Non sono terrorista. Ma…

Ramallah, Nablus e soprattutto Jenin. Morte, distruzione e, purtroppo,sentimenti d’odio che crescono e si radicano negli animi.
Il racconto del nostro inviato nei territori occupati dalle truppe di Ariel Sharon non lascia spazio alla fantasia.

Mai mi sarei aspettato di trovarmi
di fronte ad una devastazione
del genere: Ramallah
è distrutta parzialmente,
Nablus e il campo profughi di Jenin
lo sono quasi completamente.
Lavorare è difficile. Non abbiamo
il permesso di entrare da nessuna
parte: i soldati sembrano quasi
divertirsi ad inseguire i giornalisti.
«It’s like a play: sometime you
win, sometime you lose», spiega
l’anziano riservista che ci ferma su
una stradina di campagna, mentre
per l’ennesima volta cerchiamo di
raggiungere il campo di Jenin. Da
sempre i signori della guerra non
amano fotografi e
giornalisti. E la
guerra di Sharon
non fa
eccezione, come subito possiamo
rendercene conto.
Al quarto tentativo, dopo aver attraversato
quasi tutto il territorio
palestinese occupato dalle truppe
israeliane, riusciamo a raggiungere
la periferia del campo profughi di
Jenin.
Qui si sta ancora sparando.
Torkam, un palestinese di
50 anni, ci offre rifugio nella
sua casa. Pur avendo perduto
quasi tutto, ci prepara una tazza di
caffè.
«Ho lavorato 20 anni in Arabia e
sono tornato in Palestina per vivere
una vecchiaia tranquilla» ci dice.
E prosegue: «Il 3 aprile i soldati sono
entrati con la forza nella mia casa.
Ci hanno legato le mani con il
nastro adesivo, hanno separato
gli uomini dalle donne e i bambini;
questi ultimi sono stati fatti
sdraiare nel prato dove sono
rimasti fino alla sera del giorno
dopo. A noi è toccata la sorte
peggiore: ci hanno bendati e fatti
uscire. Pur non vedendo, mi
sono reso conto di trovarmi
di fronte ad
un plotone d’esecuzione.
Quando ho
sentito che venivano
caricati
gli M16, ho
pensato che
fosse arrivata
la mia
ora». Fortunatamente i soldati al
momento decisivo hanno sparato
in aria. Ma Torkam ci assicura che
lo spavento è stato grande. Non
stentiamo a crederlo…
Poco più in là troviamo riparo in
un’altra casa, mentre i soldati continuano
i pattugliamenti antigiornalista.
Abdala, il più anziano della
famiglia, inizia a parlare: «La mia
casa è stata occupata per due giorni
da più di cento soldati». Entriamo.
L’abitazione è stata ripulita,
ma sono ancora bene evidenti le
scritte in ebraico sui muri e sulle
porte. Le finestre dell’ala sud sono
distrutte. «La mia casa è in una posizione
ideale per sparare sul campo
», ci spiega Abdala, mostrandoci
un bidone pieno di bossoli.
«Siamo senza acqua, cibo, luce,
elettricità e telefono. Solo una volta
le Nazioni Unite sono riuscite a
portarci un po’ di latte in polvere
per i bambini. Io voglio vivere in
pace, non sono un terrorista; ma la
verità è che adesso li odio». Fissa lo
sguardo nel vuoto e trova ancora
la lucidità di ripetere: «Odio Sharon
e i suoi soldati».
Pare che i tanks si siano spostati.
Con altri tre colleghi decidiamo
di tentare la sorte e correre
per i pochi metri che ci separano
dal campo. Appena dentro,
quello che si presenta ai nostri occhi
è indescrivibile: centinaia di case
completamente distrutte, l’acqua
scorre senza sosta dai tubi spezzati,
il fetore è insopportabile. Mi vedo
costretto a strappare un pezzo della
mia maglia per coprirmi naso e bocca.
Il centro del campo e la zona di
Haret Hawashin non esistono più.
È come se tutta la zona fosse stata
colpita da un terremoto al massimo
grado della scala Mercalli.
Dove sorgeva il quartiere di Harat
Sbedi ci sono solo ruderi. In
quello che resta di una casa vediamo
i primi cinque morti. La puzza
è sempre più insopportabile e perdiamo
la lucidità. Quello che notiamo
ci sembra strano: sul muro i
buchi delle pallottole sono concentrati
ad altezza uomo, quasi tutti
in un angolo della stanza. Un
dubbio atroce ci assale: che sia stata
un’esecuzione?
La moschea ci pare, a prima vista,
in buone condizioni, ma quando
entriamo ci dobbiamo ricredere.
È tutto completamente devastato:
sono stati sparati centinaia e
centinaia di colpi. All’uscita incontriamo
Sonia, che appena ci vede
inizia a piangere e, singhiozzando,
ci domanda: «Dove sono gli arabi,
i musulmani, gli stranieri?».
«Hai ragione Sonia, ma non ho
una risposta!». È in questi momenti
che chi fa questo mestiere si
sente completamente impotente:
personalmente, provo che siamo
tutti colpevoli!
La presenza di alcuni sparuti
giornalisti e fotografi che circolano
per il campo danno il coraggio alle
poche persone rimaste di uscire allo
scoperto e a quelli che sono scappati
nei villaggi vicini di tentare di
rientrare nel campo.

