Ma la violenza e le bugie non fermeranno i sognatori

Genova, 21 luglio.
"Vedrete, domani saremo tutti dei criminali". Sul pullman che ci riporterà a
casa si respira un’atmosfera pesante. Delusione, sconcerto, malinconia sono i
sentimenti più diffusi. Qualcuno è più ottimista: "Ma no. Sapranno distinguere. Le
violenze di certe multinazionali non fanno dimenticare che altre imprese lavorano con
coscienza. Le esecuzioni capitali degli Usa non fanno dire che tutti gli statunitensi sono
dei barbari. I teppisti degli stadi non vengono confusi con i tifosi veri. Sì, sapranno
dividere chi è venuto per contestare con una maglietta colorata, uno striscione, uno
zainetto pieno soltanto di acqua e panini".

Alcuni di noi sono stati in cima al corteo dei duecentomila (o più) manifestanti,
venuti da ogni regione d’Italia e da decine di altri paesi (Francia, Grecia, Spagna,
Inghilterra, ecc.). "Il corteo si è trovato spezzato in due tronconi. Piovevano
candelotti lacrimogeni sulla gente. Molti, impauriti, indietreggiavano, incrementando il
panico. Altri riuscivano a mantenere il controllo, alzando le mani imbiancate e gridando
"Calmi, calmi. Non scappate". Abbiamo visto gruppetti di tute nere, sbucati
all’improvviso da chissà dove, dare l’assalto a banche e negozi. Con sassi,
spranghe, bastoni, calci. Chi doveva fermare questi teppisti scatenati? Dove erano le
forze dell’ordine?".

"A tirare i loro lacrimogeni sui pacifisti", grida qualcuno dal fondo del
bus; "a difendere George il texano", aggiunge un altro; "ad ammirarci
dall’alto", ironizza amara una signora, riferendosi agli elicotteri che, per
tutto il giorno, hanno volteggiato sulle teste dei manifestanti.

Il pullman entra a Torino poco dopo la mezzanotte. I saluti sono veloci. Stremati nel
fisico e nello spirito, tutti vogliono tornare a casa. Ma – questo è certo – nessuno si
è pentito della scelta operata, né smetterà di sognare un mondo diverso
dall’attuale.

Domenica, 22 luglio. Le previsioni si stanno avverando. Alcuni
quotidiani e diverse televisioni si scatenano in un impudico travisamento dei fatti. Che
tristezza leggere: "Vogliono cambiare il mondo. Così hanno cambiato Genova"
(prima pagina de il Gioale). E Libero di Vittorio Feltri rincara la dosa: "Sono
solo dei criminali. I pacifisti devastano e incendiano Genova". Si dà fondo al
dizionario degli insulti: lanzichenecchi, nazi-comunisti, terroristi, rivoluzionari
deliranti, mandria allo sbando, catto-comunisti, turisti della violenza, pessimi alunni di
cattivi maestri. Chissà come si sentirà la ragazza di Mani Tese, l’ambientalista
del Wwf, l’iscritto della Fiom, la signora francese di Attac, il comunista greco o il
missionario della Consolata?

Sui canali televisivi scorrono le devastazioni del "popolo di Seattle" e i
sorrisi di circostanza degli otto cosiddetti "grandi" che, nei palazzi della
città proibita (la famigerata "zona rossa"), raccontano alla stampa mondiale
cosa hanno deciso in questa tre giorni di discussioni. "Abbiamo lavorato per il bene
dell’umanità". Ci sarà un fondo per la lotta all’Aids, alla malaria, alla
tubercolosi (3 mila miliardi di lire, poco più di un’elemosina). Per ridurre la
povertà (e aumentare i profitti delle multinazionali), i commerci saranno ancora più
liberi. C’è l’ennesima promessa di aiutare l’Africa. Nessun accordo,
invece, sul trattato di Kyoto, sullo sviluppo diseguale, sulle energie rinnovabili, sullo
scudo stellare di George il texano, sulla cancellazione totale del debito. Della finanza
speculativa e della "Tobin Tax" non si è parlato perché, come si dice, non
erano temi in agenda. Insomma, ancora una volta, tante chiacchiere, ma pochissimi
risultati. Ma che importa? I cattivi sono gli altri. Le banche devastate, le vetrine
infrante, le auto bruciate, la città messa a ferro e fuoco sono lì a dimostrarlo. Il
mondo può andare avanti così.

Paolo Moiola




Lettere: cari missionari

Era…

extra-comunitario!

Cari missionari,

ho 16 anni. Scrivo a voi perché non so a chi altro manifestare il mio sconforto e la
mia rabbia. Missioni Consolata è un mensile che si occupa di popoli stranieri, delle loro
situazioni complicate e spesso drammatiche.

Vi parlo del mio disagio nei confronti degli extra-comunitari in Italia, sperando che
pubblichiate il mio e-mail.

Stasera mi è capitata una vicenda, forse banale, ma che mi ha veramente sconvolta. Ero
uscita con gli amici e, al ritorno, i genitori sono venuti a prendermi. Camminavamo per
raggiungere la macchina: dovevamo attraversare una strada abbastanza trafficata e nessuno
ci lasciava passare. Mio padre ha fatto cenno a un’auto di fermarsi, ma questa ha
tirato dritto; allora si è "buttato" in strada. La macchina ha frenato
bruscamente: l’autista (un extra-comunitario) è sceso, ha cominciato ad insultarci e
stava per fare a botte. Io tremavo di paura. Ma avrei voluto dire: "Lo sa anche la
mia sorellina che ci si deve fermare e lasciar passare i pedoni!".

Come possiamo fidarci degli extra-comunitari? La scena ricordata è solo una delle
tante dimostrazioni della loro stupidità. Con ciò non voglio dire che noi italiani siamo
perfetti, anzi! Ma loro sono un pericolo in più.

Anna Turatello

Selvazzano (PD)

Tutti possiamo essere un pericolo in più, ma anche una ricchezza! Intanto non
lasciamoci plagiare da "luoghi comuni discriminatori"… Anna, data la tua
giovane età, forse ti può aiutare la seguente riflessione di Adriana, che titoliamo…

 

Ritrovare

i sentimenti

Quando ci viene chiesto di raccontare un’esperienza, ci si limita spesso a fatti
di cronaca. Per me "esperienza" è ciò che rimane come patrimonio nel cuore,
ciò che modifica il mio modo di pensare e vivere.

L’"esperienza-risurrezione" ha cambiato la vita degli apostoli. Come
loro, sulle vie del mondo, operano i "missionari": persone che devono essere
povere e libere per stare con la gente e condividee il cammino.

"Fuori sulla strada Gesù è esposto, malconcio, malato…", ed è
l’amore che risolverà ogni dubbio: il dubbio soprattutto che "tutto è
inutile". Proprio perché mi manca l’esperienza del Risorto, "tutto è
inutile". Ma con Lui, la mia vita cambia, come quella dei fratelli poveri,
emarginati, sfortunati.

Devo dare quel poco che ho a chi ha meno di me. Il non avere ciò che è essenziale per
la vita è una sofferenza non per chi lo possiede, quanto invece per chi vuole amare… e
nulla può donare!

Quando penso che ho l’indispensabile, non posso nascondere il mio disagio; esso
diventa più grande allorché mi rendo conto che, purtroppo, poche volte ci penso a
questo. Ma il povero, l’umile, il semplice lo si trova sempre… ed è lui a far
rifiorire in me sentimenti annebbiati: accettazione, rispetto, condivisione, tenerezza.
Quando sento di possederli, ringrazio il Padre Nostro… E lo può chiamare così chi non
mi fa odiare i nemici, ma mi sprona ad amare tutti gli esseri creati e mi fa desiderare la
giustizia e carità.

Vorrei che fossero sempre questi i sentimenti a determinare le mie azioni.

sr. Adriana Prevedello

Mazara del Vallo (TP)

Adriana, missionaria francescana di santa Elisabetta in Kenya e poi in Sicilia tra
mafia, prostituzione e immigrati clandestini, è ripartita per il paese africano.

 

Lacrime

e quisquiglie

Spettabile redazione,

avevo visto a suo tempo la foto della donna sulla copertina di Missioni Consolata,
gennaio 2001, e già allora volevo scrivervi che la didascalia non era giusta.
Naturalmente avevo indovinato che la foto era stata fatta al funerale di padre Andeni.

Non conosco personalmente la donna della foto, ma penso che sia farle torto definirla
"musulmana", semplicemente perché ha il velo in testa. Ritengo che sia una
delle nostre cristiane, con molta probabilità una kikuyu, non una samburu o una turkana.
In Kenya la maggioranza delle donne nelle nostre missioni usa il velo e, a Maralal, i veli
più belli nei negozi sono di foggia musulmana, anche perché diversi negozianti sono
musulmani.

Tenendo conto che la donna sta piangendo, è naturale che cerchi di nascondere la
faccia. Però non facciamo dire alla foto quello che non dice, cioè partecipazione
musulmana al dolore cattolico…

Non sono d’accordo con la lettera che vi hanno scritto, specie con
l’offensiva parte finale.

p. Gigi Anataloni

Nairobi (Kenya)

Caro direttore,

ha suscitato in me molta indignazione la lettera "Lacrime di una musulmana",
apparsa su Missioni Consolata di maggio, non per il titolo, ma per il contenuto. Da quanto
ho potuto leggere, trovo la lettera grossolana e poco rispettosa sia del vostro lavoro sia
del personale che opera in redazione.

Il discordare da un articolo o una foto è legittimo, ma non dà diritto ad illazioni o
supposizioni sul direttore della rivista, anche perché le sue scelte sono dettate da
sensibilità professionale… che non tutti i lettori posseggono.

Gli autori della lettera hanno tentato di "classificare e bocciare" una
persona solo perché è "musulmana". Questo è razzismo o, meglio,
fondamentalismo religioso, che pian piano sta penetrando anche nei nostri ambienti
cattolici.

Invito gli autori della lettera a rispettare le persone, anche se non sono
d’accordo con il loro pensiero, perché, solo rispettando l’altro, si è degni
di rispetto.

p. Gianfranco Graziola

Roraima (Brasile)

Ecco i precedenti della piccola polemica.

In Missioni Consolata di gennaio 2001 pubblica in copertina una donna che piange, con
la didascalia "lacrime samburu (Kenya)". Nient’altro.

n La rivista di maggio ospita una lettera dal Kenya, secondo la quale la donna in
questione non è samburu, ma musulmana. Sorge spontanea la domanda: i samburu non possono
essere musulmani?

n Oggi, ancora dal Kenya, si replica: la donna non è musulmana, ma probabilmente
kikuyu.

E i kikuyu non possono essere musulmani?

Chiudiamo la querelle con dati certi: la foto fu scattata il 18 settembre 1998 a
Maralal (Kenya) durante i funerali di padre Luigi Andeni, quattro giorni dopo la sua
uccisione; l’immagine mostra una donna con il velo che piange, senza nascondersi.

Quelle lacrime ci hanno impressionato. Non il resto.

 

La forza del perdono

Cari missionari,

ho 17 anni. Sentendo il telegiornale o ascoltando le notizie di cronaca, vengo a
conoscenza di eventi che sconvolgono il mio mondo ristretto. L’interrogativo più
frequente che mi pongo è se le azioni-reazioni dell’uomo siano serene o furiose, non
pensate o dettate dalla ragione…

Si potrebbe tracciare un percorso storico circa fatti ed eventi, generati da quel senso
di vendetta che acceca, senza lasciare uno spiraglio di luce e razionalità. È il buio
dovuto alla mancanza di raziocinio a renderci simili agli animali.

A partire da Abele e Caino fino ai nostri giorni, passando attraverso gli scontri di
religione, le guerre mondiali e locali, la pace è sempre stata un tormento. A livello
personale, i casi peggiori sono quelli in cui il sopruso diventa stile di vita, il modo di
prevaricare la giustizia per difendersi dal mondo esterno e celare le proprie debolezze. E
si diventa vendicativi.

A volte, quando la parola "punizione" diviene sinonimo di istituzione
pubblica e politica, neanche le maggiori organizzazioni umanitarie sono in grado di
fermare lo scempio. L’esempio più lampante è, oggi, rappresentato dalla pena di
morte. Questa sanzione, così primitiva, è praticata in molti stati, e non solo dai più
sottosviluppati. Non esiste ragione, difesa, possibilità di riscatto per un errore
compiuto, ma solo la vendetta.

Faccio un ragionamento: se lo stato stesso pratica la pena di morte, pratica pure la
vendetta; perché che cos’è la pena di morte se non una vendetta? In tal caso, molti
omicidi sarebbero giustificabili.

Nel corso dei secoli anche la religione è divenuta causa di conflitti scoppiati tra
fazioni opposte, che, gridando il nome del proprio Dio, si uccidevano a vicenda. Ma,
certo, nessun Dio ha mai voluto né vorrà che i suoi fedeli ne uccidano altri per
dimostrare la superiorità di un credo.

I kamikaze che si fanno esplodere con carichi di tritolo, dopo aver indossato il
sudario bianco, dovrebbero farci riflettere sulle parole che un profeta ha lasciato in
eredità… ma anche non bombardare la nazione di coloro che credono di meritare il
paradiso, morendo per la propria fede.

Potrebbe rivelarsi un ottimo spunto di riflessione l’"essere o non
essere" di Amleto. Con altre parole: ha più valore una vita in cui non mi lascio
prevaricare dai soprusi altrui, o sono più forte nel momento in cui riesco a reprimere le
passioni i sentimenti violenti che mi turbano l’animo?

Federica Medda

Roma

Cara Federica, le tue considerazioni ci fanno venire in mente le parole di Giovanni, il
battezzatore e precursore della Salvezza: "Dopo di me verrà uno più grande, al
quale io non sono degno neppure di portargli i sandali (cfr. Mt 3, 11). È essenziale
credere in un "dopo" diverso dal presente, che però incomincia ora.

Inoltre, Federica, ti auguriamo di non scordare queste tue parole: "Il perdono non
è una debolezza di molti, ma una forza di pochi". Specialmente quando non avrai più
17 anni.

 

"Noi"

e le altre religioni

Egregio direttore,

sono un cristiano-cattolico e seguo fin dalla nascita la religione che nostro Signore
Gesù Cristo ha rivelato a tutto il mondo.

Ci sono però altre religioni, quali l’islam, l’induismo, lo scintornismo…
con il loro Dio e un programma di vita etico-religioso. Chiedo: quale religione vera ed
autentica dobbiamo seguire per ottenere la vita eterna? Dobbiamo accettare solo la
religione cristiano-cattolica, la legge di Mosè, la fede di Abramo, Isacco e Giacobbe che
credono in un solo Dio?

Giuseppe Monno

Bari

Anche a Gesù fu chiesto: "Che devo fare per avere la vita eterna?". E il
Maestro rispose confermando la legge di Mosè e attualizzandola con la parabola del
"buon samaritano" (cfr. Lc 10, 25-37).

Circa la salvezza nelle religioni non cristiane, il Concilio ecumenico Vaticano II è
esplicito: "Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa e,
tuttavia, cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere
le opere e la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono
conseguire la salvezza eterna" (Lumen gentium, 16).

Su tale argomento si rilegga il dossier "L’alta teologia e il buon
senso" (Missioni Consolata, gennaio 2001).

 

Super-impegnati, ma…

Cari missionari,

da anni riceviamo Missioni Consolata, indirizzata ai figli Giorgio ed Elena: erano
ragazzini quando l’abbiamo ricevuta per la prima volta. Ora sono adulti e
super-impegnati. Io, che ho sempre letto la rivista con grande interesse, oggi per
problemi agli occhi mi devo limitare solo ai titoli. Ne sono dispiaciuta. Oltretutto, non
sono riuscita a trovare qualcuno che voglia leggerla.

Pertanto vi chiedo di sospendere l’invio del giornale. Ma non dimenticheremo i
missionari della Consolata, anche perché abbiamo un ricordo vivissimo di padre Domenico
Zordan.

Vi ringrazio perché, leggendo la vostra rivista, in questi anni mi sono
"arricchita" molto.

Giuseppina Kral

Zugliano (VI)

Carissima signora Giuseppina, faccia ancora un tentativo! Se i figli Giorgio ed Elena
sono veramente impegnati, non possono non seguire l’esempio della mamma e… leggere
anche Missioni Consolata.

 

"Yanomami"

e "macuxí"

Carissimi padres italianos Giorgio Dal Ben, Giacomo Mena e amigos indios yanomami e
macuxí, dalle rive del Sinni di Potenza a quelle del Rio Blanco di Boa Vista (Brasile) si
ode un solo grido: "Tenete duro!".

Franco Mele

Francavilla (PZ)

In altri termini: a luta continúa. Con speranza. Ne abbiamo parlato pure nel dossier
di luglio "Anche gli angeli perdono le ali".

 

I figli missionari?

Che gioia sarebbe!

Carissimi missionari,

siamo una famiglia con due bambini di nove e due anni e uno di quattro mesi. Il Signore
ci ha donato queste creature che, pur nella fatica del quotidiano, rappresentano la nostra
gioia.

Da tempo condividiamo le nostre povere cose con chi è più sfortunato di noi, con
coloro che hanno avuto solo la "colpa" di nascere con un colore diverso dal
nostro o in paesi piagati da guerre, fame e miseria.

Abbiamo anche sostenuto un’iniziativa di "adozione a distanza" con
un’organizzazione umanitaria, portata avanti fino a quando le nostre condizioni
economiche ce l’hanno consentito. L’interruzione, necessaria quanto dolorosa, di
questo tipo di aiuto non ha però spento in noi il desiderio di riprendere al più presto
il sostegno nei confronti di bambini in difficoltà.

Ed ecco il motivo della nostra lettera: ci rivolgiamo a voi, missionari, per avere
indicazioni e ragguagli al fine di iniziare nuovamente un sostegno a distanza,
possibilmente in un paese dell’Africa. Riteniamo che non esista modo migliore di
impiegare le proprie risorse economiche, in tempi in cui molti (troppi) ricercano sistemi
più o meno leciti per arricchirsi in una forma sempre maggiore.

A costoro vorrei umilmente ricordare che solo Gesù Cristo ha promesso interessi
esorbitanti: addirittura il centuplo! Sfido qualunque banca a promettere di più.

Una cosa ci farebbe particolarmente piacere, se rientra nelle normative che regolano le
adozioni a distanza: intrattenere con il bambino o la bambina adottati un rapporto
epistolare. Tale rapporto con i bimbi di un altro paese contribuirà a creare in famiglia,
soprattutto nei nostri figli, un’atmosfera di aspettazione e gioia, nonché la
consapevolezza che in un posto lontano c’è "un altro fratellino", che ha
bisogno delle medesime cose di cui hanno bisogno loro, con le loro stesse aspirazioni e
desideri.

E chissà! Forse un giorno i nostri figli potrebbero "farsi prossimo" in modo
ancora più concreto, non solo con aiuti economici, ma donando interamente se stessi ai
poveri e agli afflitti partendo come missionari.

Che gioia sarebbe!

