SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): missione nella «bidonville»

LUOGO DI RIFIUTI


Secondo porto della Costa d’Avorio, San Pedro gode di un
non invidiabile primato: tre quarti dei suoi 200 mila abitanti vivono nel
Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale, in una
situazione di degrado e disperazione. Vi lavorano i missionari della
Consolata.


Dall’altura lo sguardo spazia su una parte del territorio parrocchiale:
case e casette in ordine sparso in un mare di verde e di foschia. Il resto
è nascosto da una collinetta che, appena aggirata, rivela una distesa
immensa e senza interruzione di tetti di lamiera grigi e arrugginiti.

Procedendo
a passo d’uomo per un’ampia strada polverosa e sconquassata, sbuchiamo
all’improvviso nel cuore della città, tra edifici modei di banche,
negozi, centri commerciali. A ricordare il passato coloniale rimangono, in
prossimità del porto, due bianche zanne di elefante in lamiera e un
trenino, quasi un giocattolo in rottamazione.


COSTA DI
MALAGENTE

Anche il
nome ricorda un pezzo di storia. Qui sbarcarono, la prima volta verso il
1470, gli esploratori portoghesi e trovarono un piccolo villaggio di
pescatori kru, appollaiato alle foci del fiume Hé: fiume e villaggio
furono battezzati col nome di São Pedro. Lo stesso fecero più a est, col
fiume São Andrea (da cui Sassandra), e a ovest col promontorio di Cabo
Palmas, oggi Cap Palmas, ai confini con la Liberia: tre nomi rimasti come
firme della presenza portoghese nella regione.

Col
passare dei secoli, le coste videro sfilare le navi portoghesi, olandesi,
inglesi, francesi, che a tuo occuparono il litorale alla ricerca di pepe
e altri prodotti esotici. I contatti con gli europei dovettero essere
difficili, a volte cruenti, se la zona tra Cap Palmas e Sassandra fu
chiamata «Costa di Malagente», titolo che resistette a lungo sulle carte
geografiche.

Poi, con
le buone e con le cattive, gli europei imposero alla «malagente» i loro
commerci: caricavano rame e minerali vari; avorio soprattutto: ce n’era
una tale quantità che gli olandesi ribattezzarono la zona Tand Kuts, Costa
d’Avorio, appellativo poi esteso dai francesi al resto del paese.

Tra il xvi
e xviii secolo la Costa di Malagente, come il resto delle terre affacciate
sul Golfo di Guinea, fu dissanguata dal traffico degli schiavi. Quando lo
schiavismo fu abolito, la regione ricadde nell’oblio: alla fine del 1800,
tra Tabou e Sassandra, pochissime imprese commerciali mantenevano ancora i
propri empori.

A San
Pedro era rimasta la compagnia francese Kong, guidata dal suo fondatore
Arthur Verdier. Con coraggio e caparbietà, costui continuò i suoi
disgraziati affari, tenendo testa agli inglesi che, per farlo sloggiare,
depredavano le sue navi in continuazione. Finché nel 1885 arrivarono i
francesi per occupare il litorale, penetrare nell’interno e colonizzare la
regione.


CITTÀ
COSMOPOLITA

Clima,
malaria e ostilità delle popolazioni diedero filo da torcere ai soldati,
molti dei quali ci lasciarono la pelle. Ma nel 1893, tutta la Costa
d’Avorio era sotto il controllo francese, col titolo di colonia
indipendente. San Pedro riprese quota: con materiale portato dalla
Francia, il governo vi fece costruire un padiglione per la dogana, la
residenza dell’amministratore e un faro, il primo della Costa d’Avorio.

Nel 1900
il governo donò alla compagnia Kong quasi 3 mila kmq di foresta attorno a
San Pedro, per indennizzare il patriota Verdier degli sforzi sostenuti per
mantenere la presenza francese sul territorio. Cominciava la corsa allo
sfruttamento del legname e alle coltivazioni di caffè, cacao e caucciù.

Nel 1968,
otto anni dopo l’indipendenza, il governo dichiarò la regione sud
occidentale secondo polo di sviluppo del paese, lanciando un vasto
programma chiamato Arso (Aménagement de la région du Sud Ouest). San Pedro
cominciò a cambiare i connotati: fu dotato del porto autonomo, insieme a
varie strutture commerciali e industriali. In poco tempo il piccolo borgo
diventò una città modea e polmone economico della regione circostante.

