più ampio progetto
di opposizione alla guerra. I lillipuziani
si impegneranno per la «resistenza
» alla guerra dei cittadini e cittadine,
per l’obiezione alle spese militari,
nonché per la partecipazione
a missioni inteazionali di pace.
IL MONDO DEL PALLONE
Se, data la politica degli organismi
inteazionali, è sorto un gruppo di
lavoro nazionale per monitorare i
negoziati dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), Lilliput
non dimentica l’aspetto dell’agire
locale. La «lente sulle imprese» ha
ricordato la necessità di scrutare l’operato
delle ditte operanti sul nostro
territorio, dopo un’adeguata formazione
sulle tecniche di raccolta dei
dati.
A questo si affiancherà una campagna
di mobilitazione in vista del
campionato mondiale di calcio, avente
come scopo la denuncia delle
multinazionali negative che sponsorizzeranno
l’evento e la pressione,
affinché la Fifa adotti i principi del
Codice di condotta del 1996, concordato
con il sindacato internazionale
e mai sottoscritto…
Tanti progetti in cantiere, quindi,
per una rete che sta crescendo e ha
voglia di far sentire la propria voce.
Gli stimoli e l’entusiasmo scaturiti
nei giorni di Marina di Massa sono
stati davvero arricchenti.
Ora si tratta di rimboccarsi le maniche
e lavorare sulle tematiche individuate,
portando in casa e città…
«ancora una volta la voglia di agire
concretamente per un cambiamento
globale dal basso, che terrà uniti
i percorsi individuali e di gruppo,
per la costruzione di un mondo diverso
e sicuramente migliore» (dalla
dichiarazione finale,
accolta con un lungo applauso).

Luca Graziano e Cristina Coppo




LOTTE DI SUCCESSIONE

Colonia francese dalla fine del secolo
XIX, la Costa d’Avorio ottenne l’indipendenza
nel 1960. La stabilità politica,
garantita all’autoritarismo patealista
del presidente Félix Houphouët-
Boigny, e la manodopera a buon mercato
attirarono nel paese gli investimenti
inteazionali, procurando una
crescita economica pari quasi al 10%
annuo. Ma a partire dal 1979, tale crescita
fu azzerata dalla recessione dell’Occidente:
il debito estero fu quadruplicato,
siccità e calo dei prezzi dei prodotti
di esportazione (cacao, caffè,
cotone, zucchero…) aggravarono la crisi
economica del paese.
Gli «aggiustamenti strutturali» imposti
dal Fondo monetario per raddrizzare
la situazione appannarono la figura
del presidente, che nel 1990 aprì la
strada alla democrazia pluralistica.
Nel 1993, la morte di Boigny (88 anni,
33 di potere incontrastato) innescò
la lotta per la successione. Lo sostituì il
presidente dell’Assemblea nazionale,
Henri Konan-Bédié, che costrinse il contendente,
il primo ministro Alassane
Ouattara, a dare le dimissioni. Passato
all’opposizione, questi fondò il Raggruppamento
dei repubblicani (Rdr), appoggiandosi
a musulmani e stranieri. Ma
le elezioni presidenziali del 1995, boicottate
dall’opposizione, furono stravinte
da Bédié, che, per mettere del tutto
fuori il suo rivale, fece una legge, poi
inserita nella costituzione e approvata
con referendum, che dichiarava ineleggibile
alla presidenza chi non avesse entrambi
i genitori di origine avoriana.
Nato nel nord della Costa d’Avorio
(1942), ma da un capo tradizionale
dell’Alto Volta (oggi Burkina Faso),
Ouattara trascorse la giovinezza nel
paese paterno, studiò negli Usa e lavorò
nel Fmi come voltaico, finché riapparve
sulla scena politica avoriana nel 1982.
I suoi avversari lo dicono «venuto non
si sa da dove»; ma lui sostiene che gli
si nega la candidatura alla presidenza
«perché musulmano e uomo del nord».
Nelle varie tornate elettorali (presidenziali,
parlamentari e municipali), lo
sventolio della bandiera dell’«avorianità
» da parte dei politici continuò a
esasperare le tensioni, provocando
scontri etnici e religiosi: tra il 1999 e il
2000 si sono avute oltre 300 vittime,
senza contare il danno economico causato
dalla fuga di decine di migliaia di
lavoratori stranieri. In tale contesto, nel
natale 1999, avvenne il colpo di stato
militare, in cui il generale Guéi s’impose
come garante dell’ordine. Salutato da
Ouattara e compagni come «una rivoluzione
dei garofani», tale evento aggravò
i disordini, rischiando di sfociare in
guerra civile.
Alle elezioni presidenziali dell’ottobre
2000, boicottate dall’opposizione,
Guéi si dichiarò vincitore, ma le
proteste scoppiate in varie città e il responso
del Comitato per le elezioni diedero
ragione allo sfidante, Laurent
Gbagbo, capo del Fronte popolare avoriano,
eletto col 59,3% dei voti.
Per ricomporre l’unità del paese,
Gbagbo convocò un Forum per la riconciliazione
nazionale, che si svolse da ottobre
a dicembre 2001. I 750 rappresentanti
di partiti, gruppi religiosi, sindacati,
amministrazioni locali e
associazioni varie hanno esposto le proprie
idee e suggerito soluzioni per risolvere
la crisi sociale, politica ed economica
del paese. Le proposte sono state
consegnate al presidente, cui spetta
metterle in atto. Tra le varie raccomandazioni
figura anche quella di restituire
piena cittadinanza avoriana a Ouattara.
La calma sembra tornata nel paese;
ma Ouattara continua a pestare i piedi,
reclamando nuove elezioni.

