KENYA, AMORE NOSTRO

«Il 28 giugno 1902, ottava della
festa della Consolata, alle ore
4,30 ho la santa soddisfazione
di celebrare la prima messa che si sia
detta in questa parte del Kikuyu.
Consacro alla Consolata queste povere
anime, supplicandola che ci ottenga
dal suo Divin Figlio di poter presto
raccogliere frutti abbondanti di vita
eterna». Così scrisse padre Filippo
Perlo, da Tuthu, fra i KIKUYU. Con lui
c’erano padre Tommaso Gays e i fratelli
coadiutori Celeste Lusso e Luigi Falda.
Iniziava dunque, 100 ANNI FA,
l’evangelizzazione dei missionari
della Consolata in Kenya,
neo colonia britannica.
Un’«avventura» tutta in salita.
Perché?

«MA NOI NON SIAMO COME LORO»
Uno scozzese che rapava le donne, e non solo.
I bianchi che comandavano
e i neri che obbedivano, e non solo.
Mentre i missionari ne risentivano negativamente.

IL RICORDO NEFASTO
DI BOYES

Gli europei che, dal 1895 e con
vari intenti, misero piede nel Kenya
dei kikuyu lasciarono negli abitanti
un ricordo ostile. Lo confermò il
capo locale Karuri, che commentò
il primo incontro con il bianco: «Ne
ebbi paura. Credetti di vedere un
dio e, appena a casa, prima di entrare
nel villaggio, presi un montone
per fae un sacrificio a quel dio
bianco, affinché non mi seguisse in
casa mia» (cfr. «Fonti»).
La figura che, all’inizio e più di
ogni altra, riscosse una deplorevole
nomea, fu J. Boyes. Questo scozzese,
accompagnato da 60 askari senza
scrupoli, terrorizzò Tuthu e dintorni,
al punto che la gente emigrava
in massa nell’eventualità di un
suo insediamento nel villaggio.
Era un commerciante e predatore
di bestiame, che fece strage
di elefanti incamerando
enormi quantità di avorio.
Non risparmiò le donne; se
qualcuna non gli andava a
genio, la esponeva al pub-
blico scherno, dopo averla rapata a
zero, legata ad un albero e, magari,
fucilata. L’esperienza con quell’europeo
rese i kikuyu molto circospetti:
ogni bianco era un possibile
Boyes.
I missionari della Consolata subirono
in modo negativo l’accostamento
all’avventuriero. «In qualche
villaggio – scrissero – trovammo un
po’ di diffidenza, e la causa è questa:
circa un anno fa venne qui un
certo Boyes. L’arrivo dei bianchi in
questi luoghi fu da qualcuno creduto
un ritorno di Boyes e dei suoi
metodi».
A Nyeri, fino al 1907, gli anziani
si domandavano chi fosse il patri
(padre) e rispondevano: «È un indiano
che viene a vendere cotonate
o un forestiero che compra ragazze
». Bastava addentrarsi nei villaggi
per cogliere la diffidenza.

CAROVANE, TASSE, MACCHINE
I britannici «pacificarono» la colonia
del Kenya dal 1899 al 1902.
Per salvaguardare l’occupazione, le
truppe militari si spostavano da una
regione all’altra continuamente;
gli spostamenti
erano affiancati
da carovane di portatori, che assicuravano
viveri e munizioni. A tale
scopo furono ingaggiati, con la forza,
anche uomini e donne dei territori
sottomessi.
Nacque allora la frase «andare in
carovana», che alludeva ad un grave
pericolo di vita. Infatti numerosi
portatori, durante il tragitto, soccombevano
per mancanza di assistenza
sanitaria, eccessiva fatica ed
attacchi di guerriglia.
Anche il missionario, appena arrivato,
organizzò carovane. Fu questo
l’unico mezzo a disposizione per
aprire e dislocare i suoi centri di influenza.
Una strategia rischiosa, dato
l’esempio negativo del regime coloniale.
Il potere della Corona inglese divenne
effettivo, tra l’altro, con l’imposizione
della tassa sulle case. La
quota fu di due rupie, poi tre e, infine,
sei. Quando scattarono gli aumenti,
parecchi kikuyu, colti alla
sprovvista, si riversarono nella missione
cattolica in cerca di lavoro.
Spesso gli operai del patri furono costretti
a chiedergli un anticipo di stipendio,
altrimenti l’ufficiale del governo
avrebbe razziato loro il bestiame
o bruciato la capanna o
sequestrato le donne.
Il comportamento dell’amministrazione
coloniale fu osservato con
attenzione dal missionario, che temette
una ritorsione del malumore
generale anche nei suoi confronti.
Un detto significativo, che misurava
la diffidenza kikuyu verso lo
straniero, era: «Il bianco ci ha conciati
per le feste». Tali parole, oltre
che ricalcare avversione, erano pregne
pure di magico terrore.
I bianchi apparvero ai kikuyu fra
lo scoppiettio di fucili e il frastuono
di treni, dall’alto di ponti e carri o
comodamente seduti in case di pietra.
Per i nativi tutto ciò sconfinava
nell’incomprensibile, per non dire
diabolico. Un anziano riferì ad un
padre: «Voi bianchi siete padroni
dell’ngoma [spirito malvagio]. Non
c’è un ngoma in quelle cose che voi
chiamate macchine? Vedi, noi ci intendiamo
di ferro e facciamo molti
lavori con esso, ma non abbiamo
mai visto il ferro andare da sé, parlare
e poi uccidere da lontano, sputando
fuoco su chi vuole».
Anche il missionario fu coinvolto
in questo giudizio di timore. Egli sarebbe
stato «un figlio del sole».
Quando correva in bicicletta o metteva
mano all’aratro, tirato da buoi,
la gente esclamava: «Costui è Dio».
L’ultimo atto dell’occupazione, il
più odiato, fu l’espropriazione delle
terre. L’azione fu condotta in vista
delle fattorie da assegnarsi ai coloni,
che avrebbero consolidato la supremazia
bianca in Kenya.
Il missionario accettò il sistema,
ritenendolo un male necessario affinché
la popolazione approdasse al
progresso. Egli diede per scontato il
lavoro come via allo sviluppo.
Ma i kikuyu stentarono a capire:
a cogliere, per esempio, la diversità
di azione dei bianchi del governo rispetto a quelli della missione. Occorse
del tempo per comprendere
che i primi erano una cosa e i secondi
un’altra.

DISTINGUERSI
DAI COLONIALISTI

All’inizio i rapporti fra la missione
cattolica e l’amministrazione coloniale
furono improntati a vicendevole
simpatia.
Tuttavia il missionario non tardò
a comprendere che, battendo quella
via, avrebbe compromesso la sua
opera. Era dunque urgente mutare
rotta. Accorgendosi che il proprio
comportamento era attentamente
studiato dai kikuyu, colse la palla al
balzo per prendere le distanze dal
colonialista: evidenziò la sua identità
facendosi chiamare patri o mundu
wa Ngai (uomo di Dio).
Un altro elemento differenziatore
fu la scorta armata. Era quasi una
regola che il bianco circolasse per il
paese circondato da 30-40 askari. Il
missionario intuì che la presenza di
soldati alle calcagna lo avrebbe accomunato
ai conquistatori. E rifiutò
la scorta fra lo stupore generale.
Esisteva un’altra tentazione: costruire
le missioni, sfruttando la mano
d’opera gratuita degli africani.
Dopo «le spedizioni punitive», il
governo, per scoraggiare nuove ribellioni,
obbligava 100-200 uomini
di ogni tribù a lavorare gratis per le
sue strutture coloniali (strade, fortezze,
abitazioni di askari, ecc.). Il
potere avrebbe avallato il sistema
anche per il missionario cattolico,
che però declinò l’offerta.
Bisognava non dar adito ad alcuna
illazione di connivenza fra i due
poteri: «Tanto più – commentavano
i missionari – che ripetiamo sempre
che qualsiasi lavoro fatto per noi viene
ricompensato. Una tale idea di
giustizia fa molto effetto sugli indigeni,
assuefatti a vedere nei bianchi
soltanto degli usurpatori».
Questa citazione indica un aspetto
importante per diversificare il
missionario dal colonialista: il lavoro
retribuito. I kikuyu ben presto
acquistarono la certezza che, lavorando
con il patri, erano subito pagati
in contanti, e non a colpi di kiboko
(staffile), come accadeva nei
lavori forzati del governo.
La notizia di un «bianco diverso»,
che pagava gli operai, si divulgò rapidamente.
«Durante le carovane,
alla fine della giornata, i portatori
cantavano le lodi del padre: la canzone
diceva che essi volevano sempre
lavorare con lui, perché era buono.
Il genere di bontà era specificato
e consisteva nelle rupie con cui
avrebbe pagato il loro lavoro».

