NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»


   Ancora qualche… pennellata di vita missionaria, dal grande e
quasi inaccessibile Congo. Con i problemi di sempre (aggravati dalla
situazione di guerra), e piccoli fatti di speranza… che possono arrivare
anche da un bambino.

 

Un tempo, vedendo
certe ingiustizie in Congo, mi arrabbiavo molto; oggi lo faccio di meno,
non perché l’ingiustizia sia diminuita o io sia diventato insensibile, ma
perché mi vedo impotente. Soprattutto scopro tanta indifferenza. Alla
rabbia di una volta subentra il pianto del cuore.

 Che
delusione!

 Dalla missione di
Neisu (dove opero) penso anche a Gesù che, impotente, piangeva sulla città
di Gerusalemme… I potenti sono preoccupati a produrre e vendere armi, a
costruire scudi spaziali…

A Kisangani, terza
città del Congo, i soldati dell’Onu (sembra che l’Organizzazione si stia
finalmente «interessando» al paese) sono pagati 200 dollari al giorno per
«vedere la situazione» e stendere rapporti.

Ad Isiro (a pochi
chilometri da noi) di questi osservatori ne abbiamo quattro. Il mese
scorso è arrivato per loro un enorme aereo e ha scaricato due bancali
di… bottiglie d’acqua minerale.

Noi, per avere
medicine e quadei per la gente, dobbiamo fare giri impossibili: Kampala,
Butembo, Ariwara… In più, dobbiamo anche pagare tasse elevate, perché
c’è tutta una schiera di funzionari e impiegati che vuole mangiarci sopra.
D’altra parte, è da anni che lo stato non li paga e non sborsa il becco di
un quattrino per i loro salari!

Nonostante tutti gli
osservatori dell’Onu, oro e diamanti del Congo continuano ad arricchire
Uganda e Rwanda. Siamo alla fine dell’anno scolastico e gli alunni della
sesta elementare devono sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.
Prezzo dell’esame: 100 franchi congolesi (un dollaro Usa ne vale 140). È
poca cosa, lo so. Ma i genitori non hanno neppure questo.

In questi giorni
alla missione di Neisu c’è una processione di ragazzi e ragazze con
galline, uova, banane da vendere; la speranza è di avere i 100 franchi per
l’esame.

Queste cose, quelli
dell’Onu & affini le sanno? E, se lo sanno, qual è la loro risposta?
Perché, con tutti i mezzi che hanno a disposizione, non potrebbero darci
una mano per il trasporto di medicinali, viveri e materiale scolastico?

Se questo è l’Onu,
non ci resta che piangere.

 Nel
ricordo di Oscar

 Toiamo alle
nostre vicende. Pochi mesi fa, a Egbita, centro protestante a sei
chilometri da Neisu, si è svolta la prima grande assemblea del popolo dei
mangbetu. Ci siamo radunati tutti, cattolici, protestanti, autorità civili
e tradizionali dei tre gruppi che costituiscono la nostra zona: Medje,
Mongomasi e Ndey (vedi box).

Dopo dibattiti e
lavori di gruppo, i capi hanno proclamato, davanti ad oltre 2 mila
convenuti, che i magbetu, durante i funerali, si comporteranno da
«cristiani», astenendosi da tutte le malversazioni e violenze cui erano
abituati. Per noi missionari, l’assemblea di Egbita è stata un successo
pastorale.

Abbiamo anche
celebrato il secondo anniversario della morte di padre Oscar Goapper,
medico dell’ospedale. La commemorazione è stata tenuta in chiesa dal
superiore, padre Rinaldo, con tantissima gente. Dopo la messa, siamo
andati alla tomba per inaugurare un semplice ricordo… La fotografia di
padre Oscar in ceramica, mandata da Vimercate (MI), è una novità assoluta
qui. L’abbiamo incoiciata in una leggera struttura di ferro battuto,
dipinta con i colori dell’Argentina: bianco e azzurro.

Per la popolazione
di Neisu il 18 maggio (giorno della morte di Oscar) è ormai una festa; si
organizzano quindi danze, canti e scenette. Si fa festa anche per Michele,
un infermiere che ha scelto questa data per sposarsi.