Ultima richiesta: visto che non siamo ancora abbonati a Missioni Consolata
(l’abbiamo conosciuta in parrocchia), vi preghiamo di inviarci tutto il materiale per
riceverla regolarmente.

Mario Manescotto

Revello (CN)

Di tanto in tanto, attraverso la rubrica "provocazioni missionarie" della
rivista, lanciamo qualche invito esplicito alla missione. Ma il signor Mario ci ha
nettamente superati.

AAVV




Turchia: «Mamma, li turchi»

Viaggio nel paese della mezza luna

"Ponte tra Oriente e Occidente", la Turchia è stata per millenni crogiolo di
popoli e civiltà, sfociate nell’attuale Repubblica, "candidata" a entrare
nell’Unione Europea (UE). È pure definita "seconda Terra Santa": milioni
di pellegrini cristiani vi cercano le tracce di san Paolo e delle chiese delle origini. Le
comunità cristiane dei primi secoli, oggi, sono ridotte a sparute presenze. Per entrare a
pieno titolo nell’UE, la Turchia dovrà aggiustare non solo i parametri economici, ma
fare passi da gigante nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa.

 Articolo 1

I nodi gordiani della Turchia

"Passaggio a Ovest"

Chiamata per un millennio Bisanzio, per 11 secoli Costantinopoli e da oltre 500 anni
col nome attuale, Istanbul è l’emblema della storia plurimillenaria della vocazione
europea della Turchia odiea. Diventata repubblica laica, essa chiede l’integrazione
nell’UE. Prima delle trattative, però, la nazione turca dovrà sciogliere molti
nodi, soprattutto in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze etniche e
religiose. È un problema di democrazia e civiltà.

Dagli spalti del Topkapi, il palazzo dei sultani a Istanbul, lo sguardo spazia sul
Bosforo: la lunga striscia di mare, più che separare, sembra unire l’estrema punta
dell’Europa all’Anatolia, chiamata dai romani Asia Minore. Mentre osservo
petroliere e mercantili che solcano lo stretto canale, ripercorro a ritroso millenni di
storia, quando sulle due sponde approdavano le fragili imbarcazioni greche, poi le triremi
romane e dromoni bizantini, quindi i velieri genovesi, veneziani e ottomani, scambiando
tra Oriente e Occidente merci, cultura e civiltà.

COSCIENZA DOPPIA

Quando Byzas stabilì sul Coo d’Oro la prima colonia greca (659 a.C.), dandole
il suo nome, l’Anatolia era già entrata a pieno diritto nella storia da oltre 1.500
anni, grazie ai commercianti assiri e ittiti che vi avevano introdotto la scrittura
cuneiforme.

Di origine indoeuropea, gli ittiti dominarono l’altipiano anatolico per oltre un
millennio, finché il loro impero fu spazzato via (1200 a.C.) da misteriosi "popoli
del mare" e frantumato in una miriade di regni (cappadoci, cari, frigi, pamfili,
lici, cilici, lidi, misi, paflagoni, sciti, cimmeri). Contemporaneamente lungo le coste
dell’Egeo i colonizzatori greci fondarono importanti città-stato.

Da subito, l’Anatolia fu strattonata a est e ovest. Ne è un esempio il regno di
Troia, città distrutta e ricostruita nove volte. Il settimo periodo (1300-1100 a.C.)
corrisponderebbe al conflitto tra troiani e greci (achei), cantato dall’epica di
Omero.

Quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistò l’Anatolia (547 a.C.) e
l’inghiottì nel suo impero e i suoi successori minacciarono di passare i Dardanelli
e occupare anche la Grecia, cominciò lo scontro tra Oriente e Occidente. Oltre a
riscuotere imposte e reclutare soldati, i persiani imposero elementi culturali, modelli di
vita, concezioni politiche e metodi amministrativi: le città greche dell’Asia minore
si ribellarono, tirando la madre patria nel conflitto.

Per 200 anni, greci e persiani si scontrarono su entrambe le sponde dell’Egeo, in
una guerra di civiltà senza quartiere, provocando nelle popolazioni coinvolte la
sedimentazione di una "coscienza asiatica" e una "coscienza europea",
con reciproche influenze morali, politiche e culturali, di cui l’Anatolia fu il punto
di confine e congiunzione insieme.

NUOVA ECUMENE

"Regnerà sull’Asia chi riuscirà a sciogliere la corda dal giogo del timone
del carro custodito nel tempio di Zeus" diceva la profezia del santuario di Gordio, a
pochi chilometri da Ankara. Alessandro Magno risolse il problema con un colpo di spada:
sconfisse i persiani e, tra il 334 e il 327 a.C., il re macedone fondò una monarchia
universale e multietnica in cui conciliava la civiltà greca con quella orientale:
l’Anatolia diventò un importante tassello della neonata ecumene (casa comune)
ellenistica.

Ma alla morte di Alessandro (323 a.C.), i suoi generali e loro successori si scannarono
per spartirsi le spoglie dell’impero. L’Anatolia toccò a Seleucio, fu
riassorbita nella sfera persiana e coinvolta in una spirale endemica di guerre. Delle
rivalità ne approfittò Attalo I (241-197 a.C.), che si ritagliò un piccolo regno, con
capitale Pergamo, lo estese con l’aiuto di Roma e ne fece un faro di cultura e
civiltà ellenistica. L’ultimo degli attalidi, rimasto senza eredi, lasciò il regno
alla repubblica di Roma (133 a.C.).

All’ecumene ellenistica subentrava quella romana, culminata nella completa
integrazione nell’impero, quando Caracalla (212 d.C.) estese la cittadinanza romana a
tutti i cittadini liberi dell’Asia Minore. Il dominio romano favorì un lungo periodo
di pace e sviluppo economico e culturale, grazie alla fitta rete di strade e comunicazioni
che collegava le province al resto dell’impero: di tale comodità si avvalsero anche
i predicatori del vangelo per spargere il seme cristiano in tutta l’Anatolia.

IMPERO BIZANTINO

Quando Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio (324), ribattezzata
Costantinopoli, e Teodosio I impose il cristianesimo come religione di stato (392), per le
eterogenee popolazioni dell’Asia Minore la religione cristiana avrebbe dovuto essere
un ulteriore consolidamento dell’ecumene greco-romana.

Nel 395 invece, i figli di Teodosio, si spartirono l’impero: Arcadio si tenne
l’oriente; Onorio l’occidente. E fu l’inizio del progressivo distacco tra
est e ovest, in cui le divergenze di concezioni politiche, culturali e religiose giocarono
un ruolo fondamentale.

Quando i barbari deposero l’ultimo imperatore di Roma (476), Costantinopoli rimase
l’unica capitale dell’impero e della cosiddetta civiltà bizantina. L’Asia
Minore ne seguì appieno le sorti nel bene e nel male.

Per oltre un millennio popolazioni dell’odiea Turchia furono coinvolte in
innumerevoli tempestose crisi politico-religiose, alternate a periodi di bonaccia, in cui
i sovrani interferivano a piacere, nominando e rimuovendo patriarchi e vescovi, convocando
concili, ficcando il naso in dispute dogmatiche e dottrinali, imponendo per decreto di
seguire ora l’ortodossia, ora le correnti eretiche.

Gli imperatori dovettero lottare anche contro i pericoli provenienti da est: i persiani
ripresero tutta l’Asia Minore e, insieme ai nordici avari, assediarono Costantinopoli
(626). I territori furono subito ripresi da Eraclio; ma costui cancellò definitivamente
dall’impero ogni traccia romana: abolì il bilinguismo e il greco diventò unica
lingua ufficiale.

Le quisquilie bizantine continuarono a lacerare la chiesa universale, dilatando il
fossato tra papato e impero. La rivalità con Roma e la contesa per il primato
politico-ecclesiale raggiunse l’apice nel 1054: il patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario e papa Leone IX si scomunicarono a vicenda, spezzando l’ultimo filo
che univa ancora Oriente e Occidente: ortodossia e cattolicesimo divennero sinonimi di
divisione europea.

GUERRE "SANTE"

Mentre a Costantinopoli teologi e sovrani discutevano sul sesso degli angeli, gli arabi
combattevano le loro "guerre sante" in nome dell’islam, espandendo il loro
dominio dall’India alla penisola iberica, sottraendo all’impero bizantino gran
parte delle regioni bagnate dal Mediterraneo.

L’Asia Minore fu attaccata dalle scorribande arabe (VII-X sec.), che trovarono
fiera opposizione in Cappadocia. Nulla, invece, poté contro i vari gruppi turcomanni,
provenienti dalle regioni dell’Asia Centrale. I turchi selgiuchidi (dal fondatore
Selgiuq, X sec.), appena convertiti all’islam, occuparono l’Asia Minore: fatto
prigioniero l’imperatore bizantino (1071), giunsero fino a Nicea (Iznik).

Respinti dai crociati, i selgiuchidi si arroccarono sull’altopiano anatolico,
fissando la capitale a Konya (Iconio) e islamizzando la regione. I viaggiatori occidentali
che attraversavano l’Anatolia nel XII e XIII secolo chiamavano "Turchia"
quel territorio; il turco era usato nell’amministrazione in varie forme letterarie.

Le imprese di arabi e turchi provocarono l’avvicinamento tra papato e imperatore,
ortodossi e cattolici: furono organizzate ben sette crociate (1096-1270). Costantinopoli
s’illuse di ritornare a giocare il ruolo di baluardo storico contro l’avanzata
dei popoli asiatici; a ogni vittoria sui turchi, cercò di affermare il proprio dominio
sui territori un tempo in suo possesso; ma finì per dover lottare contro il papato, che
intendeva servirsi delle crociate per riunire la chiesa greca a quella latina, e contro i
prìncipi cristiani che, mescolando l’ideale della liberazione dei luoghi santi
cristiani con gli interessi politici e commerciali, stabilirono regni feudali
nell’Asia Minore (Antiochia, Edessa, Trebisonda).

Il colmo della beffa fu raggiunto quando i veneziani dirottarono la IV crociata su
Costantinopoli: la presero e misero a ferro e fuoco (1204), dando vita ad un effimero
regno latino d’Oriente. Nel 1261, la dinastia greca dei paleologhi, con l’aiuto
dei genovesi, rientrò trionfalmente a Costantinopoli. Ma ormai l’impero greco era
ridotto a una pallida ombra di quello bizantino: mutilato e dilaniato da guerre civili,
sopravvisse per quasi due secoli, finché fu ingoiato dall’impero ottomano.

VOGLIA DI "MELA ROSSA"

Guidati da Osman o Othman, da cui il nome di "ottomani", questi misero piede
in Anatolia alla fine del XIII secolo e dilagarono in tutta l’Asia Minore, stabilendo
la capitale a Bursa. Poi, aggirate le inespugnabili mura di Costantinopoli, invasero la
Tracia e fissarono la capitale ad Adrianopoli (Edie, 1361). Quindi proseguirono verso
Bulgaria e Serbia, sognando di raggiungere Roma, ritenuta la vera capitale del mondo e
chiamata Kizil Elma (Mela Rossa).

L’improvviso arrivo in Anatolia dei nemici-cugini mongoli di Timur lo Zoppo,
Tamerlano, costrinse il sultano Beyazit, detto il Fulmine, a fare dietrofront, ma fu
sconfitto ad Ankara (1402).

I turchi parevano annientati; ma 10 anni dopo Mehmet I li riorganizzò e preparò per
la riconquista. Mehmet II Fatih (Conquistatore) arruolò i più abili artigiani europei
del tempo perché gli fabbricassero cannoni, con cui sbriciolò le mura di Costantinopoli
(1453), che divenne la capitale dell’impero sotto un nuovo nome. Non così nuovo in
verità. Istanbul deriva dal greco "eis ten polin", alla città (urbe):
espressione che i contadini ellenici dicevano orgogliosi quando si recavano nella
metropoli, l’unica al mondo, come l’antica Roma, meritevole di tale appellativo
d’eccellenza.

Invincibile per terra, cresciuto come potenza navale, l’impero ottomano raggiunse
l’apogeo con Solimano il Magnifico (1520-66). Si estendeva su tre continenti: dal Mar
Caspio e Golfo Persico all’Algeria, dalla Serbia e Ungheria allo Yemen, con una
popolazione di 50 milioni di abitanti, dieci volte più dell’Inghilterra.

A favorire l’espansione turca e alimentare il sogno della Mela Rossa contribuì
anche la divisione tra le potenze occidentali, che permisero agli ottomani di occupare
Otranto per un anno (1480), cingere d’assedio Vienna (1529), flagellare le coste
italiane e razziare la città di Nizza (1543).

A tenere unito un impero multietnico di tale dimensione contribuì la capacità di
adattamento delle istituzioni ottomane a quelle delle popolazioni annesse, rispettandone
norme, consuetudini e diritti. Anzi, in alcune regioni dei Balcani ed Europa
centro-orientale, i turchi furono acclamati come liberatori dal fanatismo
politico-religioso innescato dalle lotte tra cattolici e protestanti.

Va riconosciuta alla Sublime Porta, come veniva chiamato il governo turco, un elevato
grado di tolleranza religiosa. Ma senza esagerare. Prima di tutto la porta delle cariche
amministrative si apriva solo a chi era di provata fede musulmana. Tale tolleranza, poi
nascondeva motivi di convenienza: gli ebrei fuggiti dalla Spagna furono accolti per
contrastare le spinte indipendentiste di armeni e greci; i cristiani non subirono
l’islamizzazione forzata perché il loro passaggio all’islam avrebbe comportato la
perdita degli ingenti gettiti fiscali imposti ai cristiani.

Senza dimenticare, infine, che centinaia di migliaia di giovani cristiani, prigionieri
di guerra o strappati alle famiglie, furono sottoposti a un formidabile lavaggio di
cervello per formare il corpo militare dei giannizzeri, i più fanatici e intransigenti
difensori dell’islam.

Sebbene in ritardo, l’Europa cominciò a vedere nell’espansione turca una
minaccia per la cristianità e la civiltà occidentale: nel 1571 la flotta di varie
potenze europee sconfisse l’armata turca nelle acque di Lepanto, ponendo fine al mito
dell’invincibilità ottomana.

Nel secolo XVII i turchi continuarono a minacciare Polonia, Austria e Slesia:
assediarono di nuovo Vienna (1683), ma furono respinti dalle truppe tedesco-polacche. E
dovettero cedere Ungheria e altri avamposti dell’Europa centro-orientale a due
minacciose potenze confinanti: Russia zarista e impero asburgico.

IL GRANDE MALATO D’EUROPA

Sublimi lussi e mollezze, avidità e intrighi di corte indebolirono il potere centrale;
generali e nobili si ritagliarono fette di potere alla periferia dell’impero.
L’arretratezza fece il resto. All’inizio del XIX secolo per le potenze
occidentali lo stato turco diventò la "questione orientale" o il "grande
malato dell’Europa" e accorsero al suo capezzale.

Più che medici, si rivelarono becchini. Nessuno voleva il decesso dell’impero, ma
tutte fecero a gara, impiegando ogni mezzo finanziario, politico o militare, per mutilae
le periferie; ognuna mobilitò la propria forza diplomatica per impedire che un eventuale
vuoto di potere venisse colmato da potenze avversarie. Al tempo stesso, Londra, Parigi e
Pietroburgo soffiavano sul vento dei nazionalismi balcani, sfociati in stati indipendenti:
Serbia, Grecia, Romania, Montenegro, Bulgaria e Albania.

I paesi occidentali offrirono le loro tecnologie (telegrafo, ferrovie) per modeizzare
lo stato, ricevendo in cambio che le proprie compagnie commerciali si stabilissero negli
scali principali della Sublime Porta. Le manifatture francesi, inglesi e olandesi misero
in crisi gli artigiani locali, incapaci di competere con la tecnologia europea.

Indebitati fino al collo, sempre più dipendenti dall’Europa, i turchi furono
tirati per i capelli in una intricata girandola di alleanze pro e contro tedeschi,
inglesi, austriaci, francesi, russi, italiani, trovandosi sempre dalla parte sbagliata e
continuando a perdere i pezzi più pregiati. La prima grande guerra li spazzò via dai
Balcani; in Anatolia si precipitarono greci, italiani, inglesi e francesi; gli armeni si
dichiararono indipendenti. Nel trattato di pace di Sèvres (1920) il sultano ratificò il
fatto compiuto.

NUOVI CONNOTATI

La Turchia rischiava di scomparire dalla geografia politica, quando il generale
macedone Mustafà Kemal, detto poi Ataturk (padre dei turchi), impostosi come leader del
movimento nazionalista, respinse il trattato di Sèvres, combatté una guerra vittoriosa
contro i greci (1920-22), annientò la minoranza armena, destituì l’ultimo sultano e
proclamò la repubblica. Nel trattato di Losanna (1923) ottenne il riconoscimento di
quelli che, sostanzialmente, sono i confini odiei.

Con un regime a partito unico, Kemal iniziò la ricostruzione dello stato, cercando di
accorciae le distanze con l’Europa, anche se trasportò la capitale da Istanbul ad
Ankara.

Basata sui pilastri del laicismo e nazionalismo, la costituzione repubblicana sancì la
separazione tra stato e islam, che cessò di essere religione di stato. Furono abrogati i
tribunali religiosi, chiuse le scuole coraniche e abolite le confrateite musulmane. Il
turco sostituì l’arabo nei riti pubblici, compresi gli appelli alla preghiera. Per
accelerare la turchizzazione, fu introdotto l’alfabeto latino, fondate nuove scuole
di ogni ordine e grado, resa obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne;
cancellati i termini di origine araba e persiana, fu abolito l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole superiori.

Per modeizzare e occidentalizzare la nazione fu abolita la poligamia, l’obbligo
del velo per le donne e del fez per gli uomini. Fu rinnovato il sistema giudiziario,
prendendo a modello il codice civile svizzero e quello penale italiano. Venne introdotto
il sistema metrico decimale; il calendario gregoriano sostituì quello musulmano e la
domenica prese il posto del venerdì come giorno di festa.

Per completare la modeizzazione, nel 1934 fu esteso alle donne il suffragio
universale (prima dei francesi); una dozzina di anni dopo venne introdotto il
multipartitismo.

Dopo la morte di Ataturk (1938) la Turchia ha continuato il passaggio a Ovest: entrata
nella Nato (1952), ne ha accolto le basi militari, diventando un avamposto occidentale,
prima in funzione antisovietica e poi anti-islamica. Stretta un’alleanza di ferro con
gli Stati Uniti, li ha appoggiati senza condizioni durante la guerra del Golfo contro
l’Iraq (1991), perdendo ogni legame con i paesi islamici del medio e vicino oriente.

Pur continuando il processo di modeizzazione delle sue strutture economiche, sociali
e culturali, la Turchia rimane ancora in bilico tra identità europea e ideali islamici.
Nel 1996 prese le redini del governo un partito neo-ottomano (il Refah) che avversa Nato e
UE, mentre propone un revisionismo pan-turco e pan-islamico sugli ex territori ottomani.

