DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano