Anche lui deve quadrare

T orino, 27 aprile, ore 22,30. In Corso Ferrucci 14, ci imbattiamo in un picciotto di Messina, un toso di Padova, un guaglió di Napoli e un bagai di Como. Con altri 230 camerati, partecipano al Convegno nazionale «Santità è missione» dei seminaristi diocesani. Tutti sui 22-25 anni. A Torino, dal 26 al 29 aprile, sono ospiti dei missionari della Consolata, anche per celebrare insieme i loro 100 anni di vita.
Il picciotto ci domanda: «È possibile far quadrare Dio?». Strabuzziamo gli occhi. Al che, il guaglió racconta: «Oggi pomeriggio, dalle 15 alle 22, abbiamo percorso il quadrilatero della santità». E il toso precisa: «Abbiamo visitato i luoghi dove hanno operato quattro grandi personaggi: il rondó della forca di Giuseppe Cafasso, l’oratorio di Giovanni Bosco, la casa della provvidenza di Benedetto Cottolengo, il santuario della Consolata di Giuseppe Allamano». «È questo il quadrilatero della santità» conclude il bagai.
Ed è così che, secondo il quartetto, si può «far quadrare» anche Dio.Ossia renderlo vicino, interessato, operoso, alla portata di tutti, specialmente dei poveri. Non distante e isolato sul Monte Kenya, come Ngai dei kikuyu tradizionali. Né chiuso in un tabeacolo, come una cassaforte o un fortino.
Per far quadrare Dio, il Cafasso accompagnava al patibolo i condannati a morte: non solo li incoraggiava, ma li rendeva persino felici di fronte ad una sorte infame. Don Bosco giocava con i ragazzi più difficili e, soprattutto, li coinvolgeva con grandi ideali. Il Cottolengo si chinava sugli ammalati, per «lavare loro i piedi». L’Allamano «ha globalizzato un santuario buio e stretto», per farci entrare e cantare anche i «pagani» e gli «incivili» dell’Africa.

G lobalizzare il santuario: è un’altra originalissima espressione del quartetto seminaristico. Forse è nata ascoltando Giovanni Paolo che, proprio durante il Convegno missionario (il 27 aprile), è ritornato a parlare di globalizzazione. Il fenomeno, a priori, non è né buono né cattivo. Sarà ciò che gli individui ne faranno.
Qualcuno ne ha fatto un’alleanza fra società e dio-mercato, con sei comandamenti.
1. Non impedire la costruzione del mercato mondiale. 2. Lascia che il mercato si autoregoli e aiutalo a svincolarsi dallo stato. 3. Liberalizza.
4. Privatizza. 5. Sii competitivo. 6. Non ostacolare l’espropriazione.
Sono comandamenti anche pericolosi: rispondono troppo alla logica del profitto individuale.
Alla globalizzazione il papa pone due limiti invalicabili: la persona, fonte di ogni diritto e ordine sociale, nonché il rispetto della diversità di tutte le culture. Comprese quelle nel sud del mondo. Altrimenti la globalizzazione è colonialismo.
E i conti… non quadrano affatto.
Francesco Beardi

Francesco Bermardi




Lettere: cari missionari


Che significa «gonzo»?


Spettabile redazione,

vi
ringrazio di aver pubblicato la mia lettera (Missioni Consolata, marzo
2001). Mi dispiace solo che, con i tagli (anche se condivisibili), il tono
generale della lettera (che era aspro ma fraterno) sia apparso ostile.
Però le parole forti usate (ho dato del «gonzo» a chi odia Berlusconi) non
mi suonano come insulti, ma il linguaggio colorito di due persone che
parlano animosamente, ma vogliono senz’altro intendersi.

In un
contesto più formale confermo l’aggettivo: sono fortemente convinto che
sia gonzo chi, qui e oggi, nel panorama politico italiano e con la storia
recente che abbiamo (i grandi ideali periti miseramente; il grande partito
moderato che, all’ombra del cattolicesimo militante, ha fatto il bello e
cattivo tempo; la parabola craxista…), si senta di amare a rotta di
collo chicchessia e di odiare il suo antagonista.

Mi fa
ridere (cioè pena) chi oggi amasse acriticamente Berlusconi o Fini e
odiasse Veltroni o Rutelli. Criticare, parodiare, avversare,
simpatizzare… senz’altro. Ma odiare è da gonzi (è assai pericoloso,
specie considerando il pulpito da cui si parla).

Non ho
capito, nel vostro commento, il «distinguo» tra gli applausi al papa e
quelli a Berlusconi nel Meeting di Rimini. È naturale che «una cosa è la
dottrina sociale del papa, un’altra quella del cavaliere» (ci manca solo
che al Berlusca gli si faccia fare anche il papa). A me pare che
l’applauso di Rimini dimostri che i miei argomenti non erano fuori tema…
Sono contento che abbiate stimolato il dibattito, specie fra i cattolici.


Luigi Fressoia
Perugia

A
proposito di «gonzo», Il vocabolario della lingua italiana di G. Devoto e
G.C. Oli recita: «persona tarda e stupida (anche come epiteto
ingiurioso)».

Tutti
mercanti


Egregio direttore,


intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul
numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e
sinistra.

Ho
sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e
ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri».
Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che
amarezza!


Francesco Benegiamo
Galatina (LE)


Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.


Ipocrisia «armata»

Signor
direttore,

la
lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando
afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e
culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca.
Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione
sociale e culturale»?

Quanto
al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori
rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono
anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con
parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le
guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato
libero della globalizzazione…

La
verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di
altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare.
Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.


L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille
problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di
fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più
industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse
il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E,
dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.


Alessandro B.
Modena

Nel 2000
l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi
non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila
vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto
delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma…
l’Italia è terza al mondo in questa «specialità».

Un
tesserato della… speranza

Signor
direttore,

sono
stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che
descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso.
Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e
«neoliberalismo».


Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e
distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».

Il
liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con
un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al
feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo
reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la
politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande
capitale.

Anche
il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in
quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in
«basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo
studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti
nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le
persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status
quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del
partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie
dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.

A mio
avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed
economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal
liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione
mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico
si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».


Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle
organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura
e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito
della paura descritto da Fromm. Perché?

Perché
si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti
economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in
contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».

In Perù
ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto
Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho
anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole
trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business
per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio
sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno
può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui
regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.


Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e
spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni
Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime
elezioni.


Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai
vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele
Vaccaro, di rivolgere un invito.

«Per
vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo
neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che
ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che
si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che
permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la
subordinazione degli altri».

Cresciuta
con… voi

Cari
missionari,

ho
letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono
professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da
Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono
dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.

Vi
mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa
dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio,
l’era multirazziale.


Immacolata Antonacci
Capurso (BA)

Eccola
Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in
compagnia dei genitori.


Padre Giovanni Milo

Caro
direttore,

sono un
fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di
cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da
profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto
avete fatto per lui.

So che
padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha
dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho
riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del
luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo
nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.

Accludo
anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre
Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza
che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.

Michele
Milo
Patù (LE)


Eri il
vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:


«C’è tempo
per le cose del cielo,


Dio vuol la
primizia


e non i
miseri resti».


Io rimasi
colpito


di quanto
dicesti.


Or hai
lasciato



tragicamente


questa vita
terrena



improvvisamente.


Nella tua
vita,


primizia tu
hai dato


e colmo
d’amore


a Dio sei
arrivato.



Francesco Petracca

Nessuno
sconto

alle
mine antiuomo

Caro
direttore,

mi
riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata,
marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe
cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni,
sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno
dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).

Non
dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende
produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società
Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997,
nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un
nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di
ordigni militari da destinare al mercato mondiale».

Uniamo
dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla,
che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice
(si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale.
Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a
incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.

Non
dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata)
dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai
funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi
il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK
82 di proprietà della SEI.

È stata
proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella
Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e
metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in
decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e
animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che
giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che
portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito
della bonifica.


Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di
Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona
(probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi
e braccia.

La
costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a
un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita
di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.


Francesco Rondina


Fano (PS)

Varie
volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate
dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

La
verità è verità


Spettabile redazione,

ho
letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della
Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo
dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte
dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.


Claudio Simonetti


Cumiana (TO)

Signor
Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

cari
missionari box 1

Mau mau,
missionari della Consolata… e

La lettera
dell’«inafferrabile»

Ritengo
opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata,
febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau
mau
in Kenya.

Il
direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove
insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro
Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho
tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il
Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau,
ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata.
Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al
nostro risorgimento.

Invito a
leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su
Missioni Consolata
, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi,
protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu
attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un
popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e
perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere
conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte
e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano
morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534;
europei 63; civili 32.

Come si
comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo
della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa,
raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia
della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una
chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo
.

«Fra i
missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco
Comoglio
come loro leader spirituale per tutto ciò che fece.
Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani,
anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì
tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un
notevole coraggio».

«Padre
Bartolomeo Negro
fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo,
generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò
amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie
della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse
durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».

«Nel 1954
la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato
dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio.
Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre
Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano
contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di
tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

Allego
pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a
padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio
dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su
Wathiomo Mukinyu
, settimanale della diocesi di Nyeri.

Silvana
Bottignole – Torino

Ecco
la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza
della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.

Caro
Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta
per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono
indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.


Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non
appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non
mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi.
Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di
speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche
il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi
spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro
Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così
felice.

Ho il
problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che
possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi
anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà
tanto addolorata.

Mia
moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata.
Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché
si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di
Mathari, così da essere accanto alla chiesa.

