MISSIONARIO «GUERRIERO»

L’autografo in margine al calendario
personale riporta le date fondamentali
della sua vita: arrivo in Frisia (690),
ordinazione episcopale a Roma (695),
78 anni a servizio del regno.
È quasi un testamento, in cui Villibrordo
rivela i suoi tre grandi amori:
Cristo, il suo vicario in terra e i frisoni,
a cui portò la luce del vangelo.

MISSIONE A RISCHIO
Stanziati lungo le terre bagnate dal
Mare del Nord, tra gli stati attuali di
Belgio e Danimarca, i frisoni appartenevano
a una delle più fiere tribù
germaniche. Gelosi della propria libertà,
si opposero tenacemente prima
ai romani, poi all’espansione dei
franchi. Pagani fino al midollo, rifiutavano
ogni tentativo di civilizzazione
e cristianizzazione.
Cominciarono i missionari franchi
a evangelizzarli, alla fine del secolo
VI, lasciando a Utrecht una chiesetta
in onore di s. Martino. Pochi decenni
dopo, riprovarono i santi Eligio e
Amando, ma con scarsi risultati: i frisoni
non erano disposti ad accettare
la croce da chi li voleva soggiogare
con la lama della spada.
I missionari anglosassoni, affini
per stirpe, lingua e cultura, lontani
da ambizioni politiche, ebbero migliore
accoglienza. Nel 678 il benedettino
Vilfrido, vescovo di York,
spinto dai venti sulla costa della Frisia
mentre era in viaggio verso Roma,
fu benvenuto dal re Aldgiso e, durante
l’inverno, predicò la fede cristiana,
convertendo migliaia di frisoni,
a detta del venerabile Beda.
Poco dopo, l’abate Egberto, irlandese
di Ratmelsigi (oggi Mellifont),
con alcuni compagni progettò l’evangelizzazione
sistematica della Frisia;
ma una violenta tempesta li ributtò
in Irlanda. Ritentò Vigberto
con una impresa solitaria: per due anni
percorse la regione sotto lo sguardo
sospettoso del pagano re Radbodo,
finché dovette tornare a casa.
Nel 689 Pipino II di Heristal, maggiordomo
del regno franco, sottomise
la parte occidentale della Frisia:
l’abate Egberto colse l’occasione per
attuare il suo progetto e organizzò
una nuova spedizione missionaria,
composta da 12 monaci e guidata da
Villibrordo: per quasi 50 anni egli
percorse la Frisia, dando un aspetto
cristiano alla regione, e passò alla storia
come «apostolo dei Paesi Bassi».

MISSIONARIO PELLEGRINO
Era nato nel 658 in Nortumbria,
regno degli Angli, a nord del fiume
Humber, da nobile famiglia sassone,
convertita al cristianesimo nel 627
(vedi riquadro accanto). Il padre, san
Vilgiso, rimasto vedovo quando Villibrordo
era ancora in fasce, vegliò
sui primi passi del rampollo, finché,
a sette anni, lo affidò ai benedettini
di Ripon, perché avesse una buona educazione;
quindi si ritirò in solitudine
su un promontorio del fiume
Humber, dove, ben presto circondato
da numerosi discepoli, edificò un
monastero dedicato a sant’Andrea.
Abate di Ripon era san Vilfrido, tenace
difensore dell’universalità romana
contro il particolarismo scotornirlandese.
Lo stesso anno in cui il piccolo
Villibrordo entrò a Ripon (664),
ebbe luogo la famosa conferenza di
Whitby, in cui l’abate convinse il re
Osvy ad adottare le tradizioni liturgiche
di Roma (vedi riquadro di pagina
58).
Per 14 anni Villibrordo rimase alla
scuola di Vilfrido, ricevendone l’abito
benedettino e respirando l’atmosfera
della cattolicità romana. Ma
quando il maestro, eletto vescovo di
York e consacrato in Francia, fu allontanato
dalla diocesi (678), il giovane
monaco andò a perfezionare gli
studi in Irlanda, nel monastero di
Ratmelgisi, attratto dalla fama dell’abate
Egberto, rinomato maestro
di vita spirituale di quei tempi.
Villibrordo fu presto contagiato
dal fervore missionario che regnava
nel monastero, da dove partivano i
«pellegrini per Cristo» per predicare
il vangelo ai popoli pagani del continente.
Si faceva un gran parlare della
Frisia, soprattutto, come terra promessa
di apostolato e di martirio. Egli
ammirava le imprese di Egberto e
Vigberto, ma ne vedeva pure i limiti,
alla luce della concretezza benedettina
succhiata alla scuola di Vilfrido.
A 30 anni Villibrordo venne ordinato
prete; a 33 fu scelto da Egberto
per guidare una nuova spedizione tra
i frisoni. Gli 11 compagni, di cui conosciamo
pochi nomi, non erano meno
focosi di lui: Evaldo il bianco ed
Evaldo il nero (dal colore dei capelli)
finirono presto martiri per mano
dei sassoni in Westfalia; nella stessa
regione Suitberto fu trucidato dai boructavi;
Adalberto e Verenfrido evangelizzarono
varie regioni della
Frisia e morirono di morte naturale.