LA MEDICINA GRATUITA
Il missionario, per farsi conoscere
ed accettare, camminava ore e ore
per i villaggi kikuyu «senza neppure
chiedere una banana»: e intanto
curava i malati. Egli non lesinò fatiche
in questa attività. Ogni giorno,
per ben sette ore, visitava i villaggi
distribuendo medicine; oppure attendeva
a malati in missione, curando
anche 100 persone.
Così facendo, la fama di questo
uomo bianco speciale si spandeva
ovunque.
Padre Carlo Ciravegna, ricordando
quell’intenso apostolato, scrisse:
«Di uomini bianchi ne passavano
molti sulle strade carovaniere dei
grandi laghi equatoriali: ma questi
venivano a comprare avorio e a conquistare
il paese; si facevano accompagnare
da askari armati. Invece i
padri non facevano commercio, non
avevan fucili… ma passavano facendo
del bene, curando gratuitamente
i malati. Fare del bene a gente sconosciuta
era per questi poveri neri
un fatto inaudito: per la prima volta
essi vedevano spiegarsi davanti ai loro
occhi stupefatti i miracoli della
carità cristiana».
La strategia per rimuovere le remore,
che impedivano al missionario
l’accesso psicosociale ai kikuyu,
trovò una punta di diamante nell’amicizia
con i capi locali. Il piano fu
realizzato con gradualità.
Già esisteva una piattaforma: la
familiarità con la popolazione, specie
con le donne e i bambini. «Come
volentieri le madri cedono ora
alle braccia delle suore i bimbi, e
quanto sono felici quando esse li accarezzano!
Poco alla volta noi riusciamo
a farci kikuyu ed entriamo
ogni giorno di più nella loro vita».
Visitando Murang’a, il missionario
fu accolto con entusiasmo. Gli
andarono incontro un capo famiglia,
le donne e i bambini, offrendogli
i primi posti attorno al fuoco; e
quando il patri parlava, tutti pendevano
dalle sue labbra. Alla fine dell’incontro,
il pater familias si dichiarò
figlio e servo dell’ospite. La
familiarità raggiunta si concretizzò
in scambi di doni: da una parte un
po’ di tembo (bevanda alcornolica),
latte o un montone e, dall’altra, una
coperta colorata.
Un giorno il genitore di un operaio
del centro di Tuthu si recò dal
missionario, che raccontò: «Egli mi
parla all’orecchio: suo figlio d’ora in
poi è anche mio figlio, e come egli è
padre così lo sono anch’io. Se suo figlio
è cattivo con lui, egli lo batte; se
è cattivo con me, io lo devo battere».
Però il missionario mirava più in
alto, cioè al capo villaggio, sperando
che accattivandosi le simpatie e, soprattutto,
convertendolo al cristianesimo,
la popolazione ne avrebbe
seguito l’esempio.
Lo sforzo di perseguire la fiducia
dei capi provocò pure qualche curioso
inconveniente, come quello di
due capi di Metumi, che divennero
gelosi per il reciproco sospetto che
il padre favorisse uno più dell’altro.

SPERANZE DI CONVERSIONE
Il mutato rapporto con la popolazione
fu portato alla ribalta dai missionari
con soddisfazione.
Un anziano pregava Ngai, con le
mani protese verso il cielo, affinché
elargisse al padre «tanta ricchezza e
una casa alta come il Monte Kenya,
che fosse potente come il capo Karuri
e che lo spirito del male non lo
danneggiasse mai».
Al missionario sembrava che tutto
si mettesse per il meglio.

IN AZIONE CON TRE «PUNTE»
Come coniugare in missione
il verbo «convertire»?
«Prova e vedrai! Escluso
il condizionale,
in ogni altro modo
è difficile».
Se ne discute
a Murang’a.

NON MANCAVA L’IRONIA
Il sub-commissioner nella colonia
del Kenya, L.S. Hinde, disse ai missionari
della Consolata: «Gli indigeni
vi conoscono in un modo differente
da quello con cui conoscono
il governo. Voi, viaggiando anche
in zone inesplorate, già siete per fama
conosciuti e chiamati per nome
come amici». Era una lusinga.
Il missionario non tardò ad accorgersi
che i suoi ragionamenti interessavano
poco la gente.
Padre Francesco Cagliero, durante
un catechismo ai suoi operai, chiese
perché egli fosse venuto fra loro e
quanti dèi ci fossero. Un tale rispose:
«Non so perché tu sia venuto nel
mio paese; né so quanto tu vai chiedendo,
ma mi sembra che tu oggi abbia
bevuto molto vino per venir fuori
con queste interrogazioni».
Non fu solo l’ironia ad ostacolare
l’evangelizzazione, bensì la difficoltà
intrinseca dell’argomento affrontato.
Per quanto si ripetesse che Dio
non è come l’uomo, composto di anima
e corpo, ma puro spirito, immancabilmente
l’uditorio ripiegava
su temi più abbordabili, quali: se Dio
avesse la barba, se fosse bianco o nero,
se indossasse sempre tanti vestiti,
se mangiasse ogni giorno carne.

IL BATTESIMO CAUSA MORTE?
I missionari non furono dei battezzatori
frettolosi. Infatti i primi
battesimi risalgono al 1909-1911: e
a Tuthu, la prima sede fra i kikuyu,
addirittura al 1916. Fino a tale data
si battezzò quasi esclusivamente in
punto di morte. Furono di regola
battesimi di anziani, avvicinati dal
missionario nel suo apostolato itinerante.
Divenuti amici della missione,
ne accettarono pure l’insegnamento
religioso e, data l’età avanzata, furono
battezzati di comune accordo
prima che la morte li cogliesse. Lo
stesso dicasi per i bambini moribondi.
Poiché il missionario battezzava
persone che poco dopo sarebbero
morte, i kikuyu dissero che l’acqua
versata in testa, fosse «avvelenata
dagli stranieri» e causasse la morte.
Fu un’insospettata difficoltà per l’evangelizzazione.
Si contestò la diceria discutendola
pubblicamente. Il battesimo fa veramente
morire? Il patri e la mware
sono battezzati: e sono forse morti?
«Anzi, il Signore li ha fatti ricchi e
sapienti, li tiene come suoi figli e li
difende dallo spirito del male, il quale
ha grande paura del battesimo».
Però la diceria doveva essere sfatata
con gesti visibili. Ecco allora che il
missionario, curando gli ammalati,
praticava a tutti abbondanti lavaggi
in fronte.
Non mancò, poi, l’accusa di malocchio.
Se ne avvide, a proprie spese,
suor Faconda. La missionaria voleva
prendersi cura di una bambina,
che deperiva di giorno in giorno. Incontrò
la madre al mercato, con la
bimba sulla schiena. La kikuyu, vedendola,
non esitò a lanciarle l’mbu
(grido di allarme nel pericolo), mettendo
a soqquadro l’ambiente…
Molti kikuyu parteciparono alla
prima guerra mondiale come portatori.
L’esperienza fu deleteria. Religiosamente
parlando, i pochi superstiti
ritornarono a casa scandalizzati
dal comportamento distruttivo ed
omicida dei bianchi (inglesi e tedeschi),
che pure si dicevano cristiani.
Né riportò esempi stimolanti per
abbracciare il cristianesimo chi lavorava
nelle fattorie dei coloni inglesi.
A Gatanga due cristiani furono apostrofati
dal padrone: «Siete asini, sapete
solo credere a ciò che dicono i
preti e le suore». Poi il farmista sputò
per terra con disprezzo.
E che dire della poliginia, l’eterno
scoglio per l’evangelizzazione?

LA FORZA DELLA TRADIZIONE
Tutte le obiezioni dei kikuyu di
fronte al cristianesimo sono riconducibili
ad un unico denominatore
comune: l’attaccamento rigoroso alla
tradizione.
«I kikuyu non distinguono fra vita
sociale, politica, sessuale e individuale,
ma tutte queste vite (per così
dire) formano un unico complesso,
che non si può sezionare e che ha la
sua ragione d’essere nella tradizione
». Chi la ignora automaticamente
si autoespelle dalla comunità e diventa
straniero.
La tradizione è l’anima del popolo:
rafforza il vincolo di parentela,
lo spirito di corpo e la reciproca accoglienza,
senza la quale ci si trova
disorientati. Infrangere o staccarsi
dalla tradizione significa misconoscere
il proprio paese, rinnegare la
religione degli antenati, attirarsi la
vendetta degli spiriti, esporsi all’ostracismo
degli anziani e contaminarsi
del thahu più orribile (impurità
rituale).
Quando si sentenzia «è tradizione
dei kikuyu», si enuncia un dogma,
che è pericoloso abbandonare o
dal quale deflettere. Furono visti figli
di capi, ritornati dall’Inghilterra
con tanto di laurea, riassumere le abitudini
dei genitori, per nulla scalfiti
dall’Europa.
L’attività missionaria cozzò sempre
contro il corpus integrato degli
usi e dei riti della tradizione, ai quali
i kikuyu erano legati con «una gelosia
e testardaggine da montanari».
«Dopo 37 anni di convivenza con
questa gente – scrisse padre Costanzo
Cagnolo -, pur usando la loro lingua
e seguendo da vicino tutte le loro
manifestazioni sociali, familiari e
individuali, più di una volta mi trovo
perplesso sull’esatta comprensione
della loro mentalità» (1).
Padre Giacomo Cavallo annotò:
«Trovo uno spirito eminentemente
conservatore, di cui è imbevuto il
kikuyu, che gli fa rigettare le cose solo
perché sono nuove». Ogni volta
che si prospetta qualcosa di diverso,
arriva puntuale il leitmotiv: «Però i
nostri vecchi non hanno detto, non
hanno fatto così». Le conversioni al
vangelo segnavano il passo.

