NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio atteso

UN’OASI DI PACE


Finalmente, dopo tanti inviti, la possibilità di vedere (e
gustare) l’opera di padre Oscar, medico-missionario prematuramente
scomparso, nel piccolo villaggio della foresta e nel suo ospedale, dove
ancora tutto parla di lui.Una visita, anche, per dirgli grazie.

Kampala
(Uganda): dopo cinque lunghi giorni di attesa, c’è la possibilità di
partire con un piccolo aereo. Meta, missione di Isiro (Congo, repubblica
democratica).

Sono con
mio marito Piero, padre Rinaldo Do, superiore regionale dei missionari
della Consolata, una suora comboniana e David, seminarista congolese di
ritorno dal Brasile per le vacanze natalizie. Finalmente sto per
realizzare un mio sogno, dopo un’attesa che dura da otto anni, cioè da
quando io e l’associazione S.O.S. di Padova abbiamo iniziato ad aiutare
padre Oscar Goapper e il suo ospedale di Neisu.

Con
l’aereo a 10 posti, cinque dei quali lasciati alle merci, volo sopra
enormi estensioni di foresta e percepisco chiaramente che quelle forme di
vita vegetale sono conservate come in uno scrigno da una natura
incontaminata. I miei occhi «bevono» i colori chiaro-scuri dei verdi
equatoriali. Il paesaggio mi affascina, ma attendo con ansia l’arrivo a
Isiro.


«Respirando»
ingiustizia e abbandono


 All’aeroporto (ma di questo ha solo il nome), ci sono padri Antonello e
Giuseppe che ci attendono. La gioia di trovarci lì è tanta e, dopo una
breve sosta nella casa regionale, proseguiamo il viaggio verso il
villaggio di Neisu, a 30 chilometri da Isiro. Per percorrerli ci vogliono
quasi due ore; la strada, infatti, è simile a un sentirnero, circondato da
un’intricata vegetazione che si protende verso di noi, quasi in un
abbraccio.

Di tanto
in tanto incontriamo «i ragazzi delle biciclette», che rappresentano
l’unica possibilità di comunicazione tra le varie zone del paese in
guerra: percorrono anche 800 chilometri per rifornire i propri villaggi
del necessario (olio, zucchero, sale, indumenti, ecc.), trasportando
150-200 chili per volta; costretti perciò, al ritorno, a spingere il loro
mezzo a piedi. È una fatica immane (che può causare anche la morte), a cui
si aggiunge  il pericolo costante delle imboscate da parte dei ribelli,
che li assalgono per derubarli. Nel vederli così stremati, costretti a
svolgere tale lavoro (unico mezzo di sostentamento per loro e la loro
gente), quanta pena! Una profonda commozione mi assale e non riesco a
trattenere le lacrime. Eppure, provo compassione anche per i ribelli,
spesso bambini-soldato che, armati di fucili a volte più grandi di loro,
ricorrono alla violenza per sopravvivere in mezzo ad una situazione di
caos e disperazione.

Quante
volte padre Oscar ci aveva descritto questa realtà; quante volte ci aveva
invitato alla solidarietà! Ora che non c’è più, mi chiedo con quale stato
d’animo entrerò nella sua casa, nel «suo» ospedale, nel villaggio dei suoi
mangbetu. Nella mente scorrono ricordi di descrizioni, episodi,
personaggi, progetti rimasti in sospeso; percepisco anche il timore di non
riuscire a vivere pienamente un’esperienza che da molto tempo desideravo
fare.

Cerco di
non pensare e tento di lasciarmi trasportare, libera, in mezzo a quella
strada di terra rossa, che taglia la foresta, attraverso piantagioni di
caffè, cotone, riso… abbandonate per sempre: segni tangibili di un
passato fiorente e ora scomparso a causa della guerra, l’instabilità
politica e gli interessi economici inteazionali. Le guerre provocano
vittime (soprattutto donne e bambini) e sofferenze di ogni tipo, purtroppo
destinate a prolungarsi nel tempo.