MISSIONARIO… PAPALINO
Lasciata l’Irlanda nel 690, la spedizione
attraversò a piedi l’Inghilterra,
navigò verso il continente e approdò
alle foci del Reno. Villibrordo
si premurò di raggiungere la corte di
Pipino, per ossequiare il monarca e
chiedee la protezione. Il giovane
missionario si guadagnò senza fatica
l’ammirazione del sovrano e l’appoggio
della nobiltà franca.
Per prudenza, i missionari si stabilirono
ad Anversa, dentro il regno
franco, accettando in dono la chiesa
dei ss. Pietro e Paolo, fondata da s.
Amando, e altri benefici ecclesiastici;
di qui cominciarono a estendere la
loro azione nella regione di Utrecht.
Villibrordo capì subito che non poteva
presentarsi ai frisoni nel nome
dell’odiato dominatore, ma con le
credenziali pontificie. Nel 692 si recò
a Roma; papa Sergio I gli conferì di
cuore il mandato di predicare il van-
gelo in Frisia e nelle regioni circostanti,
lo benedisse e lo rifoì di reliquie
e libri sacri.
Tornato in sede, si rallegrò dei successi
ottenuti dai compagni: numerosi
battesimi di nobili, liberi contadini
e servi. Si sentì il bisogno di un
vescovo che amministrasse anche le
cresime: fu scelto Suitberto, il più anziano
del gruppo. Ma per mantenere
le distanze dalla politica, Villibrordo
non scomodò l’episcopato
franco, ma inviò il candidato in Inghilterra,
perché fosse consacrato da
Vilfrido di York. Pipino ci restò male;
soprattutto non poteva immaginare
un vescovo senza diocesi, fatto
solo per distribuire cresime e consacrare
altari e chiese.
Il vescovo fu bandito dal regno
merovingio e, per non perdere la
protezione del maggiordomo, Villibrordo
dovette cedere. Suitberto se
ne andò a evangelizzare la minuscola
etnia dei boructavi, in Westfalia,
dove lavorò 24 anni, fino a quando i
sassoni annientarono i suoi sforzi: gli
sopravvisse il monastero di Kaiserswerth,
in un’isola del Reno di fronte
a Düsseldorf.
Intanto il matrimonio tra Grimoaldo,
figlio di Pipino, e Teodolinda,
figlia di Radbodo, re dei frisoni,
scongiurava ogni rischio di guerra,
almeno per il momento, e apriva la
strada per evangelizzare anche la
parte settentrionale della Frisia. Il
principe merovingio lanciò l’idea di
erigere non una diocesi, ma una circoscrizione
ecclesiastica che abbracciasse
tutta la Frisia e propose lo stesso
Villibrordo come arcivescovo.
Villibrordo si recò di nuovo a Roma
e sottopose il progetto a papa Sergio,
che il 21 novembre 695 lo consacrò
vescovo e gli impose il pallium,
simbolo dell’autorità metropolitana
e di totale comunione con Roma. Inoltre,
al bellicoso nome celtico (Villibrordo
significa: guerriero) il pontefice
prepose quello più mite e pronunciabile
di Clemente; dopo quel
giorno, però, tale nome non fu quasi
mai più menzionato.
L’evento segnava il culmine della
cattolicità: un papa di origine siriaca,
nel cuore della cristianità, conferiva
la pienezza del sacerdozio a un
monaco anglo-sassone, mandato da
un principe franco.

