COLOMBIA – Grilletto Facile

Colombia
Paolo Moiola

Guerriglia, narcotraffico, paramilitari, delinquenza comune… All’origine di tutto c’è il sistema perverso dell’economia mondiale. Accompagnate dai missionari, le popolazioni indigene e contadine del Cauca (Colombia) si oppongono a tali forme di violenza con l’organizzazione popolare, difendendo il diritto alla terra e al rispetto delle proprie tradizioni culturali.

A El Nilo, località situata sulle pendici delle Ande, il 16 dicembre 1991, uno squadrone della morte, con la collaborazione e protezione della polizia locale, ha trucidato 20 giovani indios, 3 donne e 17 uomini, riuniti insieme ad altri per progettare la gestione delle terre da poco recuperate.
Il tempo ha cancellato l’eco internazionale dell’eccidio e il ricordo delle condanne dei responsabili , come capita spesso quando sono i poveri a morire; ma ne rimane vivo il messaggio, scritto insieme ai nomi dei martiri sul muro bianco di un edificio diroccato: «Le vostre vite stroncate sono le pietre vive della nostra comunità».
Non tutti sono sepolti in quel luogo, dove l’erba è soffice e il filo di recinzione impedisce alle mucche di pascolarvi liberamente. Lo sguardo spazia sulle montagne, pendii e pianura: meditazione e preghiera sgorgano spontanee dal profondo dell’anima; il silenzio avvolgente pare messaggero di pace, ma non è così.
Questo sguardo d’insieme valica le montagne ed entra nei palazzi del potere, dove è stato deciso il Plan Colombia: investimenti clamorosi per 1.300 milioni di dollari, con cui gli Stati Uniti, col pretesto di combattere il narcotraffico, stanno introducendo nel paese militari specializzati per controllare il territorio e difendere ricchi e privilegiati.
Per ora l’Europa pare incerta. Speriamo che tale incertezza non nasconda oscure complicità o pilatesche neutralità, ma si trasformi presto in una ricerca di dialogo e collaborazione attiva con quella parte della società colombiana impegnata nella giustizia, legalità e diritti umani.