NODI DA SCIOGLIERE

Da oltre 30 anni la Turchia cerca il suo "passaggio a ovest", bussando alla
porta dell’Unione economica europea. Finora ha ottenuto di entrare nel regime di
unione doganale (1996) e, nel 1999, le è stato accordato lo status di candidato
all’ingresso nell’UE, fanalino di coda di 13 paesi in sala d’aspetto. I
negoziati saranno aperti quando il paese avrà dimostrato di avere raggiunto certi
parametri dettati dall’UE in materia di democrazia, diritti umani, tutela delle
minoranze ed economia.

Sulla democrazia turca incombe, come la spada di Damocle, il potere militare: in 20
anni, i generali, nuovi "pascià", hanno fatto tre colpi di stato (1960,
’71, ’80). Nel Consiglio nazionale di sicurezza, che ha lo scopo di
"garantire laicità e kemalismo", i sei massimi ufficiali dell’esercito e
forze dell’ordine danno "pareri" ai cinque massimi esponenti civili,
presidente e primo ministro compresi. Gestendo una delle tre o quattro principali società
finanziarie del paese, le forze armate fanno il buono e cattivo tempo anche nel mondo
economico.

Il primo ministro turco ha assicurato che presto il parlamento abolirà la pena di
morte. Ma intanto i diritti civili, politici e religiosi continuano ad essere calpestati;
le proteste represse con brutalità; le carceri sono un inferno e la riforma carceraria
sta provocando lo sciopero della fame tra civili e carcerati: sono già morti a decine e
altri 2.000 sono pronti al sacrificio; ma il governo sembra sordo. I mezzi di
comunicazione possono trasmettere solo la voce del padrone; contestatori e difensori dei
diritti umani sono incarcerati; i sospettati di terrorismo torturati.

In fatto di minoranze, i turchi si imbufaliscono quando in Europa si parla di genocidio
armeno e si chiede di riconoscere la responsabilità dello sterminio di oltre un milione e
mezzo di armeni (vedi a p. 41). Altra questione in sospeso riguarda il ritiro delle forze
d’invasione a Cipro del nord: occupata nel 1974, ha causato 5.000 morti e 200.000
profughi. Più ingarbugliata è la questione dei kurdi, che da secoli rivendicano la loro
identità. Il problema è ben lontano da una soluzione equa, se mai ci sarà (vedi
riquadro).

Drammatica, infine, è la situazione economica. Trent’anni di sviluppo e
progresso, con costruzioni di strade, aeroporti, città, attrezzature turistiche, nonché
fabbriche, dighe, oleodotti, fonderie e altri complessi industriali ha fatto gridare al
"miracolo turco". Ma all’inizio del 2001 la Turchia si è improvvisamente
svegliata in bancarotta. Le cause sono molte: corruzione e collusione con la mafia di alte
sfere dell’apparato istituzionale; sistema finanziario e bancario al collasso; debito
estero che assorbe il 95% delle entrate; inflazione galoppante a due e tre cifre. Per un
dollaro (2.200 Lit.) oggi occorrono 1.260.000 di lire turche.

Il premier Ecevet ha chiamato al capezzale dell’economia una personalità con
esperienza internazionale, dandole pieni poteri: è Kemal Devis, ex presidente della Banca
Mondiale. Ha iniziato la cura da cavallo, che farà piangere a lungo lacrime e sangue.

PALETTI SÌ. STECCATI NO

Il processo per raggiungere i parametri richiesti dall’UE sarà lungo e difficile.
Gli osservatori più scettici dicono che l’integrazione nell’UE è rimandata
alle calende greche. "La Turchia – ha detto Pierre Moscovici, ministro francese per
gli affari europei – deve rendersi conto che l’UE non è solo una comunità di
nazioni, ma un modello di civiltà".

Alcuni settori del mondo cattolico sono allarmati: l’UE è frutto di cristianità,
legge romana e umanesimo greco; l’eventuale integrazione di 80 milioni di musulmani
turchi ne offuscherebbe l’identità.

Altri sostengono che la Turchia è stata protagonista a pieno titolo della storia
europea e deve continuare a fae parte in futuro con le carte in regola. Anche
"l’Europa deve trovare il suo "passaggio a ovest" – aggiunge un
giornalista turco, – se essa è veramente tolleranza, convivenza, multi-etnicità".
Passaggio che si chiama dialogo, fondato sulla conoscenza di se stessi e degli altri.

Non serve sbattere la porta in faccia ai turchi, si afferma in ambienti ecclesiali
italiani. L’islam l’abbiamo già in casa. La questione è come prepararsi a un
confronto serio e senza cedimenti: da una parte dobbiamo recuperare identità e dignità
di cristiani d’Europa; dall’altra si deve esigere da certi capi islamici
rispetto o un approccio pacato verso i cristiani.

Il dialogo dovrebbe far emergere nel mondo islamico l’accettazione dell’idea che
esiste la libertà della coscienza individuale, tale da non essere messa in forse né
dallo stato né da qualsiasi altra autorità. Non si aderisce all’Europa per i soli
benefici materiali, senza accettae contemporaneamente i valori.

"Non sarà un percorso facile – confessa don Elvio Damoli, direttore di Italia
Caritas -. Tuttavia, le barriere sono inutili. Serve il dialogo, anche se con i
paletti".

 

Scheda storica

2000 a.C.: nascita dell’impero ittita.

1500 a.C.: introduzione della scrittura.

1200-900.a.C.: tramonto dell’impero ittita e formazioni di regni anatolici.

850 a.C.: espansione delle colonie greche lungo le coste asiatiche.

700-500 a.C.: regni di Frigia (capitale Gordio) e di Lidia (capitale Sardi).

553 a.C.: inizia la dominazione persiana, in conflitto con i greci.

334-327 a.C.: Alessandro Magno sconfigge i persiani; inizia l’ellenismo.

240-133 a.C.: regno di Pergamo.

130 a.C.: inizia il dominio romano.

301: evangelizzazione dell’Armenia, primo stato cristiano.

325: 1° concilio ecumenico a Nicea contro l’arianesimo.

330: Costantinopoli capitale dell’impero romano.

379-95: regno di Teodosio I.

395: divisione dell’impero romano d’oriente e d’occidente.

431: concilio di Efeso contro Nestorio.

451: concilio di Calcedonia.

527-65: regno di Giustiniano, riformatore del diritto; costruzione di Santa Sofia.

600-900: scorrerie arabe in Cappadocia.

1054: scisma d’oriente.

1071-1300: regno dei turchi selgiuchidi.

1203-04: Costantinopoli presa e saccheggiata dai crociati.

1354: i turchi ottomani sbarcano in Europa e conquistano la Tracia.

1389: il sultano Murat I sconfigge i serbi nella battaglia del Kosovo.

1402: i mongoli invadono l’Anatolia.

1413: inizia il regno di Mehmet I; riprende l’espansione ottomana.

1453: presa Costantinopoli/Istanbul, nuova capitale dell’impero ottomano.

1520-66: regno di Solimano il magnifico.

1526: i turchi conquistano l’Ungheria.

1529: i turchi assediano Vienna.

1571: turchi vinti a Lepanto dai cristiani.

1683: i turchi assediano Vienna e sono sconfitti da Jean Sobieski.

1774: 1a guerra turco-russa e protettorato degli zar sui greci; nasce la
"questione orientale".

1877-78: 2a guerra turco-russa; Serbia, Romania, Bulgaria indipendenti.

1912-18: l’impero ottomano è ridotto ai confini attuali, sanzionati dal trattato
di Sèvres (1920).

1915-16: genocidio armeno.

1920-23: rivoluzione di M. Kemal (Ataturk) e fondazione della repubblica.

1938: morte di Ataturk.

1952: la Turchia entra nella Nato.

1960, ’71,’80: colpi di stato militari.

1974: la Turchia occupa Cipro nord.

1980-83: guerra al Kurdistan.

1994-95: il partito islamico Refah ottiene l’amministrazione di Istanbul, Ankara,
Smie e maggioranza in parlamento.

1999: la Turchia "candidata" ad entrare nell’Unione Europea.

 

Articolo 2

Dervisci: il volto mite e dialogico dell’Islam

Danzando con Allah

C i si toglie le scarpe per entrare nel mausoleo di Konya, sotto la cui cupola conica,
rivestita di maioliche turchesi, riposano Mevlana e molti suoi discepoli. Anche se da 76
anni è un museo di arte islamica, i turchi continuano a considerarlo "luogo
sacro", secondo solo alla Mecca. Domandarsi chi è Mevlana è come chiedersi chi è
Dante o Francesco d’Assisi, suoi contemporanei. È un grandissimo poeta e mistico,
uomo del suo tempo e di tutti i tempi. Espressione del volto più aperto e tollerante
dell’islam e fondatore della confrateita islamica dei mevlevi, meglio conosciuti
come "dervisci rotanti o danzanti", vestiti di tunica bianca, mantello nero e
alto cappello cilindrico di feltro.

S i chiamava Gialal ad-Din Rumi, detto poi Mevlana (maestro nostro). Nato nel 1207 a
Balkh, città persiana ora in Afghanistan, da piccolo vagò in esilio con il padre, dal
quale ricevette un’accurata educazione, completata poi con lo studio delle scienze
esoteriche. Salvo brevi soggiorni a Damasco e Aleppo, egli visse sempre a Konya, dove si
sposò, ebbe figli e insegnò nella scuola della capitale selgiuchide.

A cambiargli la vita, nel 1244, fu l’arrivo di Shams (Sole) di Tabriz, giovane
predicatore vagante, che lo avviò sulla via del sufismo. Il maturo docente si mise alla
scuola del giovane maestro, immergendosi nell’ascetismo e meditazione. Tra i due
nacque un’attrazione mistica che suscitò la gelosia di familiari e discepoli e fece
spettegolare tutta la città.

Quando Shams decise di tornare in Persia, Mevlana lo accompagnò fino a Tabriz e toò
a Konya. Strada facendo, continuava le sue mistiche riflessioni, quando, divorato da un
fuoco interiore, cominciò a roteare su se stesso in una specie di rapimento estatico.
L’episodio è all’origine delle danze religiose della confrateita islamica da
lui fondata.

M evlana passò il resto della vita dedicandosi ad ascesi, insegnamento mistico e
lavoro letterario. Scritte o dettate in persiano, le sue opere furono più tardi tradotte
in turco per l’istruzione dei discepoli. Tra di esse figurano il Divan-i-Kibir,
sterminato e appassionato canzoniere composto sotto il nome del maestro Shams, e il
Màthnawi-i-mànawi (Poema spirituale), trattato colossale di mistica in sei volumi. Opera
affascinante e impareggiabile, il Màthnawi svolge le dottrine del sufismo con aneddoti,
favole, leggende, allegorie, digressioni dottrinali, miste a voli lirici di estatico
rapimento.

Se non fosse per il grandioso panteismo di cui sono impregnate le sue liriche, queste
sembrerebbero uscite dal cuore di mistici cristiani, come Giovanni della croce. Simili,
infatti, sono lo slancio e l’ardore del sentimento religioso con cui viene cantato
l’amore tra l’Amato (Dio) e l’amante (credente). Un Amato più intimo e
vicino di quanto possiamo esserlo a noi stessi.

Così ammoniva i suoi correligionari che andavano alla Mecca e facevano i dieci giri
attorno alla kaaba:

"O gente che partite in pellegrinaggio, dove mai siete?

L’Amato è qui, tornate, tornate!

L’Amato è un tuo vicino; vivete muro a muro.

Che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’Arabia,

per vedere la forma senza forma dell’Amato?

Il Padrone è in casa e la kaaba siete voi.

Dieci volte siete già andati per quella via, per quella casa:

provate una volta da questa casa a salire sul tetto.

Bella è la casa di Dio; ne avete narrato i segni.

Provate ora a darci un segno del Padrone di quella casa".

L a scuola di Mevlana esercitò un influsso sociale, politico e culturale di primaria
importanza nell’impero ottomano ed ebbe un grande sviluppo: il suo monastero,
denominato "la soglia della presenza", fu la casa madre di numerosi conventi
fondati in Anatolia, Egitto, Siria e Balcani, cattedre dalle quali, per sette secoli, fu
propagato il suo messaggio d’amore.

La suprema autorità dell’ordine, detto "çelebi efendi", aveva il
privilegio di cingere la spada a ogni nuovo sultano. La cerimonia si teneva a Istanbul e,
per il suo significato, richiama da vicino l’investitura con cui nel medioevo i
vescovi di Magonza riconoscevano gli imperatori di Germania.

Nel 1925 Atatuk sciolse tutte le confrateite islamiche e mise i dervisci fuori legge,
perché troppo legati al decrepito regime ottomano e fautori di un irrazionalismo
inconciliabile con la coscienza laica della nuova Turchia. Essi, però, riuscirono a
sopravvivere come associazione culturale, ufficialmente riconosciuta nel 1957, destinata a
conservare una tradizione storica.

A metà dicembre di ogni anno, per l’anniversario della morte del maestro, i
dervisci eseguono le loro danze nel mausoleo di Konya; ma si esibiscono pure in altre
città della Turchia e nel mondo intero. Per il governo turco e per i curiosi le loro
danze sono espressioni folcloristiche, per i dervisci continuano a essere preghiera.

L’islam ufficiale disapprova tali danze, perché non trovano alcuna
giustificazione nel Corano; anzi, ritiene il sufismo un’eresia, perché antepone
l’amore all’obbedienza. Mevlana, invece, insegna che attraverso musica e danza
l’uomo entra nell’armonia cosmica e delle sfere celesti, fino a scoprire le avventure
affascinanti dello spirito e dell’amore di Dio.

È tradizione che Mevlana compose le sue più belle liriche spirituali nel rapimento
dell’estasi, mentre girava vorticosamente attorno a una colonna.

Vestiti e danza, compresi i singoli gesti e movimenti, hanno significati religiosi. La
cerimonia dei dervisci, detta "giro planetario", imiterebbe il roteare degli
astri attorno al sole. Per altri ripeterebbe la danza degli angeli attorno alla kaaba.

Cappello e mantello nero sono simboli della pietra tombale e la veste bianca del
lenzuolo mortuario del proprio ego. Quando i dervisci si tolgono i mantelli, rinascono
alla verità spirituale.

Comincia la danza: il derviscio incrocia le braccia all’altezza delle spalle per
riprodurre la prima lettera di Allah in caratteri arabi; poi le estende: la destra, aperta
verso il cielo, riceve i doni divini; la sinistra, girata verso terra, li dispensa al
popolo. Girando da destra a sinistra, egli stringe la creazione e tutte le nazioni del
mondo nell’amore.

La prima fase della danza è un elogio al profeta, nel quale sono elogiati tutti i
profeti e Dio loro creatore; nella seconda si sente il colpo del tamburo, simbolo del
comando di Dio; la terza segue un preludio del flauto, ovvero il soffio di Dio che ha dato
vita a tutte le creature. La quarta fase è costituita da tre marce circolari,
accompagnate da una musica ritmica, che simboleggia altrettanti saluti delle anime
nascoste nei corpi.

Il primo saluto, che esprime la nascita dell’uomo alla verità tramite il ragionamento,
segna la presa di coscienza dello stato di creatura e dell’esistenza di Dio creatore. Nel
secondo saluto c’è la rivelazione delle meraviglie della creazione: osservando il
mondo e se stesso, l’essere umano diventa testimone dello splendore e perfezione
dell’opera divina, si meraviglia davanti all’infinita potenza di Dio.

Il terzo saluto è il rapimento, il più alto grado dell’estasi mistica: l’uomo si
abbandona all’amore di Dio.

Quindi la musica si arresta; terminato il viaggio mistico e ascensione spirituale, il
derviscio ritorna ai suoi doveri terreni, come servitore di Dio e dispensatore di amore
verso tutte le creature e tutta la creazione.

Q uello di Mevlana è un islam dal volto mite e dialogico, ben lontano
dall’integralismo dei paesi arabi e arabizzati. Egli fu amico di saggi ebrei, preti e
vescovi bizantini. Si dice che abbia fatto 40 giorni di ritiro nel monastero di un monaco
suo amico. È certo che il suo insegnamento supera gli angusti orizzonti confessionali.
Predicava l’unità di tutte le confessioni religiose. Diceva: "Un giorno cadranno
tutti i minareti dalle moschee e le campane dalle chiese: allora ci sarà perfetta
unità".

Per questo si attirò molte simpatie. Alla sua morte nel 1273, partecipò gente di ogni
ceto, razza e fede, compresi ebrei e cristiani, che vedevano in lui una figura tanto
vicina a quelle di Gesù e Mosè.

I dervisci, da parte loro, hanno continuato a simpatizzare e dialogare sul terreno
filosofico con i cristiani: si opposero al massacro degli armeni in Turchia. Continuano a
predicare la pace universale, l’amore come fulcro di tutto, l’unione con Dio
come scopo della vita, l’accoglienza senza pregiudizio.

Sono eloquenti, al proposito, i versi del Màthnawi, che i dervisci hanno voluto
riportare su una parete del mausoleo di Konya:

"Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni.

Non importa se sei un infedele,

un idolatra o adoratore del fuoco.

Vieni, anche se hai infranto il giuramento cento volte,

vieni lo stesso.

La nostra non è la porta della disperazione e del tormento.

Vieni".

 

Articolo3

Sulle tracce di san Paolo e delle prime chiese cristiane

TERRA DI RELIQUIE

Una dozzina di missionari, pellegrini nella "seconda terra santa", culla
della missione ad gentes, rileggono le parole di Paolo dove furono pronunciate, ne
rivivono successi e persecuzioni, celebrano l’eucaristia dove Pietro e Paolo
radunavano le prime comunità cristiane per lo stesso rito… Sono emozioni
indimenticabili. Ma con tanto amaro in bocca: oggi la presenza cristiana è ridotta al
lumicino, frammentata in una miriade di minuscole chiese. Unica strada di sopravvivenza:
dialogo e testimonianza della carità.

Istanbul, prima tappa obbligata del pellegrinaggio, sembra una foresta di minareti
tutti uguali. "Ci sono oltre 3 mila moschee, 17 sinagoghe e 240 chiese cristiane, in
buona parte chiuse per mancanza di fedeli" spiega Alba, la guida turca, appena siamo
seduti nel pullman.

Un senso d’impotenza afferra il cuore dei missionari davanti a Santa Sofia, la
basilica fatta costruire da Giustiniano come "la più sontuosa dall’epoca della
creazione": inaugurata nel 537, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana
(1453) con l’aggiunta di quattro minareti, ridotta a museo nel 1953, essa simbolizza
la parabola storica del cristianesimo in tutta la Turchia: florido, represso, ignorato.

E FU SUBITO CESAROPAPISMO

Nessun apostolo vi mise mai piede, anche se la leggenda fa risalire ad Andrea la
nascita della chiesa a Bisanzio e, appena questa diventò Costantinopoli, vi furono
traslate le sue reliquie, insieme a quelle di molti altri santi. Era la mania
politico-religiosa di quei tempi: l’origine apostolica e le reliquie dei martiri
servivano a dare alla nuova capitale prestigio e autorità nei confronti con Roma.