Jean Embuama, un
giovane ammalato di Aids, diventa cristiano. Mal ridotto e malfermo, viene
accompagnato da due infermieri al fonte battesimale. Si lascia alle spalle
una vita movimentata e disastrata: diventa figlio di Dio. Nonostante
tutto, lo vedo bellissimo nella sua camicia bianca. Oscar, suo medico, può
essee contento: ha ricevuto delle belle soddisfazioni.

L’ospedale ha un
nuovo medico congolese: è il dottor Joseph. Giovane, neolaureato, con
tanta voglia di rendersi utile: un altro punto in più per il nostro
centro.

Suor Angela vede con
piacere che le fondamenta della scuola matea sono ultimate e i lavori
procedono. Suor Gemma ha iniziato la scuola di taglio e cucito per 45
ragazze, mentre suor Luisa tiene l’ospedale sotto controllo.

Siamo stati tutti a
Isiro con il consiglio parrocchiale, per celebrare i cento anni di vita
dei missionari della Consolata. Durante la messa, sul luogo del martirio
della beata Anuarite, abbiamo pregato per tutti…

Ebbene: i problemi
in Congo non mancano e le delusioni pure; ma la speranza non muore.

Voglio allora
raccontare un episodio che ci aiuti a continuare a credere nella forza
dell’amore e a trovare la strada della vita. Un modestissimo fatto, ma che
mi ha aiutato tanto.


Senza
complicazioni

 Domenica mattina.
Esco di casa e vado in chiesa. Manca mezz’ora alla messa, ma c’è già gente
che aspetta per le confessioni. Mi sto abbottonando la veste bianca e vedo
un bambino, che gioca da solo nel prato. Si accorge di me e mi viene
incontro, stendendo la mano. Lo saluto in lingua kimgbetu: «Mingoru?» (ti
sei svegliato?). Di regola a questa domanda la risposta è: «Bu himmi?» (e
tu?). Lui invece non risponde; mi guarda e sorride. Penso che non abbia
capito; forse non è un mangbetu. Ha inizio così una specie
d’interrogatorio.

«Tu sei mbudu?».
Penso infatti che possa essere un figlio di qualche infermiere mbudu
dell’ospedale. Il bimbo scuote la testa e sorride di nuovo. «Allora sei
certamente zande?». Il mio interlocutore fa ancora cenno di no.

Faccio due o tre
conti mentali: se non è mangbetu, mbudu né zande, sarà il figlio di
qualche moyogo venuto da Isiro per il mercato della domenica, qui a Neisu.

«Tu allora sei
moyogo?» gli dico pieno di sicurezza. Il bambino scuote di nuovo la testa
e, preso da compassione per me, in un bel lingala (la lingua
intertribale), finalmente apre la bocca e mi risponde: «Ngai nazali Luc»
(io sono Luca).

Le tre parole mi
investono come uno scroscio d’acqua pura e fresca. Tutte le mie
complicazioni e congetture sono azzerate. La verità splende sovrana.

– «Io sono Luca».
Perché ti stai a scervellare, ragionando di tribù, catalogando le persone
in schemi precostituiti?

– «Io sono Luca».
Guarda all’essenza delle cose, instaura rapporti semplicemente umani. Non
ti ricordi quanto successe a Einstein quando arrivò in America?
L’impiegato dell’immigrazione gli aveva mostrato un modulo da compilare e,
tra le domande, ce n’era una che chiedeva la «razza»? Einstein non ebbe
alcuna esitazione e scrisse «umana».

– «Io sono Luca».
Parole semplici, ma che mi riconducono ad essere quello che sono, facendo
a meno di tutti i prefissi: ing, dott, prof, mons, don… La rivelazione
ci porta all’origine di noi stessi, senza troppe sovrastrutture che
soffocano e tengono gli altri distanti da noi. Dobbiamo finirla con
razzismo, tribalismo, nazionalismo e tutti i loro parenti.