TENTANDO IL COLPO GROSSO
Nuovamente rifornito di reliquie,
libri liturgici e paramenti sacri, Villibrordo
lasciò Roma in pieno inverno,
raggiunse Utrecht (696), sede
della nuova arcidiocesi, e cominciò
a organizzare materialmente la sede
episcopale: costruì la cattedrale dedicata
a san Salvatore e l’episcopio;
risollevò dalle macerie il santuarietto
di s. Martino; fondò la scuola per
l’educazione dei giovani e la formazione
del clero locale; organizzò in
comunità i suoi collaboratori, mescolando
la regola benedettina con
le tradizioni irlandesi; avviò la vita liturgica
con splendide celebrazioni
religiose, alle quali i frisoni accorrevano
meravigliati.
Uguale solennità veniva usata anche
fuori dei riti sacri. Sapeva che,
con gente sensibile al prestigio della
forza, il primo impatto era decisivo.
Per questo cercava di impressionare
i frisoni: si presentava loro come
gran signore su una cavalcatura, con
una croce d’oro in mano e circondato
da scorta ugualmente a cavallo. In
tal modo pensava di dimostrare l’inanità
e impotenza degli idoli e l’onnipotenza
del Dio dei cristiani.
Se tale bardatura aveva sulla gente
semplice un certo effetto, i re pagani
non facevano una grinza, come
Radbodo, re dei frisoni rimasti indipendenti.
Villibrordo sperava di fare
il colpo grosso: convertire il capo,
perché i sudditi lo seguissero in massa
alla fonte del battesimo. Era la
strategia del tempo e aveva funzionato
a meraviglia con i franchi, anglosassoni
e altri popoli barbari. Il re
accolse il missionario, lo ascoltò, gli
promise di non ostacolare il lavoro
missionario tra i suoi sudditi, ma di
abbracciare la religione dei franchi
neppure parlarne. In pratica egli rimase
ostile al cristianesimo fino alla
sua morte (719).
Con la stessa tattica Villibrordo
tentò, inutilmente, di convertire le
popolazioni dello Schleswig e Danimarca:
Ongendo, il re dei danesi, era
«più crudele di ogni fiera e più duro
di ogni pietra» racconta Alcuino.
Tuttavia il vescovo fu accolto con rispetto
e ottenne che 30 giovani lo seguissero
a Utrecht, per ricevere la
formazione cristiana e tornare poi in
patria ad annunciare il vangelo ai
connazionali.

LOTTA ALL’IDOLATRIA
Contro l’idolatria Villibrordo non
si accontentava delle parole, ma passava
spesso alla sfida aperta. Ritornando
dalla Danimarca, approdò
nell’isola di Helgoland, allora sotto
il dominio di Radbodo. In attesa di
venti propizi per riprendere il viaggio,
il vescovo cominciò a predicare
il vangelo agli abitanti. C’era nell’isola
una fonte dedicata al dio Fosite.
Si diceva che, chiunque avesse rotto
il silenzio mentre ne attingeva l’acqua
o avesse osato toccare il bestiame
sacro alla divinità, sarebbe stato
fulminato dal dio irritato.
Per dimostrare che Fosite era
niente, dinanzi ai pagani sbigottiti,
Villibrordo battezzò tre giovani danesi
nella sorgente sacra, pronunciando
ad alta voce la formula battesimale;
poi ordinò di preparare un
bel festino con le cai arrostite di alcune
bestie sacre. Invece dei fulmini
di Fosite, arrivarono quelli di Radbodo.
Villibrordo fu portato al cospetto
del re. Il vescovo ne approfittò
per fare una vibrata catechesi sull’unicità
di Dio e sulla vita eterna; ma
non riuscì a evitare che uno dei battezzati,
tirato a sorte, fosse sacrificato
all’idolo crudele: fu il primo martire
della sua missione tra i frisoni; un
martirio che gli spezzò il cuore.
Seguendo le istruzioni date un secolo
prima da Gregorio Magno a s.
Agostino, apostolo degli anglosassoni,
Villibrordo era implacabile contro
gli idoli, ma risparmiava i luoghi
sacri, trasformandoli in edifici di culto
cristiano. È quanto fece nell’isola
di Walacria: scoperto un tempietto
con la statua di Nehalennia, dea protettrice
dei marinai, il vescovo frantumò
l’idolo, sfidando le ire del custode,
che gli assestò un colpo di spada
in testa. Rimasto miracolosamente
illeso, Villibrordo usò il tempio per
celebrarvi la messa.
Uguale trattamento fu riservato alle
sorgenti, che i frisoni, come altre
popolazioni germaniche, circondavano
di particolare venerazione, come
simboli di vita e fecondità: le credevano
inabitate da spiriti vitali che
assumevano forma umana al momento
della nascita. Partendo da tale
credenza, Villibrordo spiegava ai
pagani che le fonti da essi venerate
potevano dare loro la vita vera, nel
tempo e nell’eternità, mediante la rigenerazione
battesimale: e usava
quelle stesse sorgenti per amministrare
il battesimo.