Più tardi anche i sultani, in competizione con la Mecca, vi porteranno i peli della
barba di Maometto, conservati nella sala del tesoro del Topkapi con le reliquie del
Battista.

Leggende a parte, la chiesa di Costantinopoli mostrò subito spirito missionario,
mandando evangelizzatori oltre le frontiere dell’impero. Il vescovo Wùlfila, per 40
anni (341-383), trasmise il cristianesimo nella versione ariana ai goti e visigoti a nord
del Danubio, elaborò un alfabeto e tradusse la bibbia nella loro lingua. Più tardi
l’imperatore inviò altri missionari a evangelizzare i popoli russi e slavi, tra i
quali i due fratelli di Tessalonica, Cirillo (826-869) e Metodio (815-885).

Può sembrare strano che fossero gli imperatori a inviare i missionari. Con Costantino,
infatti, nacque il cesaropapismo: i sovrani controllavano l’attività della chiesa,
compresa quella spirituale; a partire dal 754 essi cominciarono a fregiarsi del titolo di
isapostoloi (uguali agli apostoli).

In un clima del genere, Costantinopoli diventò il brodo di cottura in cui si
svilupparono varie eresie (arianesimo, monofisismo, nestorianesimo, origenismo,
macedonismo, monotelismo, monoergismo, iconoclastia) con gravi ripercussioni sulla vita
della capitale, dell’impero e della chiesa universale. Gli stessi sovrani
parteggiavano ora per l’una ora per l’altra eresia. Grandi vescovi, del calibro
di Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, lottarono per restituire alla chiesa la
legittima autorità, ma pagarono il loro coraggio con esilio e persecuzioni.

Per riportare la pace nella chiesa e nella società civile, gli imperatori convocarono
vari concili ecumenici: quattro furono tenuti a Costantinopoli e tre nelle immediate
vicinanze (Nicea e Calcedonia). Se non altro, eresie, concili e dispute teologiche
contribuirono a fissare la formulazione della fede della chiesa universale. Ne è un
esempio il credo niceno-costantinopolitano, in cui si riconoscono tutte le chiese
cristiane.

Purtroppo non tutte le comunità accettarono le decisioni dei concili, più per
fraintendimento di parole che per divergenze teologiche. Intrighi e intrallazzi politici
fecero il resto: la chiesa si frantumò gradualmente in una miriade di comunità
scismatiche, fino alla rottura definitiva dello scisma d’oriente (1054).

UNA CHIESA FRAMMENTATA

"A Istanbul – spiega Alba, rispondendo alle domande dei missionari -sono presenti
tutte le chiese cristiane: ortodossi greci, armeni, siriani, bulgari, siro-caldei;
cattolici di rito latino, siriano, caldeo, bizantino, armeno; anglicani, luterani,
evangelici… per nominare i più importanti".

Importanza relativa, se si fanno i conti: su 70 milioni di turchi, il 99% si dichiara
musulmano; i cristiani tutti insieme arrivano a 100 mila; sottrai quasi 60 mila armeni e
circa 30 mila cattolici, delle altre chiese rimangono reliquie.

"In teoria la Turchia è uno stato laico; in realtà manca la libertà religiosa –
risponde Alba alla nostra tempesta di quesiti -. Qui laicità non significa separazione
tra stato e chiesa, ma che il governo amministra, sorveglia e controlla l’islam. Gli
80 mila iman, per esempio, sono in pratica funzionari statali; i programmi
d’insegnamento sono fissati dal governo; sulla carta d’identità è scritta la
religione di appartenenza: musulmano, ebreo, cristiano. Se un musulmano passa al
cristianesimo, incappa in seri guai burocratici e giudiziari".

A schiacciare le minoranze religiose si aggiunge la discriminazione: cariche pubbliche
civili e militari sono tutte in mano ai musulmani; negli ultimi 10 anni, in Turchia sono
state costruite 10 mila nuove moschee; a Istanbul sono state aperte 400 scuole coraniche.
Zero nelle altre chiese.

Quella cattolica romana, poi, si trova in stato d’inferiorità assoluta: non è
riconosciuta come istituzione religiosa, anche se la Turchia ha un suo ambasciatore in
Vaticano. Di conseguenza le proprietà della chiesa sono intestate a singole persone;
difficoltà per i missionari (anche se vescovi) di ottenere o rinnovare i permessi di
residenza nel paese; possibilità di essere cacciati in qualsiasi momento e senza
spiegazioni.

"Che apostolato potete fare" domandano quasi in coro i missionari ai padri
domenicani della chiesa dei ss. Pietro e Paolo. "Dialogo e testimonianza della
carità – risponde padre Lorenzo, torinese, da 17 anni in Turchia e professore di latino
all’Università islamica -. Da tre anni abbiamo istituito un centro di documentazione
per il dialogo islamo-cristiano che raccoglie informazioni sul cristianesimo: ce
l’hanno chiesto i nostri amici musulmani e lo frequentano abbastanza. Inoltre, come
insegnante di latino, ho tante occasioni per stimolare negli studenti il confronto tra la
cultura cristiana e quella islamica e per rispondere alle loro domande".

PAOLO VIVE…

Ad Antiochia (oggi Antakya), nell’estremo sud della Turchia, i missionari
pellegrini respirano a pieni polmoni l’atmosfera della missione delle origini. La
celebrazione della messa alla Grotta di san Pietro è densa di emozioni: qui, appena un
anno o due dopo la morte di Cristo, fu predicato il vangelo dai discepoli scappati dalle
persecuzioni di Gerusalemme; qui Baaba, Paolo, Luca, Pietro (primo vescovo di
Antiochia), il successore e martire Ignazio radunavano la comunità cristiana per
l’eucaristia. Qui Baaba e Paolo "in un anno istruirono tanta gente" che
"per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani": un capolavoro di
"visibilità", se in pochi mesi riuscirono a distinguersi tra mezzo milione di
abitanti.

Da Antiochia fu provocato il concilio di Gerusalemme per risolvere il primo problema di
"inculturazione" della storia missionaria: "I fedeli provenienti dal
paganesimo devono farsi prima giudei (circoncisi) e poi cristiani?". La risposta fu
una liberazione. Nella pratica però, Pietro continuava a snobbare i pagani e, proprio ad
Antiochia, si scontrò con Paolo: una dialettica sempre attuale, risolta nella carità.
Qui, infine, nacque "l’aiuto tra le chiese sorelle", con la prima colletta per
soccorrere la comunità di Gerusalemme, colpita dalla carestia.

Durante la messa risuonano le parole dello Spirito: "Mettetemi da parte Baaba e
Saulo per l’opera a cui li ho destinati"; i missionari si sentono ancora una
volta chiamati per nome e, come Baaba, Paolo, Marco, inviati dalla comunità a portare
il vangelo ai confini della terra.

ECUMENISMO OBBLIGATORIO

A richiamare tutti con i piedi per terra ci pensa il cappuccino italiano padre
Domenico: "Nei primi secoli Antiochia aveva cinque vescovi di altrettante chiese
separate; oggi è ufficialmente titolare di cinque patriarcati; ma i patriarchi risiedono
a Istanbul, Aleppo o Damasco. Siamo rimasti solo due preti, quello ortodosso e il
sottoscritto".

La comunità è formata da una sessantina di cattolici armeni, siriani, maroniti; ma è
frequentata anche da ortodossi. "Dialogo ecumenico e interreligioso sono le uniche
forme di apostolato in Turchia – continua il padre -. Non è possibile alcun annuncio
diretto. Evangelizzare è dire ciò che siamo, spiegare la nostra fede. Con gli ortodossi
i rapporti sono buoni e costruttivi: da alcuni anni abbiamo aperto l’ufficio della caritas
per aiutare i poveri della città; facciamo assieme la campagna di quaresima e celebriamo
la pasqua nella stessa data; la domenica facciamo il culto in orari differenti per evitare
competizioni; spesso celebriamo insieme funerali e matrimoni".

Padre Domenico ha pure organizzato corsi di catechesi per i giovani, frequentati da
50-60 persone quasi tutte ortodosse. "Hanno capito che il nostro scopo non è il
proselitismo, ma aiutare i cristiani ad essere più cristiani – continua il padre -. È un
nuovo modo di essere chiesa. In situazione di minoranza l’ecumenismo è
d’obbligo".

Anche con i musulmani i rapporti sono buoni: molti vengono a informarsi sulla fede
cristiana. Nella chiesetta parrocchiale il padre ha posto alcune icone e se ne serve per
spiegare e rispondere alle domande sul nostro credo. In fondo alla cappella ha messo a
disposizione copie del vangelo e video-cassette: vanno a ruba.

I NUMERI NON CONTANO

Dialogo ecumenico e interreligioso anche ad Alessandretta (Iskenderun). Il movimento
neocatecumenale è composto quasi totalmente da ortodossi; anche qui molti musulmani sono
attratti dal cristianesimo, racconta padre Roberto, cappuccino italiano da 50 anni in
Turchia.

Nella testa dei missionari pellegrini affiorano come un chiodo fisso le solite domande:
la comunità cresce? quante conversioni?

"La chiesa cattolica in Turchia è divisa in tre vicariati – risponde il padre,
girando alla larga -: Istanbul per la parte europea, Smie e Alessandretta per
l’Anatolia. Qui non contiamo mai i fedeli; non è il numero che fa la chiesa. Cerchiamo,
soprattutto, di fare coraggio ai cristiani; altrimenti emigrano, perché non vogliono che
i loro figli soffrano ciò che essi hanno patito. Ad ogni modo, abbiamo vari giovani nel
catecumenato, ma andiamo molto adagio a battezzare. Chi si fa cristiano ha vita
dura".

Alessandretta conta circa 200 cattolici; poco più di un migliaio l’intero
vicariato. "Poi ci sono i cristiani nascosti, battezzati da bambini – continua il
padre -; ma hanno paura di manifestarsi, non tanto dello stato, ma dei parenti, società e
altre chiese".

Intanto l’afflusso di pellegrini che visitano i "luoghi santi" nel paese
serve a risvegliare i cristiani turchi, che non si sentano più soli e stanno riscoprendo
le radici della loro fede.

"MAMMA, LI CROCIATI!"

Lo sperano anche Emmanuela e Maria, due "Figlie della chiesa", che da sei
anni testimoniano la carità e accolgono i pellegrini a Tarso. "Non conosciamo ancora
alcun cristiano – dice Maria -. Forse ci sono. La vista di tanti cristiani potrebbe dare
loro coraggio per venire allo scoperto: allora si potrebbe raccogliere le firme per
chiedere il permesso di celebrare regolarmente i servizi religiosi in questa chiesa e
magari riscattarla".

Infatti, la chiesa dove celebriamo l’eucaristia, costruita dai crociati, è stata
requisita e dichiarata museo: per ogni azione di culto bisogna chiedere il permesso e le
chiavi al direttore. I tentativi fatti dal vescovo per comprarla sono andati a vuoto.
"La nostra presenza rinfocola paure secolari – spiega la suora -. Noi diciamo
"mamma li turchi"; essi rispondono "mamma li crociati"".

I missionari si tuffano nella memoria di san Paolo: visitano il pozzo che porta il suo
nome; baciano le pietre della strada romana da lui calcate… ma con un groppo in gola:
nella città dove l’apostolo nacque e predicò il vangelo almeno in due occasioni dei
suoi viaggi missionari, non è sopravvissuta neppure la reliquia di un mattone che possa
dirsi cristiana.

Anche a Iconio (Konya) i pellegrini devono accontentarsi della memoria, rinfrescata
dalla lettura degli Atti degli Apostoli: qui Paolo e Baaba predicarono a lungo nel loro
primo viaggio missionario (47 d.C.); fecero molti discepoli tra giudei e greci, suscitando
la rabbia degli "integralisti" ebrei, che decisero di lapidarli.

I due apostoli fecero in tempo a scappare; ma i più facinorosi li inseguirono per una
trentina di chilometri, fino a Listra: trascinarono Paolo fuori della città e lo
tramortirono a sassate. Ma alla fine del viaggio, tutti e due tornarono a Iconio per
rincuorare e organizzare la comunità, dicendo loro che "bisogna attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio".

Sono parole che i missionari sanno a menadito; ma rileggerle nel luogo dove Paolo le
visse sulla propria pelle fa un certo effetto, anche in quelli un po’ fissati con i
numeri di battesimi e successi a buon mercato.

A ricordare le tracce di san Paolo rimane una chiesa, costruita agli inizi del 1800,
dove si può pregare a volontà, senza bisogno di permessi. Nell’abside spiccano le
immagini di Paolo, Timoteo, suo grande collaboratore, e santa Tecla, nativa di Iconio,
discepola paolina e grande missionaria. Ma la comunità attuale è ridotta a cinque o sei
cristiani, tra cui due suore trentine, Isabella e Serena.

Dopo 2000 anni Iconio non si smentisce: è la città più conservatrice e integralista
della Turchia: s’incontrano donne velate da capo a piedi; la maggioranza dei
ristoranti non servono alcolici. In casa le suore indossano una croce; quando escono la
tolgono. Non per paura di essere lapidate. "La gente è gentile – spiega Isabella -.
Ma la legge vieta abiti e simboli religiosi e ideologici. La nostra è una presenza
discreta, fatta di accoglienza e contemplazione".

ESSERCI O NON ESSERCI?

A 230 km incontriamo un’altra presenza discreta: Heirich e David, laici trentini
della "Comunità di san Valentino", che da sei anni vivono a Uçhisar, nel cuore
della Cappadocia, dediti alla preghiera, ascolto della parola di Dio e della gente.
Insieme alle suore di Iconio, sono stati inviati qui dal vescovo di Trento, come gesto di
riconoscenza per il dono della fede, seminata in Val di Non da tre missionari cappadoci:
Sisinio, Martirio e Alessandro, martirizzati nel 397.

In questa regione turca il vangelo arrivò molto presto: il giorno di pentecoste a
Gerusalemme c’erano "abitanti della Cappadocia". Forse tra i primi
missionari arrivarono anche Pietro, partendo da Antiochia, e Paolo, in viaggio verso la
Galazia.

È certo che la fede vi si radicò in profondità, fecondata dal sangue di numerosi
martiri e illuminata da vescovi dotti e dinamici, come i padri cappadoci: Basilio di
Cesarea, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Al Concilio di Nicea (325)
la Cappadocia era presente con 7 vescovi (di città) e 5 corepiscopi (di campagna).
All’inizio del IV secolo i missionari cappadoci erano arrivati ai confini
dell’impero e oltre: il vescovo Gregorio Illuminatore, per esempio, evangelizzò
l’Armenia.

Al tempo stesso ci fu una straordinaria fioritura di anacoreti, dediti alle forme più
fantasiose dell’ascesi cristiana: stiliti, reclusi, incatenati, solitari, senza
tetto, muti… San Basilio li mise in riga. "La vita solitaria è oziosa e senza
frutto, contraria al vangelo e alla natura sociale dell’uomo – diceva -. Solo la vita
comunitaria obbedisce al comandamento dell’amore verso Dio e verso gli altri". E
dettò le regole del monachesimo cristiano: piccole comunità di preghiera, servizio ai
poveri, malati, viandanti, avviamento al lavoro, missione e cura spirituale delle anime.

I pellegrini incassano la lezione: il missionario è un "contemplativo in
azione".

Ad attestare l’enorme sviluppo dell’eremitismo e monachesimo nelle valli
lunari della Cappadocia restano innumerevoli monasteri scavati nel tufo: attorno a Goreme
si contano 2 mila chiese rupestri. La resistenza dei cristiani alle invasioni arabe è
testimoniata dalle immense città-rifugi scavate sotto terra. Ma poi, sotto il rullo
compressore dei turchi selgiuchidi e ottomani non si salvarono neppure gli angeli, madonne
e santi, che decorano le chiese: in obbedienza al corano, che vieta ogni raffigurazione
umana, le loro facce furono prese a sassate.

"Siamo qui non per fare, ma per essere, anzi per "esserci" – spiega
fratel Davide -. Il ritmo di vita (5 ore di preghiera al giorno, lavoro di casa e
disponibilità) è un filo ideale che ci riallaccia ai monaci dei primi secoli; essendo
gli unici cristiani in Cappadocia, rendiamo presente Gesù col nostro esserci, aspettando
che il Signore realizzi i suoi piani".

Guardo le facce dei miei confratelli: gli occhi sbarrati per l’ammirazione; le
labbra torcono come se succhiassero un chiodo.

MERYEM ANA, PENSACI TU!

Il nostro pellegrinaggio si conclude a Efeso e sono emozioni a non finire. Prima di
tutto le rovine della grandiosa basilica fatta costruire dall’imperatore Giustiniano
(540) sulla tomba dell’evangelista Giovanni. In ginocchio sulla predella
dell’altare, mi pare di sognare: a pochi centimetri ci sono le reliquie del discepolo
prediletto. Vorrei dirgli tante cose, ma non mi riesce di formulare neppure una parola. E
resto in silenzio.

Passiamo alle splendide rovine della città greco-romana. Centinaia di europei,
americani e giapponesi si aggirano per le strade, come se Efeso fosse per incanto tornata
la città cosmopolita di 2 mila anni fa. E sembra di rivedere Paolo, che percorre le
stesse vie per recarsi alla sinagoga e, tre mesi dopo, quando i giudei gli rendono
difficile la vita, si sposta nella scuola di Tiranno: qui, dalle 11 alle 16, ogni giorno e
per tre anni, discute con una folla di artigiani che sacrificano la siesta per ascoltare
la buona notizia.

La fantasia non ha freni quando ci sediamo sui gradini del teatro: il battagliero Paolo
affronta l’ira di commercianti e argentieri che lo vogliono linciare: lo accusano di
mandare in malora i loro affari, poiché la gente non compra più statue e ricordini della
dea Artemide.

Nella cosiddetta basilica del concilio, prima chiesa al mondo dedicata alla Madonna, al
ricordo di Paolo si sovrappone quello di 200 vescovi, radunati (431) per controbattere le
teorie di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: costui afferma che bisogna chiamare Maria
"Madre di Cristo" e non "Madre di Dio". Non è una quisquiglia: è in
gioco il mistero dell’incarnazione. Ma basta una sessione e i vescovi, con a capo
Cirillo di Alessandria, riaffermano unanimi che la Madonna è realmente la Theotokos
(Madre di Dio) e solennizzano l’evento con una fiaccolata in suo onore per le vie
della città.

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Benedetto Bellesi




Globalizzazione: l’opinione di Riccardo Petrella

Nel conflitto dell’«oro blu»

Intervista rilasciata nell’ambito
della "Scuola per l’alternativa" (fondata a Torino dai missionari della
Consolata, Cisv e Vis). Temi affrontati: ideologia della competitività, "oro
blu", inevitabilità della globalizzazione, mercificazione delle culture.

L’interlocutore è un "europeo": presidente del "Fast",
fondatore del "Gruppo di Lisbona",docente e autore di testi di economia
politica.

 

 Professor Petrella, cos’è il Fast, di cui lei è stato presidente?