IMMIGRATI, RISfidando
tanks e cecchini israeliani,
appostati chissà dove, iniziano
ad arrivare le prime donne. Pare
che ci sia stata una sospensione
del coprifuoco per alcune ore; ma
cercare di entrare è ancora difficile
e bisogna affidarsi alla sorte.
Reada piange disperata su ciò
che resta della sua casa: «Ci ho
messo quasi vent’anni a costruirla
e in un giorno gli israeliani l’hanno
distrutta. Non ho più nulla. Non so
dove sia mio marito; mio figlio è
stato colpito da un cecchino e nessuno
ha potuto soccorrerlo. Credo
che sia qui sotto da qualche parte.
Io sono scappata con i miei due figli
più piccoli, ma adesso sono tornata
e, anche se dovrò ricominciare
da capo, ricostruirò tutto. I miei
genitori sono dovuti scappare da
Haifa nel 1948. Io, che sono nata
qui da due profughi, dovrei forse
andarmene per essere profuga una
seconda volta? Quando me ne andrò
da Jenin è solo ed esclusivamente
per tornare ad Haifa».
Sembrano naufraghi. Si aggirano
in lacrime cercando di ricordare
dove fosse la loro casa; scavano a
mani nude fra le macerie. «Qui c’era
la mia casa», dice una donna. Le
macerie ricoprono, per quasi 3 metri,
quello che una volta era il manto
stradale.
«I soldati hanno sfondato la porta
dei miei vicini. Questi, non avendo
via di uscita, si sono riparati in
una stanza. Poco dopo i bulldozer
l’hanno tirata giù; è lì che dovete
cercare quelle cinque persone», ci
racconta un’altra donna che si ritiene
fortunata, perché è riuscita ad
uscire in tempo dalla sua di casa.
Seduto su un cumulo di macerie,
Amhed sostiene che lì sotto ci siano
due suoi amici: «Non cercate
troppe fosse comuni. Il vero cimitero
è Jenin». Un’altra donna:
«Qui è passato il diavolo e, quando
parlo di diavolo, parlo di Israele,
dell’America e di tutto il mondo».
Può anche essere vero che, come
dice Sharon, il 50 per cento
dei kamikaze palestinesi
arrivasse da questa zona, ma da
quello che vediamo non si è fatto
assolutamente nulla per ridurre i
morti civili.
Non dovevano essere quelle che,
con enfasi, si chiamano «operazioni
chirurgiche»? Nelle strade e all’interno
delle case rimaste in piedi
tutto è stato demolito. Ovunque ci
sono abiti, pentole, frigoriferi, giocattoli…
Qui, con la morte, è arrivato anche
il disprezzo.

Davide Casali

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