AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?

A KABUL NON BASTANO GLI AQUILONI


«Il risultato è che i sovietici se ne sono andati,
mentre  i vincitori – i mujaheddin –   la guerra non l’hanno ancora
smessa, 12 anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro  l’hanno
anche importata,   al loro rientro, nei Paesi d’origine. (…) E quel tale
Osama,   prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col
dichiarare  apertamente guerra…  agli Stati Uniti! E l’Afghanistan,   
in tutto questo? 1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000  di
profughi».

(Gino
Strada, medico e fondatore  di «Emergency»)

 


Dal Pakistan all’Afghanistan


Kabul è
caduta !

L’attesa in
una Peshawar invasa dai profughi e poi l’arrivo dell’agognata notizia: i
talebani hanno lasciato Kabul. Siamo entrati in un paese devastato da
trent’anni di guerre. A Kabul abbiamo trovato miseria, macerie e
confusione, ma anche degli italiani che da anni si fanno onore. Come
Alberto Cairo, che riassume così la situazione: anche dopo le bombe e la
caduta dei talebani, per gli afghani la parola chiave è sempre e soltanto
una, «sopravvivenza».

 Peshawar.
Nei campi profughi della città pakistana la gente continua ad arrivare e
le condizioni di vita si fanno sempre più precarie per mancanza di cibo e
per l’imminente arrivo del freddo. «Anche se non sarà come l’inverno
afghano, sarà sempre dura, ma almeno qui abbiamo più possibilità di
sopravvivere» ci dice Nassim. Lui è fortunato. È riuscito ad aggirare il
blocco della frontiera da parte dei soldati pakistani. Arrivato da pochi
giorni, sembra ancora un po’ sperso, anche se continua a sorridere.

Appena
rientrati nella «guest house» che ci ospita, dalla televisione via cavo
arriva la notizia: Kabul è caduta!

Il giorno
seguente ci rechiamo in vari uffici governativi, dove tentiamo (invano) di
ottenere il permesso per transitare nelle «aree tribali». Ovvero in quelle
zone del Pakistan, che da Peshawar arrivano sino alla frontiera con
l’Afghanistan, in mano a tribù locali. Potremmo quasi definirle zone
franche, perché qui il governo pakistano non ha alcuna autorità. Si limita
solamente al controllo della strada che, attraverso il Kyber Pass, porta
sino alla città di confine di Thorkam.

Il giorno
precedente un convoglio di giornalisti, con l’appoggio di un capo tribù, 
ha «forzato»  il posto di blocco della polizia pakistana, che oggi quindi
non sembra disposta ad accontentare fotografi, giornalisti e cameramen
occidentali che premono per entrare in Afghanistan.

Per
fortuna, arriva una telefonata di un amico del Gr Rai, il quale ci informa
che i pakistani  hanno finalmente deciso di accordare il permesso di
transito attraverso le zone tribali.

Il 17
novembre finalmente riusciamo a partire, con un centinaio di altri
rappresentanti dei media  di tutto il mondo. Arriviamo a Thorkam, dove le
operazioni di controllo dei passaporti  sono estenuanti, un po’ per il
numero di persone da controllare, un po’ per l’estrema meticolosità dei
pakistani.

Alle 19.00
riusciamo ad entrare in Afghanistan.


SULLA STRADA
PER KABUL

«Welcome
to Afghanistan» sorride il mujaheddin, appoggiato al pick-up che ci sbarra
la strada. Alcuni come lui formeranno la nostra scorta sino a Jalalabad.

Al mattino
presto ci sveglia la guida, informandoci che il giorno precedente molte
macchine di giornalisti  avevano percorso la dissestata via del
contrabbando che porta a Kabul e che, anche in quel momento, molti si
stavano mettendo in viaggio.

Lungo la
strada attraversiamo zone desertiche e oasi coltivate (prevalentemente a
cavolfiori), che costeggiano il fiume Kabul. Dopo circa tre ore,
nonostante il ramadan, la nostra guida si ferma per offrirci un tè nel
piccolo ospedale gestito da afghani con fondi di una Ong francese. «Qui i
talebani praticamente non si sono mai visti. Solo qualche ferito in
scontri nelle vicinanze» ci dice un infermiere.

La strada
è ormai una pista. Di tanto in tanto, si incontra qualche nomade con le
sue greggi o bambini, che cercano di racimolare qualcosa tappando le buche
lungo il percorso e chiedendo qualche spicciolo alle vetture che
transitano.

A
ricordarci di essere in un paese in guerra da ormai trent’anni, ci sono
carcasse di carri armati sovietici, arrugginite dal tempo e depredate di
tutto ciò che poteva essere utile.

Eccoci a
Sourubi. Ci sono una grande diga e la centrale elettrica che fornisce la
corrente a Kabul. Qui incontriamo il primo posto di blocco dell’Alleanza
del nord.

I
militari non fanno alcun tipo di problema, sorridono e parlottano con
l’autista.


Arriviamo a Kabul, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, per aver
superato senza problemi il canyon che ci separava dalla capitale.

È
evidente la presenza dei mujaheddin, soprattutto nelle zone strategiche
della città. Ci stupisce  il fatto che in soli 2 giorni l’Alleanza del
nord abbia già occupato tutti i posti di controllo e stia organizzando
l’amministrazione, mentre al nord del paese la guerra prosegue. Gli
americani continuano a bombardare perché i talebani dicono di non volersi
arrendere se non a una forza dell’Onu.