GRAVE DISAPPUNTO
Convertire è un verbo all’infinito.
Come coniugarlo? «Prova e vedrai!
Escluso il condizionale, in altro modo
è difficile». La citazione, nel suo
problematico umorismo, ritrae bene
lo stato d’incertezza del missionario.
Egli non si trastullava in chimeriche
illusioni. Tuttavia, di tanto
in tanto, non riusciva a celare il proprio
disappunto di fronte agli scacchi
patiti.
Il fatto dovette impressionare abbastanza,
se un vecchio di Limuru
sentì il bisogno di accostare alcune
suore melanconiche per consolarle.
«I giovanetti, i bambini e le ragazze
vi ascoltano e vi capiscono; le donne,
invece, vanno a lavorare e a raccogliere
patate, e non si intendono
di tali cose: chi mai per il passato le
insegnò ad esse? Aspettate, abbiate
pazienza…».
Attendere e pazientare. Il missionario
era una persona di fede e di
questa si caricava per fronteggiare i
momenti di stanchezza e dubbio.

IN DIECI A MURANG’A
Gli storici delle missioni della
Consolata fra i kikuyu ravvisano
nell’1-3 marzo 1904 una data significativa
per l’evangelizzazione dell’etnia.
A Murang’a si ritrovarono
10 missionari per discutere e approvare
un metodo di apostolato.
Nell’incontro, dopo aver preso atto
dei successi ed insuccessi, si prospettò
una strategia d’azione, praticabile
secondo tre direttive.
? Formazione di catechisti: prevedeva
la scelta di alcuni kikuyu intelligenti
e retti, per istruirli e impegnarli
nell’evangelizzazione. Il sistema
fu giudicato buono, ma avrebbe
procrastinato troppo le conversioni.
?¡ Azione sanitaria e scolastica: una
linea che suggeriva di costruire
collegi e ospedali, nella speranza che
i giovani e i malati abbracciassero la
nuova religione. La proposta non riscosse
molte adesioni. Si obiettava
che i genitori dei ragazzi, non ancora
persuasi della necessità dell’istruzione,
avrebbero boicottato la frequenza
scolastica dei figli. Gli ospedali,
poi, esigevano molto denaro,
irreperibile per il missionario.
?¡ Predicazione itinerante, ossia
passare da un villaggio all’altro annunciando
la parola di Dio. Così facendo,
il cardinale Guglielmo Massaia
conseguì buoni risultati fra gli
oromo d’Etiopia (2). Tuttavia il successo
era garantito solo «nei paesi civili
o con una semiciviltà, come l’Abissinia;
ma fra popoli selvaggi e per
indole incostanti e volubili come i
kikuyu, il buon seme inaridirebbe
appena germogliato».
I partecipanti all’incontro di Murang’a
valutarono i pro e i contro di
ogni possibilità. Alla fine optarono
per combinazione delle tre linee d’azione.
Il «metodo misto» fu approvato.

EVANGELIZZAZIONE
GRADUALE

A Murang’a i missionari confrontarono
le loro prime esperienze. Riconosciuto
il pertinace attaccamento
dei kikuyu alla tradizione, convennero
che la missione avrebbe
dovuto procedere con gradualità:
pretendere immediate conversioni
sarebbe stato come «voler far fissare
il pieno sole meridiano a chi fino
allora è stato chiuso in un buio sotterraneo
». Conveniva avanzare con
piedi di piombo e, intanto, spargere
le prime idee evangeliche.
L’evangelizzazione graduale si estrinsecò
nella tolleranza e prudenza
di fronte alla consuetudo locale. A
differenza di varie denominazioni
protestanti (Church Mission Society,
Church of Scotland, Salvation Army,
African Inland Mission, ecc.), si accettò,
per esempio, l’iniziazione.
In un’epoca successiva padre Cagnolo
stigmatizzò la mancanza di
duttilità mentale, scrivendo: «Certi
educatori, che vorrebbero abolire il
corpo delle tradizioni, si creano amare
sorprese, come quando si tenta
di abolire la circoncisione ed altri
usi per sé indifferenti al progresso…
Diamo tempo al tempo». Né si indirono
crociate contro la poliginia.
In conformità alla metodologia esposta,
i primi missionari non si lasciarono
contagiare dalla «malattia
del mattone»: cioè costruire edifici
all’«europea». Scrisse padre Filippo
Perlo: «Non è nostro sistema far le
chiese e poi i cristiani, ma pensiamo
sia metodo migliore l’attendere che
questi sentano il bisogno di quelle».
Per anni la chiesa sarà un capannone
e il campanile si mimetizzerà
con un mugumu (albero sacro), dalla
cui sommità la campana suonerà
a distesa.

L’ALBERO DELLA SFIDA
Di pari passo con l’attendismo,
alcune scelte del missionario indicano
come l’evangelizzazione dovesse
pure sfidare la cultura locale.
Il capo Wambugu (che aveva concesso
al missionario delle agevolazioni
per erigere la sua sede) rispose
picche quando si ventilò l’ipotesi
di abbattere degli alberi sacri, sotto
i quali gli operatori magici compivano
sacrifici per impetrare la pioggia
o la vittoria sugli odiati masai. Il
padre tuttavia, necessitando di un
alto fusto per innalzarvi la campana,
additò proprio un rigoglioso mugumu.
Gli anziani replicarono che, se avesse
toccato l’albero, sarebbe certamente
morto; ma il missionario si
avvicinò alla pianta per incidervi col
coltello una croce. Nello sbigottimento
generale, si rivolse alla gente,
osservando che nulla gli era successo,
perché il «patri è l’uomo di Dio».
Una provocazione per affrettare
l’ora del vangelo.

(1) Padre Costanzo Cagnolo scrisse The
Akikuyu, Mission Printing School, Nyeri
1933 (un’importante monografia sul popolo
in questione, con pregevoli illustrazioni).
(2) Il riferimento al Massaia non è casuale.
I missionari della Consolata intendevano
proseguie l’opera.

ATTENTI ALLO STREGONE!
Nel villaggio tradizionale
lo «stregone» detta legge:
si nasce, si vive e si muore
ai suoi ordini.
E guai a snobbarlo!
Il missionario lo sa e prende
le sue misure.

DAL «MEDICO CONDOTTO»
Non si scherza con la tradizione.
I suoi interpreti sono gli athuuri (anziani).
Essi «formano il gran senato
della nazione; ad essi è dato di conoscere
il bene e il male e, al di sopra
di loro, non v’è che Dio. Dopo
il loro giudizio non c’è appello».
Ma il ruolo degli anziani resta lettera
morta senza il consenso, diretto
o indiretto, del mundu-mugo (medico,
indovino, operatore magico o,
più volgarmente, stregone).
Nel villaggio e nella famiglia l’individuo
nasce, vive e muore ad libitum
del mundu-mugo; nessuna azione, privata o pubblica, sfugge
al suo controllo: «Questi
indigeni non fanno nulla
di importante (o creduto
tale) senza il parere
dello stregone».
Il mundu-mugo dispone
di effettive conoscenze
terapeutiche. Ad un
missionario capitò di
assistere alla medicazione
di una profonda ferita
alla mano; l’arto venne legato
con fili d’erba e poi cucito con lunghe
spine. «Non si può negare che
tutto fosse fatto con una certa cognizione».
Quando però il mundu-mugo affrontava
un male psico-somatico, l’ironia
per il medico e la commiserazione
per il paziente traboccavano.
«Vorrei lo vedeste (lo stregone) nell’esercizio
delle sue funzioni: con
che energia si dà attorno al cliente
per liberarlo dall’ossessione di spiriti,
che gli vogliono fare la pelle. Se
non suda due camicie è solo perché
non ne possiede neanche una…».
Anche i capi si ammalano. E, come
tutti, vengono trattati dal mundumugo.
Ma, al cospetto di un personaggio
influente, lo stregone spesso
annaspa impacciato per una diagnosi
adeguata al paziente. Tuttavia se la
caverà con l’astuzia, asserendo che
«il capo è stato avvelenato da qualche
bestia mentre dormiva; oppure
un rospo gli è entrato in pancia, o
che è stato vittima di imbrogli e filtri
nocivi di qualche nemico».