MISSIONE SENZA FRONTIERE
Fallita la conversione in massa, i
missionari continuarono di nascosto
a seminare il vangelo nel regno di
Radbodo, con la speranza di tempi
migliori per fondarvi nuove diocesi.
Da parte sua, data l’impossibilità di
estendere a nord la sua azione missionaria,
Villibrordo percorse senza
un attimo di sosta le regioni orientali
del regno franco: Fiandra, Campine,
Lussemburgo, Turingia, Zelandia,
nord della Francia.
Nel 698 egli si recò a Treviri, dove
Irmina, suocera di Pipino, gli aveva
fatto dono di una chiesa e un piccolo
convento da lei fondato e diretto a
Echteach (Lussemburgo). Il vescovo
vi passò l’inverno e ricevette in
dono dai nipoti della badessa ville,
campi e vigne per future fondazioni
ecclesiastiche. Nel 703-704, accompagnando
l’amico Vilfrido in viaggio
verso Roma, raggiunse la Turingia,
dove il duca Heden lo accolse con onore.
Al ritorno, passò a trovare Irmina
e la mise al corrente di un suo
disegno: la costruzione a Echteach
di un monastero maschile sotto la regola
di s. Benedetto. Il progetto andò
in porto: il monastero fu inaugurato
nel 706 e divenne un centro di irradiazione
cristiana, procurando cornoperatori
e risorse, e di accoglienza per
i missionari stanchi e costretti ad abbandonare
temporaneamente il campo
dalle epidemiche rivolte.
Dovunque passasse, Villibrordo
predicava, istruiva, convertiva, battezzava
e costruiva cappelle, chiese e
monasteri. E faceva anche miracoli.
A Treviri liberò dalla peste una comunità
di monache. In un’altra città
spense il fuoco, appiccato dagli spiriti
maligni alla casa di un amico, con
abbondanti aspersioni di acqua benedetta.
Numerose furono le sorgenti
scaturite al suo comando per
dissetare i compagni o reperire l’acqua
per il battesimo. Si narra pure di
fiaschi di vino quasi a secco che, dopo
una sua benedizione, si riempivano
per dissetare mendicanti infreddoliti
o rallegrare amici e monaci,
rimanendo ancora pieni.

COLLABORAZIONE INDIGENA
Saranno leggende, ma mettono in
luce un aspetto della sua personalità.
Piccolo di statura, come lo descrivono
i suoi contemporanei, capelli neri,
delicata costituzione, occhi vivi e
profondi, Villibrordo aveva una volontà
incrollabile, mai soggetto a scoramenti;
tempra non comune di rude
pioniere, prudente e leale, metodico
organizzatore e austero con se
stesso, possedeva il senso del comando
e l’equilibrio della regola benedettina:
grande attenzione alle necessità
degli altri, anche a quelle a prima
vista irrilevanti.
Uomo di preghiera e divorato dallo
zelo, egli possedeva una brillante
intelligenza che gli accattivò simpatia
e collaborazione di principi e nobili
dell’epoca. A nessun altro missionario
di quei tempi furono fatte
con tanta abbondanza donazioni di
ville, tenute, boschi, prati, acque, mulini,
case, cappelle e monasteri come
a Villibrordo. Nel solo Brabante, 17
benefattori gli lasciarono vasti terreni
e relative dipendenze, dislocati in
25 zone diverse.
Tali donazioni assicurarono l’avvenire
della missione in Frisia e delle
numerose opere erette da Villibrordo
nelle province vicine, le chiese rurali
soprattutto. Infatti, appena aveva
raccolto attorno a sé un modesto
gruppo di neofiti, Villibrordo costruiva
una cappella di legno, che egli
stesso consacrava e vi riponeva le
reliquie ricevute a Roma, poi affidava
la comunità a un sacerdote, provvedendo
a tutte le sue necessità con i
proventi di tali donazioni.
Senza sottovalutare l’aiuto ricevuto
dai suoi connazionali, che seguivano
la sua attività con la preghiera
e gesti di solidarietà, è soprattutto tra
i frisoni che Villibrordo trovò collaboratori
devoti, laici e chierici. La
formazione del clero locale fu una
delle priorità missionarie, scegliendo
i candidati con prudenza. A lui si
deve l’introduzione in occidente dei
vescovi ausiliari, di cui si serviva in
modo regolare e costante.