Addio a
questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non
incontrerò più in questo mondo nervoso.


Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi
a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro
padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.


Dedan Kimathi

cari
missionari box 2


L’imbarazzo del buon Dio

Cari
missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno
2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata
battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella
del nonno, devota della Vergine Consolata.


Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a
letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva
colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e
invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente
alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di
nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile
decadimento fisico e psichico.


Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho
chiesto aiuto a Lei, la Consolata.

Ora
desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la
tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una
«finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti
uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la
carità.


Lettere
come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche
quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.

E grazie
pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:

Cari
missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa,
ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.

Sono
una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto
95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un
po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore,
se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».

Da parte
nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo
anche il Padre Eteo.

AAVV




Viaggio nella società dell’AIDS. LA NUOVA PESTE (e la vecchia fame)


«Vediamo arrivare nei nostri reparti pazienti africani che
hanno risparmiato soldo su soldo per venire qui a farsi curare. Li
rimettiamo in piedi, pur sapendo che la maggior parte di loro non avrà i
mezzi per continuare la cura, quando toerà a casa»


(Martine Bulard,

“Le Monde
Diplomatique“)


Il
punto della situazione


Correva l’anno 1981

Conosciuta
soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita nota con
l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti, per tre quarti
africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande senza
controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati
deludenti. Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura
lotta contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali
contro l’Aids sono acquistabili da un’esigua minoranza.

di Guido Sattin (*)

IL
PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore
disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero
potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno
totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di
morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3
milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75
milioni di dollari. Niente, appunto».

A fare questa
dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione
non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D.
Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard,
consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti
economisti a livello mondiale.

Pochi mesi fa, la
dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università
Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga
conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta
aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS
conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma
questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati
per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi
come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in
Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di
sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10
anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».

E l’economista Sachs,
con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti
devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo
sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto
negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed
infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno
già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel
continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor
meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di
massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più,
quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai
danni».

È interessante e,
allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti
queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un
problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.

UN
PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired
Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una
malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in
pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e
propria pandemia.

I primi casi sono
stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi,
colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad
esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza
da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati
hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human
Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana),
successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto
morto in Africa nel 1959.

Da dove è venuta
questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata
indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell
Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile
all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali
dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e,
successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di
là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe
raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in
Europa e in tutto il mondo.

Per ciò che concee
le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono
descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.

Il I patte
comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord
Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto
tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno
contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola
percentuale.

Nel II patte,
comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei
soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto
uomo-donna di circa uno ad uno.

Il III patte (Asia-Pacifico,
Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto
probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes,
si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In
questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei
casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far
scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.


UN PROBLEMA POLITICO
ED ECONOMICO

La pandemia sta
distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo
dalle parole della dott.ssa Sanchez.

«In Perù, se vuoi
entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di
essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A
pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta
dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il
programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a
pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti
sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o
l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi?
Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di
quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che
qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e
potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le
Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno
morendo».

Semplicemente e con
poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa,
Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di
peste vissuta in Europa nel corso del 1300.

L’impossibilità di
curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si
diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento
in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi
l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e
prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per
l’alto indice di natalità.

Quanto detto sopra è
chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto
fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con
un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad
influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che
raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi
1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita
quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.

Anche il semplice
preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un
lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno
tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di
disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE
FARE DAVANTI A
UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il
segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del
2001?

«Nei suoi due
decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -,
l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i
continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri,
nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita
in una vera emergenza mondiale».

«Nella dichiarazione
del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente
riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si
impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus
dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai
bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad
acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della
pandemia e di altre malattie infettive».

Più avanti Kofi
Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far
fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di
infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi,
specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione
servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi
industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche
che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».

Quindi il segretario
generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce
l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».

Il lungo documento,
dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista
Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide
milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce
famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e
minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità
politica delle nazioni».

«Gli effetti
negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in
tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e
sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza
lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola,
su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale,
le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della
crescita economica prevista».

SFIDA
ALLA SICUREZZA

La mia vicina di
casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del
quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.

La dott.ssa Sanchez
ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza
dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva
essere concentrato sull’informazione/educazione.

Nella mia città,
Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le
testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era
munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la
peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.

La nostra società
invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere
che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure
nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.

In un passo del suo
discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle
regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di
sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di
funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e
destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale
sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e
debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori
pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società,
debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita
dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza
nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed
estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla
sicurezza dell’umanità».

La sfida all’AIDS
deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena
aperto.


DISEGUAGLIANZA
SOCIALE

Oggi è l’AIDS,
domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io
sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema
non è solo sanitario, ma anche economico e politico.

Dobbiamo impegnarci
a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la
diseguaglianza sociale.

(*) Guido Sattin,
medico-igienista di Venezia, cura per la nostra rivista la rubrica medica
«Come sta Fatou?».

Le
parole dell’Aids


GLOSSARIO ESSENZIALE


Aids
:
«Sindrome da immunodeficienza acquisita» (Acquired immunodeficiency
syndrome), una grave malattia causata dal virus HIV, che distrugge le
difese immunitarie dell’organismo, soggetto di conseguenza a gravi
infezioni «opportunistiche» e a talune forme di cancro.

Anticorpi:
sostanze secrete dai linfociti B in risposta all’aggressione
sull’organismo di sostanze conosciute come antigeni. Ogni anticorpo è
specifico per un particolare antigene. Nel caso del virus HIV, non tutti
gli anticorpi prodotti sono neutralizzanti. Nonostante la loro presenza,
il virus conserva la sua potenza distruttiva.

DNA:
acido desossiribonucleico, una molecola di grandi dimensioni che conserva
le informazioni genetiche e costituisce il fondamento dell’ereditarietà.

Elisa:
abbreviazione di «Enzyme Linked Immuno-Sorbent Assay» (saggio di
assorbimento legato a enzima o metodo immuno-enzimatico). Si tratta
dell’esame sierologico (del sangue) più usato per stabilire se il corpo
abbia reagito alla presenza del virus HIV.

Epidemia:
l’insorgere di una malattia, temporaneamente ad elevato rischio di
diffusione. L’insorgenza e l’estinzione di un’epidemia dipendono da
fattori quali la gravità della malattia, le modalità di trasmissione
dell’agente infettivo, le condizioni ambientali, la durata
dell’incubazione e l’esistenza di portatori sani (asintomatici). È
indispensabile elaborare le strategie per combattere un’epidemia sulla
base di questi fattori. L’infezione da HIV può essere trasmessa, ma non è
a elevato rischio di contagio. Il periodo di incubazione è lungo.

Epidemiologia:
studio delle cause di insorgenza, scomparsa o diffusione delle malattie.

Eziologia:
studio delle cause delle malattie.

HIV:
il virus dell’immunodeficienza umana, che causa l’Aids. Di questo virus
esistono due tipi principali: HIV-1, responsabile della pandemia mondiale
dell’Aids, e HIV-2, anch’esso causa dell’Aids e diffuso principalmente in
Africa occidentale.

Immunosoppressione:
riduzione dei meccanismi di difesa immunitaria dell’organismo.

Incubazione:
intervallo tra il momento in cui il corpo viene in contatto con il
microrganismo e il momento della comparsa dei primi sintomi della
malattia. Nel caso dell’Aids, il periodo di incubazione è molto variabile;
può durare da alcune settimane a mesi o persino ad alcuni anni.


Infezione opportunistica: infezione
indotta da un microrganismo di solito ben tollerato dall’organismo, che
può diventare patogeno quando le difese del corpo son depresse. Le
manifestazioni più gravi di Aids sono causate da infezioni
opportunistiche.

Leucociti:
cellule del sangue responsabili della difesa dell’organismo da agenti
estei.

Preservativo:
protezione in lattice da applicare sul pene in erezione, quando l’uomo è
sessualmente eccitato. Può essere usato come metodo di contraccezione e di
prevenzione di malattie veneree.

Prevenzione:
misure individuali o collettive finalizzate a limitare o a evitare il
rischio di un incidente o malattia, riducendone le conseguenze e curandone
gli effetti. Nell’ambito sanitario, la prevenzione comprende provvedimenti
sociali nonché strettamente medici.

Retrovirus:
virus il cui materiale genetico è composto da RNA, ma che è trasformato
nella cellula in DNA da uno speciale enzima, la transcriptasi inversa. Il
virus HIV è un retrovirus.

RNA:
acido ribonucleico. Trasmette le informazioni genetiche conservate dal DNA
nella cellula. Tutto il materiale genetico del virus dell’immunodeficienza
umana è costituito da molecole di RNA.

Sieropositivo
o HIV-positivo
: soggetto che risulta positivo al test per la
ricerca di anticorpi anti-HIV. Egli è venuto in contatto con il virus HIV
e dovrebbe essere considerato potenzialmente contagioso tramite il suo
sangue e i rapporti sessuali. Quando il test non individua anticorpi, il
soggetto è detto «sieronegativo» o «HIV-negativo».

Sindrome:
un insieme di sintomi e segni che possono costituire il comune
denominatore di certe malattie. La sindrome da immunodeficienza
costituisce la caratteristica essenziale dell’Aids, ma può verificarsi
anche in altre patologie, come nelle malattie congenite o tumorali
(leucemia), o può essere indotta da farmaci (terapia immunosoppressiva nei
pazienti sottoposti a trapianto).