ALTRE TRE MANSIONI
Il mundu-mugo svolgeva pure altre
importanti funzioni.
?¡ Arbitro di pace. Quando, dopo
un litigio o una guerra, i contendenti
trattavano la pace, si procedeva secondo
un rituale diretto dal mundumugo.
Chi chiedeva la sospensione
delle ostilità offriva i pegni della pace:
una pelle di bue, un fascio d’erba,
uno scranno, una pecora. La controparte
consegnava un montone e
una giovane pecora. Si sgozzavano
gli animali (quelli della controparte);
con il grasso si ungevano sia i pegni
della pace sia le parti che la contraevano.
?¡ Contro ladri e avvelenatori. Un
missionario, durante una visita al villaggio,
dovette sostare, perché si stava
compiendo una cerimonia. «Il
capo e lo stregone… stavano mettendo
una medicina in una piccola
fossa nella strada» e pronunciavano
minacce… Terminata l’operazione e
ricoperta la buca, il padre fu ricevuto
dal capo, che gli spiegò come tutto
ciò avrebbe impedito a qualunque
ladro o avvelenatore di entrare
nel villaggio senza essere visto.
?¡ Maledice e benedice. Fra le maledizioni
primeggiano, per efficacia
e timore, quelle scagliate da genitori
e anziani, specialmente se in punto
di morte… Camminando succedeva
di imbattersi in sentirneri e campi
attraversati da liane, tese a 2 metri
di altezza, oppure contrassegnati da
ramoscelli o pali con appeso un osso
umano. Allora i passanti indietreggiavano,
perché quelli erano segni
di maledizione.
Di fronte a tali segni, ci si rivolgeva
al mundu-mugo. Costui girava a
più riprese attorno al luogo maledetto,
ammonendo che chi lo avesse
violato sarebbe stato destinatario
di disgrazie. Proclamato il divieto,
piantava qua e là dei rami secchi,
ciascuno accompagnato da una maledizione.
«Chi entrerà qui sprofondi
sotto terra, come io vi sprofondo
questo ramo! Chi varca questi confini
inaridisca all’istante come queste
foglie secche».

L’OSTILITÀ DEL MUNDU-MUGO
Per i missionari gli «stregoni» erano
«i sacerdoti del paganesimo»,
i quali a loro volta tolleravano gli
stranieri dalla veste bianca «come
il fumo negli occhi».
Il missionario non mieteva molte
conversioni, ma intanto lavorava. La
sua popolarità, dovuta a dispensari,
scuole e fattorie, cresceva di giorno
in giorno. Il mundu-mugo lanciò l’allarme:
se non si interveniva subito,
quei bianchi avrebbero scalzato la
tradizione e, con essa, il suo potere.
Il patri apparve al mundu-mugo
come un concorrente economico temibile,
capace di rovinargli la piazza
con la cura gratuita dei malati…
mentre lui esigeva bovini e ovini.
Contro la volontà del mundu-mugo
e degli anziani, nel 1907 a Limuru
il missionario riuscì nel difficile
intento di ridurre il tributo di montoni
che i giovani della «classe d’età»
dovevano pagare a quella anteriore
di otto iniziazioni: non più 60 capi
di bestiame, ma due!
Il fatto fu grave, perché provocò
un contrasto fra le generazioni, contrasto
fino allora sconosciuto nella
società kikuyu. Ma questo era quanto
il missionario si riprometteva: disarticolare
il sistema tradizionale per
far spazio al messaggio evangelico.
Il mundu-mugo attaccò il missionario
con accuse precise.
a) Accusa di siccità. Padre Perlo,
fondatore nel 1903 della missione
centrale di Nyeri, all’inizio stabilì la
sua sede sulla collina Niagaitua, in
barba a tutti. Il loro stregone Waweru
lo apostrofò: «Tu ci hai assicurato
che sei venuto in mezzo a noi per
farci del bene, ed ecco che ora ci
porti un gran male, fabbricando la
tua casa su questa collina sacra; Dio
si è offeso, ci nega la pioggia e con la
ostinata siccità annienta i nostri raccolti
e vuol farci morire di fame».
b) Accusa di avvelenamento. Era
morto Wanghengie, un operaio addetto
alla controversa costruzione
della missione sulla collina Niagaitua.
Il mundu-mugo colse la palla al
balzo per diffondere la notizia che il
bianco avvelenava i kikuyu, per pascersi
di notte dei loro corpi. L’accusa,
che mirava ad isolare il missionario,
sortì un certo effetto: «Per
quasi due mesi restammo isolati dalla
gente, per quella specie di blocco
morale di cui gli stregoni, con la loro
infame calunnia, erano riusciti a
circondare la missione».
c) Accusa di sterilità. Il mundumugo
ammoniva incessantemente:
«Chi si fa cristiano non avrà figli in
eterno!». Lo stesso capo Karuri, sul
punto di convertirsi al cristianesimo,
si sentirà minacciare: «Amico, prenditi
guardia! Ti proibiranno di avere
dei figli: vedi un po’ se essi ne hanno!».
Di fronte a tali accuse, il missionario
rispose con l’azione catechetica
e sanitaria. E… qualche mundumugo
mutò atteggiamento.

DA RIVALI AD AMICI
Il primo incontro fra un missionario
e un operatore magico avvenne
il 12 ottobre 1902 (a Tuthu?), per
iniziativa di padre Perlo. Egli intuì
subito l’eccezionalità del personaggio
e, da abile stratega, gli chiese un
appuntamento, come qualsiasi altro
cliente. Al termine il mundu-mugo
pronunciò il responso: favorevole in
tutto.
Padre Rodolfo Bertagna ne cercò
l’abboccamento per un’intervista su
Dio. «Gli chiesi se sapeva così bene
le cose di Dio, come si intendeva
delle sue pecore… Tutto il suo scibile
in materia si riduceva a questo: esservi
due dèi; uno in alto per le cose
al di sopra della superficie terrestre
ed uno in basso, entro terra, da cui
vanno quelli che muoiono. Concluse
la dissertazione con un’aria trionfante,
visto che non l’avevo mai interrotto
né contraddetto».
Diversi missionari strinsero amicizia
con il mundu-mugo. Poteva capitare
che, durante il catechismo, avessero
come uditore lo stesso operatore
magico… L’argomento di una
lezione era l’unità di Dio. Terminata
l’esposizione, il mundu-mugo ap-
provò il maestro, pur stravolgendo
il senso del discorso. «Sentite, uomini,
il padre ha parlato bene. Noi
credemmo sempre che ogni collina
avesse il suo dio, e ci sbagliavamo.
Non ci sono che due dèi: uno per i
bianchi e uno per i neri…».
Il mundu-mugo e padre Antonio
Borda Bossana, una volta conosciutisi,
entrarono in confidenza. «Mi
racconta le istruzioni che ha sentito
dalle suore riguardanti l’eternità dell’anima,
l’unità di Dio, giusto e onnipotente,
e aggiunge che anche lui
ora, quando va a medicare i malati,
fa la preghiera al Dio del patri e insegna
tutto quanto ha sentito di
nuovo. In verità da questi stregoni
non era da aspettarsi così subito un
aiuto tanto prezioso».

LA GRANDE RINUNCIA
Leggiamo in un diario anonimo:
«Ho trovato che i nostri insegnamenti
sono assai diffusi e (per così
dire) inconsciamente assorbiti; tanto
che molti anziani ed anche qualche
stregone mi enunciarono le cose
da noi insegnate riguardo a Dio,
ai suoi attributi, all’anima umana e
alla sua destinazione oltre la tomba,
miste colle loro credenze».
Il testo, del 1905, conferma il mutato
rapporto fra missionario e mundu-
mugo. Non era ancora la conversione,
ma per l’evangelizzatore era
già un consolante risultato. Il salto
di qualità per l’avvicinamento al cristianesimo
fu l’accettazione che i figli
dello stregone si battezzassero.
Karogo aveva cinque mogli e una
stalla che rigurgitava di vacche. Era
un mundu-mugo convinto; per la sua
rettitudine, prudenza e ospitalità era
venerato come un patriarca nell’intera
regione di Tetu e Masera. Acconsentì
che il figlio ventenne Momboy
si convertisse al cristianesimo. A
casa sua strinse un patto di amicizia
con la missione… a scapito di un magnifico
montone!