Incremento
di colture da esportazione nelle zone rurali, costruzioni di
infrastrutture e industrie per la lavorazione del cacao, caffè e legname
attirarono manodopera in continuazione. Ai gruppi etnici locali (kru,
bakué, néyo) si aggiunsero quelli provenienti dall’interno della Costa
d’Avorio (baoulé, wobé, guéré, yakouba, malinké, mahou, senoufo, koulango,
abron, agni) e dai paesi circostanti.

Oggi San
Pedro conta circa 200 mila abitanti; è una città cosmopolita con grosse
colonie di burkinabé, maliani, liberiani, guineani, ghaniani, nigeriani,
mauritani e alcuni europei e libanesi.


REGNO DELLE
ZANZARE

Dalla cité
torniamo al Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale. Nata
spontaneamente come quartiere provvisorio per la mano d’opera impiegata
nella realizzazione di infrastrutture urbane e portuali, è cresciuta a
dismisura con l’arrivo di masse disperate in cerca di lavoro, fino a
contenere i due terzi della popolazione di San Pedro.

Padre
Armando mi fa visitare una piccola parte della sua parrocchia, per
rendermi conto della situazione. «Wabù! Wabù!» (bianco) ci salutano i
bambini, correndoci incontro per stringerci la mano. «Quando racconto che
mi chiamano “bianco”, i miei compaesani si mettono a ridere» racconta
sorridendo il padre, la cui caagione sembra caffè espresso. Qualcuno,
pochi in verità, saluta dicendo «mon père» (padre), segno che sono
cristiani.

Padre
Armando scherza con tutti, mentre osservo con costeazione le lunghe file
di baracche di legno, addossate le une alle altre, facendo bene attenzione
dove posare i piedi. Tutte le stradette, infatti, assomigliano a letti di
torrenti, con ciottoli frammisti alle immondizie domestiche buttate a
casaccio davanti alle abitazioni. L’assenza di fognature, poi, fa sì che
le vie si trasformino in fogne a cielo aperto, con tratti di  liquame
ristagnante. 

In fondo a
molte strade, in un avvallamento acquitrinoso, ci imbattiamo in mucchi di
immondizia in cui ruspano galline, grufolano maiali e capre e giocano i
bambini.

Tutto ciò
favorisce la proliferazione di zanzare, che al Bardot regnano sovrane. Si
sono fatte varie campagne per combatterle, ma la gente sembra abituata e
rassegnata a convivere con esse e alle relative febbri malariche. Ma i
centri sanitari sono sempre pieni. Più della metà dei pazienti accolti
nelle strutture sanitarie di San Pedro viene dal Bardot, in maggioranza
con malattie legate alla malaria. Tutti ne sono colpiti; ma i più
vulnerabili sono i bambini al di sotto dei 5 anni.

Il degrado
ambientale porta con sé quello sociale. Oltre che nido di zanzare, Bardot
è anche covo di briganti di strada: assenza di pianificazione stradale e
di elettrificazione, fa di alcune zone del Bardot un rifugio ideale per i
malviventi e un rischio per chi si azzarda ad entrarvi. Il 30 aprile 2001,
un commissario di polizia, sulle tracce di una banda di malfattori, fu
abbattuto con una pallottola al cuore.

Una di
queste zone, la parte sud del Bardot, è soprannominata Colombia, nome dato
non a caso: vi si concentrano i più grandi spacciatori e narcotrafficanti;
la droga è consumata sotto gli occhi dei passanti.

Il settore
chiamato Zimbabwe è tristemente famoso per il numero di aggressioni a mano
armata, di giorno e di notte. Al commissariato di polizia vengono
segnalati almeno 35 casi di furti, aggressioni e violenze giornaliere: più
di mille al mese.


Insalubrità e malattie, aggressioni, crimini e droga fanno vittime tutti i
giorni.

Il
Bardot è il quartiere di tutti i pericoli. Per evitarli, siccome il sole
sta per tramontare e le tenebre calano in fretta, ci affrettiamo a
rincasare.



A LUME DI CANDELA

Il
complesso della missione è molto semplice: la chiesetta in muratura,
dedicata alla Madonna d’Africa, un fabbricato in mattoni addossato alla
cappella e, pochi metri a fianco, una casetta di legno dove padre Olaya
vive insieme al collaboratore e connazionale padre Martin Sea.
Esteamente essa appare più decente delle altre catapecchie, ma è
altrettanto scomoda all’interno: senza luce elettrica né acqua corrente.
Al calar della notte, si accendono le lampade a petrolio e si cerca il
cesso a lume di candela.