Sistema
immunitario:
tutti i meccanismi che intervengono a difendere
l’organismo contro i cosiddetti antigeni, cioè agenti estei (batteri,
virus, parassiti) o sostanze tossiche. Il sistema immunitario riesce a
distinguere gli aggressori presenti nell’organismo stesso da quelli
estei. Può riconoscere i nemici aggressivi, quelli contro i quali è già
in possesso di difese (naturali o acquisite). Sa organizzare il giusto
attacco agli antigeni. A questo scopo usa: gli anticorpi (o
immunoglobuline) presenti nel flusso circolatorio (risposta «umorale»);
cellule specifiche chiamate linfociti B e T, capaci di riconoscere gli
antigeni, organizzare la risposta e produrre nuovi anticorpi (risposta
cellulare); i macrofagi che intervengono dopo i linfociti e gli anticorpi.
I linfociti T4, che cornordinano le difese immunitarie, sono cellule
strategiche che costituiscono il bersaglio del virus HIV, che le paralizza
e le distrugge.

STD:
sexually transmitted disease (malattia venerea trasmessa), cioè qualsiasi
malattia che può essere contratta attraverso i rapporti sessuali. L’Aids è
essenzialmente una malattia venerea trasmessa.

Virus:
agenti infettivi responsabili di numerose patologie in tutti gli esseri
viventi. Si tratta di particelle piccolissime (visibili soltanto al
microscopio elettronico) che, diversamente dai batteri, possono
sopravvivere e moltiplicarsi solamente all’interno di una cellula vivente
a spese della cellula stessa.

In
sintesi


22 MILIONI DI MORTI

Il 70% degli adulti
e l’80% dei bambini sieropositivi vivono in Africa, così come sono
africani i 3/4 dei quasi 22 milioni di morti dall’inizio della pandemia.

Si stima che
nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si siano infettate nell’Africa a
sud del Sahara e che 2,4 milioni di persone siano morte per AIDS.

Si stima che circa
25,3 milioni di africani siano sieropositivi o ammalati di AIDS conclamato
ed in 16 paesi più di un adulto su dieci (dai 15 ai 49 anni d’età) sia
infettato.

Attualmente l’AIDS
è la principale causa di morte in Africa. Nel mondo ci sono 13,2 milioni
di bambini orfani per AIDS e fra questi 12,1 milioni vivono in Africa.

In alcune zone
dell’Africa Sub-sahariana nel 2000 il numero di nuovi infettati, per la
prima volta, non è stato maggiore dell’anno anteriore; ma si pensa che ciò
sia dovuto al fatto che la lunghezza dell’epidemia ha già coinvolto un
numero tale di adulti sessualmente attivi, che sono sempre meno quelli
ancora non infetti e quindi suscettibili di nuova infezione.

Nei paesi dell’ex
Unione Sovietica si registrano alcune delle tendenze più drammatiche
dell’epidemia. Solo nel 2000 ci sono state nella Federazione Russa più
nuove infezioni che la somma di tutti gli anni anteriori; ciò sarebbe
dovuto ad una complessa combinazione di crisi economica, rapidi
cambiamenti sociali, aumento della povertà e della disoccupazione, aumento
della prostituzione e a cambiamenti nelle abitudini sessuali della
popolazione.

La mortalità a
conseguenza dell’AIDS è discesa considerevolmente nei paesi ricchi nel
decennio del 1990 grazie fondamentalmente all’efficace terapia retrovirale
nei sieropositivi, che allunga la vita degli stessi. È però calato il
lavoro di prevenzione: 30.000 persone si sono infettate in Europa
occidentale e 45.000 nell’America del Nord nell’anno 2000.

Con una prevalenza
del 15% che duri nel corso della vita, moriranno più della metà di coloro
che oggi hanno 15 anni di età. In Botswana, dove c’è una prevalenza del
36%, più del 75% morirà di AIDS. In alcuni paesi questa tendenza sta
cambiando la piramide tradizionale della popolazione, e la nuova avrà la
forma di un camino con una base più stretta di giovani e bambini. Il
cambiamento più drammatico della piramide avrà luogo quando i giovani
adulti, infettati in età precoce, inizieranno a morire di AIDS.


Aids tra scienza e coscienza

Ma
se l’è proprio cercata?

Nel tunnel
chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce, dopo il
buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo, anche se dal
Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo (finora proibitivo) dei
farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti. Specie quando si
deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

di Giancarlo
Orofino (*)


Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di
natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno
Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si
brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una
nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi
dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani)
non ci saranno più?».

Quelli erano gli
anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano
quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano
fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di
pochi anni.

Oggi quasi tutti i
sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e
prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro
progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.

Ecco cosa può fare
la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie
infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è
attaccabile in maniera molto selettiva.

La
svolta di Vancouver

Yokoama, agosto
1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più
importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per
la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte:
tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna
aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…

Vancouver (Canada),
luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile.
Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15
mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere
tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è
diffusa, sono tutti lì.

David Ho parla dei
nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente
rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente
curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici,
pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.

Dal 1996 poco tempo
è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è
rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è
progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo,
attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe
accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa
è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad
ogni livello.

Molte cose sono
cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle
ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del
supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte
scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.


Il medico «sa»

Oggi si ammalano di
Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di
essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le
terapie.

Però i sieropositivi
continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più
giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché
frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia
perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul
medico vengono «scaricate» angosce e timori.

Il medico è uno dei
pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte,
si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La
risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza
tecnico-scientifica o di fuga.

Personalmente mi
sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e
dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire
troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo
assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non
«identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.

D’altro canto l’Aids
ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto
medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati
stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi,
nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi
medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del
paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle
terapie.

In questi anni
alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti
nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora
tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la
scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che
spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.

Ho visto cambiare
tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri.
Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti
drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni
attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di
solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le
cure (cfr. box, pagina 40).

Mentre sto scrivendo
questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande
battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39
case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei
farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla
forza di piccoli-grandi eroi.

Già, quanti «eroi»
ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità
straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.

Nella introduzione
agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge:
«Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma
intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un
cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità
di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».

Spesso penso ai
tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che,
durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca,
Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…

Giustamente si
paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da
noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic»
incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono
arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi)
vi hanno trovato posto.


«Ipersesso»
e stranieri

Accennavo alla
prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati
efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.

Ma oggi sarebbe
necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade,
nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione
schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte
la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e
comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura
dell’Aids.

Ma a che gioco
giochiamo?

Luc Montagnier,
grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha
affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è
certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i
pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di
insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e
maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.

Esiste poi il grande
problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere
individuati, schedati, espulsi.

Non hanno ancora
capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo
tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto
professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai
loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si
fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.

La prevenzione con
gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora
tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma
se colta in tempo.

Vi sono poi alcune
situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è
ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita
dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le
misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo,
cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il
figlio diventa bassissimo.

Prudenza,
non moralismo

«Dottore, che mi
consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La
domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande
prudenza.

Purtroppo la gente
non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso
tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o
compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’
più di fortuna o prudenza in qualche occasione…

L’ignoranza è ancora
dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o
contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che
diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata:
«Lo sai che Tizio ha l’Aids?».

Pure il moralismo da
quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il
fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o
l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano
legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e
studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che
richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi
legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone
moralmente molto più a terra dei giudicati!

E poi, applicando
questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al
polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli
infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la
pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi
alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…

Un giorno entra in
ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il
genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’
di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:

– Ma a questo qui,
quanto gli resta da vivere?

– Come ha detto?
Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un
mio paziente. Non si permetta di parlare così!

La signora abbozza
una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria.
Avrà capito?

In ogni caso ci
vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori
sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una
malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.

Insieme ai farmaci,
l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è
l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi,
operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari.
Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri
mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri
limiti.

Come ha ragione
quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile
ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids
non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della
storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.

Esiste un gruppo di
persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo
maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per
iscriversi è sempre aperta.

(*) Giancarlo
Orofino è dal 1993 specialista in malattie infettive all’ospedale «Amedeo
di Savoia» di Torino. È socio-fondatore dell’associazione
«Arcobaleno-Aids» a Torino. Nel campo dell’Aids ha partecipato a studi
clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci e a progetti di assistenza
psicosociale. È membro dell’Inteational Aids Society.

L’«etica»
delle multinazionali farmaceutiche

Salvare
i brevetti (e i profitti)
o salvare le vite?


In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla
salute» sta diventando un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del
mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di
Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano troppo. Le multinazionali si
giustificano con gli elevati costi della ricerca. Peccato che i dati
smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga
superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia,
India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente,
sfidando le ire degli Stati Uniti e dell’«Organizzazione mondiale del
commercio». Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante
«diritto alla salute»?

di Paolo Moiola


UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene
che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa
essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli
esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le
liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e
strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di
soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.

La sanità
statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima
serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il
livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di
pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle
graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità
pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto
indietro.

Come si fa a
conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della
sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei
paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il
necessario per mangiare.

Il problema si
ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del
millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene,
guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che
l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato
nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.

Per essi il futuro è
nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e
bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del
35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che
rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.

Rispetto al totale
mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids
dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore,
durante l’allattamento) avvengono in Africa.

Gli scienziati sono
convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel
frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto
diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE
DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie
anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono
una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa
15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del
Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.

Alcuni di essi (come
Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il
problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In
questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno
per paziente.

Nel 1997 il
presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata
Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due
provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva
di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale
(costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero
dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato
un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci
generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i
brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.

Il secondo aspetto
della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la
fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali,
anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che
detengono i brevetti.