IL MISSIONARIO NON È…
«Non esiste religione senza il suo
mundu-mugo». Secondo questo proverbio
kikuyu, il missionario fu assimilato
all’operatore magico. Infatti
anch’egli, come il mundu-mugo, curava
gli ammalati, indiceva preghiere
per la pioggia, consigliava.
Padre Gioachino Cravero ascoltò
un dialogo fra un anziano e il capo
Karuri. «Dunque – interruppe il vecchio
– i padri sono anch’essi stregoni?
». «Sicuro – rispose convinto Karuri.
Qual paese e qual popolo non
ha i suoi stregoni? Li hanno i bianchi
in Europa… Perfino Dio in cielo
ha i suoi stregoni, per dare le medicine
a quelli che stanno lassù con lui.
Non è così, patri?».
Padre Cravero non gradì il paragone.
E, tutte le volte che il suo lavoro
era equiparato a quello del presunto
collega, metteva i puntini sulle
«i»: il patri insegnava una verità
certa e traeva la dottrina dalla sapienza
di Dio, mentre il mundu-mugo
si affidava alla divinazione.
Il missionario non accettò di essere
paragonato all’operatore magico
neppure nel campo medico, per
non inficiare il messaggio evangelico
della stessa magia. Che la religione
kikuyu fosse compenetrata di elementi
magici costituiva per lui una
ragione in più per salvaguardare
la propria da una simile affinità, allo
scopo di proporla come un’alternativa
assolutamente nuova.

IL PREZZO DELLA SPOSA
«Intrattenetevi quanto
volete con i neri…
Decantate loro i diritti
delle donne…
Essi vi risponderanno
con il sorriso più fine:
“Ma… la donna
non è un uomo”».

POVERE DONNE!
Il primo impatto del missionario
con la donna lasciò subito una
traccia profonda nel suo cuore. Le
bambine nude, le ragazze rapate,
le madri a seno scoperto o vestite
con una ruvida pelle
imbevuta di grasso misto a ocra
lo impressionarono.
L’impressione si tramutò immediatamente
in «compassione», allorché
apparve la mole di fatica sopportata
dalla donna. «I kikuyu appartengono
ad una bella razza, che
però nelle donne è degenerata a
causa delle eccessive fatiche».
Il missionario dovette aver ritratto
la donna continuamente curva
sotto pesanti carichi, se
scrisse: «In questo paese la
donna è la vera bestia da soma.
Dal mattino alla sera ogni
riposo le è sconosciuto». Il paragone «bestia da
soma» riecheggerà ancora
nel 1954.
Ci si aspetterebbe un po’ di considerazione
per la donna incinta.
Invece… «le donne sono non di
rado, insieme colle loro creature,
vittime innocenti di tanta schiavitù.
Non sono pochi i casi di aborto
(spontaneo), come sono
ancora abbastanza frequenti
le morti di giovani spose nel
momento di dare alla luce il
frutto delle loro viscere».
Che il «sesso debole» svolgesse
mansioni più numerose del «sesso
forte» è fuori discussione. Ecco che,
mentre le mogli sudano nel campo,
i mariti «vanno a zonzo» a tracannare
birra. Ecco che mentre le sorelle
sono impegnate nel trasporto
di un carico, i fratelli guerrieri si allenano
nel canto e nella danza o lucidano
le lance. E mentre le ragazze
collaborano con le missionarie nella
conduzione di orfanotrofi ed asili,
i ragazzi a scuola rifiutano ogni lavoro,
come i genitori maschi.

INFERIORITÀ PARADOSSALE
La donna subiva una paradossale
discriminazione: non solo svolgeva
un’azione economica superiore a
quella dell’uomo, ma l’assolveva in
una inferiorità psicosociale, indotta
e mantenuta dalla nascita alla morte.
Alla nascita di un figlio, la madre
e le sue assistenti emettevano un trillo
di gioia, ripetuto cinque volte se
era maschio e tre se femmina. Il padre,
per celebrare la venuta al mondo
di un nuovo rampollo, tagliava
cinque o tre canne da zucchero: cinque
per un «lui» e tre per una «lei»…
L’iniziazione per i giovani è l’evento
per antonomasia. È una festa
per tutti, specie per i candidati. Trattandosi
tuttavia delle ragazze, i festeggiamenti
si svolgevano in tono
più dimesso rispetto a quelli per i ragazzi:
una minore coreografia di balli
e canti, un’offerta ridotta di cibi e
bevande.
La donna era la massima incarnazione
della forza-lavoro: dissodava
il terreno, seminava, mieteva e
trasportava a casa. Il suo lavoro non
sempre era compensato da un adeguato
raccolto; bastava una breve
siccità per annullare la sua fatica. In
tale caso, all’inizio di una nuova semina,
la donna doveva assoggettarsi
alla purificazione con il sacrificio
di una pecora o una capra, onde rimuovere
il thahu (impurità) che aveva
frustrato il dovuto raccolto.
Quando la donna cadeva ammalata,
rischiava la morte per mancanza
di assistenza: le si prestava un po’
di cura nei primi giorni di malattia;
ma, se non guariva in fretta, era abbandonata
a se stessa. È sorprendente
che quasi tutti i morenti rinvenuti
dai missionari nella brughiera
fossero donne o bambini.
Nel 1930 era ancora imperante,
se padre Ciravegna poté scrivere:
«Intrattenetevi quanto volete con i
neri, anche coi più svegli ed intelligenti.
Decantate loro i diritti delle
donne; spiegate con pazienza le ragioni
buone a persuaderli dell’onore
a cui la donna ha diritto in forza
della sua debolezza e delle sue funzioni
di madre… Essi, scrollando il
capo, vi risponderanno col loro sorriso
più fine: “Ma… la donna non è
un uomo!”».

LA DONNA SPOSATA
Una moglie come si comportava
nel regime poliginico? Alla stregua
del proverbio «due donne insieme
sono due vasi di veleno», ci si aspetterebbe
gelosie e litigi all’ordine del
giorno. Non era escluso: per questo
ogni moglie viveva separata nella sua
capanna.
Tuttavia, non di rado, si assisteva
ad una pacifica convivenza. Fratel
Benedetto Falda rilevò: «Il bisogno
di aiutarsi per i lavori faticosi dei
campi, il taglio della legna, ecc. fa sì
che queste disgraziate, sfiorite dalla
loro giovinezza, conducano una vita
senza sogni, perché non sono considerate
degne di essere consultate
o di condividere col marito l’amministrazione
della famiglia, ma solo riservate
a produrre figli che aumentino
la ricchezza del capo famiglia».
La poliginia, pertanto, diventava una
scappatornia per sgravarsi dal lavoro.
Talora l’insofferenza femminile esplodeva:
la donna fuggiva di casa.
Era un gesto di enorme coraggio,
perché carico di conseguenze. Se la
moglie abbandonava il marito senza
essere stata picchiata, non poteva più
tornarvi se prima non lo avesse pacificato
«con il sacrificio di un montone». Il che costava.
Eppure alcune mogli erano così esasperate
che ne combinavano «di
belle e strane per costringere il marito
a percuoterle».
Altre volte era l’uomo ad assumere
l’iniziativa di cacciare la donna.
Questo avveniva quando la sposa
dimostrava poco amore al lavoro,
oppure era rea di infedeltà coniugale.
Fu il caso di Wangiuku, adultera
e pigra. La donna, cacciata, andò errando
di casa in casa per un po’ di
cibo e un ricovero per la notte. Il figlio
illegittimo trovò rifugio nell’orfanotrofio
della missione, mentre la
madre finì la sua esistenza azzannata
dalla iena.
Nelle liti minori fra marito e moglie,
il missionario interveniva talora
da paciere. «Non di rado la rappacificazione
di mariti e mogli avviene
per i buoni uffici del patri, raggiunta
con soddisfazione delle parti».