Kabul,
comunque, sembra sicura. I mujaheddin ci rassicurano e ci dicono che
problemi potrebbero esserci solo con alcuni gruppi di arabi e pakistani
che si sono rifugiati sulle montagne. «Di tanto in tanto ne viene
catturato qualcuno, oppure scende dalle montagne per la fame», ci dice
Abdullah, venticinquenne comandante di un piccolo gruppo di uomini che
arriva dal Panshir.

Ci
raccontano che nei giorni precedenti ci sarebbero stati diversi linciaggi,
ma che ora si sono spostati soprattutto fuori città. La gente sembra
cordiale e tutto sommato felice di aver recuperato un po’ delle libertà
perse nel 1994. Molti ragazzi che parlano un po’ di inglese si offrono
come guide ai giornalisti. Per loro significa guadagnare in pochi giorni
quello che di solito racimolano in un anno o più.



LO STADIO DEGLI IMPICCATI

Le
macchine dei mujaheddin sono tappezzate di manifesti del comandante Massud,
«il leone del Panshir», ucciso il 9 settembre. In soli 3/4 giorni sono
spuntati, qua e là, negozi di radio e televisioni, libri e musicassette.
In un piccolo supermercato troviamo persino alcuni prodotti italiani
(Barilla, Nutella), co-flakes, tonno, olio d’oliva, sigarette americane.
«Arriva quasi tutto da Dubai (Emirati Arabi)» ci spiega il proprietario. 

Andiamo
allo stadio. All’ingresso incontriamo il custode.  Abdarsak  ha 48 anni e
lavora qui da parecchio tempo. Ricorda che, in 5 anni di regime, su quel
campo sono state impiccate non meno di 50 persone e almeno altre 500 hanno
subìto il taglio di una mano. «Nell’intervallo allo stadio di Kabul c’era
quasi sempre qualche “fuori programma”».  Racconta di quel sabato 11
agosto 2001: «Sono le due di pomeriggio. I tagiki del Pamir, in maglia
rossa e pantaloni lunghi, e gli azarà di Maivan, in completo verde e
pantaloni lunghi, stanno per affrontarsi. Non è una partita ufficiale
eppure lo stadio è gremito, ci saranno 30 mila persone. Sono così rare le
occasione per divertirsi che una qualsiasi partita di calcio diventa un
evento. L’arbitro dà il fischio di inizio. Si gioca. Mancano 10 minuti
alla fine del primo tempo, quando dall’altoparlante si chiede di fare
silenzio e di sospendere la partita. Eccolo il “fuori programma”!

La voce
dura di Abdrakam Arrà, il temuto capo della polizia religiosa talebana,
annuncia che da lì a pochi minuti verranno puniti, in nome di Allah, 4
uomini macchiatisi di crimini gravissimi. Calciatori, arbitro e
guardalinee hanno già raggiunto le linee laterali per non perdersi lo
spettacolo. L’altoparlante torna a dire qualcosa e i colpevoli, due ladri
e altrettanti assassini,  vengono spinti, ammanettati, a centro campo,
dove sono attesi da una dozzina di boia incappucciati».


Prosegue Abdarsak: «Il rituale era sempre lo stesso: gli assassini
venivano impiccati alle traverse e poi finiti a fucilate; i ladri subivano
il taglio di una mano».  Le esecuzioni non avvenivano solo allo stadio, ma
anche in una piazza, alla periferia residenziale di Kabul, chiamata Charai
Aiana, ma tristemente nota con il soprannome di piazza della morte. Al
centro di quello slargo a luglio hanno penzolato, da una gru, quattro
uomini accusati di aver minato l’Hotel Kabul,  quartier generale dei
talebani; ma era solo un pretesto per liberarsi di quattro scomodi
oppositori. 


IL
DOTTOR CAIRO,

L’«ANGELO
ITALIANO»

Kabul
di notte è una città fantasma. Non vige un vero e proprio coprifuoco, ma
di fatto è come se ci fosse. Solo alcuni giornalisti si muovono (ma
rapidamente) da un albergo all’altro. Mentre mangiamo un piatto di riso
con pollo, un ragazzo ci raccomanda di ricordare che le croci bianche
sulle case segnalano che sono state sminate, mentre quelle con la croce
rossa non lo sono. Ci ricorda anche che nel paese rimangono circa 11
milioni di mine.

Poiché
le stime parlano di circa 8/9 milioni di abitanti, questo significa più di
una mina per afghano! Ecco perché, per strada, è normale vedere persone
con una sola gamba.


Incontriamo il dottor Alberto Cairo (laureato in legge, ma convertitosi
alla fisioterapia) nel suo centro ortopedico, ospitato presso l’ospedale
Wasir Abkhar Khan.

«Sono
appena rientrato dopo 57 giorni, non ce la facevo più a stare lontano da
qui. Non sapevo cosa avrei trovato, ma vedo ottimismo e fiducia. Molti
sperano in qualcosa di nuovo e di buono, specie adesso che tutto il mondo
guarda all’Afghanistan. Tutti sono contenti della fine dei bombardamenti,
ma tutti sono preoccupati per il futuro: la fine degli attacchi e il
cambio di regime non significano, automaticamente, pane, case, caldo,
sicurezza o un governo stabile». Il dottor Cairo vive a Kabul da 12 anni,
il suo centro ortopedico sfoa protesi a getto continuo, avvalendosi a
volte di materiali di recupero, come ad esempio copertoni.