Benedetto Bellesi




LA PACE NON PUÒ ATTENDERE

Guerriglieri senza scrupoli e squadroni della
morte, entrambi considerati anche terroristi.
Narcotrafficanti, corrotti, impuniti, profughi,
disoccupati… E soprattutto tanti morti
ammazzati. Di fronte alla violenza, il governo
è troppo debole? E la chiesa poco profetica?

Ho dovuto lasciare la Colombia
per motivi di salute. Potrei
parlare di questa mia
ultima esperienza, dura e improvvisa.
Oggi, come non mai, mi sento
nelle mani di Dio… Se detto queste
considerazioni sul paese è anche per
«distrarmi», per non crogiolarmi eccessivamente
nei miei guai. Ma non
sono «distrazioni» allegre.

Ndr: Padre Claudio Brualdi allude
alla propria maculopatia, che improvvisamente
l’ha reso quasi cieco.
All’origine della malattia c’è il diabete,
ma anche l’intenso stress cui il
missionario è stato sottoposto in Colombia.
Superiore dei missionari della
Consolata nel paese, padre Claudio
si è dovuto dimettere dal servizio.

IL DISTACCO DELLA GENTE
È arduo presentare la Colombia.
La nazione sta attraversando una situazione
assai complessa: forse è all’apice
del dissesto. Fino a ieri, parlando
della Colombia, si pensava al
narcotraffico come al problema numero
uno. Il narcotraffico esiste, ed
è una questione scottante, ma con
l’aggravante di altre.
Ciò che preoccupa maggiormente
non sono solo i problemi, ma che
si stenti ad intravvedee la soluzione,
una speranza per il futuro. Si aspetta
che le cose cambino, ed invece
la matassa si aggroviglia sempre
di più. Il governo è inetto da molto
tempo: non è capace di compiere
riforme serie. Ogni quattro anni si
vota: i nuovi governanti promettono
mare e monti, ma tutto rimane
come prima. La gente ha perso la fiducia.
Alle ultime elezioni del 1998 votarono
10 milioni di persone, cioè
meno del 40%. Esiste un distacco
dalla politica: forse per questo il governo
non è in grado di attuare le
riforme giuste. In parlamento, poi,
siedono personaggi che pensano di
più ai loro interessi che ad un cambio
positivo nel paese.
L’esercito nazionale non sembra
all’altezza per fronteggiare la guerriglia:
una guerriglia di estrema sinistra,
che dura quasi da 50 anni,
oggi divenuta più aggressiva. Spiccano
due movimenti guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia) e Eln (Esercito di liberazione
nazionale). Le Farc contano
15-20 mila uomini e l’Eln 6-8 mila.
Da 7-8 anni è all’opera un’altra
forza, paramilitare di estrema destra,
fonte di guai pari (se non superiori)
a quelli causati dai guerriglieri.
I paramilitari sono cresciuti molto
in poco tempo: se, in 50 anni, la
guerriglia ha raccolto 25 mila armati,
i paramilitari in 7-8 anni sono diventati
15 mila.
Come è sorta la terza forza eversiva?
Data l’incapacità dello stato di
tutelare gli interessi dei grandi ricchi
(fra cui i «baroni della droga»),
questi (con il sostegno di alcuni generali)
si difendono da sé, assoldando
squadracce armate. Il nome è eloquente:
Autodifese unite di Colombia
(Auc).
Farc, Eln e Auc sono stati dichiarati
gruppi terroristici. Sono tre forze
che contribuiscono a fare della
Colombia, forse, la nazione più violenta
del mondo. Ormai da tempo
nel paese si contano, in media, ogni
anno 25-30 mila morti ammazzati.
Sono circa 30 i gruppi terroristici
nel mondo, e tre di questi operano
in Colombia. Pertanto uno dei
bersagli possibili dell’amministrazione
di George W. Bush (che vuole
sradicare il terrorismo dal pianeta)
potrebbe essere anche la Colombia.
Tuttavia il «caso Colombia»
è particolare, in quanto lo stato non
appoggia i movimenti terroristici.