Questo
l’abbiamo potuto constatare soprattutto a Wamba, a 130 chilometri da Neisu
(otto ore di viaggio), centro un tempo ricco e lussureggiante. Questa
città costituisce il simbolo della decadenza dell’intero paese: non vi è
più la linea elettrica, le pompe di benzina sono state asportate, niente
banche, il treno non passa più, l’ospedale è fatiscente e di molte case
coloniali non restano che gli scheletri, perché poche sono sopravvissute
ai saccheggi e all’abbandono. Unico forte punto di riferimento sono le
strutture della chiesa locale e di quella missionaria, a cui la gente,
cristiana o no, può rivolgersi per ogni bisogno, sapendo di non essere
abbandonata.

Sono gli
«agenti pastorali» (vescovo, preti, suore, missionari, catechisti) che
stanno cercando di ripristinare le vecchie costruzioni e propoe di
nuove. Con una fede che mi commuove, persistono nella loro opera, anche
senza la certezza che domani ci saranno abbastanza denaro e tranquillità
per continuare.

Con
lucidità respiro le ingiustizie e provo tanta tristezza. Il Congo, che nel
sottosuolo custodisce preziose pietre (oro, uranio, cobalto, diamanti e
ogni altro ben di Dio) è caduto in una povertà indescrivibile. Neppure i
più elementari servizi qui vengono assicurati.

Dopo 17
anni di viaggi in Tanzania, pensavo di essere collaudata a tutto; mi
accorgo, invece, che qualcosa di nuovo nasce dentro di me, sento crescere
inquietudine, rabbia e, contemporaneamente, desiderio di fare di più per
questa popolazione: cordiale, gentile, ricca di dignità e ancora capace di
lottare.


Già dipinto
tra i santi

Ecco Neisu.
L’atmosfera che trovo all’arrivo stabilisce istintivamente un rapporto di
calda simpatia; mi colpisce il sorriso dei mille bambini che ci stringono
le mani sussurrando: «Mbote!» (saluto in lingua lingala). I loro volti
sono entrati per sempre nel mio cuore.

È quasi
una visione: come in un «paradiso terrestre», le abitazioni ordinate tra
le piante gigantesche di ogni genere, che farebbero invidia ai più grandi
vivaisti del nostro mondo occidentale. Tutto è equilibrato, pulito,
tranquillo. Al centro, sorge l’elegante ospedale con 120 posti letto,
costruito in piena foresta per i mangbetu, popolazione del nord-est di
questo enorme paese, che vive ancora in capanne di legno, paglia e fango.
Il loro modo di aggregazione è semplice, ma ben organizzato.

Piero, mio
marito architetto, nota ammirato: «Questo ospedale si struttura in forme
organizzative semplici, ma adeguate alla gente che serve, pensato e
costruito come elemento stabile e duraturo. Il sistema costruttivo è
quello dell’edilizia attuale dei paesi sviluppati, però calato nella
realtà climatica del paese e adeguato al sistema di vita della
popolazione, abituata a vivere in orizzontale, su un solo piano. Non
strutture grosse e pesanti (come quelle della colonizzazione belga), ma
agili, leggere e più facilmente adattabili alle esigenze delle
trasformazioni che via via si possono rendere necessarie».

Infatti,
non appena la ragione ricorda che sei in mezzo alla foresta, ti accorgi
che si tratta di un piccolo giorniello di cui tutto il personale (medico e
paramedico) è giustamente fiero. In testa a tutti suor  Luisa che, con
padre Oscar, ha condiviso giornie, difficoltà e non poche… soddisfazioni!

La chiesa,
semplice anch’essa nell’impianto di base, non è uno spazio banale o
inutile; non lo è soprattutto per le espressività della popolazione, che
manifesta i propri sentimenti e la propria fede durante le celebrazioni
liturgiche. La notte di natale la chiesa è stracolma, la folla assiepata
anche all’esterno, un’illuminazione flebile (alimentata dal generatore)
mette in risalto il piccolo presepe posto davanti all’altare adornato con
una stella cometa e ghirlande di meravigliosi fiori rosa.

È, per me,
un momento emozionante: i padri Victor e Antonello, accompagnati da uno
stuolo di chierichetti (bimbi e giovani), entrano a passo di danza,
proprio come vuole il rito «zairese». In quel frastuono di canti e grida,
assaporo un fenomeno straordinario: un’incredibile felicità permette a Dio
di esprimere, attraverso quella messa, l’infinità del suo amore. E in quel
raccoglimento, così particolare e insolito, sento quanto sia straordinaria
la condivisione. La chiesa è  ricca di raffigurazioni assai significative
per i mangbetu, per la storia della chiesa d’Africa, per la vita di
Cristo.