Nel
centro ci sono una sala ed un percorso all’aperto per la riabilitazione.
Il personale dell’ospedale è tutto afghano, formatosi nel medesimo centro,
e la maggior parte di esso è composto di ex pazienti. Continua il dottor
Cairo: «La parola chiave in Afghanistan è sopravvivenza. Gli abitanti
hanno dei meccanismi che io non riesco a comprendere: in qualche modo ce
la fanno sempre, ma pur sempre sopravvivenza è. So che gli afghani hanno
grandi capacità lavorative, ma non mi aspettavo che potessero portare
avanti da soli tutte le nostre attività, pur avendo così tanta pressione
sulle spalle. I laboratori ortopedici hanno fabbricato gambe, braccia,
stampelle; le distribuzioni di cibo sono andate avanti. Il centro è in
perfetto ordine. Ci sono persino i fiori. Temevo che i colleghi afghani mi
avessero mentito, per farmi stare tranquillo. Invece no, è tutto a posto».


Salutiamo il dottor Cairo e continuiamo i nostri giri per Kabul.


A
SPASSO TRA LE MACERIE

DELLA
CAPITALE

Alcune
zone della città sono completamente distrutte. Ci sono milioni di fori di
proiettile, come se un pazzo fosse entrato, casa per casa, sparando
centinaia di colpi in ogni stanza.

Il
museo è devastato; l’università, per il momento, resta chiusa.  L’ex
palazzo reale, alla periferia di Kabul, è uno scheletro di travi e
calcinacci. Peccato, doveva  essere bello. La Tomba del Padre (un anonimo
mausoleo) è stata bombardata. Lo zoo, nonostante tutto, resiste ed ospita
un orso spelacchiato, qualche scimmia ed un leone entrato nella leggenda,
perché è sopravvissuto allo scoppio di una granata lanciatagli da un
mujaheddin per vendicare la morte del fratello, sbranato  dall’animale.
Quella che era l’ambasciata russa è ormai occupata da circa 20 mila
profughi.


Incontriamo due donne, rigorosamente con il burqa, che pare abbiano voglia
di chiacchierare. Anche loro sono sfollate e si sono rifugiate qui per
sfuggire ai combattimenti che per anni hanno bersagliato le zone a nord
della capitale. Si ritengono fortunate, perché anche con i talebani hanno
potuto continuare a lavorare.

Da due
anni lavorano come assistenti sanitarie ed educatrici presso il campo
profughi. Si tratta di un progetto organizzato da «Save the children». Pur
sembrando molto giovani, sono entrambe sposate. Una di loro però non pare
soddisfatta, ed il fatto che ne parli con due stranieri è sorprendente. Si
è sposata da 7 mesi e, dopo appena uno, il marito è partito per l’Iran in
cerca di lavoro. E oggi lei è costretta a vivere con la famiglia di lui.
Gli uomini di casa si affacciano alla finestra, un po’ curiosi e un po’
minacciosi; ma lei non pare scossa e continua a camminare disinvolta fra
la polvere con le sue scarpe bianche, unica parte visibile sotto il  burqa.



LE BOMBE «INTELLIGENTI»

I
soldati dell’Alleanza del nord cominciano a farsi più rigidi con i
giornalisti occidentali. Ci negano il permesso di fotografare alcuni carri
armati talebani bombardati dagli americani, ci impediscono di vedere
alcuni prigionieri arabi e pakistani, rinchiusi in un container, nel mezzo
di una delle basi.

Dietro
la vittoria dell’Alleanza ci sono i bombardamenti anglo-americani, che
hanno lasciato il segno, e non solo sulle basi militari. Nei paraggi di
questi obiettivi molte case civili sono state distrutte. Errori? C’è chi
li ammette e chi no.

 «Non
posso giustificare un errore che ha ucciso tutta la famiglia di mio
fratello» ci dice Abdul. «La casa è stata colpita durante i primi
bombardamenti – spiegano alcuni vicini -. Erano da poco passate le otto
quando, all’improvviso, l’esplosione: 9 morti e 12 feriti». «Mio fratello
non ha mai avuto nulla a che fare con i talebani era un semplice maestro»
racconta Abdul. Ma le bombe, si sa, non guardano in faccia nessuno.

Molte
sono le zone di Kabul colpite dai bombardamenti. Vicino all’Hotel
Continental, dove alloggiano la maggior parte dei giornalisti, nella zona
di Karte Parvan, si trova una villa che era stata donata dal re ad uno dei
suoi consiglieri più fidati. Negli ultimi anni la villa era diventata la
base di alcuni arabi e per questo sarebbe stata bombardata. Sotto il buco
nel tetto ci sono ancora i resti del missile «intelligente» lanciato dagli
americani.

Alcuni
mujaheddin stanno ripulendo lo stabile. Ci dicono che intendono farvi una
guest house per il ministero della Difesa. Ma il fatto di essere tornati
grazie alle bombe americane non vi reca qualche imbarazzo? Ci risponde
Quasim, ventiduenne capo militare dell’Amirat del Panshir, evidentemente
soddisfatto di essere tornato a Kabul: «Certo, le bombe americane ci hanno
aiutato. Hanno colpito i terroristi, nemici dei musulmani, del nostro
paese nonché dell’umanità intera». Invece sulla sorte di possibili
prigionieri preferisce lasciare la risposta ai suoi superiori.