ALCUNI NODI CRUCIALI
Le guerriglie sono ormai divenute
«storia». Sono forti non solo per
il numero dei loro membri, dotati di
armi potenti, ma anche perché possono
imporre condizioni allo stato
di diritto.
Negli ultimi quattro-cinque anni
si è manifestata una forma straordinaria
di guerriglia, che ha attaccato
i piccoli centri della nazione: nessuno
è rimasto indenne. I mezzi usati
sono rudimentali: cilindri di gas esplosivo,
imbottiti di chiodi e vari
oggetti contundenti, che scoppiano
contro persone e cose… Non sono
«bombe intelligenti»!
Gli ordigni esplodono presso le
sedi di polizia, nel cuore del paese,
vicino alle chiese. Per cui le bombe
fanno scempio pure degli edifici sacri
(cfr. Missioni Consolata, giugno
2000). Una conseguenza del terrore
è l’esodo dalle campagne verso i
centri urbani, anche perché dal
campo la popolazione non trae più
mezzi sufficienti per vivere. E le città
diventano megalopoli, circondate
da misere favelas. Ogni anno a Bogotà
arrivano circa 300 mila individui,
si dice… Nel paese si contano 2-
3 milioni di sfollati interni: devono
lasciare tutto per sfuggire alla violenza;
ma, approdati altrove, non
trovano lavoro. La disoccupazione
è al 21%.
Né si dimentichi il narcotraffico.
I cartelli di Medellín e Cali sono spariti.
Però ci sono gli eredi. E le guerriglie
controllano le coltivazioni di
coca e i ricchi traffici di cocaina.
Un altro problema gravissimo è la
corruzione politica, con fiumi di denaro.
E tutto resta impunito. Impuniti
anche i reati contro i diritti umani,
che riguardano spesso i paramilitari.
I processi iniziano, ma non
finiscono, perché di solito mancano
le prove di colpevolezza.