E tutto
quanto esposto è frutto di un’unica mente, quella di un personaggio
«geniale», padre Oscar, l’uomo dalle molte doti: missionario, medico,
architetto, pittore… e puoi aggiungere amico, fratello, compagno di
strada, uomo della misericordia, ecc. A ragione è stato inserito, dopo la
sua morte, negli affreschi della chiesa tra le schiere dei santi e beati! 


Ritoo alla
realtà

Neisu è un
cuore (questo significa in lingua kimgbetu) che batte nella foresta
equatoriale del Congo, oasi di pace dentro la guerra, speranza per molta
gente.

Ed è qui,
nel giardino dell’ospedale, che riposa e vive ancora padre Oscar. Ogni
cosa parla di lui e a lui; anche gli alberi che vibrano, le foglie che
ondeggiano con il soffio del vento e il canto degli innumerevoli uccelli
tessitori. Una cappellina di paglia davanti alla sua tomba accoglie ogni
mattina i credenti, che elevano i loro canti in un’interminabile lode a
Dio. Ogni sabato, poi, il personale dell’ospedale partecipa alla liturgia
eucaristica, voluta proprio dal loro maestro; tutto è come prima, con la
stessa forza, la stessa fede. I padri Antonello, Richard, Bruno e Feando
continuano con entusiasmo a trasmettere alla popolazione il messaggio di
Cristo.

Ma, anche
in quell’angolo di pace si insinuano allarmanti presenze di ribelli,
mentre la situazione nazionale, determinata dall’instabilità politica, si
fa sempre più preoccupante.

Temo di
essere alla fine del mio soggiorno in Congo… finché una fortuita
combinazione ci spinge a prendere l’ultimo aereo disponibile per un
possibile rientro in Italia. 

Arriviamo
a Bunia che, purtroppo, non è molto dissimile da Wamba e Isiro, in quanto
nelle cittadine sono più evidenti i segni della guerra e della crisi di
cui soffre il paese. Qui il paesaggio è diverso: la fitta foresta
scompare, ma il verde non svanisce  e all’orizzonte svettano dolci
montagne, non troppo alte, dalle cime lisce e morbide. Godiamo di panorami
eccezionali, ombreggiati da nuvole bianche, spostate dal vento.

Il nostro
amico André (prete diocesano di Wamba) ci offre l’occasione di vivere, per
la prima volta, la speciale atmosfera della vita di un seminario africano.

Seguendo
il ritmo del sole, lodi all’aurora e vespri al tramonto: cori di voci,
preghiere e musiche accendono nell’animo qualcosa di straordinario e
delicato. Dimentico tutto ciò che fa rumore intorno; nelle notti di
silenzio, ascolto il mistero che mi avvolge e, ancora una volta, sento di
amare questo paese, tanto da sentirmi persino felice…

Grazie,
Oscar!

SOS


                Sos  è un organismo di volontariato, la cui sigla
significa: So- lidarietà – Organizzazione – Sviluppo. Nasce a Padova nel
1989, grazie all’entusiasmo di Sonia Bonin e di un gruppo di amici, con lo
scopo di creare ponti di solidarietà con i paesi meno fortunati
dell’Africa, in particolare il Tanzania. Contatti e progetti si
intensificano sempre più, sostenuti da un’intensa opera di
sensibilizzazione a Padova e… dintorni.

Dopo aver
conosciuto padre Oscar, l’Associazione si è impegnata ad aiutare
l’ospedale di Neisu, donandogli anche, poco prima della sua morte, un
prezioso (e costoso) microscopio. Il viaggio di Sonia, raccontato
nell’articolo, avrebbe dovuto realizzarsi prima della scomparsa del
missionario…

Sonia Bonin




GUERRA ALLA PACE in terra santa

Dire
Gerusalemme è dire terra santa, e viceversa. Gerusalemme oggi è, più che
mai, di drammatica attualità: occupa ampi spazi sulla stampa e sul piccolo
schermo, a causa del sanguinoso conflitto israelo-palestinese.