Contro la legge si
mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e
pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc,
Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a
Pretoria, è iniziato il processo intentato da 39 case farmaceutiche contro
il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli
accordi sul commercio mondiale.

E qui il problema
assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è
possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle
conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema
neoliberista?

FARMACI
«PROTETTI»
DAL «LIBERO» MERCATO

Dal 1994, ai paesi
aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati
«Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o
acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties»)
del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20
anni.

Tuttavia, sotto la
pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione:
in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di
vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto
di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle
importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto
senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia,
l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come
vuole fare il Sudafrica).

Di queste scappatornie
si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la
soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso
gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.

Poiché in campagna
elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui
finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e
ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti
d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».

È inutile negare
l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte
dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero
mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi
industriali e finanziari.

Eppure, non occorre
essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti
non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il
diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni
elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde
Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della
ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle
compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I
TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di
350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i
«farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali,
rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.

Negli anni passati,
la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai
paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I
tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget
sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari
nei paesi in via di sviluppo?

Nella maggioranza
dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria
globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a
prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe
impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più
o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si
ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso
lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e,
ove malato, di curarsi.


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Guido Sattin Giancarlo Orofino Paolo Moiola




BAHAGAVAD-GITA: antico testo sacro dell’induismo. VERSO L’ASSOLUTO

San
Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti e
verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri
indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

 

Dio, Allah, Javhè,
Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda,
ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo,
esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi
diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si
sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino
all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso
millenni.

Senza pretendere di
dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri
fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i
concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.

È quanto tentiamo di
fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un
poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il
Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C.
al II d.C.

Il Bahagavad-Gita è
un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta
come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna
che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone
dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude
il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge
nell’intimo di ogni persona.

Questo libro ha
lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa
dell’India, da essere considerato un testo sacro.

 

Nel poema viene
esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a
cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è
il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che,
all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.

Brahaman, infatti, è
«l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto
che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il
Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me –
afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).

Nel Bahagavad-Gita
viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se
non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono
il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).

Seguendo i precetti
adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza
indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle
reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me;
per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).

Quindi è già
esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve
aspirare e tendere.

Tale salvezza non è
raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare
risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento:
quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il
fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si
presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in
realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano
poveri» (IX,23).

L’umiltà di Brahaman
si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore,
una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e
devotamente e con amore» (IX,26).

La fede non è un
aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza
divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che
sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman
stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi
insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di
saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

 

 

Brahaman possiede
una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad
una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere
all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare
la gloria della mia vista» (XI,12).

È interessante
notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare
Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima
esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato
testimone.

Anche per noi
cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli.
Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria
esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

 

 Dove risiede
Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come
creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo
appare reale ai nostri sensi,  in realtà è illusorio. Anche per noi
cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni
nostra capacità di comprensione.

Il concetto di
illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune
apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il
Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte
dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare
attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane
come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non
ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà
del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma
invisibile di Dio.

 

Come si può
raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del
controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia
nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere
l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è
paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non
è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e
dalla preoccupazione» (XII,13-15).

Cosa succede a chi
non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un
inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in
guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21).
Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza
(pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il
lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).

Da qui scaturisce un
ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è
assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo
obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare
salvezza eterna.

È interessante
notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati
raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del
lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo
stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile,
perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).

Il risultato di tale
fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per
non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la
pace del Nirvana» (II,72).

 

 In conclusione,
questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze
tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana.
Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È
tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e
religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a
prima vista.

Sono i «semi del
Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di
verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli
e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti
di salvezza.

Pier Giorgio Motta




RUSSIA: l’esercito dei «senzatetto» (prima puntata). LA FABBRICA DEI BARBONI

Secondo il
Ministero del lavoro e dello sviluppo, sono una massa grigia di vagabondi
maleodoranti, ubriaconi ed accattoni, con un’innata renitenza al lavoro e
una spiccata tendenza a delinquere. Così certamente «appaiono». Ma si
scopre pure che sono stati «fabbricati» da eventi non casuali: quando si
sottrae loro la casa o vengono truffati «legalmente», quando si impongono
leggi da servitù della gleba… E non è tutto. Qualcuno rema a favore dei
barboni, per fortuna.

 Una
brutta parola

 Se ne cominciò a
parlare all’inizio degli anni Novanta. Fu allora che nel vocabolario dei
russi entrò un nuovo termine, alquanto goffo, come tutte le parole-sigla
di cui è pieno il linguaggio sovietico:

BOMZH, Bez
Opredelennogo Mesta Zhitel’stva, ovvero «senza fissa dimora». In breve,
barbone.

Il termine riflette
nel suono, così tristemente burocratico, le caratteristiche di un fenomeno
presente in tutti i paesi del mondo. Ma in Russia, per molta parte, bomzh
non si diventa a seguito di disavventure familiari, rovesci finanziari,
immigrazioni da paesi stranieri, oppure di scelte di vita. Il bomzh è
sovente il prodotto delle leggi statali, dell’incuria e dell’arbitrio di
funzionari governativi e pubblici ufficiali.

Dunque, all’inizio
degli anni Novanta, con la fine del comunismo, il fenomeno dei senzatetto
s’impose all’attenzione generale. Si collegava il fatto alla
privatizzazione degli appartamenti, fino allora proprietà statale o di
cornoperative. Era questo un atto quasi formale: le persone si vedevano
riconoscere, dopo il pagamento di pochi rubli, la proprietà
dell’appartamento o delle stanze in cui abitavano.

Con il ritorno della
proprietà privata, fiorì un aggressivo mercato del mattone. E cominciarono
a circolare per Mosca storie cui si stentava a credere: storie di
alcolizzati che, in un momento di coscienza obnubilata, vendevano per un
pugno di rubli il proprio appartamento e quello dei loro figli, buttati
sul pianerottolo di casa; storie di anziani che d’improvviso morivano,
lasciando così libera la propria stanza; storie di famiglie indotte,
dietro regolare contratto di permuta, a trasferirsi in un altro alloggio
che… non esisteva.

Pareva che l’origine
dei bomzhi fosse da attribuire alla spregiudicatezza di un capitalismo
senza regole, da Far West, che stava aggredendo tutti i settori
dell’economia nazionale. Però, man mano che il tempo passava e il popolo
dei barboni cresceva, diventava sempre più difficile credere che quella
fosse l’unica causa di un fenomeno che assumeva proporzioni gigantesche.

Secondo dati
ufficiali, nella sola Mosca erano 30 mila nel 1992; 100 mila nel 1995.
Oggi superano i 4 milioni in Russia.

 I «bomzhi»
da prigione

 A leggere i
documenti del Ministero del lavoro e dello sviluppo sociale o le
disposizioni emanate dalle autorità dello stato, i bomzhi sono una grigia
massa di vagabondi maleodoranti, ubriaconi e accattoni per un’innata
renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Ma è proprio
vero?

Giacché lo stato per
lo più finge di ignorare il problema, per capire chi sono i senzatetto
bisogna rivolgersi alle organizzazioni umanitarie. Grazie ai loro sforzi e
ai dati di cui dispongono, possiamo farci un’idea meno approssimativa del
fenomeno.

Sono diversi i
motivi per cui ci si ritrova su una strada: problemi familiari; la
chiusura di imprese e la conseguente perdita dell’alloggio aziendale;
perché si è vittime di truffe immobiliari; perché dalle repubbliche
ex-sovietiche si viene in Russia a cercare lavoro; perché si perde il
documento d’identità; perché si esce di prigione.

Da questo elenco già
s’intuisce che, per capire il problema dei senzatetto in Russia, è
necessario riferirsi alla realtà del paese, in cui pesa ancora molto il
recente passato sovietico. Esiste un dato che può sembrare sorprendente:
il 35% (40% dopo l’amnistia di maggio 2000) dei senzatetto in Russia è
costituito da ex detenuti. E, per spiegarlo, bisogna fare un passo
indietro.

Nell’ex Unione
Sovietica tutte le abitazioni appartenevano allo stato; quando, per motivi
di lavoro, servizio militare o lunghe detenzioni, ci si trasferiva
altrove, si perdeva la residenza e il diritto all’alloggio; in caso di
ritorno, se ne sarebbe ricevuto un altro. Già allora il sistema funzionava
a corrente alternata: bene in un senso e meno bene in quello opposto.

Se l’URSS ha cessato
di esistere nel 1991, la sua macchina amministrativa ha però continuato a
funzionare oltre questa data, alimentata da mentalità e abitudini
radicate. Solo nel 1995 è stata abolita la legge che privava del diritto
all’alloggio una persona che restasse assente da casa oltre sei mesi.
Ciononostante, nei confronti dei condannati a più di sei mesi di
reclusione, ancora oggi si applica arbitrariamente la vecchia
disposizione. L’ex detenuto che ritorna, se non ha una famiglia che lo
accoglie, si ritrova su una strada.

Nella sola
Pietroburgo ogni anno ritornano dal carcere 8-10 mila individui. E molti
non sanno dove andare. Non rimane che mettersi in lista per l’assegnazione
di un alloggio in quanto nullatenente. La legge, infatti, ne riconosce il
diritto a tutti, sebbene, non fissando i tempi di esecuzione, lo neghi in
pratica.

Vale da esempio il
caso di Valerij, classe 1958, pietroburghese. Nel 1993, mentre era in
carcere e i genitori morivano, il suo appartamento è tornato
all’amministrazione rionale. Rientrato in città, Valerij ha chiesto
un’altra abitazione. «È impossibile – si è giustificata la
commissione-case -, data la grande carenza di alloggi nel quartiere». Con
chi se la poteva prendere Valerij? Non certo contro l’amministrazione, che
ha accolto la sua richiesta, ma cui la legge non impone un termine entro
cui esaudirla.