QUALE PROCESSO DI PACE?
Bisogna accennare anche del processo
di pacificazione. Il presidente
della repubblica, Andrés Pastrana,
ne ha fatto la bandiera del suo
governo. Non ancora eletto, si incontrò
subito con Manuel Marulanda,
capo delle Farc, sorprendendo
tutti. Qualcuno criticò il gesto.
Pastrana incominciò a governare
il 7 agosto 1998 tra grandi aspettative.
In vista della pacificazione con
la guerriglia, il presidente stabilì una
«zona di distensione», smilitarizzata:
42 mila chilometri quadrati
nel Meta e Caquetà (dove operano
i missionari della Consolata).
Fino al natale 1998 ci furono ostacoli
per iniziare i colloqui tra governo
e Farc: per esempio, a San Vicente
del Caguán, c’era un battaglione
di 1.500 soldati, che secondo
le Farc dovevano essere tutti ritirati;
ima, secondo il governo, almeno
100 dovevano restare per opere di
manutenzione. Alla fine vi fu il ritiro
di tutti i soldati; solo il sindaco
poteva restare. Intanto si organizzò
una guardia civica, composta da
simpatizzanti delle Farc, per controllare
il territorio.
Il 7 febbraio del 1999 Pastrana
subì un grave smacco. Quel giorno
si doveva inaugurare ufficialmente a
San Vicente il processo di pace. Tutto
era pronto, però Maluranda non
si presentò. Il processo tuttavia incominciò,
ma senza risultati concreti.
L’unico aspetto positivo è stato
«un inizio» di dialogo, varie volte sospeso
e ripreso.
Nell’agosto 2000 Pastrana lanciò
anche il «Piano Colombia», ispirato
e finanziato dagli Stati Uniti, con
il quale progettava di sradicare 60
mila ettari di coltivazioni di coca.
Dato il legame tra guerriglia e coca,
il Piano mirava a indebolire le Farc
e i narcotrafficanti, invece di affrontarli
sul campo di battaglia.
Però gli attacchi ai civili sono continuati
fino ad oggi, con numerose
vittime. Il governo, criticato per il
suo atteggiamento arrendevole verso
la guerriglia, ha imposto alle Farc
delle condizioni per continuare il
dialogo, e cioè: rispettare la vita dei
civili e non coinvolgerli in conflitti;
sospendere i sequestri di persona e
abbandonare i blocchi stradali per
estorsioni (la cosiddetta «pesca miracolosa»).
Ma la matassa non si dipana, perché
le Farc (ad esempio) comprendono
72 fronti, e ognuno fa ciò che
vuole. Si pone allora il quesito: nelle
trattative Marulanda chi rappresenta?
La guerriglia, una parte e quale?

«I VESCOVI LAMENTANO…»
Il processo di pacificazione, nato
tra grandi speranze, sta naufragando?
Le critiche verso il presidente
Pastrana sono dure, perché avrebbe
scontentato tutti. Ma anche i governi
precedenti non hanno conseguito
risultati. Pastrana, se è stato
indulgente verso la guerriglia, è stato
pure coraggioso. Gli altri non lo
sono stati altrettanto.
E l’atteggiamento della chiesa? In
questo contesto ho la sensazione che
non stia svolgendo il ruolo che dovrebbe.
La chiesa è presente nel processo
di pace, però non con una posizione
autonoma: infatti la guerriglia
ritiene che il presidente della
Conferenza episcopale al processo
sia quasi una voce del governo.
L’analisi della realtà è buona; però
le belle riflessioni terminano con un
generico «i vescovi lamentano…». È
troppo poco in un clima di violenza
e ingiustizia. La presenza della chiesa
non appare incisiva, profetica.
Si sapeva che il processo di pace
sarebbe stato lungo e tortuoso. Ma
sono già trascorsi tre anni! Quanto
bisogna attendere ancora? C’è chi
ricorda con amarezza il detto latino:
dum Romae consulitur Saguntum espugnatur
(mentre a Roma si discute,
Sagunto viene presa).
In Colombia le vittime
sono già state un esercito.

San Vicente del Caguán, 19 gennaio 2002: il governo e i portavoce delle
Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglano un accordo
per attuare il piano di pace. Sono presenti anche membri della chiesa cattolica
(fra cui Francisco Múnera, missionario della Consolata e vescovo di
San Vicente) e rappresentanti delle Nazioni Unite.
Per uscire dal conflitto, che da 37 anni insanguina il paese, si dovrà seguire
i punti concordati. Le Farc non si oppongono allo sradicamento manuale
delle coltivazioni illegali di coca, pur ribadendo che devono essere
consultate le comunità interessate. I punti principali dell’intesa:
– immediato studio sulle modalità per il «cessate il fuoco»;
– sospensione dei sequestri di persona da parte della guerriglia;
– lotta del governo contro i paramilitari.
Una commissione internazionale verificherà che i punti siano stati rispettati
e aiuterà a superare eventuali ostacoli. La firma dell’accordo concreto
sulla cessazione delle ostilità si dovrà avere entro il 7 aprile 2002.
L’«area di distensione» resterà in vigore fino al 10 aprile.
L’incontro era iniziato male. Infatti il giorno prima era stato assassinato
padre Arias Garcia, 30 anni, impegnato nella sua parrocchia di Florencia
(Caldas) in un negoziato tra guerriglieri e paramilitari locali.
D’altro canto i paramilitari hanno denunciato l’accordo; hanno tacciato
il presidente Pastrana di codardia, accusandolo di «aver concesso tutto
in cambio di niente».