Gerusalemme è sempre stata di attualità, fin da quando Dio la scelse come
luogo di incontro e dialogo con gli uomini. A Gerusalemme «tutti sono
nati… e l’Altissimo la tiene salda» (Sal 87, 4-5). Quel «tutti» contiene
una carica ecumenica di respiro universale. Gerusalemme appare come radice
di armonia e unità fra le genti. Sul libro della storia, curato da Dio,
«tutti» sono gli uomini e i popoli che Egli registra come cittadini di
Gerusalemme.

Il
carattere peculiare di Gerusalemme è l’universalità. E non è un tratto
immaginario, ma reale. Basti ricordare il ritornello ebraico, che ha
sfidato i secoli: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Basti ricordare
l’affetto dei cristiani per la città santa, concretizzato nel
pellegrinaggio… e il fatto che, perfino fra le montagne
dell’Afghanistan, la foto di Gerusalemme è appesa con devozione alle
pareti delle case musulmane.


Gerusalemme, l’universale, fa sì che la comunità mondiale vi si riconosca
in un modo o nell’altro: interessa non solo chi vi trova una specifica
fede religiosa, ma anche chi vede in essa un riferimento a valori umani
fondamentali.

Se Assisi
affascina e coinvolge per la soffusa e penetrante spiritualità,
Gerusalemme seduce e attira per il mistero. Un mistero che perdura tutt’oggi
e che fa pensare al Deus absconditus (Dio nascosto).

Mi ritorna
in mente l’incontro, di qualche anno fa, con una giornalista svedese.
Aveva partecipato ad un congresso di archeologia a Tel Aviv, al termine
del quale effettuò una rapida escursione a Gerusalemme. E capitò che, nel
dedalo di viuzze della città vecchia, la giornalista avesse smarrito la
strada al suo hotel. Io, per caso, passavo di lì; lei mi pregò di
indicarle la via dell’albergo. L’accompagnai fino alla Porta di Damasco.
Cammin facendo, mi confidò che, essendo nata in una famiglia atea, non era
credente. «Però ho letto molto su Gerusalemme – disse -; ora sono qui e
avverto (non so perché) che qualcosa mi attira come una potente calamita.
Dovrei prendere l’aereo questa sera, ma non partirò; c’è qualcosa di
strano qui che mi sollecita a cercare, indagare e approfondire il mistero
di Gerusalemme, che mi tocca l’anima».

Ci
salutammo. Due anni dopo mi scrisse per annunciare che aveva ricevuto il
battesimo.


 Gerusalemme, che secondo un’etimologia popolare sarebbe la «città della
pace», non ha mai conosciuta la tranquillità. Lungo tutta la sua storia
millenaria è stata teatro di lotte, e tuttavia essa rimane la sede della «shalom»;
ma non per coloro che vogliono trovarvi una pace già confezionata, ma per
quanti vogliono costruirla.

La pace è
il risultato di relazioni rispettose fra i popoli, fra le persone;
scaturisce dall’amore tra gli individui, tra le comunità; nasce dalla
conversione, dall’accoglienza delle diversità.

La
tragedia odiea in terra santa grava anche sulla comunità internazionale
e su ogni persona sensibile alla pace… strettamente legata alla
giustizia. Da mesi, nonostante gli innumerevoli tentativi del passato di
approdare ad un serio e risolutivo processo di pace, una spirale di
violenze assurde e apparentemente inarrestabili soffoca la terra dove Dio
e gli uomini si sono incontrati e uniti per sempre.

Mentre
scrivo, la spirale attanaglia particolarmente Betlemme, dove la pace è
nata e annunciata per la prima volta agli «uomini che Dio ama».

Il pastore
protestante Dietrich Bonhoeffer, il martire per la libertà che ha pagato
con l’impiccagione la sua resistenza al nazismo, scriveva che non si
poteva cantare alleluja mentre gli ebrei venivano perseguitati. Così è
stata quest’anno la nostra pasqua, in terra santa, celebrata con il cuore
ferito. Come potevamo, in quei giorni di sangue, cantare alleluja?