SOFFOCATI DALLA VIOLENZA
Avverto profonde sintonie con i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, due amici, missionari della Consolata di cultura e spiritualità, coscienza lucida e coerenza trasparente. Insieme a un’équipe di altri preti, laici, religiose, essi condividono progetti, difficoltà, durezze e speranze degli indios nasa, una popolazione di 120 mila persone sulla cordigliera centrale delle Ande, nella regione sud-occidentale del paese.
«Questo popolo – spiega padre Antonio – vive una profonda memoria mitica, nella quale interpreta avvenimenti e persone, fra cui le grandi figure che ne hanno segnato la loro storia. Una di esse è padre Alvaro Ulcué, prete indio ucciso nel 1984. Anche per noi egli è un costante riferimento dell’uomo nuovo che, alla luce di Cristo liberatore, riprende il processo storico per costruire una nuova comunità. Per gli indios è lo stesso Spirito che si incarna in queste figure di profeti, liberatori, salvatori, nelle fasi di resistenza, ribellione e speranza».
Padre Antonio si fa triste e perplesso quando gli chiedo una valutazione sulla situazione della Colombia. «Dieci anni fa, avrei risposto in modo più positivo. Nella società civile di allora, insieme al conflitto, c’erano spazi di movimento, elaborazioni e scelte. Tali spazi, oggi, sono venuti meno. Ci sentiamo soffocati dalla violenza, che colpisce soprattutto i civili. I paramilitari, cresciuti nell’esercito, uccidono in modo diffuso e terribile le persone sospettate di sopportare o fare parte della guerriglia. I guerriglieri uccidono i simpatizzanti dei paramilitari; sono diventati prepotenti; pare che abbiano perso gli ideali originari di lotta per la giustizia e mirino solo al potere. Lo affermo con cognizione di causa, avendo avuto colloqui con loro che, pur non condividendo il nostro lavoro, lo apprezzano.
Poi ci sono la violenza legata al narcotraffico e la delinquenza comune, alimentata da una crisi economica spaventosa e da una grande disoccupazione. La situazione, quindi, è molto difficile. Ciò non sminuisce il nostro impegno quotidiano con le comunità, sostenendo il movimento indigeno, che pretendono e difendono l’autonomia nelle decisioni che riguardano la loro vita. Parlo di autonomia, non di neutralità, che è impossibile e rifiutata dalla gente. Tale sforzo può sembrare un’utopia, eppure il cammino continua. Da parte nostra occorrono costante formazione delle coscienze e partecipazione attiva ai progetti, impegni e verifiche».
Quando chiedo che senso abbia continuare a essere missionario in una situazione del genere, padre Antonio insiste sull’importanza di entrare in profondità negli spazi, luoghi e tempi delle persone e delle comunità, del contributo per costruire una chiesa dal cuore e volto indio.
Indicando una nuova costruzione appena terminata, il missionario aggiunge: «Sono strutture semplici ed essenziali, destinate agli incontri comunitari, anche di lunga durata, per riflettere sulla fede, cultura, spiritualità india alla luce liberatrice del vangelo di Cristo».
PADRE ALVARO… VIVE
A poca distanza da Toribio, sorge un centro scolastico e culturale, destinato all’istruzione di 600 giovani, incontri di formazione per adulti e assemblee di vario genere.
Costruita con i contributi della Comunità Europea e altri organismi di solidarietà, la struttura si autogestisce finanziariamente: i percorsi formativi, infatti, includono allevamento di bestiame, galline e pesci; coltivazioni di caffè, banane e ortaggi, destinati al sostentamento di alunni e insegnanti.
Nel settembre 2000, la popolazione indigena ha celebrato i 20 anni del «Progetto Nasa», iniziato nel 1980 da padre Alvaro Ulcué, che ne ha indicato anche obiettivi, criteri e metodi di operazione. Si tratta di un progetto culturale fatto di lavoro, resistenza, lotta, organizzazione e progettazione comunitari.
L’anniversario ha offerto l’occasione per valutare, verificare e rilanciare i progetti, con la costante ricerca di conciliare i valori tradizionali con le novità imposte dalle sfide e insidie della modeizzazione.
Padre Ezio Roattino mi guida a Pueblo Nuevo, paese natale di padre Alvaro. Sostiamo in preghiera davanti alla sua tomba. Il missionario rievoca il senso della vita e della morte di questo profeta, la presenza sempre viva nelle comunità e le parole ridette in ogni assemblea: «Pensate con profondità, studiate con impegno e passione, lottate con coraggio, siate persone di valore».
Nei lunghi colloqui durante i viaggi di trasferimento, padre Ezio ribadisce le preoccupazioni di padre Antonio sulla situazione colombiana. Come contrastare tante e continue uccisioni e violenze contro la popolazione civile? Combattere la violenza con la violenza aumenterebbe solo il caos, continua il padre pensando ad alta voce; l’ipotesi della violenza come situazione estrema per abbattere il tiranno è impraticabile in una situazione storica così complessa: se è facile individuare il tiranno nel neoliberismo, nelle multinazionali, nel latifondismo, è difficile muoversi fra tutti i soggetti armati. L’autonomia dei popoli indigeni può sembrare un’ingenuità, ma è un cammino di realismo, l’unico tentativo valido di liberazione dalla violenza.