«Fin
dal nostro arrivo, nel 1997, ci siamo proposti di lavorare con i poveri e
non per i poveri» attacca padre Armando, accentuando «con» e «per», in
modo da spiegare il suo metodo missionario assai spartano. Per questo ha
scelto di costruire l’abitazione in legno, riservando il fabbricato in
muratura alle attività comunitarie.

Nei
primi anni i missionari andavano in bicicletta, come i più fortunati del
Bardot; poi si sono rassegnati a comperare una vettura di terza o quarta
mano, per potersi occupare dei 18 villaggi compresi nel territorio
parrocchiale, alcuni dei quali a una cinquantina di chilometri da San
Pedro. Di essi si occupa soprattutto padre Martin: parte al martedì e
ritorna la domenica, passando la settimana nelle comunità rurali. Padre
Armando rimane al Bardot, ma si è aggiornato: quando non gira a piedi,
cavalca un ciclomotore, zigzagando e pedalando che è un piacere.



CRESCERE CON LA GENTE

«Al
nostro arrivo c’era un centinaio di fedeli – continua il padre -; oggi
sono quasi due mila. La comunità è cresciuta piano piano e il vescovo ne
ha fatto la parrocchia della cattedrale, spostando il centro della
comunità fuori del Bardot. Anche quando il parroco dovrà abitare nella
nuova sede, noi speriamo di rimanere qui, insieme alla gente».

Da
quando è stata costituita la parrocchia, i missionari hanno assunto
l’impegno di creare strutture adeguate: consigli, commissioni e gruppi
vari, quasi una quarantina, che organizzano lavoro e vita della comunità:
catechesi, pastorale giovanile,  accoglienza, servizio dei malati e della
carità.

«Ma le
comunità di base sono la mia passione – continua padre Armando -. Una
volta la settimana, verso le 7 di sera, si radunano nel proprio quartiere
a lume di candela o di lampade a petrolio e si confrontano con la parola
di Dio e i problemi di ogni giorno. È un’esperienza molto bella vedere
come cresce la comunione vera, senza divisioni, nonostante le diversità
etniche; e i poveri che partecipano attivamente alla vita della parrocchia,
assolvendo alle responsabilità e servizi vari.


Insistiamo perché tutto passi attraverso la comunità di base, anche
l’ammissione al battesimo e agli altri sacramenti. Quando una persona
vuole entrare nella chiesa cattolica, per esempio, viene accolta nella
comunità di base, partecipa alla sua vita e vi riceve l’istruzione
necessaria, fino a quando è ritenuta pronta per ricevere il battesimo».

«Oltre
alla formazione, avete iniziative sociali e di promozione umana?» domando
timidamente.

«Più
che al lavoro sociale, il nostro impegno è rivolto alla formazione della
comunità – ribadisce il padre -. Ma qualche attività sociale l’abbiamo già
avviata, come il piccolo dispensario, dove i poveri trovano medicine a
prezzo inferiore a quello praticato da farmacie e strutture pubbliche. Ora
stiamo lavorando a un progetto per raccogliere i bambini di strada e
offrire loro la possibilità di imparare a leggere e scrivere, fare oggetti
di artigianato o apprendere un mestiere. Ho già preso accordi con una
comunità religiosa laicale che se ne assumerà la direzione. Abbiamo i
fondi per costruire il fabbricato; ma manca il terreno e non è facile
ottenerlo. Esso appartiene al comune, che non lo concede, dicendo che qui
tutto è provvisorio».

La
scuola è uno dei problemi più gravi del Bardot. Quelle esistenti sono
insufficienti e mal tenute. Con la scusa che tutto è provvisorio e che gli
abitanti sono stranieri, il governo non è interessato a fornire
l’istruzione e altri servizi essenziali. A tale mancanza suppliscono le
scuole private, costituite da baracche di canne, alcune assi per far
sedere i bambini e un maestro che sa leggere e scrivere e si fa pagare
qualcosa per sbarcare il lunario. Nonostante ciò, sono migliaia i ragazzi
che passano tutta la vita sulla strada.

«Le
sfide del Bardot sono infinite – conclude padre Olaya -. Vorremmo fare
tanti progetti, ma andiamo adagio: vogliamo che sia la comunità a muoversi.
La gente è abituata a ricevere. Prima dobbiamo aiutarla a cambiare tale
mentalità, per non perpetuare dipendenze e creae di nuove. Anche questo
fa parte della formazione».

Benedetto Bellesi