TUTTO DA RIFARE
Alla morte di Pipino Heristal, preceduta
dal figlio Grimoaldo (714),
Radbodo si ribellò ai franchi e scorrazzò
nel loro regno, innescando un
violento rigurgito di paganesimo che
distrusse chiese e cappelle, costringendo
monaci e preti a cercare scampo
nel monastero di Echteach,
compreso l’arcivescovo.
Continuando a guidare da lontano
la ripresa del suo arcivescovado, Villibrordo
concentrò il suo apostolato
lungo le rive della Sûre e preparò l’invio
di alcuni monaci in Turingia per
aprirvi un altro fronte missionario;
ma il progetto andò in fumo per la
morte del duca Heden II.
Finalmente, con la vittoria di Carlo
Martello (718), figlio naturale di
Pipino, e la morte di Radbodo (719),
Villibrordo poté rientrare a Utrecht,
ma dovette praticamente rievangelizzare
frisoni e danesi, con la collaborazione
di molti frisoni rimastigli
fedeli. Così, a 60 anni suonati, riprese
a viaggiare, predicare, firmare l’accettazione
di donazioni e organizzare
nuove fondazioni di chiese e monasteri.
Per tre anni (719-721) ebbe come
collaboratore un altro grande anglosassone,
Bonifacio, anche lui innamorato
dei frisoni. Egli aveva ricevuto
da Gregorio II il mandato di evangelizzare
la Germania, ma prima
volle addestrarsi all’azione missionaria
alla scuola di Villibrordo, che lo
avrebbe visto volentieri come suo
successore.

FINE DEL PELLEGRINAGGIO
Nel 731, testimonia un contemporaneo,
il venerabile Beda, tutti i compagni
di Villibrordo erano passati a
miglior vita. L’arcivescovo continuava
il suo «pellegrinaggio per Cristo»,
ma cominciava a tirare i remi in barca:
malattia e vecchiaia ne rallentavano
l’attività, tanto da doversi ritirare
sempre più spesso a Echteach, dove
morì nel 739. Aveva 81 anni.
Alla sua morte la sognata circoscrizione
della Frisia contava ancora
la sola diocesi di Utrecht. Il testimone
passava ai suoi discepoli, che potevano
contare sulle solide basi gettate
dal grande missionario, la cui vita
è sintetizzata egregiamente dal suo
antico compagno di missione, Bonifacio,
nella lettera scritta a papa Stefano
II nel 753: «Prima dell’arrivo di
Villibrordo, i frisoni erano pagani.
Con 50 anni di predicazione, egli ne
ha convertito la maggior parte alla
fede di Cristo e li ha evangelizzati
fino all’estrema
vecchiaia»..

CONVERSIONE
DEI NORTUMBRI

Èprobabile che la famiglia di Villibrordo
fu convertita al cristianesimo
nel 627, nella memorabile assemblea
dei notabili, convocata da Edvino,
re di Nortumbria, in cui fu dipinta
con tanta emozione l’angosciosa situazione
causata dall’ignoranza sull’origine
e destino della vita umana. Così
parlò uno dei consiglieri:
«Quanto è grande, o re, l’incertezza
nostra sul destino umano. Ascoltate!
Nel cuor dell’inverno, siete seduti a cena
in una sala ben riscaldata, attorniati
dai vostri guerrieri e ministri, e i
paggi vi servono i piatti fumanti, mentre
fuori imperversa la tempesta: ed
ecco un passero, intirizzito dal freddo,
vola attraverso la sala, entrando da
una porta per uscire dall’altra. Durante
il breve momento che sta qui dentro,
l’uccellino si ripara dall’uragano
invernale. Ma questo momento di serenità,
luce e calore dura appena un
secondo. Ben presto il povero passero
tutto smarrito, scompare ai vostri occhi
e si sprofonda nelle gelide tenebre
nottue dalle quali era venuto.
Così ci appare la vita degli uomini
quaggiù: un breve momento di luce e
calore, nella piena ignoranza di ciò
che la precede e di ciò che la segue.
Per questo, se la dottrina cristiana ci
apporta la certezza della nostra origine
e del nostro fine eterno, conviene
abbracciarla senza esitare».
Così fu deciso. Il giorno di pasqua del
627, il re Edvino, la corte e gran parte
del popolo furono battezzati da san
Paolino, vescovo di York, in una chiesa
di legno fabbricata in fretta.