"Fast" (Forecasting and Assesment in Science and Technology) è stato un
programma della Commissione europea di previsione e valutazione delle conseguenze
economico-sociali della scienza e tecnologia: circa il lavoro, l’energia solare, la
clonazione delle cellule. Individuati e giudicati i fenomeni, occorreva operare per
scongiurare gli aspetti negativi.

  Oggi lei è presidente del "Gruppo di Lisbona", dopo
essee stato fondatore. Con quale scopo?

Nel 1991 ho fondato il "Gruppo" invitando una ventina di studiosi, impegnati
nella scienza e nella politica, a scrivere un manifesto contro l’ideologia della
competitività: questo perché, lavorando nel "Fast", avevo notato che in
occidente la scienza serviva in grande scala le imprese nazionali e private sui mercati
mondiali. È una perversione che in Italia, per esempio, lo scopo principale dello
sviluppo tecnico, scientifico e politico sia quello di consentire alle imprese di essere
competitive.

  Questo discorso, nel "Fast" e nel "Gruppo di
Lisbona", è rivolto agli imprenditori, ai politici o anche alla gente comune?

Il "Fast" aveva come scopo di elaborare una politica della scienza-tecnologia
per i leaders dell’Europa; invece il "Gruppo di Lisbona" è
un’iniziativa per parlare alla gente. Al posto dell’ideologia della
competitività, abbiamo proposto che la scienza e tecnologia creino una maggiore ricchezza
mondiale, con beni comuni, per permettere a tutti il diritto alla vita.

  Vi siete pure dati un appuntamento per il 2020. State conseguendo
qualche risultato?

Abbiamo detto: diamoci 20-25 anni di coscientizzazione, affinché la scienza e
tecnologia consentano a tutti il diritto all’acqua, all’alimentazione, alla
salute. Ma i capi dell’Unione Europea, a partire dalla Commissione presieduta da
Prodi, riaffermano la subordinazione della scienza alla competitività delle imprese. Nel
marzo del 2000, al Vertice di Lisbona, i 15 governi dell’Unione hanno sottoscritto il
documento "E Europe" (Europa elettronica): hanno accolto la tesi che saremmo
diventati e economia, e politica, e sanità, e istruzione. Tutto è elettronico, al
servizio della competitività esasperata.

  Di conseguenza lei punta ad una istruzione diversa e mette tutti in
guardia da alcune "trappole". Oggi non vale più l’"io so… quindi
posso"?

Vale, eccome! Altrimenti, che ci farei all’università?

  Ma ci sono delle trappole. Quali?

La prima trappola è l’istruzione al servizio delle risorse umane, e non della
persona. Si dice: a scuola ci vai per diventare una risorsa redditizia e sfruttabile sul
mercato, non per crescere come cittadino critico.

Seconda trappola: la formazione necessaria è quella che permette di aumentare la
competitività del paese. Quindi c’è una separazione crescente tra conoscenze
"utili" e "non utili". L’"utile" riguarda la finanza,
il marketing, l’informatica. Oggi se, nel consiglio di amministrazione
dell’università, proponi una cattedra di letteratura bizantina, ti deridono perché
"a che serve"? Ma, se sostieni una cattedra per insegnare le tecniche di
riconoscimento della voce… del frigorifero (che, al tuo "apriti!", risponde
"sì, amore!"), allora tutti ti applaudono.

Piano piano (terza trappola) trasformiamo l’educazione da servizio pubblico e
collettivo ad una attività mercantile, subordinandola alla logica dei prezzi. La scuola
non è più un bene per tutti, ma soltanto di chi paga: è merce. Grazie ad internet, a
distanza non si vende solo il profumo personalizzato, ma anche il programma educativo. È
nata l’università virtuale, con studenti che pensano di autoeducarsi on line. Una
delle trappole più negative!

Ma ce n’è un’altra più pericolosa ancora: l’educazione come
legittimazione delle disuguaglianze sociali, dovuta alla disparità di conoscenze.

Si dice: poiché tutti hanno pari opportunità iniziali di studiare, se tu non ce la
fai, la colpa è solo tua.

  Il che è falso.

Spudoratamente falso, perché di fronte allo studio non c’è par condicio. A
prescindere dal sud del mondo, mi riferisco anche agli studenti del medesimo quartiere in
Europa. I miei figli sono andati a scuola, come quelli dell’emigrato marocchino (che
abita sulla stessa via a Bruxelles), ma con risultati diversi: e non perché i figli miei
siano più intelligenti. Le ragioni della disparità di rendimento sono altre. In Belgio
il 20% degli studenti frequenta l’università e (guarda caso!) il 92% di costoro
appartiene a famiglie ricche.

 

Professor Petrella, nel suo libro Il manifesto dell’acqua, lei affronta
un’altra disparità, legata al problema dell’"oro blu", cioè
l’acqua. Che dire dell’"oro blu" in Africa nella tragica guerra dei
"Grandi Laghi"?

Nella regione dei Grandi Laghi è evidente che una delle cause del conflitto è
l’accesso alle risorse idriche.

Ma esiste anche il problema mondiale dell’"oro blu", che è un discorso
di dominio. Perché l’acqua è "oro"? Perché è stata mercificata,
conferendole il valore di scarsità, rarità, preziosità… Il 70% dell’uso
dell’acqua è per fini agricoli, il 20% per scopi industriali e il 10% per impiego
domestico. E si dice: siccome l’acqua agricola e potabile è inquinata, bisogna
purificarla. Così diventa "oro" sempre più costoso.

  Ma l’acqua da chi è inquinata?

È questo il punto, perché se rimoviamo le cause dell’inquinamento delle acque,
non sarebbe più "oro".

Poi si dice: nei prossimi 20 anni la popolazione nel mondo crescerà di 2 miliardi, con
un ingente fabbisogno di acqua, mentre le risorse idriche resteranno stabili. E chi usa
l’acqua? L’occidente consuma l’88% delle risorse idriche mondiali per
l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria: occorrono 400
mila litri di acqua per i 3 mila pezzi di un’auto. Siamo nel settore automobilistico,
che copre solo il 20% del mondo industriale. In media un europeo consuma acqua 80 volte di
più di un asiatico. Quindi 1 milione di italiani consuma acqua quanto 80 milioni di
indiani. Allora il problema non è la crescita demografica nel sud del mondo, ma la gente
nel nord; è la conservazione del sistema economico nel nord, assetato anche di acqua.

  Acqua minerale (imbottigliata) o del rubinetto?

Io parlavo dell’acqua del rubinetto. La minerale esige un’altra riflessione.
Oggi sembrerebbe che il 52% degli europei bevano solo acqua minerale (con l’Italia in
testa), che costa 500-1000 volte di più di quella potabile del rubinetto. In Italia
l’acqua che si beve maggiormente è San Pellegrino (della Nestlé) e Ferrarelle
(Danone). Dati i prezzi, gli affari sono elevati. Ma bisogna stigmatizzare anche il
comportamento dei consumatori. Inoltre va ricordato che l’acqua del rubinetto è più
sana di quella minerale. Questa, secondo la legge italiana, non è considerata potabile,
bensì terapeutica, che il marketing ha trasformato in bene di consumo. Nelle acque
minerali si possono trovare dosi di arsenico.

 

Questo è terrorismo psicosociale?… L’attuale sistema economico non
avrebbe alternative. È noto l’acrostico "Tina" (cioè "There is no
alternative"), di cui si fa scudo la globalizzazione. O l’alternativa c’è?

Non esiste l’inevitabilità nei sistemi economici. Se al presente privatizziamo
tutto, non significa che non ci siano progetti economici alternativi. L’Inghilterra
con la Thatcher ha privatizzato le ferrovie, però oggi discute se nazionalizzarle,
perché "i treni sono usciti dal binario"… Dal 1945 al 1973 vigeva un sistema
finanziario internazionale basato sul cambio fisso, con un tasso di crescita mediamente
più confortante rispetto al 1973-98, quando i cambi non sono più stati fissi e si è
imboccata la via della privatizzazione. Può darsi che si ritorni al sistema precedente…

Il MAI (1) era ritenuto inevitabile, ma fu bloccato. Nel software per ora vince
Microsoft, ma Linus potrebbe prendersi la rivincita, perché nulla è scontato. Anche
"il popolo di Seattle" (a prescindere dalle violenze di pochi scalmanati)
dimostra che la globalizzazione non è l’unico modo di impostare l’economia.

Il 27 aprile il papa, all’Accademia delle scienze in Vaticano, ha detto
che la globalizzazione a priori non è né positiva né negativa; dipende dall’uso
che se ne fa…

In una valutazione a priori Giovanni Paolo II ha ragione. Però, calandoci hic et nunc
nella realtà, non si può dire che "questa" globalizzazione sia neutra.

  Per questo il papa pone dei limiti: l’attenzione alla persona
e il rispetto di tutte le culture. Diversamente, la globalizzazione è colonialismo.

Però attenzione al tranello, perché la globalizzazione accetta le diversità di
cultura. Oggi le potenze scientifiche mediatiche ostentano di valorizzare, per esempio, la
religiosità plurimillenaria dell’Asia grazie ad internet. E lo fanno. Poi c’è
lo studio delle lingue…

  Ebbene, dov’è il tranello?

Il tranello è che ti offrono solo culture "mercificate". Si accettano altri
modi di vestire, mangiare e cantare, ma non di pensare. Non si accetta una politica
diversa da quella occidentale. Qui il papa ha ragione quando parla di colonialismo.

I dominatori della globalizzazione vogliono convincerci che "le guerre di
civiltà" sono inevitabili. È una tesi condivisa pure da indù e musulmani, fautori
delle "guerre di religione" per difendersi, specie se minoritari. Perché gli
indù ammazzano i musulmani in India e viceversa in Indonesia? Perché i cristiani (se
possono) vogliono conquistare il mondo con l’evangelizzazione? I dirigenti, invece di
promuovere sempre il rispetto dell’altro, ne criticano la mancanza solo quando loro
conviene. La difficoltà del missionario o dell’intellettuale è eloquente: pur
aperti, sono sempre parte di una cultura che li condiziona. L’arroganza del
"pensiero unico" è in agguato (2).

  Ha fatto sensazione nel 1991 il libro E se l’Africa rifiutasse
lo sviluppo? di Axelle Kabou (camerunense), con la tesi: mentre lo sviluppo si è
realizzato in occidente e in qualche paese dell’Asia, è fallito in Africa, perché
la cultura locale è parassitaria, pigra.

È abbastanza vero che la cultura africana è antropologicamente refrattaria allo
sviluppo del capitalismo mercantile. Ma questo potrebbe tramutarsi in una opportunità per
i popoli africani. Forse il XXI secolo sarà dell’Africa.

 

 Il fatto è che l’Africa, stretta dal Fondo monetario internazionale
o dall’Organizzazione mondiale del commercio, è in crisi e deve accodarsi al più
forte che le impone il "pensiero unico" (2).

Mi auguro che questo sia un fatto passeggero. Io sono prudentemente fiducioso sul
futuro dell’Africa.

Circa il "pensiero unico", ritenuto (come la globalizzazione) necessario per
tutti, noto qualche significativo "distinguo". Si veda il Giappone, il paese
asiatico più occidentalizzato, che ha conservato il culto degli antenati con gli altarini
in famiglia; ha il culto della vita, corpo e anima, che gli deriva dallo scintornismo… Pur
nel "pensiero unico", il pluralismo non è morto. Oggi si parla di
globalizzazione dal volto umano, con nuove regole, sconfessando quindi quella precedente.
Anche questo è pluralismo.

  Professore, se lei dovesse presentarsi ai lettori di Missioni
Consolata, cosa direbbe di se stesso?

Che sono "un operaio della parola", presente per indicare soluzioni
alternative alla mondializzazione dell’economia di mercato.

 

  

(1) Il MAI (Multilateral Agreement on Investment, accordo mondiale sugli investimenti)
prevedeva non solo libertà di investire, ma anche garanzia di protezione persino nel sud
del mondo; in caso di perdite, lo stato avrebbe dovuto risarcire gli investitori.
L’"accordo" (che aveva il benestare di Renato Ruggiero, allora direttore
dell’Organizzazione mondiale del commercio) venne bocciato nel 1998 (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 1999).

(2) Sul "pensiero unico", cfr. Ignacio Ramonet (e AA. VV.), Il pensiero unico
e i nuovi padroni del mondo, Strategia della lumaca, Roma 1996.

Francesco Beardi




India. Ai margini dei templi indù

Ci si immerge in folle numerose,
variopinte e tumultuose. L’India è un subcontinente

anche per gli abitanti, che superano il miliardo e parlano circa 300 lingue,
espresse

talora in alfabeti diversi: con una cultura di 4 mila anni e marcate differenze fra
nord e

sud… L’impegno di alcune missionarie, mentre i cristiani contano solo il
2,3%. Una

presenza di qualità, in barba ad ogni fanatismo.

 

Tutte le classi sociali

Siamo a Mumbai, come si chiama oggi Bombay. Qui esiste un legame con il nord
dell’India. Si parla anche l’hindi, che il governo di New Delhi si sforza di far
diventare lingua nazionale. I giornali in hindi sono abbastanza diffusi, a differenza del
sud. La città merita attenzione per il crogiolo di culture, come ogni grande porto. Si
contano 16 milioni di abitanti: appartengono a tutte le classi sociali, dall’enorme
ricchezza alla più desolante miseria.

È significativo il lungomare della Colaba. Percorrendo anche meno di un chilometro, si
attraversano ambienti molto diversi: un grande hotel di lusso, altri alberghi di
differenti livelli e povere abitazioni. Attoo agli alberghi stazionano tanti mendicanti
e piccoli venditori di gelati, bibite e arachidi abbrustolite in loco. Quest’ultima
attività è singolare, in quanto tutta la proprietà del venditore consiste in un vassoio
rettangolare di legno, con i bordi rialzati e di dimensioni tali da poter essere montato
sul manubrio della bici. Il vassoio raccoglie le arachidi, un foelletto a carbone e
piccoli coni di carta, ricavati da pagine di giornale, in cui vengono servite le arachidi.

È una modestissima attività, che tuttavia richiede alcune conoscenze: sapere dove
acquistare al meglio il carbone e le arachidi (analisi di acquisto), come abbrustolirle
(tecnologia) e quante tenee pronte per non fare aspettare e perdere i clienti (analisi
di mercato).

Ancora, sul lungomare della Colaba, è attivo un vasto e curato mercato di frutta e
verdura. I mercati (specie in oriente) sono un condensato di folla e costumi. In quello
della Colaba è possibile rendersi conto dei modi di vivere e delle "tolleranze"
(a sfondo religioso) innate negli abitanti. Ecco alcune mucche aggirarsi fra i banchi, con
licenza di pascersi di foglie in modo tale, però, da non incidere sull’igiene della
merce… mentre i passerotti si posano su mucchi di piselli sgranati cibandosene; altri
uccelli saltellano sui sacchi di riso satollandosi. I negozianti non intervengono,
complice l’indifferenza degli acquirenti.

i compiti sulla strada

Il quartiere sulla Colaba confina con un villaggio di pescatori brulicante di vita,
certamente al di fuori dei circuiti turistici. Ciò fa sì che, inoltrandosi nelle viuzze,
si è oggetto di non curanza, ma più spesso della sorridente curiosità di giovani e
bambini, che rivolgono al visitatore il saluto. Fra le casupole non circola certo la
ricchezza, ma neanche la miseria; è una società che si sforza di trovare un equilibrio
sociale nella vita quotidiana.

Sulla larga via che costeggia il mare, il traffico è modesto, poiché la strada muore
nei vicoli stretti del villaggio. A sera, dopo il rapido tramonto del sole, il traffico
cessa del tutto. A questo punto si assiste ad un fatto sorprendente: dalle case sciamano
in strada tutti gli abitanti, che si raccolgono a chiacchierare sulla via: donne con
donne, in gruppi separati per età; analogamente avviene per gli uomini, i giovani e i
bambini. Si conversa in piedi o accovacciati per terra su coperte portate da casa, sulle
quali qualcuno passerà la notte.

Nel cono di luce proiettato da un lampione, scoviamo alcuni bambini con i quadei
aperti sul manto stradale: stanno facendo i compiti giornalieri. Come spesso accade con i
bambini, siamo subito circondati e tempestati di domande relative al nostro nome, la
provenienza. I bambini di età intermedia ci presentano il loro "decano", che
frequenta la settima (l’ultima classe delle elementari). Deve essere bravo negli
studi, perché tutti ne lodano le capacità, con l’interessato che annuisce.

Il ragazzo, come i suoi compagni, a scuola studia anche il maharastra (la lingua
locale), l’hindi e l’inglese; il che non è di poco conto, trattandosi di idiomi
diversi anche per alfabeto. Il quaderno, che il ragazzo ci lascia esaminare, è ben
tenuto, con gli esercizi accuratamente svolti.

Se fossimo cento…

A oriente di Mumbai, nelle vicinanze di Aurangabad, si trovano le grotte di Ajanta e
Ellora. In realtà sono grandi costruzioni scavate nella roccia, in modo da ricavare
ambienti dotati di gradini, colonne, statue e bassorilievi. La realizzazione di tali opere
risale al II secolo a.C. fino al X d.C.; denota una grandissima abilità di progettazione
ed esecuzione. Infatti il lavoro non permette errori, giacché tutti gli elementi
architettonici vengono ricavati sul posto dal "pieno" della roccia, e non
trasportati in loco dopo essere stati realizzati altrove.

L’origine dei monumenti (protetti dall’Unesco come patrimonio
dell’umanità) è legata al buddismo, che ha avuto una grande diffusione nel
centro-nord dell’India. Ma, dal VI secolo d.C., l’induismo ha ripreso il
sopravvento. Intanto è continuata la costruzione delle grotte con templi indù.
Successivamente si sono aggiunti templi della religione jain, che costituisce una
evoluzione radicale dell’induismo. È curioso che, in tale regione, il 75% della
gente sia musulmana, anche se le donne vestono il sari e, quindi, non sono distinguibili
(per gli occidentali) dalle indù.

Le grotte testimoniano un senso religioso, che si avverte anche in aspetti
apparentemente secondari, come i segni colorati (rifatti ogni giorno) sul volto delle
persone.

L’attenzione degli indiani al socio-religioso è molto diffuso. Sul quotidiano
Times of India ogni giorno c’è la colonna "Spazio sacro": appaiono massime
di grandi pensatori e frasi religiose (anche del vangelo).

In Times of India del 23 marzo 2001 si leggeva: "Se gli abitanti del mondo fossero
100, scopriresti che 57 sono asiatici, 21 europei, 14 occidentali (non europei) e 8
africani; 30 di razza bianca e 70 non bianca; 52 femmine e 48 maschi; 30 cristiani e 70
non cristiani.

Se possiedi una casa, hai da mangiare e sai leggere, appartieni ad una élite pari a
meno del 25% dell’umanità. Se hai una bella casa, cibo a volontà, leggi e giochi
con il computer, appartieni ad una élite ancora più ristretta. Se ti sei alzato in buona
salute, sei più fortunato dei milioni di persone che questa settimana non
sopravviveranno.