Da ieri
mattina è cominciato l’attacco a un migliaio fra talebani e arabi che si
sono raggruppati a Maidan Shar, una quarantina di chilometri a sud-est di
Kabul. Un punto strategico per entrambi i contendenti, poiché qui passa la
strada che porta ad Herat e Kandahar. Il comandante Haji Shirihalam, in un
improvvisato incontro con i giornalisti, dichiara: «Abbiamo negoziato per
10 giorni. Alla fine, lunedì scorso, i talebani sono venuti a dirci che si
sarebbero arresi e che avrebbero consegnato le armi. Ma così non è stato e
noi questa mattina abbiamo attaccato».

Il
problema è che qui, come in altri posti del paese, i talebani sarebbero
anche disposti ad arrendersi, ma gli arabi e i pakistani che sono con loro
si oppongono, ben sapendo che a loro spetta la sorte peggiore. Fra i
talebani afghani è quasi subentrato un sentimento nazionalista, essendo
consapevoli del fatto che per loro le pene saranno miti, sempre che siano
puniti.

Guljan,
trentaduenne studente di teologia, come ama definirsi, ci dice: «Per il
mio paese io voglio solo la pace». Discute tranquillamente con alcuni
soldati dell’Alleanza, tra sorrisi ed abbracci da vecchi amici ritrovati.
«Era nostra intenzione arrenderci, ma gli stranieri ce l’hanno impedito».
Sanno di non avere via di scampo, che non possono certo tornare a casa. I
combattenti stranieri sono stati i primi ad essere passati per le armi dai
mujaheddin, quando sono stati intercettati, mentre sembra che in alcuni
casi, come a Kunduz, siano stati gli stessi stranieri ad uccidere i
talebani che volevano arrendersi.


Toiamo verso Kabul, lungo la strada che è un continuo sali e scendi. Ai
lati viene continuamente segnalata la presenza di mine. Appostati nei
luoghi strategici, i mujaheddin scrutano l’orizzonte o formano i posti di
blocco, che qui sono più numerosi che altrove.

 L’impatto
con l’entrata sud della capitale è assolutamente impressionante: una città
completamente devastata,  macerie su macerie. Superata la parte distrutta
durante i 20 anni di guerra civile, l’altra, quella sopravvissuta, sta
chiudendo i battenti.

In
tempo di ramadan, al calar della sera comincia la corsa verso casa per
l’agognato pasto dopo il lungo digiuno. Cosa troveranno sulla tavola i
milioni di afghani che vivono solo degli aiuti umanitari? Intanto, al
mercato di Kabul, i prezzi dei beni alimentari sono in costante aumento.
Succede sempre durante il mese di ramadan, ma oggi, in più, ci sono la
guerra e gli stranieri.

 

 



Afghanistan una storia tormentata

Dal
XIII al XVI secolo


L’Afghanistan è governato prima da Gengis Khan, poi da Tamerlano e dai
suoi discendenti.


 1839-1919: le guerre con gli inglesi

Persa
la prima guerra anglo-afghana (1839-1842), gli inglesi si rifanno nella
seconda (1878-1880) e stabiliscono sull’Afghanistan un protettorato. Nella
terza ed ultima guerra (1919), gli afghani si liberano degli inglesi. 

 Dal
1933 al 1963


L’Afghanistan è governato dal re Zahir Shah. Durante la seconda guerra
mondiale, il paese riesce a mantenere l’integrità nazionale e una
difficile neutralità. A partire dagli anni Cinquanta diventa un
protettorato di fatto dell’Unione Sovietica.

 1964:
riforme democratiche

Zahir
Shah approva una nuova costituzione trasformando il regno in una
democrazia con libere elezioni e diritti civili.

 1973:
il re viene detronizzato

Luglio
– Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato organizzato dal
principe Mohammed Daud. L’Afghanistan viene proclamato repubblica e Daud
ne diventa il presidente.

 1978:
nascono i «mujaheddin»

Aprile
– Daud viene ucciso. Il Partito democratico del popolo afghano (PDPA),
filo-sovietico, dà il via alla «Rivoluzione d’aprile», che porta alla
nascita della Repubblica democratica dell’Afghanistan. Al potere sale
Mohammed Taraki, con Babrak Karmal primo vice premier.

Agosto/dicembre
– Le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla
laicizzazione del paese, alimentano il malcontento di larghi strati della
popolazione. Comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata (mujaheddin)
con l’appoggio degli USA.

 1979:
l’invasione sovietica

16
settembre – Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il potere
passa nelle mani di Afizullah Amin. Il PDPA si spacca. L’URSS, che non
gradisce l’ascesa di Amin e teme un’estensione della ribellione islamica
alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide
di invadere l’Afghanistan.

27/28
dicembre – Truppe dell’Armata Rossa entrano nel paese. Amin viene
assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al
potere Babrak Karmal.

 1980:
interessi vitali

In
occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente
USA Jimmy Carter dichiara che «il tentativo da parte di una potenza
straniera di conquistare il controllo della regione del Golfo Persico sarà
considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti e sarà
respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Gli USA
offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari (missili
Sidewinder e Stinger) per arrestare l’avanzata dell’URSS in Afghanistan.

1983:
profughi

Il
numero dei profughi afghani raggiunge livelli altissimi: circa 3 milioni e
mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran e diverse
migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti.

Le
truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a più di 100 mila unità.

 1986:
arriva Najibullah

Maggio
– Babrak Karmal perde l’appoggio dell’URSS e viene costretto a dimettersi.
Lo rimpiazza il medico, ex capo della polizia segreta e segretario del
PDPA, Mohammed Najibullah.