Claudio Brualdi




Parentesi che contano

Non entro in polemiche… Cerco
di essere propositivo con tre riflessioni.
1. Non dobbiamo dimenticare
che, come lettori di Missioni Consolata,
siamo probabilmente tutti
dalla stessa parte: ovvero, vogliamo
un mondo pacifico che dia a
tutti la possibilità di una vita dignitosa.
Pertanto non ha senso dividere
il mondo fra occidente e resto
del mondo. Gli estremi spesso
si toccano, e il grigio comunismo
«reale» della miseria non era migliore
delle metropoli dell’occidente.
È importante che le persone conoscano
i fatti, affinché capiscano
e decidano, evitando però interpretazioni
di parte e facili generalizzazioni.
2. La nostra libertà di azione,
purtroppo, non è così ampia come
si potrebbe credere. Questo perché
noi stessi siamo «pedine» dei meccanismi
economici-tecnologici.
Sarebbe disposta Missioni Consolata
a diminuire il numero di pagine,
a rinunciare al colore ed accettare
tempi di invio ancora maggiori?
La rivista può fare a meno di
fax o telefono?
Rinunciare a molte distorsioni
della nostra civiltà (ad esempio, il
ricorso esasperato all’«usa e getta
», spesso un controsenso economico-
ecologico) è possibile; ma richiede
un cambiamento di mentalità,
oltre (sarebbe auspicabile) ad
un intervento degli stati che dovrebbero
penalizzare economicamente
(per esempio, tassando) i
prodotti non indispensabili, che
generano inquinamento ed impoverimento
delle risorse.
3. È bene fare attenzione, nel
guardare lontano, a non perdere di
vista ciò che ci succede vicino. Un
esempio: quante donne in Italia
sono schiave, costrette contro la loro
volontà a prostituirsi? Quante di
queste, spesso giovanissime, verranno
segnate per tutta la vita?
Trovo giusto prendere a cuore gli
indios u’wa della Colombia ed infuriarsi
contro un’economia distorta
che chiede il sacrificio di un popolo
per profitto, ma credo che sia
giusto anche provare rabbia per le
nostre vite sconvolte, se non distrutte,
che potremmo salvare senza
la necessità di attraversare continenti.
MAURO SILVERINI – TORRE DEL LAGO
(LU)

D’accordo, anche sulle «parentesi
». Il «lontano» non indebolisce il
«vicino»… Noi proponiamo «la sobrietà
felice: non è quella del “barbone”,
perché a questi manca la letizia.
La sobrietà felice è un vivere
meglio consumando meglio; deve
essere pure un modo di giudicare il
mondo con lo sguardo dei poveri»
(Antonio Nanni). Anche la sobrietà
felice è una strada da percorrere.