Se non hai mai sperimentato il pericolo della guerra, la solitudine della prigionia,
l’agonia della tortura e gli spasimi della fame, non condividi la sorte di 500
milioni di persone. Se frequenti cerimonie religiose senza paura di vessazioni, arresti,
torture o morte, sei più fortunato di 3 miliardi di persone.

Se sai leggere questo messaggio, sei più fortunato di 2 miliardi di persone.
Trasmettilo per far sapere quanto siamo ricchi…".

onore al dio shiva

Lasciando Chennai (o Madras) e procedendo verso il sud, ci si inoltra in un’India
diversa. L’hindi è usato solo in attività governative. E sembra che le attuali
popolazioni non abbiano ancora assimilato l’invasione ariana di 4 mila anni fa!

Mentre il nord è famoso per i palazzi (opera spesso degli imperatori indo-musulmani
moghul), il sud è celebre per i templi indù, espressioni delle culture dravidiche
indigene. Sono opere anche gigantesche, articolate su aree di parecchi ettari. I templi
sono meta di pellegrinaggi e occasioni di feste che durano diversi giorni.

Una sera, a Kottayam, assistiamo ad una festa in onore del dio Shiva. L’ampio
piazzale del tempio è saturo di folla e bancarelle di venditori. Sul pronao, cui si
accede tramite una larga scalinata, si impongono cinque elefanti affiancati: ogni animale
è riccamente bardato e montato da un conducente. Altri inservienti reggono lunghe aste,
sulle quali ardono cinque lampade simmetriche, alimentate con olio. Gli addetti alla
cerimonia sono a torso nudo e indossano una lunga gonna, tipica degli uomini. Un suonatore
di una sorta di oboe, dal suono nasale, emette un motivo ossessionante, amplificato dal
microfono e accompagnato da percussioni martellanti. Il rumore è assordante e si
percepisce un’atmosfera inquietante. La festa dura l’intera notte.

Nei templi si venerano tutte le divinità del panteon indù, con particolare devozione
a Shiva e Visnù. Gli edifici sono interessanti per l’architettura, le sculture e
qualche dipinto. È pure interessante osservare la quantità e varietà di fedeli: intere
famiglie di contadini e persone di ceto sociale anche elevato, che però si mescolano in
un unico turbinio di folla variopinta.

Un accenno ai vestiti delle donne. Nel sud l’abito è praticamente il sari. Però
non c’è un sari uguale all’altro. I colori, i disegni e il modo di portarlo
foiscono ai locali tante informazioni, che agli stranieri sfuggono. La vivacità e
l’accostamento dei colori è un retaggio delle giovani come delle anziane: infatti si
vedono signore canute indossare sari sgargianti e lucenti, essendo tessuti pure con fili
che appaiono metallici.

Con le domenicane

Nel marzo scorso sono stati resi pubblici i risultati del censimento nazionale. Oggi
gli indiani ammontano a 1 miliardo e 27 milioni, di cui il 52% maschi. Il censimento
rivela che la differenza numerica fra uomini e donne sta riducendosi. Non è un dato
trascurabile: indica, infatti, che nella nascita si sopprimono meno bambine rispetto ad un
tempo. Ma la pratica è tutt’altro che estinta.

Madre Domenica Farinaccio, delle domenicane della Madonna del Rosario di Iolo (Prato),
che vive nel Rosary Convent di Chocin, ci dice che una famiglia non ricca, con figlie da
maritare, incontra enormi difficoltà. Questo perché, per sposare una ragazza, si
richiede come minimo una dote di 4-5 milioni di lire: una somma irraggiungibile per la
maggioranza delle famiglie. Ne consegue talora il suicidio dei genitori (specie dei
padri), quello delle figlie e prostituzione. Secondo suor Domenica, se una ragazza in età
da marito non si sposa in tempo, diventa l’oggetto di tutti.

Uno degli impegni delle missionarie è quello di dare un mestiere alle ragazze ed anche
di costituire un fondo per la necessaria dote del matrimonio.

Le statistiche governative rivelano anche una riduzione dell’analfabetismo, che
tuttavia affligge ancora il 25% dei maschi e il 46% delle femmine. Nel Kerala
l’analfabetismo tocca solo il 10%: merito anche dei cattolici che nella regione
raggiungono il 28%, a fronte però di meno del 2,3% (compresi i protestanti) su base
nazionale.

Le domenicane gestiscono una rinomata scuola elementare, con insegnanti governativi (ma
pagati dalle suore) e oltre mille allievi indù, musulmani e cattolici. Si versa una
retta, e gli allievi delle famiglie povere sono aiutati affinché possano accedere alla
scuola. Le missionarie gestiscono anche degli ambulatori, con laboratori di analisi, e
dispensari a Chocin e dintorni.

La presenza cattolica si manifesta in varie chiese e scuole: il Kerala rimane comunque
una regione a maggioranza indù.

Le missionarie domenicane sono 22 e 16 le aspiranti indiane. Non operano in un ambiente
scevro da pericoli. Quasi ogni settimana sui giornali si legge di aggressioni a cristiani
da parte di fanatici indù. Un trafiletto, apparso durante il nostro soggiorno, riportava
la notizia di una preghiera serale, interrotta da alcune persone (tre poi arrestate):
hanno malmenato il sacerdote e vari fedeli, hanno strappato e bruciato pagine del vangelo,
diffidando il prete.

Questi episodi, contrari alla tradizionale tolleranza indiana, stanno diventando
frequenti, all’ombra di un governo impotente a controllare il partito dei
fondamentalisti indù, piccolo ma indispensabile per formare la maggioranza governativa.

Né si scordi che in India la donna è "subordinata", se non peggio. Ciò
nonostante, le "donne" della Madonna del Rosario, da sole ottengono risultati
notevoli. Accolgono i più poveri, senza fare cortei; aprono ambulatori e non bruciano
beni pubblici; nutrono i meno abbienti, senza distruggere McDonald’s.

Pier Giorgio Motta




Dialogo interreligioso. Sull’onda del grande fiume

Il documento pontificio "Dialogo e
annuncio" ha 10 anni. Un testo che, già nel titolo,

rompe un po’ gli schemi. Perché il dialogo dovrebbe seguire
l’annuncio,non viceversa.

Ma il primo non intacca né minimizza il secondo. Dialogo per cogliere "i
segni dei tempi".

 

Dal Concilio ecumenico Vaticano II è scaturito un fiume, come il Po dalle rocce del
Monviso… Il 7 dicembre 1965, mentre il Concilio chiudeva i battenti, apparve la
costituzione Gaudium et Spes, con la quale la Chiesa dichiarava di voler dialogare con il
mondo: "con tutti gli uomini del mondo", e "non solo con coloro che
invocano il nome di Gesù Cristo", "per instaurare la frateità
universale", per salvare e non per condannare, per servire e non per essere servita
(2-3).

È il fiume del "dialogo fraterno", la più grande scoperta del secolo. È un
poema sinfonico… come il fiume Moldava, che Smetana (1824-1884) coglie allorché nasce
da due sorgenti e gorgoglia gaio tra le pietre luccicando al sole, poi si allarga e le sue
rive echeggiano di voci… per giungere alla rapida di san Giovanni, sulle cui rocce le
onde si infrangono spumeggiando: di là il fiume scorre largo verso Praga…

Parlare non È dialogare

Come non pensare, nel parlare di "dialogo", ai 34 dialoghi di Platone
(427-348 a.C.)? Specie a quello tra Eutifrone e Socrate, sorpresi mentre si dirigono al
tribunale: il primo per accusare suo padre di omicidio, poiché aveva lasciato morire un
servo; il secondo perché accusato da Meleto di corrompere i giovani e di fabbricare nuovi
dèi.

Il discorso sale e scende quando i due si intrattengono sul concetto di
"santo" e, più propriamente, su che cosa significhi "pio" o
"empio". Un dialogo divertente e sottilissimo. Alle domande stringenti di
Socrate, Eutifrone conclude: "Non so che dirti, perché qualunque definizione ci
mettiamo avanti, ci gira sempre attorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto che la mettiamo". È quanto avviene in ogni dialogo.

La Chiesa ha sempre parlato, ma un conto è parlare un altro dialogare. La Chiesa al
Concilio ne scopre la novità, il suo valore sociale, politico, economico, scientifico,
religioso, ecumenico, interreligioso…

Il dialogo è una chiave capace di aprire tutte le porte, se ben usata: non per
nascondere ciò che si possiede o per barattarlo sottobanco, ma per mostrarlo per ciò che
è, confrontarlo, arricchirlo, accettando le diversità. Le tante diversità che non è
sempre possibile eliminare, ma che è sempre possibile riconciliare, accettare, tollerare,
per non continuare a scannarci: cattolici contro protestanti e viceversa, cattolici contro
ortodossi e viceversa, cattolici contro musulmani e viceversa…

Quante volte il battesimo viene ridotto a proselitismo a favore di una congrega a
scapito di un’altra, specialmente nel passato.

Nel romanzo Jenny di Anya Seton, ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo, si
racconta di un pastore che battezza una bimba, pronunciando la formula: "Jane
Radcliffe, figlia della Covenant, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo". Qui la forza della formula non sta tanto nelle tre persone divine, ma
nella "figlia della Covenant" (convenzione, patto). Era anche la professione di
fede nazional-religiosa degli scozzesi, che dopo una lunga lotta vennero sottomessi al
rito anglicano.

Pagine da cancellare

C’è anche un problema a monte, che la teologia appena sfiora perché si tratta di
"sabbie mobili". È l’esistenza delle "guerre sante",
dell’arroganza religiosa, compresa la "bellicosità cristiana".

Un esempio classico è il profeta Elia, che si ritiene autorizzato ad uccidere 450
sacerdoti di Baal: "Afferrate i profeti di Baal – comanda Elia -; non ne scappi
neppure uno. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li
scannò" (1 Re 18, 20-46). Un Elia fanatico che deve imparare che Dio non si
manifesta nella tempesta, ma nel mormorio del vento (1 Re 19, 1-13).

Si rimane incantati dalla nostalgica poesia dei deportati ebrei a Babilonia:

"Sui fiumi di Babilonia

là sedevamo piangendo

al ricordo di Sion.

Ai salici di quella terra

appendemmo le nostre cetre…".

Ma questi esuli esigono da Dio il pareggio, e il salmo 136 termina con le terribili
parole:

"Beato chi afferra i tuoi piccoli

e li sbatte contro la pietra!".

Quando leggiamo: "A me la vendetta, dice il Signore" (Rom 12, 19), è per
toglierla di mano agli uomini?

Il dialogo "urlato" non serve. Se in una assemblea le lingue ufficiali
superano la ventina, si è vicini a Babele.

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, sulla voce "tolleranza" scrive:
"Un giunco, piegato dal vento contro il fango, dovrà forse dire al giunco vicino
piegato in un senso contrario: "Striscia come striscio io, miserabile, o ti
denuncerò per farti sradicare e bruciare"?".

E, all’inizio della voce "tolleranza", Voltaire pone la domanda:

"Perché noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo
concilio di Nicea?…

Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le
nostre balordaggini. È la prima legge di natura". Voltaire ricorda pure che, negli
organi di una volta, c’era il registro chiamato "voce umana".

documenti significativi

Dal 7 dicembre 1965 il fiume limpido e possente del dialogo ha iniziato una discesa a
valle; si è diviso in canali per irrigare meglio paesi e continenti, erosi dalla
diffidenza ed intolleranza. Altri torrenti, col passare degli anni, sono confluiti nel
fiume ingrossandone la portata.

Dal 1965 ad oggi sono oltre una decina i documenti ufficiali che la Chiesa ha fatto
uscire, a conferma dell’importanza capitale del dialogo: anzitutto le lettere di
Paolo VI Ecclesiam suam nel 1964 (quasi una introduzione alla Gaudium et Spes) ed
Evangelii nuntiandi nel 1975. Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha pubblicato
"L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci delle altre religioni –
Riflessioni e orientamenti su dialogo e missioni". Nel 1990 è arrivata
l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio.

Dieci anni fa il pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Congregazione
per l’evangelizzazione dei popoli, dialogando tra loro, hanno pubblicato
"Dialogo e annuncio – Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e
l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo". È un documento significativo perché
è nato da un’esperienza di dialogo fra i due dicasteri.

Nel frattempo il grande fiume del dialogo si è imbattuto in dighe, sbarramenti,
cateratte, pozzanghere. In alcune regioni cristiane il dialogo è interpretato come
un’oscura provocazione; ci sono ecumenismi senza sbocchi; ecumenismi che minacciano
di cadere nella trappola del relativismo (per cui tutte le verità si equivalgono) o del
confusionismo. Si finisce anche col dire: "La mia religione è migliore della
tua".

Si svolgono ovunque congressi, convegni, tavole rotonde che hanno per titolo: "La
Chiesa dialoga con la città". Difficilmente avviene il contrario: che una città,
nelle sue varie istituzioni, prenda l’iniziativa. Si lanciano piani di pastorale,
dove il dialogo appare come contorno, valvola di sicurezza, ruscelletto grazioso o canale
di scolo.

L’ultimo documento ricordato "Dialogo e annuncio" (di cui si celebra
quest’anno il decennio) ha un paragrafo dal titolo "Ostacoli al dialogo" e
ne enumera 11. Il paragrafo inizia così: "Già solo sul piano puramente umano non è
facile praticare il dialogo. Il dialogo interreligioso è ancora più difficile";
tuttavia "malgrado le difficoltà l’impegno della Chiesa nel dialogo resta fermo
e irreversibile" (n. 54).

Necessario questo dialogo anche all’interno della Chiesa a cui apparteniamo. Non
solo con i "fedeli attivi", ma anche con quelli (forse più numerosi) che, senza
essere contrari, sono inattivi, quasi "forestieri", che non comprendono del
tutto il nostro modo di parlare, disposti a ricevere una "benedizione di Dio",
se non un "sacramento".

E poi ci sono i "lontani".

 

I n conclusione, specie con i fedeli "inattivi" e "lontani", si
potrebbe prendere come esempio di dialogo anche Giacomo Leopardi.

Il grande poeta compose il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. La
scena è nottua, in alto mare, su una gracile caravella. Colombo e Gutierrez conversano
sui motivi che li hanno spinti all’avventura, alla scoperta di nuove terre che non
appaiono.

Colombo: Buona notte, amico.

Gutierrez: Bella in verità: e credo che a vederla da terra sarebbe più bella.

(Ma la terra dov’è? Colombo, per il riverbero della terra vicina, ne sente quasi
il profumo).

Colombo: Da certi giorni in qua lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità
della materia che gli vien dietro mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al
sole mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi.
L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il
vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né
costante; ma piuttosto incerto e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo.
Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata da poco; e
quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli
uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e
così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno che penso vi si possa fare
qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla
forma, non mi paiono marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto
che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.

Gutierrez: Voglia Dio questa volta ch’ella si verifichi.

È il dialogo sui "segni dei tempi". Anche Gesù invitò a non trascurarli.
Il Concilio, a sua volta, come materia di dialogo, proclama che è dovere della Chiesa
scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes, 4).

Igino Tubaldo




GLOBALIZZAZIONE / Un altro mondo non è possibile?

Egregio professor Panebianco

Vogliamo accettare un mondo dove 4 miliardi di persone sopravvivono con 2 dollari al
giorno? Un mondo dove alcune persone possono avere "stipendi" maggiori del
Prodotto interno lordo di interi paesi? Eppure in molti cercano di legittimarlo asserendo
che questo è l’unico mondo possibile. No, forse non è proprio così…

Egregio professor Panebianco, non sono mai stato un suo estimatore. Tuttavia, per avere
un’informazione il più possibile completa, anch’io leggo i suoi editoriali sul
"Corriere della sera".

"Un’idea pericolosa – lei scrive (Angelo Panebianco, Vanataggi globali e la
società chiusa, Corriere della Sera del 23 giugno 2001) – si va diffondendo. È
l’idea che i contestatori della cosiddetta "globalizzazione" abbiano più
ragioni che torti".

Il pericolo non sono i danni evidenti ed esplosivi prodotti dalla globalizzazione, ma
sono i contestatori della stessa. Questa sua affermazione ha dell’incredibile,
professore!

"Tutti costoro accettano troppo facilmente gli slogan degli antiglobalizzatori:
credono davvero che il potere di vita e di morte sui destini del mondo sia nelle mani di
un pugno di multinazionali".

Le multinazionali non sono un pugno, ma qualcuna di più: 63.459 secondo le statistiche
dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite.

Le 200 multinazionali più grandi rappresentano oltre il 30% dell’attività
economica mondiale. Il fatturato della General Motors è più elevato del prodotto interno
lordo della Danimarca; quello della Ford è maggiore del Pil del Sudafrica. Le entrate
dell’Ibm superano ampiamente il prodotto interno lordo dell’Argentina. E così
via. Davanti a numeri simili, chi può dubitare del potere di vita e morte delle
multinazionali? Però, proviamo ad immaginare che queste compagnie siano
"etiche" e, dunque, non abusino del loro potere. Andiamo a vedere, come direbbe
la Confindustria, quello che effettivamente fanno. Ebbene, l’elenco dei misfatti di
cui esse sono imputabili è lunghissimo. Ma facciamo pure qualche nome.

Le multinazionali statunitensi Chiquita, Dole e Del Monte posseggono i 2/3 del mercato
mondiale delle banane. Nel loro curriculum sta scritta una lunga lista di crimini
(sociali, ambientali e sindacali). Interi paesi latinoamericani (Honduras, Guatemala,
Costa Rica, Panama, Ecuador) sono stati segnati dalla loro nefasta presenza.

La Monsanto (Usa) e la Novartis (Svizzera), dopo aver inquinato mezzo pianeta con
pesticidi ed erbicidi, ora si sono buttate sulla manipolazione genetica, non per sfamare
il mondo, ma per instaurare un regime di monopolio sulle sementi.

La multinazionale alimentare Nestlè (Svizzera) è accusata di aver spinto per
l’utilizzo del suo latte in polvere a scapito di quello materno. Secondo
l’Unicef, un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno nei paesi poveri perché
non vengono nutriti con il latte materno, e altri milioni si ammalano.

Le multinazionali petrolifere sono tra i maggiori responsabili dei disastri ambientali
del pianeta. La Royal Dutch-Shell, per esempio, è famosa soprattutto per le sue
operazioni in Nigeria: contro l’ambiente (il fiume Niger) e il popolo degli ogoni.

E che dire del presidente George W. Bush? Tutti sanno che l’ex petroliere texano
ha trovato generosi sponsor nelle compagnie petrolifere statunitensi: Exxon-Mobil, Texaco,
Chevron, sopra tutti. Sarà un caso che, appena entrato alla Casa Bianca, il presidente
abbia dichiarato morto il protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas a effetto serra?

Caro professore, non c’è dubbio che le multinazionali costituiscano un enorme
pericolo per il mondo, soprattutto da quando, in nome del neoliberismo e della
globalizzazione, è passata l’idea di "stati leggeri", privi di un
effettivo potere di regolamentazione e controllo. Quello della perdita di potere degli
stati nazionali è uno degli effetti più subdoli della globalizzazione.