 1988:
accordi di Ginevra

Aprile
– Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i
rappresentanti di USA e URSS, sotto l’egida dell’O.N.U., a Ginevra si
firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico.

Maggio
– L’URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e 35.478 sono
rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in Afghanistan. Il 25
maggio inizia ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa. Ad agosto il
contingente sovietico nel paese è già dimezzato.

Luglio
– A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione, nella sostanza
filosovietico, nonostante la presenza di alcuni ministri non comunisti.

 1989:
i sovietici si ritirano

15
febbraio – Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.

Aprile
– I guerriglieri musulmani mujaheddin, si trasformano progressivamente in
un esercito regolare, organizzato e ben equipaggiato, con il sostegno
della C.l.A. e del Pakistan. Continuano a combattere contro il governo
moderato di Najibullah, ma per il momento controllano solo alcune aree
rurali.

 1991:
crolla l’Unione Sovietica


Novembre – Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin a Mosca
per discutere di un possibile cessate il fuoco. Le parti si accordano per
il trasferimento del potere a un governo islamico ad interim e per lo
svolgimento di libere elezioni entro 2 anni.

8
dicembre – L’URSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di
Stati Indipendenti (CIS).

 1992:
l’ora di Rabbani e Massud

Aprile/giugno
– Kabul è presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e sanguinosi scontri
intestini tra le forze ribelli, si costituisce un governo di coalizione
sotto la guida di Burhanuddin Rabbani.

Vi
entrano rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Il comandante Ahmad
Shah Massud viene nominato ministro della difesa.

 1994:
arrivano i talebani


Novembre – I componenti della fazione più fondamentalista, quella degli
studenti sunniti di teologia coranica, i talebani, compaiono per la prima
volta sulla scena come gruppo armato. Da questo momento i combattimenti
subiscono un’escalation.


Novembre – Kandahar viene presa dai talebani, che assumono anche il
controllo di due province del sud, Lashkargarh e Helmand.

1995: i
talebani avanzano ovunque

5
settembre – Dopo mesi di combattimenti Herat cade nelle mani dei talebani.
ll leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella città, fugge
in Iran. All’O.N.U. il ministero degli esteri di Rabbani accusa il governo
pakistano di «aggressione diretta» per il sostegno fornito ai talebani
nella presa di Herat.


Novembre – Le milizie talebane attaccano Kabul. Le truppe governative
riescono tuttavia a respingere l’offensiva.

 1996:
la caduta di Kabul

20
marzo – La shura dei talebani invita il popolo afghano alla jihad (guerra
santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammed Omar è proclamato
condottiero dei talebani.

26
settembre – I talebani muovono verso Kabul e la conquistano nella notte.
ll presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar fuggono. L’ex
presidente Najibullah viene impiccato a un lampione. Mohammed Omar è
nominato capo di un consiglio provvisorio formato da 6 membri. ll Pakistan
invia una delegazione a Kabul.

28
settembre – L’amministrazione americana esprime «rammarico» per
l’esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni
con il nuovo regime. I talebani intanto avanzano verso il nord del paese.

2
novembre – L’Organizzazione della conferenza islamica decide di lasciare
vacante il seggio dell’Afghanistan.

 1997:
il Pakistan riconosce il governo talebano

La
resistenza moderata antitalebana si concentra nella parte nord del paese,
dove varie fazioni danno vita all’«Alleanza del Nord», appoggiata dalla
Russia che non vuole perdere totalmente il controllo della regione. ll
generale tagiko Massud guida l’Alleanza. La guerra prosegue durissima e a
fasi altee nelle province settentrionali.

24
maggio – I talebani entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la sharia (la
legge islamica) e chiudono le scuole femminili.

26
maggio – Il Pakistan riconosce il governo dei talebani.

4
settembre – Uno dei massimi dirigenti talebani si reca in Arabia Saudita,
dove a Jeddah riceve promesse di aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran,
Russia e Francia di aiutare Massud.

17
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. condanna i rifoimenti
di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e invita le
parti al cessate il fuoco.

 1998:
Omar e Osama

9
luglio – Un aereo dell’O.N.U. viene colpito da un razzo a Kabul. Il maulvi
Omar mette al bando la televisione e annuncia la deportazione dei
cristiani e punizioni per i comunisti.

18
luglio – L’Unione europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul per
le inaccettabili restrizioni cui è sottoposto il suo personale.

7
agosto – Le ambasciate USA in Kenya e Tanzania saltano in aria: i morti
sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli
attentati sia Osama bin-Laden, un miliardario saudita che sostiene anche
finanziariamente i talebani.

8
agosto – I talebani riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11 diplomatici
iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazara.

18
agosto – L’ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di usare i
talebani come strumento antiiraniano. Il leader talebano Omar dichiara che
il suo governo darà asilo a Osama bin-Laden.

20
agosto – Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di Jalalabad
e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden: 21 morti e 30
feriti.

29
dicembre – L’UNICEF denuncia il totale collasso del sistema educativo
afghano.

 1999:
gasdotti, sanzioni O.N.U. e oppio

9
febbraio – Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati
Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden.

29
aprile – Talebani, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo per la
costruzione di un gasdotto attraverso l’Afghanistan.

14
maggio – Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare
aiuto ai talebani. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un
ritorno a Kabul del re Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma.

22
maggio – I talebani individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto
congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici
sono uccisi.

26
giugno – Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per organizzare una
Conferenza degli Anziani (la «Loya Jirga», tradizionale strumento
istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma i talebani rifiutano
la sua mediazione.