ASILI, COLLEGI, CONVENTI
Con il taglio del cordone ombelicale,
madre e figlio incominciano ad
existere separatamente. Chi nasce,
tuttavia, è ben lungi dall’essere autonomo,
in quanto ha estremo bisogno
degli altri e, in caso di allattamento
naturale, della donna in modo
esclusivo.
Le madri kikuyu raramente, durante
il giorno, deponevano i figli
poppanti. Le vedevi al mercato o in
chiesa, mentre sarchiavano o attingevano
acqua, con il bimbo sempre
lì: sulla schiena o attaccato al capezzolo.
E chi attendeva agli altri figli?
Non «lui», ma sempre «lei».
Però agli svezzati si concedeva parecchia
libertà: un’espressione eufemistica
per nascondere l’impossibilità
fisica di curarsi di loro.
Il missionario, osservando quotidianamente
molti ragazzetti abbandonati
a se stessi e affamati, decise
di raccoglierli in asili. Nel 1920 ne esistevano
15. L’iniziativa favorì sia i
figli sia le madri, per ragioni facilmente
intuibili.
In alcune missioni l’affluenza di
bambini all’asilo fu tale che, mancando
del necessario personale di
assistenza, le missionarie furono costrette
ad accettare solo i figli di famiglie
cristiane. «E non potete immaginare
quanto le donne ci prendono
gusto al sollievo che l’asilo loro
apporta; al mattino presto sono già
lì con i loro piccini; mentre alla sera
non compaiono mai a ritirarseli».
Un altro passo mosso dal missionario
per la «liberazione della donna
» si concretizzò nei collegi femminili.
Il primo sorse a Nyeri nel
1911; nel 1921 erano 13, capaci di ospitare
250 ragazze. In questi centri
erano istruite religiosamente, imparavano
a leggere e a scrivere, si esercitavano
in cucito e culinaria. Specialmente
erano avviate al matrimo-
nio cristiano attraverso una capillare
sensibilizzazione ad opporsi alla
poliginia, basata sulla compra-vendita
della donna.
L’unico onore raggiungibile dalla
donna era quello di generare figli. La
sterile era oggetto di scherno. E una
ragazza che, volontariamente, avesse
rinunciato alla mateità, avrebbe
costituito un caso serio aberrante. Il
missionario mirò proprio a questo:
avere delle donne che professassero
la verginità per «vocazione».
Nyeri, 8 dicembre 1929: 10 ragazze
kikuyu emisero il voto di castità
come suore. Quando, due anni
prima, vestirono l’abito, si tenne il
«siku kuu ya airitu» (il grande giorno
delle vergini).
Per i kikuyu «airitu» sono le ragazze
non iniziate che, se rimaste tali,
non sarebbero mai state ritenute
donne. Il fatto che per delle airitu si
organizzasse una festa infliggeva un
colpo severo alla mentalità kikuyu.
All’unico ideale della fecondità-mateità,
condizione imprescindibile
per realizzarsi, si replicava con quello
inedito della verginità… per il regno
dei cieli (cfr. Mt 18, 12).
Ma la verginità o il celibato comportava
per i kikuyu un atto di fede
nell’assurdo. Economicamente e socialmente
si infrangeva l’istituzione
della «ricchezza della sposa»…
Per l’evangelizzatore era pure «la
rivincita del sesso debole»: dopo essere
stato calpestato per secoli con
dicerie e sarcasmi, esso acquistava
dignità e rispetto anche al di fuori
del dogma della tradizione.

RESISTENZE AL MUTAMENTO
Il sistema maschilista reagì prontamente
ai tentativi di mutamento.
Sull’affluenza dei bambini all’asilo
gravarono le solite accuse di cannibalismo
e di avvelenamento, rivolte
al missionario. Ma, con il passare del
tempo, le prevenzioni scomparvero.
Più lungo si rivelò, invece, il contrasto
circa le ragazze che frequentavano
la missione; a tal punto che i
collegi si limitarono ad essere solo
dei dormitori. Si temeva (non a torto)
che le ragazze si convertissero al
cristianesimo.
Nel giugno 1932 a Murang’a il Local
Native Council discusse la proposta
delle missioni cattoliche di aprire
e finanziare un collegio femminile.
Il primo kikuyu che interloquì
sull’argomento aveva fama di essere
progressista; ma sostenne che «la
donna è una schiava, che deve lavorare
soltanto per il marito e che, pertanto,
non deve essere considerata
degna di educazione alcuna». Così
ragionarono anche gli altri membri
del Consiglio, sancendo la fine dell’emancipazione
della donna.
Ancora più tenace fu l’opposizione
alle postulanti della «vita religiosa
». Poiché, mentre le ragazze del
collegio, alla fine si sposavano e la famiglia
percepiva «il prezzo della
sposa», quelle che invece si chiudevano
in convento non procacciavano
il becco di un quattrino.
Per protestare contro il mancato
guadagno, una madre giurò di impiccarsi
ad un albero del monastero.
Vari genitori fecero ricorso al governo
coloniale, che impose al missionario
di restituire le ragazze o di
pagare una somma equivalente al
«prezzo della sposa». Altre furono
rapite mentre lavoravano alla missione,
rinchiuse in una capanna per
parecchi giorni e battute a sangue.
Erano altri tempi.

ECCO IL RE. EVVIVA IL RE!
Il tormentato
cammino di Karuri
verso il battesimo.
Ma che fare delle
50 mogli?
E la conversione
fu libera? Il valore
determinante
del bene.

NELLA LEGGENDA… DA VIVO
Quando a Tuthu, nel 1902, avvenne
il primo incontro fra il capo
Karuri e il missionario, il kikuyu era
all’apice della sua fama. Ricchissimo
di terre e bestiame, di figli e mogli
(ne avrebbe accasato almeno 50!),
Karuri era il «re» più temuto dagli altri
capi e il più rispettato dalla popolazione.
Intelligenza e forza, ambizione
e volontà gli avevano spianato
la strada verso una eccezionale
ascesa sociopolitica. Come se non
bastasse, vantava una storia personale,
che lo proiettò nella leggenda
ancora vivo.
Karuri sarebbe stato gravemente
ammalato. Secondo il costume locale,
fu confinato nella brughiera e,
quando sembrò morto, abbandonato
in pasto alle iene. Ma qualcuno lo
riportò a casa e guarì. L’evento fu il
trampolino di lancio verso il successo.
Era evidente, infatti, che questo
uomo, vincitore della morte, avrebbe
operato grandi cose.
Per spiegare il fatto si ricorreva al
mito della «doppia origine». Sarebbero
esistiti «due» Karuri: il primo,
quello umano, morto nella foresta…
per lasciare posto al secondo, di
provenienza divina. L’idea era così
radicata che qualcuno, dopo avere
perlustrato la cappella dei missionari,
«vista la madre e il figlio di Dio»,
avrebbe domandato: «Karuri
dov’è?». Come se la chiesa, la casa
di Dio, dovesse essere la naturale dimora
del capo.

UNA FIGURA COMPLESSA
Karuri fu anche un mundu-mugo,
«facitore della pioggia». Si sarebbe
pure dato alla divinazione. «I suoi
responsi sono i più stimati. Egli è richiesto
soprattutto quando si ammala
un capo, e ci va con solennità.
Però egli, più furbo, quando non sta
bene, viene da noi (missionari), perché
ha ormai provato che le nostre
medicine, specie se purganti, l’effetto
lo producono con sicurezza».
Commentando la morte di un ragazzo,
avvenuta nonostante il sacrificio
ufficiato da un mundu-mugo,
Karuri esclamò: «Quanto sono ignoranti
i kikuyu!… Correte a fare la cabala
dallo stregone, e intanto la gente
muore. Non sapete che, prima dei
sacrifici dei montoni agli spiriti, bisognano le medicine? E per dare le
medicine adatte soltanto il patri e le
suore non sbagliano».
A Tuthu pioveva troppo e le messi
marcivano sui campi. Karuri, arrabbiato
con i «facitori della pioggia
» per non essere stati capaci di
arrestarla, li radunò tutti, «e ora sono
là, legati al collo, che si sforzano
coi loro gesti a far cessare la pioggia…
Se non ce la faranno, staranno
lì. E quanti colpi di kiboko si sono
già presi!… Di notte si ritirano nella
capanna; però sono proibiti di accendere
il fuoco per scaldarsi».
Un simile comportamento, contraddittorio,
lasciava trasparire una
complessa personalità, capace di
esulare dal canone della tradizione.
Per il missionario era di buon auspicio.

INTESA E FASCINO
Tra l’evangelizzatore e il leader
nacque subito un’intesa. Al primo
giovò molto, per superare la diffidenza
del popolo. Di fronte agli altri
capi ed anziani, «egli (Karuri)
parla di noi (missionari) e ci presenta
ai suoi sudditi. Dice che siamo venuti
non con pensieri cattivi, ma per
far loro del bene, curarli delle malattie,
insegnare a leggere e scrivere,
difenderli dai nemici».
A Karuri interessò soprattutto l’istruzione.
La prima scuola fu aperta
nel 1902, frequentata dallo stesso
capo e dai suoi figli. All’illustre allievo
il missionario riservò un trattamento
speciale con lezioni private.
A volte nel capo albergavano secondi
fini, come quando esigeva dal
bianco qualche regalo (una coperta
colorata, ad esempio). In tali frangenti
il missionario rifuggiva dal patealismo,
scoraggiando il pretendente.
Al pari di tutti, Karuri subì il fascino
del missionario, specie del suo
servizio gratuito. Secondo l’usanza
kikuyu, chi si rivolgeva ad un superiore
per consigli o per risolvere un
problema, gli offriva un montone
quale ricompensa. Ma Karuri, impressionato
dalla generosità del patri,
non fu da meno: soppresse ogni
donativo dovutogli.
Il missionario aspettava Karuri al
«varco». Nel frattempo mise in atto
varie iniziative per accelerae la
conversione.
?¡ Risiedere vicino al capo. La località
dove erigere la missione, oltre
che centrale rispetto alla gente, doveva
soddisfare il requisito di «essere
alle costole di Karuri, per avere
una costante influenza su di lui».
?¡ Catechizzare il capo a tu per tu.
L’efficacia dell’iniziativa consisteva
proprio in quel «a tu per tu».
?¡ Riposo domenicale alla missione.
Scrisse padre Gaudenzio Barlassina:
«Pigliando Karuri in disparte
gli suggerii, poiché imita il bianco,
di imitarlo anche di domenica,
rifiutando la cira (assemblea) e tutto
il suo lavoro; la festa sia per tutti
di Dio e trascorsa con il padre. Accettò
volentieri».