Israeliani
e palestinesi sembrano sprofondare sempre di più in un vortice di odio e
vendetta. I ripetuti e accorati appelli che, insieme alle altre chiese
cristiane, abbiamo rivolto ai responsabili del paese e dei governi restano
tuttora inascoltati. Fino a quando? Quanto durerà l’occupazione militare?

Fino a
quando verranno disattese le risoluzioni delle Nazioni Unite?

È
necessario ritornare al rispetto della legalità internazionale. Lo afferma
da sempre Giovanni Paolo II (fra pochi), dimostrando una preveggente
visione della realtà. E il cardinale Martini ha rivelato una grande
preoccupazione nel dire di non comprendere

come
Israele, con la sua politica, persegua sicurezza e pace, «che pure è
sempre nel desiderio di tutto quel popolo».

Il
significato della preghiera per la terra santa (e, ovviamente, per le
persone che vi risiedono) è anche questo: sperare che il miracolo si
compia ancora. Sarebbe un primo e importante passo verso la pace. Ci vuole
fiducia e speranza.

La terra
di Gesù non è forse la terra dei miracoli?


Sfogliando s’impara…

«IO
TROVO VERGOGNOSO»

«Trovo
vergognoso che la stampa scritta (…) si indigni perché a Betlemme i
carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si
indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben
foiti di anitra e mumz ni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e
Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei
carri armati accettano le bottiglie d’acqua minerale e il cestino di
mele). (…)

lo trovo
vergognoso che L’Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che
non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli
ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani.
Dagli europei. Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente
che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il
diritto di reagire, di difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo
vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi
sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri
Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme
non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in
aria. Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che
inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle
Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti
occidentali».

Oriana
Fallaci sul settimanale «Panorama»,

12 aprile
2002


QUEI CANNONI
PUNTATI

«“Ecco,
noi francescani della Basilica della Natività chiediamo agli ebrei stessi
che facciano qualcosa, che impediscano questa ingiustizia, che dimostrino
che il volto d’Israele non è quello dei cannoni puntati contro un luogo
santo di una città sacra alle tre religoni monoteiste; io non penso che
siano tutti cattivi, al contrario so che dentro il cuore sono buoni e
giusti e so che vogliono il bene di tutti. Chiedo agli ebrei di buona
volontà di aiutarci e di farci uscire fuori da questa situazione”. (…)

Sharon ha
buttato all’aria ogni regola precedente. Tutte le parti coinvolte:
palestinesi, cristiani, le diplomazie occidentali e quella della Santa
Sede hanno avviato trattative mai accolte dall’intransigenza di Sharon.
Hanno nel frattempo persino prodotto un Cd-Rom intitolato “Unholy Asylum”,
asilo assai poco santo, polemizzando con lo spirito umanitario
dell’accoglienza che è storicamente il connotato dei francescani. Quanti
di essi, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno accolto dietro i muri
di pietra dei loro conventi, i disperati ebrei inseguiti dai nazisti? O i
partigiani che i nazisti definivano “terroristi”. Qualcuno, per questa
generosità, ha pagato persino con la morte. (…)

“Noi
francescani non ci fidiamo: se andiamo via, cosa succederà?”, incalza
padre Ibrahim. Appunto, padre, lei ci ha pensato? “Bella domanda. Mi sono
dato una sola risposta: restiamo. L’abbiamo deciso tutti all’unanimità,
dopo una discussione comune”. Le truppe di padre Ibrahim imbracciano il
crocifisso e sfidano i lunghi fucili dei cecchini. Il motorino del
generatore che alimentava le batterie dei francescani ha funzionato per 36
ore e si è fermato ieri. Con la sua energia si tirava su l’acqua dei
pozzi. Se i frati vanno in cucina, alla Casa Nova, l’ostello attiguo al
convento, gli sparano addosso (…)».

Leonardo
Coen sul quotidiano «La Repubblica»,

12 aprile
2002


 UNA GUERRA
PER LA VITA O LA MORTE

«Chi
conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto
di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle
donne kamikaze o dei massacri in campi  profughi come Jenin.

Il
guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è
criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo stato
israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la
guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli
antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai
risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male – il
più delle volte inane – che si arreca.

Ma la
guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali
responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura
del conflitto. E vela consapevolmente la verità».

Barbara
Spinelli sul quotidiano «La Stampa»,

padre Marco Malagola