CHI SONO I DEBITORI?
Padre Ezio passa all’analisi del debito estero, cominciando dall’espropriazione dei nomi originali, sostituiti con quelli europei: America da Amerigo Vespucci, Colombia da Cristoforo Colombo.
Lo sviluppo del mercantilismo, poi del capitalismo, in Europa e Usa ha provocato il saccheggio di manodopera e materie prime in quantità impressionante: è l’Occidente in debito nei confronti degli indigeni latinoamericani. Ed è enorme, se si aggiungono le decine di milioni di persone oppresse o eliminate, i milioni di schiavi neri, importati come manodopera a buon mercato.
È questo il debito che, iniziato da oltre 500 anni, dovrebbe essere smascherato con più evidenza alla luce profetica della bibbia e del grande Giubileo, proclamato ma non attuato come severo vincolo storico di restituzione.
Il diritto internazionale non detta all’economia le regole dell’equità e della giustizia che la vita di questi popoli esige. Siamo in un circuito perverso: i governi di paesi nel Sud del mondo sono debitori a Europa, Usa, banche: devono pagare gli interessi per uno sviluppo che non è stato tale; anzi, si è risolto in un continuo impoverimento; non riuscendo a pagarli, il debito aumenta sempre più, determinando una condizione di soffocamento.
Bisognerebbe ribaltare completamente la prospettiva: l’Europa e gli Usa dovrebbero restituire ai paesi amerindi le immense ricchezze rubate con la forza; e sarebbe solo un parziale risarcimento materiale, perché la negazione delle diversità culturali e religiose richiedono un lungo cammino di liberazione dalla logica del dominio; i milioni di vite umane eliminate resteranno sempre una drammatica domanda aperta all’imperdonabile ed omicida presunzione.
Sono frammenti dei lunghi dialoghi con padre Ezio, uomo ricco di umanità e spiritualità, minacciato, qualche tempo fa, perché pienamente inserito nei processi delle comunità indigene.
Per celebrare l’anno santo ha proposto che le mete giubilari per gli indios nasa fossero la tomba di padre Alvaro, luogo sacro per la spiritualità indigena, dove è stata collocata una grande pietra simbolica; El Nilo, dove sono stati massacrati i 20 giovani, e la cattedrale di Popayan, come centro della celebrazione eucaristica. Tre luoghi strettamente legati alla profezia, al martirio e ai valori della fedeltà. E non si è parlato di indulgenze, ma d’impegno per rinnovare le comunità, con missioni sulle montagne, affidate a donne e uomini provenienti da luoghi diversi.

LA RADICE DELLA VIOLENZA
A Popayan incontro gli amici della Fundacion Aurora e del sindacato degli insegnanti Asoinca. La prima è un’iniziativa comunitaria a cui partecipano rappresentanti di organizzazioni di quartiere, ecclesiali, contadine e indigene. Impegnata nella prevenzione e lotta alla violenza, la fondazione si muove in varie direzioni. Sotto l’ispirazione e guida delle tradizioni e culture autoctone, essa promuove lo studio e la conoscenza dei diritti umani nella famiglia, scuola, organizzazioni comunitarie. Raccoglie documenti e notizie su conflitti armati, sparizione di persone, uccisioni, sfollati, condizione di indigeni e contadini e altre violazioni dei diritti fondamentali, per poi diffonderle attraverso organismi nazionali e inteazionali.
La fondazione, inoltre, cerca di rafforzare le organizzazioni comunitarie, sostenendo progetti di produzione, distribuzione e consumo per combattere le coltivazioni illecite, promuovendo l’autogestione delle stesse comunità, nell’ambito di uno sviluppo sostenibile che integri produzione e difesa delle risorse naturali e dell’ambiente.
Nella sede dell’Asoinca è appesa una lista impressionante di nomi: 187 persone hanno ricevuto minacce di vario genere; 28 sono state assassinate tra il 1985 e 1999; numerosi sono i maestri uccisi nel 2000.
L’impegno del sindacato degli insegnanti consiste nell’essere presenti nelle comunità, organizzazioni popolari e contadine. Ma la situazione è preoccupante: nei primi sei mesi del 2000 tredici insegnanti sono stati uccisi dall’esercito e dai paramilitari. Ricatti e violenze continuano contro coloro che sono direttamente e apertamente impegnati nel sindacato.
Incontro un prete italiano incaricato del cornordinamento delle associazioni italiane impegnate in iniziative e progetti di sviluppo nella regione del Cauca. Chiedo anche a lui un giudizio sulla situazione del paese. «La Colombia è la pietra di paragone per capire la strategia dei poteri economici e finanziari per controllare tutte le risorse naturali del pianeta. Il capitale non guarda in faccia nessuno: né alle popolazioni né all’ambiente; i governi nazionali non contano nulla: sono burattini manovrati; l’Onu e altri organismi inteazionali sono impotenti, talora legati ai capitali. È questa violenza macroscopica, che si vuole ignorare, la causa della violenza sociale sistematica sulle persone così diffusa in Colombia e in altri paesi latinoamericani. Ad opporsi a tale processo mostruoso restano comunità e organizzazioni che non hanno nulla da perdere e che sono le più esposte e colpite».