CHIESA A DUE FACCE
L’Irlanda divenne cristiana per opera del monaco bretone
san Patrizio (385-461), che per 30 anni seminò l’isola di
monasteri. Tra le pratiche ascetiche dei monaci c’era la «peregrinazione
» a Roma, Terrasanta e, soprattutto, nelle terre
dove il vangelo non era ancora stato annunciato. Si chiamavano
«pellegrini per Cristo». In questo modo, da evangelizzati,
gli irlandesi diventarono evangelizzatori, prima nella
Scozia, poi nel continente europeo. Il più famoso di essi fu
Colombano, che predicò il vangelo e fondò monasteri in Francia
(Luxeuil), Svizzera (San Gallo) e Italia (Bobbio).
Non sfiorate dalla colonizzazione romana né da invasioni
barbariche, Irlanda e Scozia ebbero chiese fieramente cattoliche,
ma con tratti originali: giurisdizione totalmente in
mano agli abati; vescovi non nominati dal papa e col solo
potere sacramentale; differente data della pasqua e altre peculiarità
liturgiche e disciplinari.
La Britannia, invece, in buona parte già romanizzata e cristianizzata,
fu invasa da angli, juti e sassoni, che cancellarono
ogni traccia di cristianesimo.
Nel 596 Gregorio Magno inviò 40 monaci, guidati dall’abate
Agostino, a evangelizzare gli angli. L’anno seguente fu
battezzato Etelberto, re di Kent, insieme alla sua corte; poi
10 mila sudditi. Alla morte di Agostino (605) gran parte dell’isola
era cristiana; 50 anni dopo, con l’arrivo da Roma di
altri missionari, la riunificazione religiosa e politica della
Gran Bretagna poteva dirsi completa, saldandosi con quella
operata dai monaci irlandesi.
In Inghilterra, prima nazione evangelizzata
per iniziativa papale, la chiesa anglosassone
nacque meglio strutturata e più legata alle
tradizioni romane in fatto di culto e disciplina.
Le differenze tra le due chiese, intrecciate
a interessi politici, causarono vari attriti,
fino a diffidare della validità delle ordinazioni
dei vescovi scoto-irlandesi: problemi
temporaneamente risolti nel sinodo di
Whitby (664).
Dagli irlandesi, gli anglosassoni impararono
l’ardente desiderio della «peregrinazione per
Cristo» e, pure loro, da evangelizzati passarono
a evangelizzare l’Europa. Ma mentre i
missionari irlandesi operavano per iniziativa
privata, senza programmi specifici, in modo
un po’ anarchico e a cose fatte si premuravano
d’avere l’approvazione pontificia, quelli
anglosassoni chiedevano prima il mandato
del papa e rimanevano in costante contatto
con la gerarchia romana.

CONCILIO DI WHITBY
Quando il benedettino Vilfrido (634-709) si recò a Roma
per completare la sua formazione intellettuale, rimase
sorpreso nel constatare le numerose divergenze liturgiche
tra la chiesa madre e quella in Nortumbria. Tornato in patria,
si adoperò per convincere la chiesa della Gran Bretagna
a uniformarsi alle tradizioni romane. Ma trovò un’accanita
resistenza in Colmano, vescovo di Lindisfae, che si
appellava all’autorità di san Colombano.
Per portare la pace, re Osvy, convocò un’assemblea a Whitby
nel 624. Così il venerabile Beda racconta la difesa dell’universalità
romana fatta da Vilfrido:
«Può essere preferito il vostro Colombano al principe degli
apostoli, a cui il Signore ha detto: tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non
prevarranno contro di lei?».
«Davvero, Colmano, nostro Signore disse queste parole a Pietro?
» domandò il re, impressionato dalla citazione.
«Certamente» rispose Colmano.
«Potete voi provarmi che una simile potestà sia stata conferita
a Colombano?» riprese subito re Osvy. Colmano dovette
confessare di no.
«Allora – concluse il re – io vi dichiaro che, siccome Pietro
tiene le chiavi del cielo, non voglio mettermi in contraddizione
con lui, per non trovare la porta chiusa, quando mi
presenterò all’ingresso del soggiorno celeste».

Benedetto Bellesi