LA DIFFICILE CONVERSIONE
Se le conversioni dei kikuyu al cristianesimo
furono travagliate, quella
di Karuli le superò tutte per difficoltà.
Lo «scandalo dell’apostasia»
dalla tradizione e il timore della conseguente
vendetta degli ngoma pesarono
sull’animo di Karuri come
un incubo. Gli anziani e i capi minori
gli puntavano di continuo il dito
del «non ti è lecito».
Gli sciamani si dimostrarono i più
irriducibili, poiché la defezione del
grande capo avrebbe segnato la loro
parabola discendente. Senza di
lui, come avrebbero potuto conservare
il potere? Secondo gli anziani,
era gravissimo «correr dietro a certe
dottrine dei bianchi», che stavano
mangiandosi tutta la ricchezza
del paese.
Fra le difficoltà affrontate da Karuri,
è da menzionare anche la critica
pretestuosa del protestantesimo
e dell’islam contro il cattolicesimo.
I missionari anglicani inglesi guardavano
in cagnesco quelli cattolici
italiani (e viceversa). «Chi sono gli
italiani? Povera gente in cerca di che
sfamarsi. Figurarsi! Nel loro paese
sono tanto schiavi che sono obbligati
a fare gli askari per niente… I padri
poi ti costringeranno ad adorare
una muiritu, ad inginocchiarti davanti,
vedrai!» (allusione alla Vergine
Maria). Per un kikuyu inginocchiarsi
davanti ad una muiritu, cioè
una ragazza non iniziata, era un’umiliazione.
I musulmani sfruttarono l’opinione
secondo cui l’islam, oltre ad assicurare
un progresso rispetto al culto
tradizionale, sarebbe stata anche
una religione più adatta alla mentalità
kikuyu.
Che dire, poi, della scandalosa incoerenza
degli stessi cristiani con le
loro intee divisioni? Gli ufficiali
dell’Impero britannico, attillati, seri
e potenti, «com’è che non vengono
in chiesa? Perché non sono tutti
cattolici, se la vostra è l’unica vera
religione? E il re d’Uganda, perché
non è cattolico, ma protestante?».
Infine l’ostacolo della poliginia.
Non fu di poco conto per Karuri rinunciare
alle sue 50 mogli. Al di là
della componente affettiva (da non
sottovalutare), quelle donne valevano
centinaia e centinaia di montoni,
dozzine e dozzine di buoi! Con il
battesimo tutto sarebbe svanito.

GIUSEPPE
E MARIA CONSOLATA

Candidata al battesimo c’era pure
Wanjiru, «la regina» delle 50 consorti
di Karuri. Fu lei che il capo
scelse come sposa per il resto della
nuova vita. Le altre furono date in
moglie ad amici e conoscenti, con i
quali Karuri aveva debiti di riconoscenza
per servizi ricevuti.
Il 6 gennaio 1916 Karuri e Wanjiru
furono battezzati con il nome di
Giuseppe e Maria Consolata.
Karuri visse appena 5 mesi da cristiano.
Il missionario, che ne aveva
favorito la conversione fin dal 1902,
vide coronati i propri sforzi dopo 14
anni, quando la vita del capo volgeva
ormai al tramonto.
Quali furono gli effetti dell’avvenimento
per la causa dell’evangelizzazione?
Buoni, secondo padre Perlo.
Qualche missionario credette di
scorgere in tutta la popolazione l’attesa
evoluzione psicologica, favorevole
all’accettazione del battesimo.
Alcuni kikuyu si sarebbero perfino
chiesti: «Karuri si battezza! È dunque
questa la via da seguire?» (*).
Ma la realtà fu diversa. Maria Consolata,
per esempio, la promettente
moglie cristiana di Karuri, morto il
marito il 14 maggio 1916, ridiventò…
Wanjiru. Altrettanto significativo fu
il fatto che nessuno dei figli più influenti
di Karuri si fece cattolico.

PRESSIONE?
Ogni conversione religiosa trascende
la logica umana. Per i missionari
quella di Karuri era da attribuirsi
principalmente all’azione della
«grazia divina».
Questo tuttavia non fuga le perplessità
umane sull’accaduto. Non si
potrà mai stabilire quanto la conversione
del capo sia stata libera e sincera.
Ci si chiede se nel missionario
ci sia stata pressione… In ogni caso la
sua buona fede è fuori discussione.
La ricerca di un’azione adatta al contesto
culturale e, particolarmente, gli
scoraggiamenti e i dubbi dimostrano
che l’evangelizzatore non ebbe altro
scopo che quello religioso e che
operò secondo coscienza.
La buona fede, dimostrata e convalidata
da opere di carità, salvò i
missionari dall’essere accomunati ai
colonialisti. «Il padre non è uno straniero
» osserveranno i kikuyu durante
la lotta dei Mau Mau per l’indipendenza
del Kenya (1950-54).
Ma le stesse opere di carità potrebbero
prestarsi all’accusa: «Così
facendo, voi li comprate alla fede».
Però giova ricordare come i missionari
si siano astenuti da doni inutili
e abbiano proposto la conversione
evangelica nella sua essenza.
Essi hanno operato con dedizione
cristiana, sull’esempio di Gesù
Cristo, «il quale passò facendo del
bene e sanando tutti» (At 10, 38).
(*) Il personaggio fu analizzato da padre
Filippo Perlo nel libro Karoli, Istituto
Missioni Consolata, Torino 1925. Il
sottotitolo «Il Costantino Magno del
Kenya» è eloquente.

Superficie: 582.646 kmq.
Popolazione: 30 milioni (stima 2000).
Capitale: Nairobi (2,5 milioni di abitanti).
Gruppi etnici: kikuyu 17,7%, luhya 12,4%, luo 10,6%,
kamba 9,8%, kisii 6%, meru 5%, mijikenda 5%, kalenjin,
turkana, maasai, pokot, borana, samburu, indo-pakistani
(80 mila), europei (45 mila), arabi (40 mila).
Lingue: kiswahili (ufficiale), inglese e idiomi locali di origine
bantu (luyia, gusii, guria, akamba, kikuyu, embu, meru,
mbere, tharaka, swahili, mijikenda, segeju, pokomo, taita,
taveta), nilotici (maasai, samburu, turkana, teso, njemps,
el molo, kalenjin, nandi, marakwet, pokot, tugen, kipsigis,
elkony, luo) e cusciti (boni, somali, rendille, orma, borana,
gabbra).
Religione: tradizionale 60%; cattolici 26%; protestanti
7%; musulmani 6%.
Ordinamento statale: Repubblica presidenziale; membro
del Commonwealth, Onu, Oua, associato Ue.
Presidente e capo del governo: Daniel Arap Moi dal
1978. Dicembre 2002: elezioni presidenziali senza Moi.
Economia: agricoltura per esportazione: caffè, tè, ananas,
piretro, fiori, cereali; allevamento, specie tra i pastori
nomadi; turismo (377 milioni $ Usa nel 1997).
Indice sviluppo umano: 0,508 (130° su 174 paesi).
Analfabetismo: 17,5%.
Pil pro capite: 350 $ Usa (1998).
Debito estero pro capite: 242 $ Usa (1998).