6
luglio – Gli USA impongono sanzioni economiche e commerciali al governo
dei talebani e congelano i loro patrimoni finanziari. I talebani si
preparano intanto a un’offensiva estiva contro le truppe di Massud.
Migliaia di giovani arabi e pakistani si uniscono a loro.

10
settembre – Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in
territorio afghano sia raddoppiata, raggiungendo le 4.600 tonnellate. Il
97% delle coltivazioni è sotto controllo talebano.

12
ottobre – In Pakistan, un colpo di stato militare rovescia il governo di
Nawaz Sharif. Sale al potere il generale Musharraf.

15
ottobre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. vota a favore
dell’imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se, entro 30 giorni,
i talebani non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti.

11
novembre – Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori città
afghane per protestare contro le sanzioni dell’O.N.U. e chiedere il
sostegno dei paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan la
protesta anti-occidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una
serie di gravi attentati.

14
novembre – Le sanzioni delI’O.N.U. diventano operative.

2000:
tentativi di colloquio

Maggio
– Secondo i dati O.N.U. la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto
cifre record, superiori alle 4.800 tonnellate. La superficie coltivata è
cresciuta del 23%.

13
luglio – Il generale Massud lancia una controffensiva militare, ma la
reazione dei talebani si dimostra più efficace del previsto. L’ex
presidente Rabbani lamenta lo scarso sostegno all’Alleanza antitalebani da
parte della comunità internazionale.

Ottobre
– Una delegazione dei talebani è ricevuta a Washington al Dipartimento di
Stato.


Novembre – Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall’inviato
speciale dell’O.N.U. in Afghanistan Francisc Vendrell, i talebani e
l’opposizione dell’Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare
entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21 novembre,
tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l’inasprimento delle sanzioni
contro i talebani.

Le
organizzazioni umanitarie mettono in guardia le Nazioni Unite dai rischi
dell’imposizione di ulteriori sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori
sofferenze alla popolazione civile già duramente provata.

10
dicembre – I talebani minacciano di boicottare i previsti colloqui di
pace.

19
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. adotta una risoluzione (sostenuta
principalmente da Stati Uniti, Russia e India), per l’inasprimento delle
sanzioni contro l’Afghanistan, se i talebani non consegneranno entro 30
giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno i campi di addestramento per i
terroristi islamici e non cesseranno ogni commercio illegale di sostanze
stupefacenti.

 2001:
la situazione precipita

19
gennaio – Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’O.N.U. contro il regime
dei talebani.

28
febbraio – L’ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef,
conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di Bamiyan,
capolavori dell’arte ellenistico-orientale fiorita nel paese prima
dell’islamismo.

27
marzo – Un gruppo di giornalisti occidentali è ammesso nella valle di
Bamiyan per certificare l’avvenuta demolizione delle statue.

5
aprile – Massud viene ricevuto a Strasburgo.

19
maggio – La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM (Programma
alimentare mondiale) dove lavorano donne. La polizia religiosa irrompe
nell’ospedale di Emergency a Kabul.

23
maggio – Diventa legge l’ordinanza che impone agli indù di portare sugli
abiti un segno distintivo.

9
settembre – Il generale Massud viene ucciso.

11
settembre – Attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al
Pentagono.

 DOPO
L’11 SETTEMBRE 2001

 7
ottobre – L’aviazione anglo-statunitense colpisce Kabul e Kandahar.

26
ottobre – Bush firma la legge antiterrorismo denominata «Usa Patriot Act»
(legge del patriottismo americano). Il provvedimento rafforza enormemente
i poteri della polizia e dell’Fbi.

7
novembre – Il Parlamento italiano approva l’intervento militare italiano
accanto agli USA. «Il nostro Parlamento ha scritto ieri una pagina
onorevole della sua storia» (Piero Ostellino, sul «Corriere della Sera»
dell’8 novembre).

13
novembre – Le truppe dei mujaheddin entrano a Kabul.

27
novembre – Scoppia un rivolta nel carcere-fortezza di Qala-e-Jhangi, a 10
chilometri da Mazar-e-Sharif, dove sono detenuti circa 600 talebani, in
gran parte pakistani. Oltre 450 rivoltosi vengono uccisi. Amnesty
Inteational chiede l’apertura di un’indagine. Tra i talebani feriti c’è
anche un cittadino statunitense di 20 anni, John Walker.

5
dicembre – I rappresentanti dei quattro maggiori gruppi etnici e politici
afghani riuniti a Petersberg, vicino a Bonn, sotto l’egida delle Nazioni
Unite, raggiungono un accordo sul futuro dell’Afghanistan.

22
dicembre – Si installa il governo provvisorio di Hamid Karzai, leader
pashtun di 44 anni. La nuova amministrazione è composta da 29 ministri,
tra cui 2 donne (Sima Samar vicepremier e Suhaila Seddiqi ministro della
sanità), che rappresentano tutte le etnie. Vi sono 11 pashtun, 8 tagiki, 5
hazara, 3 uzbeki e altri esponenti di etnie minori.

31
dicembre – Un bombardamento statunitense provoca più di 100 vittime tra i
civili. È il terzo «effetto collaterale» in 10 giorni. Il governo di
Karzai chiede la sospensione dei raids aerei.

12
gennaio 2002 – Bendati e

legati
arrivano nella base


statunitense di Guantanamo (Cuba) i primi prigionieri talebani.