Non sono solo gli ex
detenuti a restare senza un tetto a causa di assurdi meccanismi
legislativi. Nella medesima situazione si trovano i russi che tornano a
casa dopo una residenza in altre regioni del paese. Un altro esempio.

Tempo fa una
famiglia di Mosca partiva per le ingrate regioni del nord, dove il lavoro
era ancora ben remunerato. Ha lasciato a casa il nonno, che però è morto
senza aver privatizzato l’appartamento, passato così all’amministrazione
cittadina. La famiglia, quando quattro anni fa è tornata, non ha trovato
più niente. Ora i genitori hanno un letto al dormitorio pubblico e i figli
vivono all’orfanotrofio.

 Per non parlare
di truffe

 Ci sono altri
motivi per cui una persona può perdere la casa. Ho già accennato al fatto
che con la privatizzazione degli appartamenti sono iniziate pure le truffe
immobiliari. Secondo dati di Medici senza frontiere e Caritas, ne è
vittima circa il 15% dei senzatetto. È un tipico postumo del periodo
sovietico.

In un paese dove per
decenni l’unica proprietà possibile era statale e le istituzioni erano
infallibili per postulato, i cittadini hanno perso completamente il «senso
giuridico» della proprietà privata e acquisito, nel contempo, la
convinzione che tutto ciò che ha apparenza istituzionale (un pezzo di
carta con timbro e bollo) sia di per sé degno di fede. Così la gente si è
lasciata raggirare facilmente.

Le truffe rimangono
spesso impunite. Polizia e procura non dimostrano un particolare zelo
nello smascherare e perseguire i colpevoli, anche perché vi sono spesso
coinvolti colleghi e funzionari del Ministero degli interni o
dell’amministrazione statale. È difficile per le vittime raccogliere le
prove sufficienti a dimostrare la truffa. Inoltre, data l’ignoranza delle
leggi, è indispensabile l’assistenza di un avvocato, per molti un onere
troppo costoso.

Per aiutare le
persone in tali condizioni, è nata nel 1994 l’associazione Novyj dom («Una
nuova casa»), che offre assistenza legale gratuita a chi non se la può
permettere. È costituita da professionisti che vi dedicano le ore della
sera, al termine della giornata di lavoro. «Altrimenti non potremmo
sostentarci – spiega uno di loro, Aleksandr Kotov -, perché non riceviamo
quasi finanziamenti dall’esterno».

Nessuna targa sulla
strada indica la sede: si trova al piano terra di un appartamento e gli
inquilini del palazzo mal sopportano Novyj dom, con quel viavai di gente
di ogni tipo. «Lo stato non ci aiuta in alcun modo, non ci accorda nemmeno
le esenzioni fiscali che spettano alle organizzazioni benefiche. Per
essere ufficialmente riconosciuti come tali, avremmo dovuto dare una
tangente, ma ci siamo rifiutati. Per ben tre volte abbiamo provato ad
avviare la pratica, ma abbiamo sempre dovuto rinunciarvi».

Aleksandr mi
racconta uno dei tanti inverosimili casi capitati.

Un uomo viene
fermato per strada con un pretesto e condotto al comando di polizia, dove
è trattenuto per un mese. Nel frattempo gli tolgono il documento
d’identità, che non gli verrà più restituito. Quando viene rilasciato,
l’uomo corre a casa e trova la porta sbarrata: la chiave non entra più
nella serratura. Ritorna alla polizia, ma trova altre persone. Quando
dichiara le proprie generalità (che ora senza documento non può più
provare), gli dicono che lui non è lui, che la persona per cui si
«spaccia» ha venduto il proprio appartamento un paio di settimane prima e
si è trasferita altrove… Adesso il gioco era chiaro: mentre si trovava
sequestrato dalla polizia, qualcuno ha venduto il suo appartamento
servendosi del suo documento.

Grazie a Novyj dom,
quell’uomo ricupererà la casa. Ma questo è solo uno dei pochi episodi a
lieto fine. Anche quando si arriva al processo, l’iter è lungo e
difficile, perché bisogna rompere le reti di connivenze. Si può farcela,
ma nel frattempo l’interessato può sparire chissà dove, nel tentativo di
sopravvivere senza una casa, travolto dalla vita randagia cui è stato
costretto.

 Imprese e orfani

 Una discreta
percentuale di senzatetto (15%) perde la casa in seguito alla perdita del
lavoro. Però non è solo un problema di disoccupazione.

In Russia la
mancanza di case è sempre stata cronica. Per tale motivo, nel tempo
sovietico diverse imprese statali mettevano a disposizione dei dipendenti
un alloggio in un pensionato aziendale: anche solo una stanza o un letto.
Per i lavoratori, oggi, una delle conseguenze più gravi del fallimento o
della privatizzazione delle imprese è essere privati di un tetto, che è
molto difficile rimpiazzare.

In Russia c’è
parecchia gente che vive in appartamenti di «coabitazione», dove le stanze
sono occupate da vari nuclei famigliari, mentre bagno e cucina sono in
comune. Si aggiunga che, negli ultimi anni (specie a Mosca), i prezzi
degli affitti sono al di sopra delle possibilità di una famiglia media.
Ciò spiega perché tanta gente perda la casa.

Molte giovani coppie
si vedono costrette a convivere con genitori o suoceri. E accade che,
quando uno della famiglia se ne va per dissidi o perché si divorzia o
(peggio ancora) perché si è minacciati da estranei introdottisi in casa
(la convivente del figlio, il convivente della madre o della moglie),
l’individuo abbia serie difficoltà a trovare un’altra sistemazione. Così
finisce facilmente sulla strada.

Poi ci sono coloro
che non hanno quasi mai avuto una casa. Sono i tanti bambini che crescono
negli orfanotrofi.

In questi ultimi
anni la Russia è diventata uno dei paesi cui maggiormente ci si rivolge
per adozioni inteazionali. Dove vanno i bimbi che escono dagli
orfanotrofi? Chi vi è giunto direttamente dal reparto mateità di un
ospedale, non avendo mai avuto un alloggio, non ha neanche diritto ad
essee reintegrato (la logica non fa una grinza); gli altri dovrebbero
ricevee uno, ma sovente non accade.

Un tempo questi
ragazzi venivano mandati a lavorare in fabbrica, e ricevevano pure un
letto. Oggi passano direttamente dall’orfanotrofio alla strada. Date le
condizioni precarie in cui si trovano, finiscono prima o poi per
commettere un reato; e in poco tempo si ritrovano in prigione o in una
colonia di rieducazione. Per lo stato è meglio tenerli lì che procurare
loro un alloggio.

Il problema si
ripresenta quando devono uscire dalla prigione. «Non vogliono andarsene –
afferma Aleksandr di Novyj dom, che sta cercando di aiutare le ragazze
detenute in una colonia penale nei pressi di Rjazan’. Chiedono di rimanere
a lavorare in carcere. Il direttore, che è un brav’uomo, fa di tutto per
aiutarle, ma egli stesso ha grossi problemi a mandare avanti la colonia…
con le magre dotazioni statali».

 Come
marziani dal cielo

 La Caritas usa una
strana espressione: «vittime di furto». Il problema non è economico:
sarebbe troppo comprensibile. I soldi questa volta non c’entrano.

Ebbene, basta poco
per entrare nella grande «famiglia» dei senzatetto: basta, ad esempio,
perdere il documento di identità lontano da casa.

Molte sono le
persone che vengono in Russia da altre repubbliche ex sovietiche in cerca
di lavoro. Lasciano la loro casa in Ucraina, Moldavia, Bielorussia,
Armenia… sperando di farvi ritorno dopo qualche mese con un po’ di
soldi. Arrivano e, tanto per cominciare, passano le prime notti in una
stazione. Per 25 rubli viene data loro una cuccetta in un vagone
parcheggiato su un binario morto. Qui i furti sono all’ordine del giorno.

Qualcuno nota gli
sprovveduti novellini e ruba loro la borsa con soldi e documenti. Che
fare? Ritornare a casa senza un soldo sarebbe una vergogna; né potrebbero
farlo, anche se avessero il denaro sufficiente per acquistare un
biglietto: senza documento non glielo vendono. Se decidessero di farsi
mandare dei soldi da casa, non potrebbero poi ritirarli alla posta senza
la carta di identità. Per ottenere un nuovo documento occorrono mesi, se
non anni: bisogna aspettare che arrivi il fascicolo personale, custodito
all’ufficio passaporti del luogo di residenza. I rapporti tra le
istituzioni russe e quelle delle altre repubbliche sono poco
collaborativi, per non dire ostili. Inoltre gli stessi uffici passaporti
russi non sono modelli di efficienza.

In identiche
condizioni si possono trovare i russi, venuti a Mosca dalle lontane
province in cerca di lavoro, o per sbrigare una pratica o per cure
mediche. Se perdono il documento, si ritrovano nel proprio paese come
marziani piombati dal cielo.

Nel frattempo
bisogna vivere: ottenere un lavoro regolare senza documenti è impossibile.
Rimangono i lavori neri, sottopagati e rischiosi, perché invece della paga
puoi ricevere una manica di botte. È un’esperienza quotidiana. Tanto,
senza documenti, sei nessuno: non puoi andare in tribunale né rivolgerti
ad un pronto soccorso o un ambulatorio, se ti succede qualcosa.

È difficile anche
trovare un alloggio. Per legge è vietato ospitare persone prive di
documenti o senza registrazione. Chi lo fa viene multato. A Mosca i
dormitori pubblici accettano solo moscoviti o ex moscoviti, naturalmente
in possesso di documenti.

