GRANDI AMORI


«Cuore grande e fede incrollabile, uniti a uno spirito
ribelle e un po’ goliardico, hanno fatto di questo piccolo grande
missionario uno strumento formidabile dell’amore cristiano». Così gli
amici ricordano padre Antonio Giannelli, scomparso all’inizio di quest’anno,
dopo aver speso quasi 50 anni in Africa, privilegiando poveri, anziani e
bambini.
 

 Agosto
1979. Curva dopo curva, rettilineo dopo rettilineo, ci avviciniamo alla
meta. Padre Antonio Giannelli non lesina la velocità, almeno in discesa.
Ma il vecchio maggiolino, giallo canarino, appena morde la salita,
rallenta rapidamente e sfarfalla in abbondanza, tanto da farci immaginare
che, presto o tardi, dovremo scendere per spingere l’auto, come nei più
classici film comici.

Invece,
dopo circa due ore, eccoci a Gaturi, la missione di padre Antonio, dove
sarò ospite per un mese insieme a Ugo e Luca. Non fatichiamo molto a
capire che la nostra vacanza in Kenya sarà caratterizzata dal lavoro sodo,
per dipingere la chiesa parrocchiale: siamo qui per questo e ce ne
rallegriamo.

Padre
Antonio non ci fa mancare nulla: pennelli, vernice, cappelli di carta,
scale, ponteggi e latte caldo a volontà. Eh, sì! Sull’altopiano collinoso,
200 chilometri a nord di Nairobi, agosto è fresco e piovoso.

Le
giornate sono faticose, ma serene. Antonio, aiutato da padre Aldo Cremasco,
è sempre in movimento: scuola, famiglie da visitare, dispensario, bambini
da accudire ed educare. E poi le funzioni sacre con i canti così
coinvolgenti, la preghiera comunitaria ed altre attività religiose… La
sera arriva improvvisa e ci coglie indaffarati nelle ultime fatiche della
giornata.

Padre
Antonio arriva spesso per ultimo al desco serale, ma è il primo ad alzarsi
per riordinare la cucina e accendere il gruppo elettrogeno, che fornisce
per un’ora o poco più l’energia elettrica. Appena il tempo di una partita
a carte prima del meritato riposo: il vincitore, manco a dirlo, è quasi
sempre padre Antonio.

Il
ricovero per anziani è una delle realizzazioni di cui il missionario va
più orgoglioso. Anche se nella tradizione familiare africana la figura
dell’anziano riveste un ruolo importante, la realtà è spesso differente:
l’emarginazione di persone, avanti negli anni e non più totalmente
autosufficienti, è sempre più frequente nella società locale.

Tutti i
giorni Antonio passa molto tempo con i suoi «vecchietti», come li chiama
con affetto. Per ognuno ha una parola di conforto; ma non solo: si informa
delle loro necessità e li mette al corrente di ciò che sta accadendo nel
villaggio.

Quattro
settimane sono passate in fretta e ci troviamo di nuovo all’aeroporto di
Nairobi in attesa del volo per l’Italia. Rimpianto e malinconia sono i
sentimenti dominanti, mitigati, però, dalla consapevolezza di avere
imparato tante cose dalla compagnia del missionario.

Dopo
questa esperienza, non sono più lo stesso: le parole del vangelo sono
sentite come invito obbligatorio a fare qualcosa per gli altri e la
condivisione con i più deboli è diventata più naturale. E questo grazie
all’esempio di padre Antonio, che proprio nel messaggio di Cristo trova la
forza per affrontare ogni giorno grandi sfide e fatiche, anche nei momenti
in cui la salute incomincia a dargli qualche grattacapo.

 

Ritoo in
Kenya nel 1992 e trovo in padre Antonio il solito spirito giovanile, come
se il tempo lo avesse appena sfiorato.

Nel
frattempo egli ha cambiato parrocchia: nel 1987 è stato incaricato di
fondare una nuova missione nella zona di Wamagana, a nord di Nyeri. Detto
fatto: si è messo subito al lavoro e in pochi anni ha compiuto
un’autentica meraviglia. Egli stesso mi fa da cicerone, mostrandomi le
opere realizzate: chiesa, casa dei padri, scuola secondaria, laboratorio
di cucito per le ragazze, casa per le suore e, vero fiore all’occhiello,
la casa di accoglienza per bambini con gravi deficit mentali e motori. Una
vera rarità nel panorama assistenziale africano.

Maestosa è
la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della coltura, venerata nel
santuario di Parabita (Lecce), luogo natale del missionario della
Consolata. La costruzione è stata laboriosa e lo ha occupato a lungo; ma
ne è risultato un edificio con l’ardito tetto in cemento armato, simile a
quello della cattedrale di Nyeri, e le pareti arricchite da bei dipinti,
tele e vetrate multicolori.


Nell’illustrare le varie opere della missione i suoi occhi brillano di
luce particolare: senza l’aiuto della Madonna, fa intendere che non
sarebbe riuscito a costruire tutto ciò che sto ammirando.