(a cura di Paolo Moiola)

 


Il
commento



Caduta libera verso la barbarie

di Gino Strada (Emergency)

Il
secolo passato ha visto numerose catastrofi umanitarie. Io speravo, fino a
qualche tempo fa, di non vedee più. Sono state firmate ogni tipo di
carte dei diritti, una montagna di carte: per l’uomo, per la donna, per il
bambino, per il vecchio, per la mezza età. Nonostante questo, ciò che sta
accadendo in questo momento storico si può definire come una caduta libera
verso la barbarie. Vorrei raccontare cosa sta accadendo in due delle sette
corsie dell’ospedale di Emergency a Kabul.

Una è
la corsia pediatrica. Ogni giorno arriva qui un bambino mutilato, ferito,
tagliato in due pezzi dall’esplosione di una «cluster bomb» (1) americana.
Gli americani si sono rifiutati di indicare agli sminatori i luoghi
bombardati con quegli ordigni. Quando le cluster bombs non esplodono
nell’impatto con il suolo, la loro dispersione le trasforma in mine sparse
sul territorio per un ampio raggio. È stata fatta una grande propaganda
sul lancio degli aiuti, i famosi sacchetti gialli, che anch’io ho visto.
Ora quei pacchi lanciati dal cielo hanno lo stesso colore delle… cluster
bombs americane. Sono lì, sparse dentro e fuori ai villaggi, pronte per
essere raccolte dai bambini, bramosi di trovare i famosi aiuti. Bene, io
chiamo questo terrorismo!

Queste
lanciate dal cielo sono mine antiuomo, mine contro la giustizia, la pace,
la libertà, la verità! Io non ci sto. Non ci sto. Credo che Emergency
faccia bene a denunciare questo gioco al massacro.

 All’interno
del nostro ospedale di Kabul, c’è poi un’altra corsia: quella destinata ad
ospitare i pazienti che hanno preso parte alle ostilità.

Ci sono
combattenti talebani non afghani, pakistani, uomini di Al Qaeda. Con i
talebani hanno combattuto uomini di 22 diverse nazionalità.

Questi
pazienti non sono stati portati feriti in ospedale. Siamo andati a
prenderli nelle carceri di massima sicurezza, dove erano abbandonati a
morire. Siamo andati perché, altrimenti, sarebbero stati brutalmente
uccisi. E con loro sarebbero stati uccisi i più basilari diritti umani.
Diritti che valgono anche per i combattenti talebani. D’altronde, questa è
la politica degli Usa: non fare prigionieri. Una politica che pratica e
genera terrore. Per questo dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi,
prima che le retroazioni simmetriche giungano anche in Europa. Noi viviamo
in un’Europa meno sicura, perché gli Usa hanno deliberatamente scelto di
occupare tutti i luoghi sacri del Medio Oriente. Questa politica estera
americana è da fermare. È un dovere morale per tutti!

Alcuni
sostengono che quella statunitense sia «la verità della civiltà». In
realtà, si tratta solo dell’attuazione di una politica imperialista volta
a combattere i disastri di una recessione economica intea al paese.


Naturalmente, l’Italia si è schierata in prima linea.  Abbiamo un
parlamento che per il 95% ha votato a favore dell’ingresso in guerra
contro l’Afghanistan. Oppure è la guerra contro Osama bin-Laden, che forse
in questo momento si sta nascondendo in uno dei rifugi fatti costruire
dalla CIA vent’anni fa.


Purtroppo, in questo contesto storico io sono molto meravigliato della
mancanza di un serio movimento per la pace. Noi proponiamo il dialogo come
alternativa alla guerra. Dobbiamo fare cultura per opporci a questa
catastrofe. Un esempio concreto in questa direzione è proprio Emergency.

Io dico
questo e poco importa se dal parlamento italiano arrivano insulti
personali gratuiti (2). L’unica forma di resistenza in questo momento è
parlare di fratellanza per evitare che si cada in una spirale di
disperazione per tutti. Spero che questo non accada mai. Dipenderà tutto
da noi. Ma dobbiamo muoverci! (3)

 (1)  
Termine per indicare le «bombe a grappolo», tipo di ordigno che,
all’impatto con il suolo, libera circa 50 bombe di dimensioni ridotte che
si sparpagliano sul terreno circostante.

(2)  Il
dottor Strada si riferisce a Silvio Berlusconi, che lo ha definito «un
uomo confuso».

(3) 
Questo intervento è stato fatto lo scorso 15 dicembre 2001 presso la
Camera del lavoro di Milano in occasione della presentazione del libro
«Afghanistan anno zero». È opportuno ricordare che questo lavoro di
Giulietto Chiesa e Vauro è stato scritto PRIMA dell’11 settembre.

 

 


A Kabul, con i nuovi padroni e i problemi di sempre



 «Non vogliamo solo speranze»

 


Musica, televisione, cinema, aquiloni. Tutto sembra tornare,
a Kabul. Ma sono questi i veri problemi? Forse è meglio concentrarsi sui
diritti e sulla rappresentanza all’interno dei nuovi organismi statali,
dicono le donne afghane. Con o senza burqa.

 

Kabul.
Nella capitale afghana è tornata la musica; qua e là spuntano antenne
paraboliche; si vedono di nuovo i libri e i bambini possono giocare con
gli aquiloni senza rischiare una severa punizione. Tutto cambia, ma le
donne restano invisibili. Le strade sono affollate di uomini, mentre le
afghane continuano a camminare rasentando  i muri, nascoste sotto i loro
burqa, nonostante la vittoria dell’Alleanza del nord.