Infine, se ti
fermano per strada per un controllo (cosa molto probabile, perché il tuo
aspetto non passa inosservato all’occhio attento dei tutori dell’ordine),
trovandoti senza documenti finisci quasi certamente in un luogo chiamato
«Centro raccolta e smistamento».

Proprio come un
pacco.


(Continua nel
prossimo numero)
.

 


IL CERCHIO SI CHIUDE

 

Anno 1917. Dopo la
rivoluzione d’ottobre il nuovo regime, tra le varie istituzioni
considerate borghesi, abolì anche il sistema dei passaporti interni,
l’equivalente delle nostre carte d’identità. In seguito questo sistema non
solo fu reintrodotto, ma il rilascio del documento fu condizionato al
luogo di residenza: si proibiva ai cittadini sovietici di risiedere in un
luogo diverso da quello registrato. La registrazione si chiamava propiska.

Veniva così
risuscitato un istituto della servitù della gleba, quando il contadino non
aveva il diritto di abbandonare la terra su cui viveva.

L’obbligo della «propiska»
aveva in URSS un fine analogo: impedire al contadino di abbandonare le
campagne collettivizzate. La legge vietava di trasferirsi da un luogo
all’altro senza avere prima il permesso di soggiorno. Tale permesso si
otteneva solo se si contraeva il matrimonio con persona già residente o se
si aveva un lavoro; ma nessun lavoro veniva offerto senza un permesso di
soggiorno. E il cerchio si chiudeva.

Con la fine
dell’URSS, il concetto di «propiska» è formalmente decaduto, ma nella
pratica è più vegeto che mai (oggi si chiama «registrazione»), in aperto
contrasto con le libertà garantite dalla nuova costituzione. Il caso di
Mosca è il più eclatante.

Ogni cittadino della
Federazione Russa che arrivi nella capitale per qualsiasi motivo (turismo,
visita a parenti, cure, rientro temporaneo dall’estero) è tenuto a
registrarsi presso la questura. È come se un italiano, in visita a Roma,
dovesse segnalare il suo arrivo alla polizia, che può a propria
discrezione negargli il permesso di soggioare in città… La
registrazione è una disposizione (anticostituzionale) del sindaco di
Mosca, Luzhkov, che viene puntualmente fatta rispettare in barba a tutto e
a tutti.

Due poliziotti
fermano un passante d’aspetto caucasico, o dall’aria provinciale o male in
aese (probabilmente un bomzh) e controllano i suoi documenti. Controlli
illegali, ma per essere lasciati in pace bisogna «sganciare»… Scene del
genere si vedono in continuazione per le vie di Mosca: nei punti di
maggior traffico, nei mercati, davanti agli ingressi della metropolitana.

La prassi ha anche
il piacevole (per le autorità) effetto di creare nel cittadino un
sentimento d’insicurezza. Davanti al poliziotto, il rappresentante della
legge, ci si sente sempre nel torto.

D unque, senza un
luogo di dimora fisso, è molto difficile ottenere il documento d’identità.
E, senza il documento d’identità, non sei nessuno: sei un non-uomo. E il
cerchio si chiude un’altra volta.

Come s’è visto,
senza un documento non puoi avere un alloggio regolare, e non solo. Non
puoi avere un lavoro: il datore sarebbe multato. Senza un documento e
relativa registrazione, ti vedi rifiutare l’assistenza ambulatoriale (è
prestata secondo la residenza), non puoi votare (gli elenchi elettorali
sono formati con riferimento ai residenti), né puoi rivolgerti al
tribunale o acquistare un biglietto aereo o ferroviario; non puoi ottenere
la pensione o altri sussidi statali (si ricevono in base alla residenza),
né puoi usufruire di strutture pubbliche quali ospizi, pensionati per
invalidi (è richiesto un certificato medico che per te è impossibile
ottenere); non puoi essere iscritto sulle liste di disoccupazione (gli
uffici di collocamento accettano solo i residenti nel territorio).

In compenso, puoi
essere fermato per la strada dalla polizia e trattenuto (illegalmente)
fino a 30 giorni.

Ecco il potere dei
documenti d’identità e «propiska» in Russia. E si capisce quale terribile
fatalità sia rimanee senza.

Una fatalità che
agli ex detenuti tocca quasi sempre affrontare. All’uscita del carcere
essi dovrebbero, per legge, ricevere un nuovo documento d’identità. Ciò
avviene nel 5% dei casi. Per il resto viene consegnato solo il certificato
di rilascio dalla prigione, che al primo controllo per strada può venire
stracciato da qualche poliziotto arrogante. Sì, perché la polizia spesso
straccia o requisisce certificati e documenti d’identità.

Molti scontano il
periodo di detenzione lontano dalle loro case; per tornarvi devono fare
parecchia strada e, in breve, i pochi soldi finiscono. Allora vengono a
Mosca in cerca di un lavoro per proseguire. Ma non ce la fanno, perché si
ritrovano senza documenti, cioè senza diritti.

Il cerchio si chiude
sempre.

Biancamaria Balestra




MA IL CUORE RIMANE IN COLOMBIA

New York è
la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla. Ne
abbiamo parlato con Maurizio Suarez Copete, console colombiano a New York.

«New York
è la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla.
Circa un milione vivono a Jackson Heights (detto la pequena Colombia) nel
Queens e a Elisabeth nel New Jersey». Così ci spiega Maurizio Suarez
Copete, console colombiano a New York.


Il giornale americano che parla
di più della Colombia è il New York Times; gli altri ne scrivono quando ci
sono di mezzo droga e guerra. Esiste uno studio serio, che affronti il
problema dei colombiani a New York e non li veda solo come problema, ma
anche come risorsa?

Tuttavia
le caratteristiche di questa comunità, i suoi problemi,  bisogni,
aspirazioni e l’impatto sulla vita sociale, politica ed economica è 
ancora poco studiato. Oggi la maggioranza degli americani considera i
colombiani residenti negli Usa un guaio! Grazie a Dio, in questi ultimi 
anni, il bisogno di conoscere meglio la comunità colombiana è incominciato
a crescere. Un progetto di collaborazione tra il consolato generale della
Colombia di New York e la Wagner Graduate School for Public Service
dell’università di New York sta aiutando a capire le caratteristiche
dell’emigrazione, come pure  i problemi e bisogni della comunità
colombiana.

Oltre
ai risultati della ricerca (che mostrano il colombiano come grande
lavoratore, ligio alle tradizioni e appassionato ricercatore del sogno
americano), cosa ci si prefigge di raggiungere con questo progetto?

Anche se
la maggioranza colombiana svolge lavori manuali, vi è un crescente gruppo
di professionisti, come avvocati, dottori, architetti, managers e
banchieri… Mi sta a cuore sapere come questi emigranti si inseriscono e
adattano all’ambiente in cui vivono, conoscere la percezione che gli
emigranti hanno dell’attività che svolgono, esplorare le organizzazioni in
cui lavorano, seguire in particolare i servizi del consolato a loro favore
e togliere o migliorare gli stereotipi sui colombiani americani.


Negli
Stati Uniti le occupazioni principali dei colombiani sono lavori manuali:
casalinghe, camerieri, operai di fabbrica, assistenti ai commercianti,
bidelli, custodi di palazzi e così via. E vi rimangono per parecchi anni.
Ciò dimostra che un’alta percentuale ha lavori fissi, stabili.

Questo
contraddice lo stereotipo, a volte diffuso e accettato per motivo di
ignoranza, che la popolazione colombiana sia disoccupata, impegnata in
occupazioni illegali. Inoltre è da notare che, anche se i colombiani a New
York si trovano in condizioni migliori di altri gruppi latinoamericani,
non sono esenti da necessità e problemi. Il 40 per cento, ad esempio, non
gode di un’assicurazione medica e, dunque, non è protetta contro i rischi
della salute.


Che cosa fa lei, come console,
per convincere i colombiani a frequentare la scuola?

I sondaggi
presi nelle scuole di New York rivelano che il 61 per cento dei colombiani
ha riportato  un diploma di scuola superiore durante gli ultimi tre anni;
inoltre,  dopo la popolazione bianca e paragonati agli altri latini e
afro-americani, i colombiani che frequentano l’università sono al secondo
posto.

Qui devo
menzionare l’opera della dottoressa Gloria Gomez, nata a Bogotá 45 anni or
sono, attualmente direttrice della Zoni Language  Center. È un sistema
scolastico composto di 25 centri, che ha diversi scopi: migliorare
l’istruzione dei giovani colombiani, per confutare l’immagine negativa che
il mondo esterno ha del loro paese; far conoscere la lingua e cultura
inglese; sopperire alla mancanza di rappresentanza politica; combattere la
discriminazione; punire la vendita e l’uso di droga…

Fra
i colombiani c’è chi si integra totalmente nella società  americana e chi
ha già il biglietto di ritorno in patria. Comunque la cultura colombiana è
l’orgoglio di questa gente: sia che rimanga o ritorni in Colombia,
l’identità nazionale resta profonda nel cuore. È vero?


Il mio
lavoro, tuttavia, mira a progettare un piano di azione per servire la
comunità nella zona metropolitana e definie le priorità, che sono varie.
Innanzitutto promuovere i programmi sociali per prevenire l’uso della
droga e della violenza, specialmente tra i giovani. Inoltre lanciare
attività dirette allo sviluppo delle organizzazioni della comunità e
istruire i leaders a dirigerle. In terzo luogo: prendere misure pratiche
per aiutare gli emigranti a trovare lavoro e provvedere informazioni circa
lo stato giuridico, i benefici, diritti e doveri che si hanno negli Stati
Uniti.