FONTI CONSULTATE
Tutte le testimonianze e citazioni,
riportate nel presente articolo e
in quelli successivi, sono tratte con
qualche adattamento da: Francesco
Beardi, I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FRA I KIKUYU DEL KENYA, 1902-
1933, Torino 1980.
È una tesi di laurea in antropologia
culturale alla facoltà di Scienze
politiche del capoluogo piemontese,
che si avvale di tutti gli articoli
sui kikuyu pubblicati dalle
riviste mensili «LA CONSOLATA» e
«MISSIONI CONSOLATA» dal 1902 al
1933. La tesi valorizza pure diari
di missionari, non pubblicati, ma
esaminati da: Alberto Trevisiol, I
PRIMI MISSIONARI DELLA CONSOLATA NEL
KENYA, 1902-1905, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1983.
Per un’introduzione alla storia e
cultura dei kikuyu fino all’arrivo dei
missionari della Consolata, si legga
il saggio di Francesco Beardi,
I KIKUYU DEL KENYA, in «Il popolo
kikuyu», Edizioni Missioni Consolata,
Roma 2001, pp. 11-30.
Circa l’impatto del cristianesimo
sulla cultura tradizionale kikuyu, si
veda: Silvana Bottignole, UNA CHIESA
AFRICANA SI INTERROGA, Morcelliana,
Brescia 1981.

GLOSSARIO KIKUYU E MERU
– Airitu: ragazze non iniziate
– Areki: sodalizio degli anziani
(meru), meno importante di «njuri»
– Askari (usato da europei): soldati
kenyani alle dipendenze degli
inglesi
– Athuri: classe degli anziani
– Mbu: grido di allarme nel pericolo
– Mugumu: albero sacro
– Mundu-mugo: medico tradizionale,
operatore magico, indovino,
stregone (volgarmente)
– Mungu (swahili): Dio
– Mware: suora missionaria
– Mwareki: singolare di «areki»
– Mwiritu: singolare di «airitu»
– Ngai (kikuyu): Dio
– Ngoma: spirito malvagio di un
defunto
– Njuri: classe degli anziani meru
– Patri: padre missionario
– Thahu: impurità rituale

CHI È II L DEMONIO?
Un punto focale, secondo la metodologia
missionaria di Murang’a,
fu la presentazione del messaggio
cristiano usando le categorie
mentali della cultura locale. Oggi si
parla di inculturazione del vangelo.
I missionari come si atteggiarono
di fronte a questa tematica? Va da sé
che, ai loro tempi, essi si sentirono
latori di una religione che doveva essere
più accettata che proposta. Ma
sorprende come la loro predicazione
si sia incarnata nell’habitat culturale
locale, assumendone talora la dialettica
concettuale.
Ecco un dialogo fra padre Cagliero
e i lavoratori della missione. Il tema
è: «Il diavolo non è l’anima dei
defunti».
– Chi è il diavolo? – chiese il padre.
– Non lo sappiamo. Dillo tu e lo sapremo
anche noi.
– Secondo voi, il diavolo è l’anima
dei morti. È così?
– Sì, padre. Quando uno si ammala,
uccidiamo un montone per offrirlo al
diavolo, dicendo: «Anima di mio padre
cessa di fargli del male».
– Ebbene, questo è errato. Se il demonio
fosse l’anima dei nostri genitori
defunti, come voi dite, come potrebbe
farci del male? Un genitore,
che da vivo ama i figli, morto che sia,
cessa forse di amarli?… Tu, per esempio,
quando sarai morto, maleficherai
i figli che ora ami? «No, mai!»
rispose l’interpellato.
– Allora, perché affermate che il diavolo
è lo spirito dei morti?
– Adesso che conosciamo la verità
non lo diremo più.
Lo stesso missionario si cimentò
con un articolo complesso del credo
cristiano: la divina figlianza adottiva
dell’uomo. «Per spiegarmi, mi servii
di un fatto comune fra i kikuyu.
Un fanciullo, senza genitori e parenti,
viene adottato da un altro nel
modo seguente: l’adottante uccide
un montone alla presenza dell’adottando,
riempie una tazza di sangue
e, dopo avee bevuto alquanto, la
porge da bere al fanciullo, che con
quell’atto diventa suo figlio. Così –
dissi – fa Iddio con gli uomini. Questi,
nascendo macchiati, sono senza
padre in cielo, sono anzi schiavi del
demonio; ma l’acqua del battesimo,
data dal padre, libera dalla schiavitù
del demonio e ci fa figli di Dio».
L’assemblea, attonita ed ammirata,
esclamò: «Costui è sapiente e sa
di tutto: conosce perfino i nostri costumi».
Una missionaria sfruttò la categoria
del thahu per spiegare il
peccato originale: come il primo è una
impurità che contamina, diffondendosi
a macchia d’olio, così il secondo
si trasmette di padre in figlio.
Ma il battesimo purifica tutto.

IL BUONO E IL CATTIIVO
Si è detto che i primi battesimi solenni
di adulti risalgono al 1909-
1911. Non è esatto. Il primo battesimo
fu quello di Waweru, mundumugo
di Murang’a, l’11 giugno 1905.
Mentre era catecumeno, un’epidemia
gli sterminò tutti i montoni. La
moglie l’accusò di essere lui la causa
della moria, perché favorevole alle
«dottrine del bianco», irritando
così gli antenati. Waweru rispondeva:
«No, no: i genitori vogliono sempre
bene ai loro figli, e i nostri vecchi
non hanno cessato di amarci. Iddio
è padrone dei nostri montoni: c’è
dunque da arrabbiarsi se egli dispone
delle cose sue?».
A chi gli consigliava di sacrificare
agli spiriti per placarli, dichiarava:
«Preferisco rivolgermi direttamente
a “Dio padrone”, il quale saprà bene
far cessare i miei infortuni». Fu battezzato
sfidando gli altri stregoni,
che lo tacciarono di tradimento.
Affascinante è la storia di Kagwe,
di Karima. Fabbro trentenne,
impazzì e bruciò la sua officina. Ustionato
in tutto il corpo, guarì, ma
non dalla pazzia. La fantasia popolare
lo circondò presto di un alone
mitico: figlio delle fiere, dormiva con
loro trasformandosi egli stesso in bestia;
si cibava di cadaveri come le iene,
lottava coi leoni. Godeva però di
intervalli di lucidità; anzi, erano
sempre più frequenti.
Un giorno ritoò sulle ceneri della
sua capanna, sotto lo sguardo curioso
di 40 stregoni, che decisero di
guarirlo del tutto e avviarlo alla magia.
Kagwe divenne mundu-mugo, la
cui fama valicò la regione, al punto
da scalzare quella di tutti gli altri 40
messi insieme.
Venuto a diverbio con il capo degli
stregoni, lo infilzò con la lancia
e gli succedette nella medesima dignità.
Uccise pure un soldato indigeno;
e fu sferzato con 20 colpi di kiboko
per 10 giorni consecutivi ed imprigionato
un anno.
Pessimi i rapporti con la missione.
Accusò il padre di aver causato la
meningite che decimò i kikuyu; ma
il missionario, proprio durante il processo
che dibatteva il caso, lo zittì.
Kagwe allora mutò tattica: cercò l’intesa
truccata con il rivale bianco.
E qui il tranello giocò lo stesso artefice,
a tal punto che una sera chiese
al patri il battesimo. «Tu!».
– Sì, io, Kagwe!
– Vedremo…
Quel «vedremo» comportò prove
interminabili. Quando ormai tutto era
pronto, ne arrivò ancora una, l’ultima,
la più ardua. «Kagwe, io ti battezzo,
ma a una condizione…».
– Quale?
– Che tu edifichi la tua casa presso la
missione.
Il mundu-mugo tentennava. L’indomani
disse: «Accetto». Però, sul
punto di costruire la capanna, buttò
via ogni strumento gridando: «No,
non posso!». Il padre escogitò un
compromesso: affidare il lavoro a operai.
L’8 settembre 1919 Kagwe, ex assassino
e mundu-mugo infausto, si
chiamò Giovanni Battista.

Quando lei osò… parlare
A Tetu e a Gikondi alcune ragazze catecumene si ribellarono alla poliginia,
determinando una situazione conflittuale.
Ma l’esempio più clamoroso di «femminismo», che coinvolse anche il missionario,
riguardò Wangare, accasata presso Kemoso. Il marito non aveva
ancora consegnato tutti i montoni pattuiti per «il prezzo della sposa» e,
per giunta, la bastonava.
La donna notificò il fatto al genitore, il quale, in vista del processo, cercò
il sostegno del patri. Al processo Wangare osò prendere la parola opponendosi
a Kemoso, che naturalmente si dichiarava innocente.
«Non l’avesse mai fatto! Esplose tutto l’antifemminismo dei kikuyu, con
l’aggiunta dell’assioma che le donne non hanno voce in capitolo. Ciò che
rovinava tutto era l’atteggiamento nuovo, contrario alla tradizione, di Wangare,
la femminista selvaggia, che non sapeva, non voleva tacere». Con un
gesto espressivo di protesta, gli anziani e il marito abbandonarono il processo.
La donna perse la battaglia e fu condannata, perché il suo intervento nel
processo fu giudicato un affronto al consiglio degli anziani. Fu condannata
perché lei, donna, aveva parlato in «pubblico», mentre le spettava solo
il «privato».

FRANCESCO BERNARDI

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