– «Io sono Luca». È
stata per me, quella domenica mattina, la proclamazione giorniosa del
vangelo: «Ti ringrazio, o Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti
e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»…

Dopo quell’incontro,
diverse volte ho cercato Luca, ma non l’ho più trovato. Sarà perché qui i
bambini sono tanti e s’assomigliano tutti.

O chissà…

 


Un
convegno su tradizione e modeità


 Antichi
e nuovi diritti

 Si è tenuta qualche
tempo fa, a Neisu, una tre-giorni sul tema: «Diritto civile e costume
tradizionale», organizzata dalla nostra Commissione di Giustizia e Pace.
Hanno presieduto l’incontro il sig. Mukobi, giudice presidente della corte
di Isiro, e il sig. Ntumba, procuratore della repubblica di Isiro. Si
tratta di due persone qualificate, che si sono prestate per parlare ad
un’assemblea «popolare», composta da intellettuali, «chefs coutumiers»
(capi tradizionali) e contadini delle nostre missioni, impegnati nel
settore della promozione umana e diritti dell’uomo.

Gli oratori hanno
discusso, innanzitutto, di diritto civile e organizzazione della giustizia
in Congo, presentando i punti più significativi e alla portata della
gente. Poi hanno parlato del diritto tradizionale, non scritto, mettendo
in luce alcuni aspetti in contraddizione col diritto civile. Si è
considerato soprattutto il codice della famiglia, del 1968, che è un primo
tentativo di unificare gli elementi del diritto tradizionale con quello
civile scritto.

I conferenzieri
hanno evidenziato che i due diritti sono stati unificati in base a tre
princìpi: legge scritta, ordine pubblico e «buoni» costumi. Tutte le
tradizioni contrarie a questi princìpi sono state escluse dal diritto
civile scritto. Essi stessi hanno riconosciuto che ci sono ancora
tradizioni che non concordano con il diritto civile congolese e hanno
esortato i capi (ancora molto influenti) ad abbandonarle.

Nella seconda parte
dell’incontro (quella che maggiormente ha interessato i convenuti) si è
parlato di alcuni comportamenti, espressione del costume locale. In
particolare ci si è soffermati sulle tradizioni riguardanti il matrimonio,
la morte, i funerali, il lutto e le relazioni tra capovillaggio e
popolazione. Sono stati stigmatizzati certi comportamenti come, ad
esempio, dissotterrare e sottrarre con violenza il cadavere, rubare o
distruggere i beni del defunto, malmenare il coniuge che sopravvive
(soprattutto se donna), perché accusato di aver provocato la morte del
defunto.

Circa il matrimonio,
si è parlato della cattiva usanza di pretendere dalla famiglia del marito
(dopo anni dalla celebrazione del matrimonio) un supplemento della dote
già pagata. Inoltre si è discusso della pratica, da parte dei parenti
della sposa, di estorcere denaro dal marito prima che la moglie ritorni da
lui; questo capita quando la moglie si reca dai suoi per il funerale di un
parente.

Sempre nel campo
matrimoniale, si è toccato il problema della poligamia e dello
sfruttamento delle donne da parte dei mariti.

Circa le relazioni
capo-popolazione, è stato affrontato il problema della corvée (lavoro)
obbligatoria nel campo privato dei capi; della tassa da pagare quando si
riceve una convocazione; degli arresti arbitrari e ammende, con somme
superiori alle possibilità del cittadino.

Alla conclusione
della tre-giorni, i partecipanti sono stati invitati a promuovere la
giustizia e la pace, spargendo i frutti dell’incontro in tutta la regione.
Il beneficio immediato è stato lo spirito d’amicizia che si è instaurato
fra i partecipanti, provenienti dalle nostre parrocchie.

Come missionari
della Consolata, pensiamo che questa iniziativa sia fonte di consolazione
per la gente e possa aiutarla a guardare al futuro con più speranza.

Una formula
indovinata, anche per celebrare i cent’anni di fondazione del nostro
istituto.


Rinaldo Do

 

 


I
giovani congolesi…


 parlano
del loro paese in guerra

 

Durante un incontro
con i giovani, Jean Pierre chiede: «Padre, che ne pensi della situazione
attuale del nostro paese? Qual è il destino che spetta a noi, giovani?
Credi tu che, tra questi bagliori di guerra, possa esserci ancora un
raggio di speranza e consolazione?».