MAURO SILVERINI




Cari… struzzi

Apprezzo molto gli articoli di
Paolo Moiola. Considero un atto
di coraggio scrivere la verità e,
soprattutto, farlo non su un giornale
che a priori si schiera con lui,
ma su una rivista come Missioni
Consolata, letta anche da cattolici
moderati.
È inutile fare lo struzzo. Le denunce
di Moiola toccano la realtà,
che solo gli struzzi non vogliono (o
non osano) vedere. La sua penna
fa ancora sperare che esista un vero
giornalismo: scrivere su ciò che
si vede e crede, non per opportunismo
o secondo una linea editoriale,
ma per onestà intellettuale.
Non aver paura degli insulti altrui
è un atto di valore nel mondo
attuale, in cui tutto è sempre più
omologato (idee, costumi, persone).
Tutti per insicurezza tendiamo
ad omologarci. Persino i partiti
sembrano tutti uguali.
Invito i lettori, scandalizzati da
alcuni articoli, a rispondere con onestà
alla domanda: la vostra opinione
rimarrebbe sempre la stessa
se foste nati in una baraccopoli, cibandovi
dei rifiuti dei ricchi?
– morendo di Aids, perché il business
del mercato farmaceutico impedisce
ai paesi poveri l’accesso ai
farmaci?
– morendo di fame, freddo o colpiti
da una mina (l’Italia è ai primi
posti nella fabbricazione di armi:
vedi il marchio Beretta) o trascinandosi
per tutta la vita con protesi
agli arti?
– morendo avvelenati dai pesticidi
riversati su ananas e banane, che
giungono sulle nostre tavole sempre
più imbandite, anche del superfluo?…
La decantata globalizzazione
genera anche questi «effetti collaterali
». Potrebbe essere positiva,
ma è impostata molto male. Contro
questo sistema di morte, per
fortuna, c’è ancora gente che lotta
pacificamente: non solo per altruismo,
ma anche per un «sano egoismo».
Cari struzzi, è ora che alziate la
testa e guardiate la realtà in faccia:
forse capirete che il sistema
perverso, prima o poi, si ritorcerà
contro di noi che l’abbiamo creato
o contribuito a tenerlo in piedi.
L’alternativa è un mondo solidale,
in cui si abbattono non le barriere
dei mercati, ma quelle del cuore.
SILVANA VERGNANO – TORINO

L’«onestà intellettuale» rifiuta pure
il processo alle intenzioni; si manifesta
nell’impegno solidale e nel
confronto con tutti, richiedendo e
concedendo libertà. Più che un’idea
da sbandierare, è una faticosa via da
percorrere.

SILVANA VERGNANO




Padre Gabriele, continua…

Caro padre, grazie del bellissimo ricordo che ha
pubblicato su Missioni Consolata di ottobre-novembre,
relativo alla scomparsa di mio cugino, padre
Gabriele Soldati. Mi ha commosso, ed è stato
molto apprezzato anche da tutti gli amici e i compaesani.
Padre Gabriele mi manca molto: soprattutto
la sua telefonata (quasi quotidiana), la sua
bontà, i suoi rosari…
IOLE MASOERO – CORNO GIOVINE (LODI)
Signor direttore, ha fatto bene a ricordare padre
Gabriele Soldati, ex direttore di Missioni Consolata
e non solo. Proprio per questo, non le sembra di
essere stato avaro nel parlare di lui? Ad altri missionari
dedicate tre, quattro pagine. A padre Gabriele
una sola!
LUIGI BELLOTTI – BERGAMO

Abbiamo incontrato padre Gabriele un mese prima
della morte. «Me ne sto andando per sempre» ci
disse dolcemente con voce fioca.
– Gabriele, cosa desideri che scriva su «Missioni Consolata
» alla tua «partenza»?
– Assolutamente nulla.
– Non è giusto, Gabriele. Molti amici si lamenteranno,
e giustamente!
– E tu lasciali dire. Per noi missionari conta il vangelo,
che dice: «Quando avete compiuto il vostro dovere,
dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto soltanto
quello che bisognava fare».
– D’accordo, Gabriele. Ma…
– Nessun «ma». Guarda che, se scriverai su di me,
non pregherò più per te! Hai capito?…
Non abbiamo capito. Infatti abbiamo scritto
qualcosa, anche se poco.
«Però tu, Gabriele, continua a pregare per tutti».

LUIGI BELLOTTI




Congo, rd: guerra e vulcano

Carissimi amici,
non c’è proprio pace per il
Congo. Il 6 gennaio ad Isiro
ci sono state sparatorie
fino all’una di notte. I soldati
di Nyamwuisi (sostenuti
dall’Uganda) scappando
hanno saccheggiato
alcuni negozi con poche
mercanzie e rubato qualche
moto (altro non c’è in
città). Da noi, missionari,
non sono venuti (avevamo
pronti un po’ di soldi, per
evitare il peggio).
Stamattina per strada
c’era molta gente per accogliere
i soldati (liberatori?)
di Bemba. Ora il caos
è immane. Le autorità locali
si sono nascoste; di
poliziotti neppur l’ombra.
Sono le 16,30 e si spara
attorno all’aeroporto. In
città non c’è anima viva; si
attende la notte sperando
che non ci siano militari
nascosti e che i ladri non
approfittino della situazione.
La paura è tanta…
Ore 17,30: sono entrati
in gloria i soldati di Bemba.
Noi siamo preoccupati
per il futuro… Piove. Una
benedizione? Potesse la
pioggia lavare anche le idee
di tanti!
p. Rinaldo Do
Isiro (Congo, rd)