Il mio
compito è anche quello di stabilire un ponte tra il governo americano e la
comunità colombiana, in modo che i funzionari statali conoscano e aiutino
i colombiani di New York ad affermarsi sempre di più. È chiaro che i
leaders delle comunità colombiane devono coinvolgersi per debellare i
problemi derivati dall’«immagine negativa», dalla mancanza di
partecipazione nei vari settori della vita pubblica e, soprattutto, dalla
discriminazione.

Dato che
il consolato è limitato in risorse e personale, si avvale di
organizzazioni locali, associazioni professionali, imprese private, chiese
e mass media per organizzare incontri, stabilire programmi d’azione e
preparare leaders che possano aiutare i colombiani ad affrontare le sfide
nel nuovo paese di adozione.


INFORMAZIONE, PER CORREGGERE GLI STEREOTIPI

«HECHOS
POSITIVOS»

Luis
Alejandro Medina, l’anno scorso, ha ricevuto due premi: il premio
nazionale «Bolivar» dalla Colombia, come migliore giornalista all’estero,
e il premio di «eccellente reporter» dalla stazione televisiva 47 per cui
lavora. I suoi reports generalmente riguardano tre aspetti: il legame dei
colombiani con il loro paese, l’impegno a sostenere i compatrioti
all’estero, il coinvolgimento del consolato tra gli immigrati con progetti
e attività.

Sfogliando
il giornale, si notano storie e racconti di un forte attaccamento dei
colombiani alla loro famiglia e amici, l’uso dominante dello spagnolo in
casa, il sogno di ritornare a vivere in patria, l’abitudine di mandare
soldi ai parenti lontani. Nello stesso tempo, si racconta come le
istituzioni del Nord America siano più efficienti di quelle colombiane;
come un grandissimo numero di colombiani siano diventati cittadini degli
Stati Uniti e facciano uso del diritto di doppia cittadinanza; come
moltissimi stiano integrandosi con la cultura degli Stati Uniti, pronti a
organizzarsi per il bene comune. La grande maggioranza dei colombiani in
America apprezza la libertà di agire, senza essere criticati o repressi.

Hechos
Positivos si batte pure perché il consolato migliori la qualità dei
servizi e informazioni sulle attività pubbliche, sostenga le attività
culturali e folcloristiche, realizzi le aspettative della gente e gli
impegni per cui riceve aiuti, migliori l’immagine della Colombia
all’estero, crei organismi capaci di affrontare le risorse pubbliche.


Soprattutto incoraggi la comunità colombiana a formare una rappresentanza
che migliori il futuro.

Al Barozzi




LA DONNA-SGUARDO E LA DONNA-VOCE

«Per le donne arabe
 vedo un solo modo  di sbloccare questa  situazione: parlare, parlare
senza sosta  di ieri e di oggi, parlare fra noi  in tutti i ginecei… La
donna-sguardo e la donna-voce… Ma non la voce delle cantanti che gli
uomini imprigionano nelle loro melodie zuccherose… la voce che non hanno
mai sentito, perché accadranno molte cose sconosciute  e nuove, prima che
questa voce possa cantare: la voce dei sospiri,  dei risentimenti, dei
dolori di tutte coloro che sono state murate vive… La voce che cerca
dentro le tombe aperte!»

Il
mondo della donna araba è circondato dal mistero e da tanti stereotipi.
Solo la scrittura illuminata di qualche donna araba, colta ed
intelligente, può aiutarci a penetrare e, in parte, a comprendere un mondo
così lontano dalla nostra cultura.

Nata nel
1936 a Cherchel (Algeria), Assia Djebar è stata la prima donna algerina
ammessa all’École Normale Supérieure francese. Nel 1957, ancora
giovanissima, ha pubblicato il suo primo romanzo Le Soif e, un anno dopo,
Les Impatients.

Testimone
oculare ed avida raccoglitrice di storie vere, la Djebar riesce, nei suoi
numerosi romanzi e racconti, a farci partecipi sia di tante tragedie umane
e familiari, causate dalla crudele guerra algerina, sia del lento processo
di evoluzione nella vita delle donne arabe, costringendoci ad ascoltare
«la voce dei sospiri, dei risentimenti, dei dolori di tutte coloro che
sono state murate vive».

La
prolifica scrittrice algerina si è anche cimentata come cineasta, vincendo
nel 1979 il Gran Premio della Critica Internazionale al Festival del
Cinema di Venezia con il film Les Nouba des Femmes du Mont-Chenoua. Lo
scorso anno ha, inoltre, presentato a Roma una sua opera teatrale, tratta
dal romanzo Figlie di Ismaele.

Dal 1997
vive tra Francia e Stati Uniti, poiché lavora come professore e direttore
del Center for French and Francophone Studies della Louisiana State
University.

Si chiede
Assia Djebar nell’introduzione alla sua raccolta di racconti, da lei
stessi definiti «capisaldi di un percorso di ascolto che va dal 1958 al
1978», pubblicata in Italia con il titolo Donne d’Algeri nei loro
appartamenti.

«Inebriato
dallo spettacolo che aveva sotto gli occhi», Delacroix rielaborò per due
anni le impressioni raccolte e ne scaturì il capolavoro Donne di Algeri,
in cui – ci racconta la Djebar nella post-fazione del suo libro – «tre
donne sono prigioniere rassegnate di un luogo chiuso rischiarato da una
luce che scaturisce dal nulla, luce di serra o di acquario». Passarono 15
anni e Delacroix, all’esposizione del 1849, presentò una seconda versione
delle Donne di Algeri, che al sol pensiero strappava lacrime a Renoir.

Infatti
«uno dei muri della camera viene messo in evidenza, in modo da farlo
pesare con gravità più ossessiva sulla solitudine delle tre donne…
l’ombra nasconde come una minaccia invisibile».

L e donne,
tratteggiate con grande talento dalla Djebar nei suoi racconti, rievocano
spaccati reali di vite dall’Ottocento ad oggi e ci fanno partecipi di
oppressioni, dolori, tragedie, nonché qualche raro momento di gioia e,
persino, di gloria.

Ad
esempio, l’eroina Messauda («la lieta»), nel 1839, con le sue grida di
incitamento impedì che il forte di «Ksar el Hayran» fosse preso dai
nemici. Messauda, come tante donne oggi impegnate nella resistenza, è una
delle «donne guerriere, uscite dal loro ruolo tradizionale di
spettatrici». Un ruolo così ben ricordato dal coro di donne, intervenute
al funerale della mitica Yemma Hadda, che, divenuta vedova per la seconda
volta, con severità e burbera tristezza pose «i nuovi cardini della vita
al villaggio».

«Quelle
donne il cui destino era sempre stato di essere le orecchie e i sussurri
della città, la cui vocazione era stata di accovacciarsi ai piedi dello
sposo per togliergli le scarpe la sera quando tornava a casa»; quelle
stesse donne nel bagno turco si rivelano con «un baccano di voci
sovrapposte, un colloquio sommesso di pene… Altre donne, mute, si
fissano attraverso i vapori: sono quelle che vengono tenute rinchiuse per
mesi o anni, tranne che per il bagno».

Queste
donne devono, a causa del perenne stato di guerra o guerriglia, sopportare
un’ulteriore atroce tragedia, perché lievito inconsapevole di figli
adolescenti, improvvisamente risoluti a combattere e a morire («mio
figlio… il mio fegato straziato… la mia carne dilaniata!»).

Chi, come
la portatrice d’acqua e la massaggiatrice del bagno turco, si è ribellata
al tragico destino di sposa-bambina, dopo una vita di sofferenze ed
umiliazioni sussurra nel delirio: «Sono io – io? – che hanno esclusa,
colei sulla quale è stato posto il divieto. Sono io – io? – colei che
hanno umiliata. Io colei che hanno ingabbiata…».

Vi sono
alcune donne, come l’evoluta Sarah o la coraggiosa Nfissa, che hanno
sofferto la prigionia e tortura. Eppure Nfissa, tra profumi di menta e
gelsomino, si sente dire dalla sorella diciannovenne: «Se tu hai
conosciuto la prigione, io pure l’ho conosciuta, ma qui, proprio in questa
casa che ti sembra meravigliosa».

La Djebar
presenta, infine, con spietata ironia il simbolo di una cultura: la donna
velata. «L’unico occhio scoperto scruta attraverso il buco dalla ostile
forma triangolare, unica apertura nel volto interamente mascherato… La
giovane guardona osserva ogni cosa con lentezza e gravità, spesso con
disprezzo… Il mondo isolato delle donne contiene l’assillo di spiare ed
essere spiate per provare, in questo modo, l’illusione del mistero…».

I racconti
e romanzi di

Assia
Djebar, pubblicati in Italia, sono:

L’amore,
la guerra (Edizione Ibis); Bianco d’Algeria (Edizione Il Saggiatore).

Silvana Bottignole




CARCERE E MISSIONE. UN FLACONE CONTRO IL MAL DI STOMACO

Che fa
un vescovo in prigione per 13 anni, di cui nove in isolamento? Risponde lo
stesso carcerato, dal 1975 al 1988 vittima in Viet Nam delle galere del
comunismo. Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio «Giustizia e
pace». Ed è pure cardinale.

In Viet
Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza
neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi
parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di
morte. Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e
rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.


 Pacchetti di
sigarette

Non molto
tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.

È una
bottiglietta di vino.

Con mia
grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della
mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre
gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore
la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.


L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici.
Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi
curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio
passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me.
La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo
carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini
per contenere il Santissimo.

Ogni
settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista.
Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad
ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno
«intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione,
lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie
all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede
ritornano praticanti.