"Credono davvero che la globalizzazione accresca la povertà al di fuori del mondo
occidentale. Nessuno di loro è sfiorato dal dubbio che queste siano falsità. Nessuno di
loro è disposto, ad esempio, a prendere in considerazione il fatto, ampiamente
documentato, che, lungi dall’accrescere la povertà, l’apertura dei mercati
abbia, nell’ultimo decennio, contribuito potentemente a ridurla".

È proprio vero che in questo mondo tutto è relativo. Io non so quale documentazione
abbia in mano, professor Panebianco. Ma forse basterebbe che lei facesse un viaggio nelle
periferie di Lagos, San Paolo, Manila, Lima o di altre megalopoli del Sud del mondo. Le
statistiche più recenti parlano di un miliardo e 175 milioni di persone che sopravvivono
con un dollaro al giorno, mentre altri 3 miliardi ogni giorno portano a casa un po’
di più: 2 dollari (4.500 lire).

D’altra parte, la globalizzazione fa molto bene ai ricchi (chiamiamoli così): ci
sono stipendi annuali che superano il prodotto interno lordo di interi paesi (Charles Wang
della Computer Associated nel 1999 ha guadagnato 507 milioni di dollari) o patrimoni
personali che un paese potrebbero acquistarlo (Bill Gates con 58,7 miliardi di dollari è
il primo, ma anche Silvio Berlusconi con 10,3 non può lamentarsi).

Ghandi diceva: "Il mondo è abbastanza ricco per soddisfare i bisogni di tutti, ma
non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno".

"Il problema è sempre uno, da quando è nato il capitalismo: il conflitto fra i
fautori della società chiusa, tra quelli che pensano che il commercio senza barriere e
restrizioni porti, col tempo, benessere e libertà a tutti coloro che vi vengono
coinvolti, e quelli che lo intendono solo come una forma di sfruttamento e di oppressione
(oltre che, va da sé, di "mercificazione" dell’esistenza)".

Benessere per chi? Libertà di che? Nel mondo globalizzato la sola certezza è la
"libertà di profitto", indipendentemente dai costi sociali che questa produce.
Professore, si ricorda ancora di quella che si chiama "libertà dal bisogno"?
L’evidenza quotidiana dimostra che essa non sussiste per la maggioranza
dell’umanità. E poi, mi scusi, lei contrappone società aperte e società chiuse.
Allora perché paesi ultraliberisti come Argentina, Brasile e Messico sono periodicamente
sull’orlo della bancarotta?

Ma dove il suo ragionamento cade miseramente è davanti al fenomeno delle migrazioni. I
paesi dell’Occidente sono aperti? Lo sono per ricevere i capitali delle speculazioni
finanziarie, ma non per accogliere tutte le persone (donne e bambini compresi) che
scappano alla ricerca di un’esistenza dignitosa.

Lei sceglie il sarcasmo per liquidare coloro che parlano di sfruttamento, oppressione e
mercificazione dell’esistenza. Non è forse sfruttamento quanto avviene in moltissime
unità produttive del Sud del mondo, dove la gente (bambine e bambini compresi) è
costretta ad accettare condizioni di lavoro disumane? Non è forse oppressione non essere
liberi di vivere nelle proprie terre perché concupite da qualche multinazionale? Non è
forse mercificazione dover pagare per curarsi o rimanere in salute?

"Non colpisce il semplicismo del pensiero di certi portavoce del movimento
antiglobalizzazione (che immaginano il mondo retto da un governo occulto delle
multinazionali). (…) Poi ci sono le cose serie (…). Che poco sembrano interessare al
"popolo di Seattle" e ai suoi rispettabili simpatizzanti".

Normalmente, quando si accusa qualcuno di semplicismo, vuol dire che quel qualcuno sta
colpendo nel segno. Caro professore, al contrario di quanto lei asserisce, le cose serie
sono proprio quelle che il "popolo di Seattle" cerca di portare
all’attenzione dei cittadini del mondo: una democratizzazione delle istituzioni
economiche che dettano legge a stati e popoli (Organizzazione mondiale del commercio,
Banca mondiale e Fondo monetario internazionale); uno sviluppo sostenibile che non
distrugga foreste, mari, aria, acqua e non dia l’80% delle risorse al 20% della
popolazione mondiale; la tassazione delle operazioni finanziarie speculative (Tobin Tax),
per colpire quel mondo degli affari dove – come ha scritto John K. Galbraith – il senso di
responsabilità per gli interessi collettivi è nullo; la remissione del debito dei paesi
poveri; una ridefinizione del ruolo del mercato, che non è – come i sostenitori del
"pensiero unico" vorrebbero far credere – una legge di natura, ma una mera
invenzione umana.

 

Egregio professore, spero che il mondo che lei difende un giorno o l’altro si
frantumi sotto il peso delle proprie contraddizioni. Con l’aiuto di quel "popolo
di Seattle" (e di Porto Alegre) che lei liquida con accademica sicumera.

Paolo Moiola




MADAGASCAR: un angolo controverso di paradiso. Vivi e morti… inseparabili

Madagascar: quasi una grande zattera tra
Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e tradizioni diverse. E dove la morte
riesce a diventare "l’evento più importante della vita".

 

  Atterrando in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a
ridosso di un villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura
dalla terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Quando,
poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di Nosy-Be (isoletta a nord
del paese), si resta ancora più meravigliati dallo spettacolo. Si passa attraverso le
coltivazioni più disparate, dai profumi inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione;
nella stagione dei monsoni, sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi,
caduti così numerosi dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né
bocche per mangiarli.

Una decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con molte
case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una grande scuola, sulla
riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al Mozambico.

Nel gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente, nella
scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è diventata anche la mia
missione.

Vedendo un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla
scuola, mi è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata in
onore della Madonna Consolata: una piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da
piroghieri, motonauti, marinai, vacanzieri, pescatori… da tutti quelli, insomma, che
solcano questo lembo di Oceano Indiano.

Il piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di fondazione
dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del Madagascar. Una generosa
signora brianzola, devota da sempre della Consolata, ha sostenuto le spese
dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di preghiera per chi si
avventurerà su quest’isola di sogno!

 L’isola dei profumi

Nosy-Be, estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere,
esotica e modea, turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del
Madagascar, è di origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi negli antichi
crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le colture di canna da
zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E merita la reputazione di piccolo
paradiso.

Oltre la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e accogliente, sa
convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.

A Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande scuola di
1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema francese, parte dalla terza
all’undicesima classe. Le maestre sono suore malgasce ed è, ovviamente, cattolica,
anche se non si fanno differenze di religione. Accettiamo tutti, finché c’è posto.
Le varie religioni convivono senza alcun problema. E questo è bello.

I nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero, il
lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte tribù
rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con difficoltà a
pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.

Tuttavia la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i risultati
sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi, anche perché, molte
volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un occhio… Ultimamente siamo anche
riusciti a fare adottare i bambini più poveri, con grande sollievo dei genitori.

La scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi lungo la
spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e sorridenti,
rispettosi e vivaci.

Vivere per… morire

  Uno dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la
coabitazione (non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione tradizionale, che si
riduce alla venerazione degli antenati.

Le diatribe su questo problema continuano da 180 anni, da quando, cioè, il
cristianesimo è arrivato per la prima volta nella grande isola. Le opinioni divergono:
alcuni ritengono le pratiche dei morti in contraddizione con l’insegnamento di
Cristo; altri come una testimonianza dell’immortalità dell’anima.

La differenza di attitudine tra gli stessi cristiani ha portato a querele, destinate a
durare all’infinito. Fra l’altro, i riti ancestrali prevedono sacrifici di
zebù, funerali stabiliti dallo stregone e rivoltamento dei cadaveri dopo cinque-sette
anni dalla morte, per dare finalmente una sepoltura definitiva al defunto, che diventa
così "antenato".

Come tutte le religioni tradizionali africane, anche quella malgascia afferma che Dio
è buono, ma è lontano ed è meglio lasciarlo tranquillo. Si ha, piuttosto, paura dei
morti e si fa di tutto per tenerseli buoni. Gli antenati conservano la loro identità e i
legami familiari. La credenza considera che tutto il male che arriva in una famiglia
(incidenti, malattie, lutti, difficoltà economiche…) derivi dal mancato rispetto di
certi desideri dei defunti. Pertanto tutti (cristiani compresi) non cessano mai di
sottoporsi a costosi sacrifici in onore dei defunti: in occasione di un matrimonio,
l’acquisto di una piroga, la costruzione di una nuova abitazione. Così, per
tenerseli buoni!

In Madagascar si vive per prepararsi… a morire. La morte segna il passaggio dal rango
di "uomo" a quello di "antenato" ed è caratterizzata da tre cerimonie
fondamentali: i "primi" funerali; l’esumazione e il rivoltamento dello
scheletro (pulito con cura e pitturato di vernice bianca); il "secondo" funerale
(dopo cinque-sette anni), con nuovi sacrifici. In genere il defunto viene sepolto nel suo
campo. Molti di quelli che vivono in città lasciano come ultima volontà di farsi portare
nella terra di origine. "È la morte l’evento principale nella vita di un
malgascio" mi dice un vecchio tagliatore di canna a riposo.

Quando si attraversano le campagne, si incontrano sovente monumenti funebri, negli
stili più diversi, secondo le regioni. Il funerale è una festa e la sua importanza
dipende dalla ricchezza del defunto e dal numero di zebù messi a disposizione dei
partecipanti alle esequie. Alcune tombe, oate da centinaia di coa di zebù, indicano
palesemente la potenza dello scomparso.

A proposito: in Madagascar vivono più zebù che persone. Mentre gli abitanti sono
circa 15 milioni, gli zebù arrivano a 17 milioni e ogni famiglia ne possiede almeno uno,
che alleva per il prossimo lutto.

Frammenti di culture diverse

Non è possibile stabilire quale sia stata la stirpe originaria del Madagascar. Le 18
etnie principali che oggi l’abitano mostrano un’incredibile varietà di tratti
somatici, tanto da rendere impossibile ogni generalizzazione.

Crocevia geografico tra Asia, Africa, Arabia e occidente, in Madagascar si ritrovano
elementi culturali di mille paesi: il riso coltivato a terrazze come in Indonesia; le
piroghe a bilanciere dei polinesiani; i libri di magia scritti in arabo;
l’allevamento brado, caratteristico delle tribù seminomadi africane; i mercati e
negozi indiani; chiese cattoliche e protestanti, abbinate in ogni centro abitato;
l’amministrazione pubblica, fotocopia di quella francese.

L’isolamento millenario del Madagascar ha fatto sì che gli elementi portati da
ciascuno si mescolassero e sviluppassero in modo originale. Natura e cultura hanno seguito
una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Sulla grande "isola rossa" vivono molte specie di serpenti, ma nemmeno uno è
velenoso; moltissimi gli animali nella foresta, ma neppure uno feroce. Alcune specie di
animali ed uccelli sono veramente prolifiche nel Madagascar; famosissimi i lemuri,
proscimmie graziose e mobilissime, sovente considerate portatrici di malocchio dalla
popolazione (che li perseguita).

Quasi tutti i malgasci hanno la pelle nera, ma nella forma degli occhi, i capelli
lisci, i nasi stretti, gli zigomi sporgenti… si legge l’oriente che è passato di
qui. E si è anche fermato. Un villaggio tipico malgascio, anche il più sperduto, ha una
chiesa protestante, una cattolica e sempre un emporio con un cinese o un indiano dietro il
banco di vendita. No, i malgasci non amano il commercio e continuano pacifici sulla strada
della tradizione, che li vede da sempre agricoltori e allevatori di zebù.

Una cosa importante: non dite ad un malgascio che è africano! Il Madagascar non si
riconosce nel continente. Come una grande zattera che galleggia sull’Oceano Indiano,
l’isola si richiama piuttosto all’Asia, non senza una certa fierezza, dovuta a
parentele lontane e misteriose. La distinzione arriva talvolta a una certa forma di
razzismo, sul quale si è fondata la stratificazione sociale di oggi, ben prima
dell’arrivo dell’uomo bianco.

Al di là di tutte le teorie, il colore della pelle nera, bruna o chiara, è un
criterio essenziale di classificazione dei malgasci stessi tra di loro: più la pelle è
scura e meno l’origine è nobile. Una semplice osservazione della folla la dice più
lunga di qualsiasi discorso scientifico. Tinte nere, gialle o ramate, capelli lisci o
crespi, occhi stretti o molto aperti: il miscuglio è evidente e dà seguito a
combinazioni tra il tipo malese dalla pelle chiara, il nero oceanico e il nero africano.

La fusione delle razze è la conseguenza diretta di un popolo che ha tante origini
quante sono state le ondate migratorie negli ultimi 15 secoli.

È vero che il Madagascar occupa (ahimè!) uno degli ultimi posti in tutte le
classifiche e statistiche disponibili: 13° paese più povero del mondo, 5° più
"dipendente" dagli aiuti estei, 12° tra i più assistiti. È anche il
penultimo, dopo il Tibet, nell’uso di concimi chimici e, dunque, il secondo paese nel
praticare un’agricoltura biologica ed ecologica, grazie alla povertà dei contadini.
La condizione di miseria della "grande isola" sembra sfuggire a ogni logica.

Nonostante gli aiuti e il sostegno, il paese continua a sprofondare. E tutti gli
esperti concordano nel dire che l’isola possiede un potenziale enorme, che dovrebbe,
invece, permetterle di svilupparsi in fretta.

Noè Cereda




Corea del Sud: nella periferia di Inch’on (Seul). Accanto alla ferrovia

La piccola storia di una comunità di laici impegnati, che ha scelto di
"stare" con i poveri, in una periferia di città, per crescere insieme, anche
nella fede. L’esempio tenace e contagioso di Agnes, sorretta da missionari della
Consolata.

 

 Sin dagli inizi, la scelta di inserirsi nel quartiere di Man-sok- dong (alla
periferia di Inch’on – Seul) aveva suscitato in me curiosità e speranza. Immersi in
un ambiente emarginato, i missionari della Consolata avevano deciso di vivere con la
gente, con il proposito di condividere le stesse aspirazioni, recando il fermento del
vangelo, senza ricorrere a grandi strutture. In umiltà e solidarietà, si voleva gettare
il seme della Parola con la stessa speranza del seminatore.

Qualche articolo di Missioni Consolata e Amico aveva descritto gli inizi di tale
esperienza. Tra l’altro, si segnalava l’amicizia e la collaborazione con alcuni
giovani volontari del quartiere al servizio di minori.

Poi non ne seppi più nulla fino a poco tempo fa, quando incontrai i nostri missionari
a Seul. Chiesi loro di poter vedere Man-sok-dong e, se possibile, di rivolgere qualche
domanda ai giovani della "Sala di studio accanto alla ferrovia". O, se preferite
in coreano, "Kich’a kil yoph kong-bu pang". Fui accontentato.

Con l’aiuto di padre Luiz Emer, brasiliano, rivolsi alcune domande a Agnes Kim
Chum-mi,

la giovane donna che iniziò un’esperienza oggi punto di riferimento significativo
anche per la chiesa coreana, impegnata tra gli emarginati urbani.

Nel 2000 Agnes vinse pure un premio nazionale di letteratura, dedicata
all’infanzia coreana, prendendo lo spunto dalle tante storie di cui sono protagonisti
e vittime i bambini di Man-sok-dong.

    

Signora Agnes, la "Sala di studio" come sta aiutando i bambini del
quartiere?

A volte sembra che li stiamo aiutando, altre no. Guardando ad alcuni giovani che
conosco dal 1987 e che allora erano bambini, si può notare che sono cresciuti, anche se
continuano ad avere alcuni problemi. Sono giovani onesti, degni di fiducia e, per vari
aspetti, diversi dagli altri.

Molti ritengono che il criterio, per giudicare se li stiamo aiutando realmente, sia
l’"inserimento nella società": trovare un buon lavoro, guadagnare bene. Ma
noi non la pensiamo così. Il nostro obiettivo non è aiutarli ad "aggiustarsi e
adeguarsi" alla società e alla concorrenza, ma di farli vivere secondo i valori
della solidarietà e condivisione.

Quanto al lavoro con i minori, li aiutiamo nelle necessità di base. Terminata la
scuola, invece di andare in strada a giocare o fare i delinquenti, qui possono trovare un
ambiente adatto per studiare, fare i compiti con l’aiuto dei volontari. Pochi di
questi bambini vengono da famiglie "normali", con il padre e la madre uniti.
Allora cerchiamo di dare loro l’affetto che non ricevono in casa.

Ad alcuni diamo pure da mangiare, paghiamo la scuola e il materiale didattico,
compriamo i vestiti. Questo aiuto è necessario e non possiamo fare a meno di darlo, anche
se a volte stiamo male quando abbiamo l’impressione che i bambini e genitori
dipendono troppo da noi. Ci troviamo a sostituire i parenti in molte circostanze: e questo
non sarebbe il nostro ruolo. Perciò non sempre l’aiuto dato è l’ideale,
affinché tutti possano maturare.

Ciò che ci stimola è che i ragazzi, una volta cresciuti, si rendono conto del nostro
ruolo nella loro vita. Anche se, all’inizio, non hanno chiare le motivazioni per cui
noi volontari viviamo qui e ci dedichiamo a loro, poi sentono che si tratta di qualcosa di
diverso e apprezzano molto il nostro modo di vivere.

Lo sviluppo della vostra comunità ha influenzato i giovani di Man-sok-dong?

Dopo i primi cinque anni di presenza, è stato normale che i ragazzi venissero a
chiederci: "Fino a quando rimarrete qui?". Avevano paura che noi ce ne andassimo
e loro rimanessero privi di gente di cui fidarsi. Ma hanno visto che i volontari e le
volontarie si sposavano tra di loro, avevano dei figli e non "andavano e
venivano" come nei primi tempi, ma si stabilivano nel quartiere per condividere da
vicino la loro vita. Questo ha trasmesso sicurezza e la paura che la Sala di studio
finisse da un giorno all’altro è scomparsa.

Così non ci è più stata rivolta quella domanda.

Come si comportano i più piccoli?

Se con i ragazzi più grandi constatiamo che stanno ricevendo e "digerendo"
molte cose, con i piccoli la situazione è più problematica, perché è legata ai…
genitori. I bambini con cui abbiamo iniziato a lavorare provenivano da famiglie di
contadini, con genitori dai rapporti stabili che, pur poveri, si sacrificavano per i
figli. Ci riunivamo insieme e potevamo contare sul loro apporto per il bene dei figli.

Invece i genitori dei bambini che seguiamo ora sono cresciuti a Man-sok-dong, a non
molti chilometri da Seul (11 milioni di abitanti): i padri sono disoccupati e le madri non
mostrano grande interesse per i figli; entrambi facilmente abbandonano la famiglia.

 

Quali scelte pensate di fare per il futuro delle famiglie nella comunità dei
volontari?

Spesso la gente ci dice: "Vivere in comunità, semplicemente e poveramente, è una
scelta vostra; ma è giusto proporla anche ai vostri figli?".