TERRORE DILAGANTE
Gli amici di Popayan ribadiscono quanto ho sentito da padre Antonio e padre Ezio: la minaccia dei paramilitari, o «Gruppi uniti di autodifesa» come si proclamano, diventa sempre più preoccupante. Nel maggio 2000 hanno solennemente annunciato la loro presenza organizzata in tutta la regione del Cauca.
Questi gruppi armati sono sostenuti logisticamente e operativamente dall’esercito. Con la motivazione ufficiale di combattere la sovversione, entrano nelle zone ricche di risorse naturali o in posizioni strategiche per appropriarsene o per aprire la strada ai megaprogetti delle multinazionali. Terrorizzano le popolazioni, indios e campesinos, uccidendoli e scacciandoli dalle loro terre. Minacciano sindaci, leaders popolari, insegnanti, sindacalisti e quanti sono impegnati nella difesa e promozione dei diritti umani.
Lo stato afferma che combattere il fenomeno dei paramilitari non fa parte del suo programma politico; in pratica, però, tale inerzia si traduce in connivenza con le multinazionali e in copertura del diffusissimo sistema di impunità.
I paramilitari entrano anche nell’attuazione del Plan Colombia, che impone la fumigazione delle piantagioni di coca con un fungo micidiale: questo non distrugge solo le foglie di coca o di papavero, ma attacca tutto ciò che trova, producendo effetti collaterali devastanti e ancora imprevedibili. I contadini sono costretti ad abbandonare i loro campi o, nel migliore dei casi, diventano braccianti sottomessi ai padroni dei terreni di cui erano proprietari.

UN PRETE SULLA MONTAGNA
Gli amici di Fundacion Aurora mi portano nel sud del Cauca. Lasciata l’auto a Sucre, continuiamo il viaggio a cavallo e a piedi, fino a raggiungere la comunità di Tequendama: 12 famiglie con 105 persone, che da tre anni si sono organizzate in cornoperativa per lavorare la terra data loro in comodato, utilizzando metodi di produrre tradizionali.
Parte del tempo è impiegato nel lavoro comunitario, parte per coltivare l’orto familiare. Hanno tutti il fermo proposito di non abbandonare la terra, di non lasciarsi condizionare e fagocitare dal mercato, di conservare i semi naturali per la produzione. Una casa per incontri comunitari è in costruzione con canne incastrate in modo perfetto.
Gli uomini mostrano con orgoglio la «loro» canna da zucchero, piante di caffè che possono resistere 80 anni, il terriccio del sottobosco custodito gelosamente, perché ricco di alimenti. Il volto di una giovane contadina s’illumina di orgoglio mentre descrive i vari prodotti che crescono nell’orto sperimentale.
A sera, scrivo sul diario: «Passa un prete (sono io) su questa montagna, dove i preti non salgono mai. Uno arriva fino a Sucre, celebra i riti e se ne va. Un uomo mi dice che darà il mio nome al suo bambino; una donna mi chiede una preghiera; un’altra la benedizione di un po’ d’acqua e l’aspersione di persone e ambiente. Un medico tradizionale cerca di guarire un’ammalata. Prima della preghiera e delle benedizioni dico “qualcosa”: che sono fra loro per ascoltare; che Dio è unico, chiamato con nomi diversi; che noi europei abbiamo preteso di imporre loro il nostro Dio, confondendolo con i nostri concetti e riti; che sto imparando da loro come Dio parli attraverso la creazione, gli spiriti, le persone; che l’acqua è vita, segno di purificazione, cambiamento e ripresa; che preghiera e benedizione ci aiutano a camminare accompagnati da Dio e accompagnandoci tra noi, come figli dello stesso Padre».

Paolo Moiola

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Paolo Moiola
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