Il prete rimanda la
domanda al gruppo: «Ma voi, che cosa rispondereste alla domanda di Jean
Pierre?».

 Daniel

interviene subito: «Ma quale avvenire, ora che è l’uomo col fucile a
dettare legge? Abbiamo solo la sfortuna di non avere un’uniforme e un
fucile come lui. Cosa vogliamo? Cosa pensiamo? Non sappiamo dirlo, ma ciò
che rigettiamo è questa “felicità” ottenuta con le armi: la filosofia,
secondo la quale il diritto e la legge vengono decisi da chi ha le armi».

 Christine
Lust
:
«Per me, la società non offre ai giovani ciò che si aspettano. Essi hanno
bisogno di condizioni favorevoli per costruire il loro avvenire, ma la
guerra blocca tutto. Le perdite, sia umane che materiali, sono pesanti; le
ferite fatte alla popolazione congolese sono dolorose. Da qui il desiderio
di fuga ed evasione, che portano alcuni alla droga e altri in miniera alla
ricerca di oro e diamanti. La scuola, l’insegnamento, il rapporto con i
professori non rispondono al bisogno dei giovani. Allora diventiamo
chiusi, arrabbiati e ci annoiamo…».

 Fiston
Karume
:
«Quando fumo la canapa, devo fare attenzione mentre attraverso le strade,
perché non vedo più le vetture arrivare. Sono due mesi che mi drogo, e
comincio ad avere tic nervosi».

 Charles
Bamba
:
«Da me le cose non vanno bene. Ho solo 13 anni e non sopporto la scuola.
Credo che vogliano rinchiudermi. Allora la mia salvezza è nel bere birra:
sono quasi sempre ubriaco. Ora sto cominciando anche con la droga. Non ho
motivi per farlo; so soltanto che, quando fumo o mi drogo, io fuggo. Fuggo
dalla società. Fuggo dal mio villaggio, dalla mia famiglia, da tutto… e
mi succede di sentirmi meglio. Quando fumo e bevo, sono felice e mi sento
l’uomo più realizzato del mondo. E, dopo una dose di droga, non sento
nemmeno più il bisogno di mangiare».

 Jeannette
Chima
:
«Ho 17 anni, e sono a scuola per preparare un diploma di educazione
pedagogica. Ho compreso che il mio paese è in guerra e io non faccio
niente di serio. Si parla sempre di chi fa la storia, mai di chi la
subisce… I “difensori” dei diritti dell’uomo cosa fanno? Dove sono? Non
sono i primi che boicottano i diritti che pretendono di difendere? Sono
loro stessi che armano rwandesi e ugandesi in Congo, i quali poi
saccheggiano e uccidono.

Portano delle
maschere, che fanno apparire i rwandesi e gli ugandesi; ma dietro le
maschere ci sono loro: americani e francesi. Come sono divertenti. L’Onu,
cosa ha fatto finora? Le crisi del popolo congolese non gli sono
pervenute? E la comunità internazionale non ha orecchi ed occhi? Tutto il
mondo tace la verità; ma perché? Noi vogliamo la pace, il rispetto dei
diritti dell’uomo congolese, la sua dignità di figlio di Dio. Abbiamo il
diritto di vedere il nostro avvenire disegnato all’orizzonte».

 


Dappertutto, nel
mondo,
poeti e scrittori
denunciano situazioni
di guerra e violenza,
le forme di sfruttamento
dell’uomo contro l’uomo.


Un amico di Gesù,
un amico del popolo di Dio
in Congo,
un amico dell’uomo,
sarà insensibile al grido
del popolo congolese?


Dappertutto,
a Kisangani e Goma,
a Bunia e Butembo,
uomini, donne e bambini
gridano, denunciando
le situazioni
di saccheggio e violenza,
di torture e massacro…


Un cristiano
sarà insensibile
a questo grido
che sale dal Congo?
Sarà insensibile al grido
di un giovane congolese
che non vede più
l’avvenire davanti a se?


           
            Jean-Baptiste Sengi

Antonello Rossi