Il Congo è in guerra
dall’agosto 1998: un conflitto
interafricano tra
Angola, Zimbabwe e Namibia
da una parte e, dall’altra,
Uganda, Rwanda
e Burundi (con l’avallo di
Stati Uniti e Francia). La
guerra ha già seminato
due milioni di vittime.
E ci si è messo pure il
vulcano Nyiaragongo, al
confine con il Rwanda, le
cui eruzioni hanno aggiunto
distruzioni a distruzioni
(17 gennaio).

p. Rinaldo Do




Un altro sogno

Cari missionari,
ho 72 anni e faccio parte
del Gruppo missionario
della parrocchia. Fin da
ragazza ho simpatizzato
per i missionari e ho cercato
di fare qualche cosa.
Da anni coltivo il desiderio
di aiutare a portare
a termine, attraverso gli
studi, la vocazione missionaria
di qualche seminarista
bisognoso, italiano o
straniero.
In passato mi mancavano
le possibilità; ora, pur
essendo in pensione e non
ricca, penso di poter realizzare
il sogno: diventare
la madrina di un missionario
e creare un legame
epistolare e spirituale con
un bravo giovane, anche
per dare un senso cristiano
agli ultimi anni che il
Signore mi concederà. Io
sono sola, con gli acciacchi
della terza età. Ho fatto
l’impiegata per 37 anni
in uno stabilimento (eravamo
in 6 mila) e ora vivo
con la mamma di 96 anni.
La mia vita comporta
pazienza e sacrifici, fatti
volentieri, per dovere e amore.
Ma vorrei riempirla
anche con qualche iniziativa
di evangelizzazione e
promozione umana nei
paesi di missione.
Lettera firmata
Sesto S. Giovanni (MI)

Ecco un altro modo di
«inseguire i propri sogni
». O, con un’espressione
più impegnativa, di
essere «poveri in spirito»
(Mt 5, 1).




Inseguire i sogni

Cari missionari,
è mia convinzione che ogni
persona, per condurre
una vita serena e appagata,
abbia bisogno di inseguire
i propri sogni.
Per «inseguire i propri
sogni» non intendo mettersi
alla finestra con il viso
tra le mani, gli occhi
socchiusi verso il cielo, aspettando
che il sogno si
realizzi. È con tutt’altro
spirito che vorrei coronare
il mio più grande desiderio:
e cioè partire per una
missione di volontariato
in Africa.
Questa passione è nata
tempo fa, attraverso incontri
e importanti esperienze,
che hanno lasciato
in me la voglia di dare amore
alle persone, così da
arricchirmi giorno dopo
giorno, sentirmi sempre
di più piena di vita, là dove
la vita è fatta di aiuto
reciproco per la sopravvivenza,
di fede e forza d’animo.
La frateità è facilmente
dimenticabile nella nostra
società, in continua
ricerca di immagine e apparenza.
Persino le opere
di bene, così giuste, possono
a volte nascondere
secondi fini, rischiando di
scadere anch’esse nel
«commercio» del bene.
Ma questo non capita
quando una persona trova
che la migliore ricompensa
al bene sia il non volere
nulla in cambio. Nulla è
paragonabile alla missione
di proclamare l’amore
come «unica politica».
Qualora abbiate informazioni
utili al mio progetto,
vi prego di rispondermi.
Lettera firmata
Treviglio (BG)

Lettera che ha richiesto
una risposta personale.
Tuttavia la pubblichiamo,
perché altre persone
possano trarre stimoli
per «inseguire i propri
sogni».
I missionari della Consolata,
da diversi anni,
hanno aperto anche un
centro per la formazione
di laici. Il centro si chiama
MILAICO (Missionari
Laici della Consolata).
Per informazioni:
p. Angelo, via Solstizio 2
31040 Nervesa (TV)
tel 0422/77.12.72
fax 0422/77.17.00
e-mail: milaico@libero.it