Non potrò
mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da
san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene
affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il
senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli
di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…

Con
l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e
sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza
affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di
conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano
gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.

Con
l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una
catechesi.


«Sei hutu o
tutzi?»

Ricordo i
trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno
chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro
vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.

In Africa
non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono
con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i
paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un
prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda.
La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E
il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone
della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.

In Burundi
alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40
studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi
dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40
seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e
nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci
richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola
cosa…».

Nella
regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e
vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo.
Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove
missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.

Sono tutte
morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.


La croce del
vescovo

Con quale
veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello
dell’amore di Cristo Gesù?

Un giorno,
durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto
amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».

Il custode
non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a
forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel
1988.

Trasferito
in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di
filo elettrico.

Tre giorni
dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare
tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore
mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre
con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.

Diverse
volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.

Così sono
vissuto in prigione sino alla fine.


«Corpus
Domini» in Serbia

Nel 1999,
in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia
improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e
pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi:
dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa
eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.

Il santo
padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me,
mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in
Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».

Partiamo:
io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in
Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a
Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza
luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché
Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori
sono fuggiti?».

A
mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede:
«Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche
annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito
a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».

La
preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha
detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande
missione.


 Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân
nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000.
Adattamento della redazione.


 


Il cardinale François Xavier Vân Thuân


  
Trecento
frammenti di speranza

 È nato il 17 aprile
1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in
chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).

La mamma Elisabeth
ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce.
Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché
restasse sempre fedele alla chiesa.

L’incarcerazione
avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da
pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione
per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una
nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove
anni di isolamento.

In carcere non
poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi
scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il
suo vademecum quotidiano.

Liberato nel 1988,
tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».

Dal 1998 è
presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21
febbraio scorso, cardinale.

Ha pubblicato vari
libri, tutti all’insegna della speranza:

Il cammino della
speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della
speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II,
Preghiere di speranza, La speranza non delude…

 

 


Il carcere "Le
Nuove" di Torino
  e i missionari della Consolata (1931-44)

 I missionari della
Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di
Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali,
condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale.

Questo periodo
assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed
internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e
persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di
transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e
dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi
delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45,
la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il
terribile clima della guerra.

Come confortare un
morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più
difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a
Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i
condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata:
complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al
5 novembre 1944.

L’azione dei
missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove,
contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano
la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più
afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è
ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

  Sulle
orme di san Cafasso

 La prima
caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel
rispetto delle norme penitenziarie.

Scrive padre
Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei
carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da
quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del
tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre
Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile
incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si
richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».

Padre Sandrone
raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel
1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce
alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei
fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la
propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua
opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e
tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare,
come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza
sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di
penitenza».

Non si può scordare
che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato
perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a
quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario
del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori
controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.

Padre Sandrone
assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti
familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i
loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.

Il 1° febbraio 1936
padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede
padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a
morte.

L’esperienza di san 
Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro
Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin,
Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi
accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una
partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.

«Erano le 17 circa
del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii
chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione
femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo
indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza
due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi
fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il
famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in
moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi
sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano
dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano
l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava
nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido
in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una
parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti
scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano
la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion
retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda
abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro
tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma:
“Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”.
Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati
danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le
assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi
immobili».

  Anche
un ragazzo di 20 anni

 n Disponibilità,
altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati
per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi,
negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore
opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare
presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal
1943 al 1950.

n L’ascolto del
carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il
professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in
silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa
ricomporre nei disegni di Dio».

Il detenuto non
chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere
ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso
alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi
soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero
dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.

n La solidarietà
crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle
carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano
militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a
padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un
suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato
denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono
30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli.
Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».

La solidarietà si
anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni
sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella
guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la
ragionevolezza nei rapporti sociali.

n Il tatto
caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei
condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di
Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà
desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio…
Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve
li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di
custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al
momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo
prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non
chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente
non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua
scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per
riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di
Carluccio».

Padre Sommadossi è
cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati
a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene
sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute,
secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il
missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo
operato.

n Il rischio del
martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in
carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza
Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi
compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per
consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni
componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre
Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».

Il rischio di essere
fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si
fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale
esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non
di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.

n La conversione è
un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo
Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di
un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in
chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi
confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve
il battesimo e la prima comunione.

 

Nel giorno della
sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma:
«Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito
tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso
e delicato».

Ricordarli oggi è un
dovere della società e della chiesa.

Personalmente lo
faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.

Felice Tagliente,
psicologo

delle carceri «Le
Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier Nguyên Vân Thuân




ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci




BUTEMBO (CONGO, R.d.): diplomazia popolare.AMBASCIATORI IN SCARPETTE E CALZONCINI


Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti ha raggiunto
la regione orientale della Repubblica democratica del Congo per unirsi
alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare pace e
rispetto dei diritti umani. L’iniziativa ha seminato forti speranze che
attendono di diventare realtà
.

Sembrava un’idea
temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso,
quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a
raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha
già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati
i costruttori di pace
», «Operazione colomba» e «Chiama
l’Africa
», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza
dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia,
Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo,
nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo
un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo,
per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con
la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.


PROGETTO
«VISIONARIO»

A volte la causa
della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto
profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni
schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa
l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante
appoggio logistico ai pacifisti.

L’ispiratore di tale
iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove
originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese
prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore
lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato
dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il
testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima
persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri
e manifestazioni varie.

Che i tempi fossero
maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro
arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo
giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I
militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo
della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.

Alla frontiera
ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman,
percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla
foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno.
In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!»
(pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al
tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?»
domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama:
la chiamano «Organizzazione non utile».

Dopo una sosta a
Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei
militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle
porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli
organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa
dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del
Rassemblement congolais pour la democratie
(Rcd) di Goma, appoggiati
dai rwandesi.

A Butembo apparvero
ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la
popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di
persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari
gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse
commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha
esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo
all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati
ufficiali?».


SIMPOSIO PER
LA PACE

A Butembo i
pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in
Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di
organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e
integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e
protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali
attori politico-militari della regione.

«Simposio» è una
parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il
Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte
del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che
pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e
sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze
in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali
che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate
sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono
abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.

All’apertura dei
lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di
Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba,
presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte
dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da
una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di
Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale
ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i
cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia
assoluta».

La replica di Bemba
non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato
facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al
mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della
Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente
controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del
paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia
francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a
volte è necessario combattere».

Il Sipa chiuse i
lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra
l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio
congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may
may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili
del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza
intercongolese di pace.

Nonostante il
moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di
incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della
Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla
lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine
della giornata conclusiva.


IL CAPO
CHIEDE PERDONO

Lentamente, le
circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero
verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada
principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di
un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di
occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una
festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio
contributo.

La cerimonia finale,
che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani
e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a
dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga
preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può
definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla
provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi
durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di
persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa.
«Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da
noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -.
Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e
Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare
ritorno alle loro sedi».

L’annuncio è accolto
dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la
regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari
paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade
insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto
genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone
incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere
da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.

Stupore anche fra le
fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati,
obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni
specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo
intrapreso quest’avventura.


SPERANZA
APPESA A UN FILO

Solo il tempo dirà
se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un
processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a
Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco
villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla
violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il
dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la
resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati
dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua
volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente
comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative
della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.

Nessuno è così
ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma
sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato
la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a
Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da
chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae.
L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.

Le ultime notizie
che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may
del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali
ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle
truppe straniere di occupazione.

La smobilitazione
delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta
parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come
promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra
Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu
(uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.

Non è chiaro,
infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente
ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha
ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente
ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo,
il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a
Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.

Il futuro rimane
ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in
scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia
popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.


Marco Pontoni è
giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.



ULTIMI FATTI IN CONGO

16 gennaio 2001:
Laurent Désiré Kabila, presidente della Repubblica democratica del Congo,
rimane vittima in un attentato. Gli succede il figlio Joseph.

Fine di gennaio:
Joseph Kabila visita Europa e Usa, promette libere elezioni.

1 febbraio: Kabila
incontra a Washington Paul Kagame, presidente del Rwanda, che considera
necessaria per la sicurezza nazionale la sua presenza militare in Congo.

28 febbraio:
rimpatrio di parte delle truppe ugandesi presenti a Buta; i rwandesi
abbandonano Pweto, occupata alla fine del 2000.

15 marzo: parziale
ripiegamento degli eserciti stranieri dal Congo. Continuano le violenze
nei territori controllati dalla Coalizione democratica congolese-Goma,
sostenuta dal Rwanda.

30 marzo: 110
militari uruguayani, primo contingente di osservatori della Missione Onu
in Congo (Monuc), si insediano a Kalemie (Goma). Il mandato della Monuc,
istituita nel 1999, prevede l’impiego di circa 5.500 uomini.

6 aprile: il
presidente Joseph Kabila annuncia nuove elezioni per maggio o giugno,
purché tutti gli eserciti stranieri si siano ritirati dall’ex Zaire.

20 aprile:
contingente marocchino a Kisangani: finora sono solo 600 i soldati della
Monuc in Congo. L’operazione di ritiro degli eserciti stranieri e
sostituzione con soldati Onu si sarebbe dovuta completare entro maggio.


Marco Pontoni