Una simile
impresa implica un’organizzazione complessa e articolata. Il missionario
vi ha coinvolto i cristiani della parrocchia in modo ampio e concreto,
stimolandoli a crescere nel senso di responsabilità verso tutti i loro
simili.

Una delle
caratteristiche più affascinanti di padre Antonio è l’entusiasmo con cui
si prodiga per il bene degli altri, senza badare a sacrifici né alla
propria salute. Ed è un entusiasmo contagioso, che suscita solidarietà in
numerose persone, familiari e amici sparsi in Italia,  a cui confida
progetti, fatiche e speranze.

 

 

Torino
1999. Padre Antonio ritorna in Italia per controlli sanitari urgenti. La
salute lo sta abbandonando piano piano, ma non si scoraggia: accetta la
malattia con grande serenità e dignità.

Nonostante
le precarie condizioni fisiche, vorrebbe salire su un aereo e volare tra i
«suoi bambini» di Wamagana. «La mia casa e i miei figli sono laggiù – mi
confida -. È là che devo tornare. Qui procuro solo guai!».

Il
pomeriggio del 23 gennaio 2001 padre Antonio si sente male; avvisa i suoi
dell’imminente fine; affida le ultime volontà a padre Daniele Armanni e
vola in paradiso.

La sua
scomparsa mi lascia sbigottito, insieme a tutti coloro che gli sono stati
vicini. Ci rimangono una profonda ammirazione per la fede e forza d’animo
con cui è vissuto fino all’ultimo respiro e la certezza che, dal cielo,
potrà fare ancora tanto per i suoi bambini e per quanti lo hanno
conosciuto. Ci mancherà moltissimo. Ma saremo ugualmente suoi testimoni,
concreti e puntuali, per continuare a fare vivere a Wamagana un pezzetto
di paradiso.

 

 


MISSIONARIO
«MAIUSCOLO»

 «Quando
una persona ti tende una mano, non voltarti dall’altra parte: aiutala!
Quando incontri un bambino che ti sorride, sorridigli, lo farai felice! Il
sorriso di un bimbo, un suo strattone ai pantaloni, ti ripagherà di ogni
sacrificio, ti riempirà il cuore di gioia, ti renderà grazie per quello
che riuscirai a fare per lui. Ricordati dei miei bambini; fai tutto il
possibile perché anche gli amici si ricordino di loro».

Quando per
strada incontro un bambino mi ritorna alla mente ciò che padre Antonio
Giannelli ripeteva negli ultimi mesi di vita come un testamento. Adesso
che non c’è più, mi rendo conto di quanto amore avesse in cuore per i suoi
bambini e con quanta sofferenza avesse dovuto lasciare, nel maggio 1999,
la sua missione di Wamagana.

 

Da quel 23
gennaio, quando padre Antonio ci ha lasciati, per me e per tanti altri è
come se una parte della nostra vita se ne sia andata con lui; ma la sua
presenza continua a scandie i momenti sereni e tristi. Ricordo ogni suo
gesto e parola. Anche quando, scherzando, mi diceva «vattine», era per me
un momento di affetto, che rimarrà per sempre scolpito nella mente e nel
cuore.

Ho davanti
agli occhi alcune fotografie che rievocano i momenti sereni. Anche se
ormai la malattia aveva scalfito il suo fisico e ancor più il suo cuore,
riusciva a dimenticare la sofferenza per farci sentire tutta la sua
umanità, come nelle interminabili partite a carte, in cui boicottava il
gioco (perché non accettava di perdere) o davanti a un piatto fumante di
polenta e funghi, quando ringraziava il Signore per ciò che gli era
concesso, soprattutto per essere ancora con noi e poter dare ancora
qualcosa.

Da padre
Antonio abbiamo ricevuto molto. Col carattere spensierato e ribelle, a
volte incosciente, ci ha regalato momenti di gioia; col suo coraggio,
dignità e voglia di lottare, specie contro il male che lo stava
distruggendo, ha fortificato il nostro carattere. Con i suoi silenzi, la
riservatezza e (perché no?) la testardaggine, a volte sfrontata, ci ha
insegnato che l’amore per gli altri è più importante dell’amore per se
stessi.

 

Ricordo
anche la sofferenza e rabbia che provava quando si sentiva accusato di
gestire missione e progetti con criteri troppo personali. Per me e per chi
l’ha conosciuto a fondo, padre Antonio è stato e resterà sempre un
missionario con la «M» maiuscola, per tutto quello che ha fatto per la
gente delle missioni in cui ha lavorato per tanti anni; specialmente per i
«suoi bambini», che considerava tutti figli suoi, e per la comunità di
Wamagana, che riteneva la sua grande famiglia.

Il modo
migliore per ricordarlo e ringraziarlo di tutto quello che ha saputo e
voluto darci in tanti anni di amicizia, sincera e disinteressata,
consisterà nel continuare la sua opera, specialmente a favore dei «suoi
bambini». Glielo abbiamo promesso.

Federico Casarani

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