Di una cosa posso parlare con certezza: le mie due figlie, come anche i figli degli
altri volontari, stanno crescendo secondo valori diversi da quelli della società odiea.
Saltano, giocano, piangono come tutti gli altri bambini; però, quando vanno in altri
ambienti (per esempio all’asilo o a scuola), le prime persone a cui si avvicinano e
di cui diventano amici sono i coetanei più sporchi o mal vestiti. Mia figlia maggiore, a
10 anni, sa già fare le sue scelte: pur avendo la possibilità di ricevere lezioni
speciali di arte nella sua scuola e dimostrando molto interesse in questo campo, è
l’unica a non approfittae, perché "gli altri compagni della comunità non
hanno le stesse opportunità".

Certamente per i nostri figli non è facile questo stile di vita, ma stanno imparando.

  Avete qualche altro "sogno nel cassetto"?

Stiamo pensando di iniziare una nuova esperienza: il lavoro "contadino".

La nostra comunità non deve solo vivere insieme e condividere, ma offrire anche
un’alternativa ad altre persone. Non si tratta di essere migliori degli altri, ma il
centro che intendiamo organizzare in campagna dovrebbe diventare "il segno della
trasformazione" che la Sala di studio sta assumendo. Così chi lo desidera e se ne
sente attratto potrà farvi parte. In città l’unico modo per sopravvivere è il
lavoro in fabbrica; in campagna, invece, saremo noi stessi in grado di produrre ciò che
consumiamo. Ma abbiamo ancora molte paure. Tuttavia questo è il nostro sogno: una
comunità aperta, non troppo grande.

Desideriamo andare in campagna, non solo per produrre il necessario e vivere
tranquilli, ma anche per aiutare meglio i bambini della città. I ragazzi (piccoli e
grandi) della Sala di studio, a causa della malnutrizione, l’abbandono e la mancanza
di un sereno ambiente familiare, hanno un livello di apprendimento che non supera il 30%.
Molti di loro, da adulti, seguiranno la strada dei genitori disoccupati, con nessuna
prospettiva di vita dignitosa.

La capacità intellettuale della stragrande maggioranza dei nostri ragazzi è stata
seriamente pregiudicata. Ma possono fare bene il lavoro manuale: lavorare il legno, ad
esempio; un’attività in cui sono maestri e che a loro piace… Osservando
realisticamente i bambini di Man-sok-dong, sappiamo che ben pochi riusciranno a terminare
le scuole superiori; per cui è necessario offrire loro un mestiere, evitando che vivano
come i genitori.

  Qual è stato il ruolo della fede nella tua vita e in quella della
comunità?

Ciò che mi ha spinto a chiedere di essere battezzata nella chiesa cattolica è stata
la testimonianza di un sacerdote, impegnato nella pastorale del lavoro, quando ero operaia
negli anni ’80. In seguito, allorché mi sono stabilita qui per fare qualcosa in
favore dei bambini, la fede è diventata fondamentale per me.

Ci sono stati momenti difficili, anche con i volontari della nostra comunità. La
situazione si è aggravata quando mi sono innamorata di mio marito, anch’egli membro
del gruppo da circa un anno. Ad alcuni non piaceva il nostro rapporto. Ed io, per la prima
volta in vita, pensai di fare qualche "sciocchezza", tanta era la sofferenza,
perché mi sentivo sola, abbandonata. È stato allora che ho incominciato a sentire più
forte la presenza di Gesù.

Ricordo pure che, all’inizio dell’esperienza, i volontari nel quartiere, se
ne andavano via tutti dopo poco tempo. In seguito, con l’arrivo di nuove persone,
abbiamo compiuto i primi passi come comunità.

Ma solo io ero cattolica e c’era un netto rigetto negli altri verso tutto ciò che
sapesse di religione. Ho tentato più volte di introdurre la lettura della bibbia nei
nostri incontri; ma gli uomini, soprattutto, hanno minacciato di abbandonare le riunioni
se l’avessi fatto.

  Quando hai conosciuto i missionari della Consolata?

È stato proprio in quel momento di tensione, quando i missionari della Consolata sono
venuti a vivere a Man-sok-dong. Per andare avanti, io continuavo a trovare forza nella
fede: era la base della mia vita.

Il significativo mutamento, dopo l’arrivo dei missionari, è incominciato quando
gli uomini della comunità hanno capito: è scomparsa a poco a poco l’avversione per
la religione e ci si è resi conto dell’importanza della fede, sia nella vita
personale che comunitaria. Con tale apertura molti, anche i volontari più giovani, hanno
mostrato interesse per la figura di Gesù Cristo e hanno iniziato a frequentare la
catechesi.

Così la crescita della comunità è stata grande e si è tradotta in un impegno
maturo. La fede in Gesù resta il fulcro, attorno a cui la comunità agisce.

   

Il futuro di Agnes e del marito Bartimeo, quello delle loro due figlie e della
comunità rimane aperto a nuove scelte, ma nella fedeltà ai valori di povertà,
solidarietà, condivisione e alla luce della parola del Signore. Il discernimento li ha
portati a rifiutare allettanti proposte (venute anche dalla pubblica amministrazione), per
scegliere i minori in difficoltà.

Qualcuno ha suggerito di espandersi e moltiplicare l’esperienza altrove; ma ad
Agnes e compagni è sembrato meglio, per ora, continuare il cammino secondo le intuizioni
e lo spirito che sentono propri. "È importante che pure altri trovino il loro modo
di scegliere il servizio tra gli emarginati e crescere insieme" ha commentato Agnes.

La comunità è attualmente composta da una quarantina di giovani, in maggioranza
sposati, residenti a Man-sok- dong.

Giano Benedetti




Colombia: Il governatore che sfida la storia

Una storia che significa violenza,
narcotraffico, ingiustizia. Lui si chiama Floro Alberto Tunubala Paja e appartiene
all’etnia "guambiana". Tra i potenti non ha molti amici. I paramilitari,
squadroni della morte assoldati da industriali e latifondisti, lo minacciano; i
guerriglieri delle Farc lo guardano con sospetto. Intanto, per difendersi dalle
aggressioni dei paramilitari, le comunità indigene hanno costituito una "guardia
civica", composta da volontari armati di… bastone. La strategia non violenta
adottata dagli indios ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e inteazionali.
Ma riusciranno a sopportare il peso di una partita tanto difficile?

 

All’inizio del nuovo secolo, per la prima volta nella sua storia, il dipartimento
del Cauca ha conosciuto un governatore indigeno. È Floro Alberto Tunubala Paja,
dell’etnia guambiana. È stato eletto nel mese di ottobre dell’anno scorso ed ha
cominciato a governare dal 1° gennaio di quest’anno.

L’elezione di Floro è avvenuta grazie a una coalizione che ha il suo punto di
aggregazione nel territorio di convivenza e pace della Maria Piendamo (**). Lì diversi
gruppi etnici (indigeni nasa-paeces, guambiani, negri, meticci), campesinos, lavoratori e
persino un gruppo di gente del mondo finanziario di Popayan (capoluogo del dipartimento)
hanno formato una coalizione, che è risultata vincitrice nelle elezioni. Tutti si sono
trovati concordi nell’unire le forze per cercare una soluzione a una situazione che
andava di male in peggio e una scena politica che non mostrava alcun segno di cambiamento
per il futuro.

Inutile dire che l’oligarchia di Popayan è rimasta a bocca aperta, perché non si
aspettava che vincesse le elezioni un indio (ancora oggi, questi è guardato con
alterigia, per non dire disprezzo) e neppure che vincesse un gruppo senza un referente
politico tradizionale.

Per loro sfortuna, all’inizio di quest’anno Floro è riuscito a formare in
seno al consiglio un gruppo di maggioranza che è dalla sua parte e che si professa
alternativo.

TRAGEDIA INDIGENA,

PROFITTI INDUSTRIALI

La situazione del Cauca non è certamente rosea. Il dipartimento presenta un debito
altissimo. C’è il problema della guerriglia e del narcotraffico, che si somma ai
consueti problemi (disoccupazione, fame, mancanza di educazione e salute ecc.). C’è
infine la cosiddetta "legge paez", una delle cause dell’esplosione di
violenza nella regione.

Questa legge è stata varata dopo il terremoto e la tragedia del fiume Paez in
Tierradentro, avvenuti il 6 giugno del 1994. La legge prende il nome degli indigeni del
luogo (che oggi preferiscono chiamarsi nasa), ma non comprende il loro territorio, troppo
impervio. Il relatore era un senatore liberale di nome Iragorri Hoaza.

Questo signore, un politico di vecchia data, si accorse che la zona industriale di
Yumbo, alla periferia di Cali, non poteva più ospitare fabbriche per motivi di
inquinamento e di spazio. Il senatore propose allora di portare le industrie nelle zone
più pianeggianti del vicino Cauca. Egli fece approvare una legge che incentivava chi
volesse costruire in quelle zone: crediti bancari agevolati, esenzione dalle imposte per
10 anni, acquisto della terra a buon prezzo.

Nella "legge paez" rientrano alcuni comuni, come Santander de Quilichao,
Caloto, Corinto, Miranda, Suarez, Buenos Aires e molti altri che si trovano nella parte
pianeggiante.

Per poter approfittare della legge e investire i loro capitali, gli industriali
volevano che ci fosse anche sicurezza e stabilità politica. Ma nella regione sono
presenti tutti i gruppi armati colombiani, che hanno scelto la zona per la facilità di
raggiungere altre parti del paese senza correre grossi rischi.

LA FEROCIA

DEI PARAMILITARI

Per garantire la stabilità, gli industriali e i grossi commercianti hanno pensato di
agire in proprio, organizzando gruppi paramilitari, anche conosciuti come squadroni della
morte. Dalla fine dell’anno scorso, i paramilitari hanno cominciato a fare pulizia,
sequestrando e uccidendo moltissime persone. Secondo dati ufficiali nei primi 4 mesi del
2001 nel nord del Cauca i paramilitari (e, in misura minore, la guerriglia) hanno già
ucciso più di 500 persone.

Hanno minacciato e continuano a minacciare il neogovernatore Floro. Hanno ucciso e
continuano a uccidere gente in Santander de Quilichao, Caloto, Corinto, Timba, Suarez,
Buenos Aires. I paramilitari sono persino arrivati alla Costa Naya, per raggiungere la
quale occorrono due giorni di cammino. Lì hanno massacrato più di 50 persone (secondo i
dati del governo) e le hanno tagliate con una motosega. Molti altri, che non sono
rientrati nei conteggi del governo, sono stati buttati giù dai burroni che si incontrano
in questo territorio. Questo è stato il massacro più orrendo fino ad oggi.

L’obiettivo dei paramilitari è la difesa del capitale industriale. Per
raggiungere questo scopo, i gruppi mercenari attuano una sorta di pulizia generale
preventiva: eliminano drogati, ladruncoli, persone incomode e, naturalmente, chiunque
abbia idee vicine a quelle della guerriglia marxista. Il problema è che in questo modo i
paramilitari stanno uccidendo moltissima gente innocente. A Santander de Quilichao non si
può camminare con sicurezza: molti indigeni, arrivati dalle montagne per il mercato,
vengono sequestrati per avere informazioni o per essere arruolati con loro.

Dall’altra parte, c’è la guerriglia delle Farc. Siccome non si sa come
andranno a finire i dialoghi di pace nel Caquetà, molti guerriglieri si stanno spostando
su queste montagne e cercano di convincere le comunità indigene a schierarsi dalla loro
parte. Ma gli indigeni resistono e con più insistenza rivendicano la loro autonomia
territoriale. Per questo non vogliono che alcun gruppo armato entri in terra di resguardo
(la riserva indigena).

Poiché nella zona montagnosa si muove la guerriglia, i paramilitari accusano gli
indios di essere guerriglieri e quando possono li sequestrano o li uccidono. D’altra
parte, per il fatto che le autorità indigene sono andate a cercare sulle rive del fiume
Cauca (verso Timba) la gente sequestrata dai paramilitari, la guerriglia accusa le
autorità indigene di essere amici di questi. Insomma, come si può comprendere, gli
indios si trovano tra l’incudine e il martello.

LA GUARDIA INDIGENA

E IL BASTONE DELLA PACE

In mezzo a tutto questo, i diversi governatori dei cabildos (qui opera la ACIN, che è
il gruppo dei 15 cabildos della zona nord), a cominciare dal cabildo indigeno di Jambaló
(dove chi scrive opera), hanno organizzato una guardia civica, la quale controlla le vie
di accesso al resguardo, chiudendo il transito a moto, macchine, persone a piedi o a
cavallo dalle 6 del pomeriggio alle 4 del mattino.

Questa guardia civica è volontaria ed è formata da gente della stessa comunità.
Tutte le sere si ritrova nei punti strategici, mette un grosso tronco di albero in mezzo
alla strada e semina chiodi. Altri volontari perlustrano i diversi sentirneri per vedere se
incontrano gente forestiera. Se si trovano persone della stessa comunità si trattengono
fino al mattino, così che le fila dei vigilanti si ingrossano.

Poiché la guardia è civica, non si usano armi. L’unica arma, se così si può
chiamare, è un bastone di un metro.

Quando si è promossa l’idea di questa guardia, sono sorti molti interrogativi. Il
più forte era cosa avrebbero potuto fare delle guardie armate soltanto di bastone di
fronte a gente (guerriglia, esercito, paramilitari) che impugna armi. La risposta è stata
che la vera arma della guardia è l’appoggio di tutta la comunità e che gli indigeni
non devono lasciarsi coinvolgere nella violenza. Si sono fissate alcune strategie per
avvisare la gente in caso di pericolo affinché abbia il tempo per nascondersi. I
volontari che si stanno prestando a questo servizio lo fanno con molta responsabilità,
coscienti dei pericoli che si corrono, ma senza paura.

Diceva una guardia in una riunione: "Mi possono anche uccidere, però è
importante che si salvino gli altri della comunità". Un altro diceva: "La cosa
più importante è il piano di vita che abbiamo predisposto come comunità. Noi ci
muoviamo sempre in gruppi numerosi: potranno uccidere qualcuno, però non riusciranno a
ucciderci tutti".

Fino ad oggi, la guardia civica ha già avuto degli scontri verbali con la guerriglia
che non voleva rispettare i posti di blocco. Però la stessa guerriglia si rende conto che
la gente è a favore del cabildo e della guardia e non dei gruppi armati. Sapendo il
pericolo che corre la popolazione civile, i cabildos si stanno adoperando per avere un
appoggio nazionale e internazionale.

TRA MARCE E PREMI,

LA STRATEGIA INDIGENA

A livello nazionale, l’anno scorso, il "progetto Nasa", come
rappresentante di tutti i progetti della zona nord, ha ricevuto il premio nazionale per la
pace e questo riconoscimento ha fatto risuonare una volta in più la voce e la presenza
delle comunità indigene nel paese.

Nel marzo di quest’anno si è tenuto l’XI Congresso del CRIC
(l’organizzazione indigena del Cauca, fondata 30 anni fa), con la presenza di 80
cabildos e di molte organizzazioni nazionali e inteazionali (in maggioranza Ong) e uno
dei temi è stato quello dell’ordine pubblico. Come impegno e conclusione di questa
riflessione sono nate due marce. La prima era per protestare contro l’uccisione di 8
studenti nel parco nazionale di Purace per mano delle Farc; la marcia si è fatta nella
settimana santa ed è terminata con una eucaristia la domenica di Resurrezione nel parco
dell’eccidio.

L’altra marcia, che aveva per nome "Convivenza senza violenza", si è
realizzata dal 14 al 18 maggio, partendo da Santander de Quilichao e terminando a Cali con
una udienza pubblica per protestare contro la violenza che sta colpendo i dipartimenti del
Cauca, Valle e Narino; per richiamare l’attenzione delle autorità sulla situazione
che stanno vivendo le persone di queste regioni; per denunciare di fronte agli organismi
inteazionali le continue violazioni dei diritti umani; per sottolineare
l’indifferenza del governo su questi fatti ed esigere misure di protezione per tutta
la gente che si trova minacciata.

La partecipazione della gente è stata straordinaria. Alla marcia da Santander a Cali
hanno partecipato 40.000 persone: c’erano indigeni, campesinos, gruppi urbani, negri
e tutte le persone che sono state toccate dalla violenza. Hanno accompagnato la marcia
anche alcune suore, sacerdoti e logicamente tutta la nostra équipe missionaria.

A livello internazionale, c’è stato un incontro in Canada tra indigeni e
rappresentanti di varie organizzazioni, non solo colombiane.

Ezequiel Vitonas (ex sindaco di Toribio) ha espresso la posizione politica delle
comunità indigene, difendendo la loro autonomia. Ha messo in risalto come sia il governo
colombiano sia la guerriglia non vogliano che gli indigeni sopravvivano in Colombia con il
loro piano di vita (ovvero i piani di sviluppo da loro elaborati). L’esposizione di
Ezequiel ha attirato le critiche di chi aveva sostenuto che la guerriglia difende gli
interessi dei poveri e quindi anche degli indigeni.

Ezequiel ha ribattuto che gli indigeni sono autonomi e si difendono da soli e non hanno
bisogno della guerriglia. Questo battibecco ha fatto sì che i guerriglieri delle Farc
mettessero in internet (in molte lingue, tra le quali l’italiano), che il CRIC li sta
calunniando, accusandoli di uccidere e minacciare leaders indigeni.

Sempre nell’ambito della marcia internazionale, grazie alla signora Martha
Cardenas della Ong FESCOL, i giorni 7 e 8 giugno a Maria Piendamo e a Toribio ci hanno
visitato il famoso giudice spagnolo Baltazar Garzon, il rappresentante dei diritti umani
dell’Onu Anders Compas, quello della cooperazione spagnola Vicente Selle e altre
personalità dell’ambasciata di Spagna per raccogliere informazioni sui massacri che
si sono avuti in questo periodo. Il giudice Baltazar Garzon, nell’ascoltare le
testimonianze della gente del Naya, ha commentato che questi massacri sono peggiori di
quelli imputati al dittatore cileno Pinochet.

Nella riunione che il giorno 8 si è tenuta nel CECIDIC, la comunità ha nominato tutte
queste personalità come ambasciatori degli indios nei loro posti di responsabilità e
nelle loro nazioni.

Con queste iniziative, si vogliono rivendicare i diritti dei popoli indigeni. Si
capisce con chiarezza che gli indigeni colombiani stanno cercando di costruire una
società civile fondata sul dialogo e non sulla violenza.

ACCOMPAGNAMENTO

In un contesto tanto difficile, l’équipe missionaria sta accompagnando la
popolazione, cercando di illuminare la situazione con la testimonianza di Gesù e del suo
Regno in tempi di conflitto.

Si fanno corsi per i volontari della guardia civica su relazioni umane ed etica. Si
cerca di dare concreto appoggio alle famiglie che sono state colpite dall’uccisione
di qualche loro membro. Con le autorità locali si vanno a cercare le persone sequestrate.
Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si ritorna a mani vuote. Però anche questo,
pensiamo, è la dimostrazione che non ci vogliamo rassegnare a perdere gente e a restare
passivi davanti alla situazione.

Rinaldo Cogliati