In un
negozio di televisioni, aperto a tempo di record, incontriamo Soraja: sta
scegliendo un videoregistratore. E il televisore? «L’abbiamo tenuto
nascosto durante tutti questi anni, ma adesso possiamo utilizzarlo senza
paura». E come mai un videoregistratore? «Un passatempo per noi donne, che
dobbiamo restare in casa».


SHAMSIA
E RAHIMA,

DONNE E
MEDICI

Negli
anni dei talebani (1996-2001) le donne hanno potuto lavorare solo in casi
eccezionali e solo a contatto con altre donne. Se le possibilità di lavoro
erano così strettamente limitate, il problema dell’educazione e della
formazione delle bambine era risolto con il divieto alle ragazze di
studiare. La sanità poi era un vero dramma. All’inizio tutti gli ospedali
furono interdetti alle donne, poi furono ricavati degli spazi a loro
dedicati.


Un’amica giornalista italiana, che per girare inosservata (per quanto sia
possibile a degli occidentali), ha scelto di muoversi sempre con un velo
sulla testa, ci racconta: «Tre anni fa avevo trovato a Kabul una
situazione disastrosa: nel reparto di ginecologia di un ospedale le donne
venivano dimesse circa un’ora dopo il parto (quasi certamente si trattava
di situazioni complicate, altrimenti non avrebbero fatto ricorso alla
clinica, ndr), per lasciare il posto ad altre donne in attesa (a volte già
con le doglie) sulle panche di legno nel cortile dell’ospedale».

La
strada che porta all’ospedale Rabia Balki è affollatissima, frotte di
donne, con il burqa alzato sulla fronte, si accalcano contro il portone di
ferro che separa la strada dal cortile dell’unico ospedale per donne di
Kabul. In realtà ce n’è un altro, ma solo per problemi ginecologici.
Questo, invece, tratta tutte le patologie e c’è anche un reparto
chirurgico. È un grande edificio (un po’ fatiscente, ma abbastanza pulito),
suddiviso in stanze con 6/8 letti ciascuna, sala operatoria, ambulatori,
65 medici (tra cui 5 maschi) per un totale di 250 degenti.

Shamsia,
camice rigorosamente bianco e velo trasparente viola, è una delle
chirurghe. È arrivata all’ospedale due anni fa, appena finiti gli studi.
Ha frequentato, all’università di Kabul, l’unica facoltà rimasta aperta
alle donne: quella di medicina, indispensabile visto che le pazienti
possono essere visitate solo ed esclusivamente da altre donne. Anche se
adesso in questo ospedale si fa un’eccezione per i 5 medici maschi.

Rahima
è invece la direttrice sanitaria e medico internista. Shamsia e Rahima
dicono di non aver mai avuto particolari problemi per il loro lavoro in
ospedale. I problemi con i talebani erano quelli di tutte  le donne
afghane. E ora? Per loro non è cambiato nulla con l’arrivo a Kabul degli
uomini dell’Alleanza del nord, ma sperano in un cambiamento. E sono in
spasmodica attesa dei risultati della conferenza di Bonn (conclusasi con
un accordo lo scorso 5 dicembre, ndr), anche se l’Onu ha già fallito molte
volte nel tentativo di trovare una soluzione per l’Afghanistan.

Che
cosa si aspettano? «Un governo rappresentativo di tutti, che possa portare
la pace» dice Rahima, mentre Shamsia concorda. Con la partecipazione dei
talebani?  «Devono partecipare tutti, tranne i gruppi armati che hanno
combattuto per 23 anni (sia talebani che  mujaheddin) distruggendo il
paese. Sono loro i responsabili di questa catastrofe, quindi devono
restare fuori dal governo».


Un’utopia, anche se, contrariamente ad altre donne, come quelle di Rawa («Associazione
rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan») che contestano tutti i
fondamentalismi, Shamsia e Rahima non pensano ad un governo laico, ma
islamico: «Siamo un paese musulmano e l’oppressione della donna non
dipende certo dal corano. Diversamente da quanto credete voi occidentali,
il corano non impone l’adozione del velo, ma si limita a raccomandare che
il corpo della donna non sia oltremodo scoperto. Soltanto in un versetto
si parla di velo come elemento di abbigliamento. Altrove il  libro fa
riferimento al velo in quanto indumento indossato per tutelare il pudore
femminile».

Sperano
invece che torni il re deposto ed in esilio a Roma, Zahir Shah. Ma non è
troppo anziano? «Non importa l’età, contano  l’esperienza e le capacità
intellettuali». E le donne? «Le donne sono oltre il 50 per cento della
popolazione e devono avere una partecipazione almeno al 25 per cento nei
luoghi di decisione». E Rahima, come molte altre afghane, contesta la
rappresentatività delle donne che partecipano alla conferenza di Bonn:
«Non sono presenti donne che hanno vissuto in Afghanistan in questi anni.
Quelle andate a Bonn hanno vissuto fuori dal paese».

E il
burqa? Per Shamsia e Rahima  non è la priorità, come lo sono invece
l’educazione e il lavoro. Rispondono con una certa insofferenza, stanche
che molti occidentali vedano nel burqa il simbolo dell’oppressione.
Naturalmente non lo portavano prima dell’avvento dei talebani, ma ora è
diventato un modo per garantirsi la sicurezza. E c’è da giurare che non
saranno di certo i mujaheddin dell’Alleanza a garantire alle donne la
libertà di decidere se portarlo o no.



DOPO IL BURQA, I DIRITTI

Molte
donne afghane non vog

Davide Casali

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