SPECIALE 100 ANNI – Il nuovo che ci aspetta

Missionari anche domani nell’annunciare Gesù Cristo,
nella testimonianza della vita, per rendere «felici anche su questa terra»,specialmente gli «esclusi».
Ma «ci vuole fuoco per essere apostoli»
(beato Allamano).

«Il 2001 ci ricorda il primo secolo di vita dei missionari della Consolata. Chiediamo al Signore che, durante le celebrazioni giubilari, sappiamo recuperare una sempre più chiara coscienza della nostra responsabilità verso la chiesa e il mondo da evangelizzare».
Con queste parole padre Piero Trabucco, superiore generale, annunciava le celebrazioni per i primi 100 anni di vita dei missionari della Consolata, indicando che non è sufficiente «fare memoria» del passato, ma bisogna pensare al futuro che ci aspetta. Occorre far sì che il «codice genetico» ricevuto dal fondatore continui nelle nuove generazioni di missionari.
Lo Spirito Santo – pare ci voglia dire l’Allamano – soffia dove vuole e perpetua, oggi, gli stessi prodigi che operò agli albori della nostra famiglia missionaria. Il ricordarli non diventa solo un insegnamento per noi, ma può trasformarsi in sorgente di vita e ardore apostolico, secondo i bisogni del tempo nuovo che ci attende.
Essere missionari della Consolata nel terzo millennio significa camminare in due direzioni irrinunciabili: siamo stati voluti per «evangelizzare» e questa azione è per i popoli che ancora non conoscono il vangelo. Siamo, cioè, «ad gentes».
UNA consegna
precisa
«Evangelizzare è la grazia, la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare»: ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi.
Per noi missionari questo è e rimarrà sempre l’elemento essenziale e costitutivo della nostra vocazione, una consegna esplicita del fondatore Allamano, che diceva: «Datevi con tutto il cuore all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre congregazioni che attendono ad altri ministeri».
Nel Nuovo Testamento «evangelizzare» è una realtà dai molti volti: annuncio con un linguaggio comprensibile, testimonianza, guarigioni, amore, perdono, «consolazione». Al cuore di queste espressioni, Gesù colloca (e gli evangelisti lo ricordano) il regno di Dio, che non è un puro concetto, ma il movente di tutta la sua azione.
La chiesa, nell’attuare la missione ricevuta da Cristo, ha sviluppato il tema dell’evangelizzazione accentuandone l’uno o l’altro aspetto. Se un tempo aveva un solo scopo (andare, annunziare, convertire, battezzare e fondare la comunità cristiana), oggi si apre a un ventaglio più vasto e l’esperienza dei missionari sul campo lo conferma.

In questa ampiezza e ricchezza di significati del termine «evangelizzazione», ci piace sottolineare alcuni aspetti:
n Scoprire i «semi del Verbo» (come dicevano i padri della chiesa) nel contesto in cui il vangelo viene predicato. Oggi, più che mai, i missionari riconoscono che Dio parla all’umanità intera attraverso il creato, il popolo della «prima alleanza», le religioni e culture di altri popoli.
n Annunciare esplicitamente il vangelo e Gesù Cristo come unico salvatore; che è molto di più dell’insegnamento di una dottrina, una morale, un insieme di verità alle quali aderire. L’annuncio mira a cambiare le persone dal di dentro e condurle a vivere, pensare e operare secondo gli ideali del regno di Dio, fino alla formazione di chiese locali.
n Testimoniare la verità della Parola con la vita degli annunciatori e la trasformazione dei suoi destinatari. La testimonianza dello stile di vita di Gesù, da lui proposto ai suoi discepoli, anche senza annuncio esplicito della sua parola, è già evangelizzazione.
n Promuovere lo sviluppo autentico delle persone e dei popoli, nella giustizia e nell’amore, con la cooperazione di tutte le forze (anche di coloro che non credono o hanno fedi diverse) verso il bene comune, cioè il Regno.
n Rivolgere il messaggio evangelico non solo agli individui, ma anche alle comunità. Il contenuto dell’evangelizzazione non si può capire senza il contesto di una comunità che lo vive e lo comunica in modo significativo. È ciò che l’Allamano chiamava «elevazione dell’ambiente».
n Evangelizzare anche le culture, le strutture e i modelli di vita, per purificare ciò che è in contrasto con la parola di Dio e favorendo l’inculturazione del messaggio evangelico.
non solo geografia
I missionari della Consolata sono nati in un tempo in cui la missione si confondeva con la geografia. Rivolgersi ai non-cristiani significava uscire dal proprio paese, per andare in altri continenti: un elemento carismatico ritenuto ancora valido. Per l’Allamano era assolutamente chiaro che la peculiarità dei suoi missionari stesse nell’uscire dalla propria terra, nell’incontro con popoli, culture e religioni differenti e nell’annuncio del vangelo a chi non ne era venuto a conoscenza.
Inoltre il nostro istituto è nato per l’Africa. A questo continente era rivolto il sogno dell’Allamano che si ispirava a un «modello africano», il Massaia, per indicare la meta ai suoi missionari. Per tutta la vita il fondatore pensò e lavorò per le missioni d’Africa, per la quale egli stesso affermava di aver sempre avuto, senza sapee la ragione, una speciale attrazione. È in Africa che l’istituto ha elaborato la sua strategia e metodologia missionaria e, nella percezione comune, partire e fare missione erano sinonimi di «Africa». Così la fondamentale identità dei missionari della Consolata viene dal cotinente nero, dove è maturata la loro iniziale esperienza e comprensione dell’ad gentes.
Ma questa scelta non è esclusiva. Ha il diritto di «primogenitura», ma si andrà pure altrove, come raccontava il fondatore dopo una visita a Propaganda Fide, aggiungendo di aver fatto una proposta: «Poi andremo dove ci vogliono». Ed è su queste componenti fondamentali dell’identità dell’istituto che si è innestata la linfa vitale della missione in America e, soprattutto, in Asia. La «scoperta» continua ancora e spinge a chiarire sempre meglio ambiti e direzioni del nostro impegno missionario ad gentes.
Non si tratta soltanto di luoghi, ma di persone, situazioni, aree, fenomeni, culture non raggiunti dal vangelo. Si apre, quindi, il grande ventaglio di quelli che il papa, nella Redemptoris missio, ha indicato come i modei «areopaghi».
Per noi, missionari della Consolata, significano concretamente l’Asia, l’islam, le molte forme di ateismo pratico, il fenomeno della scristianizzazione, il mondo delle sètte e dei movimenti religiosi. Come attuazione concreta, c’è l’impegno per una nuova apertura in un altro paese dell’Asia, oltre alla Corea, dove l’istituto ha già alcune presenze, rivolte prevalentemente al dialogo interreligioso, all’animazione missionaria della chiesa, alla pastorale in ambienti disagiati.
In linea con le Costituzioni, che nell’evangelizzazione dei non cristiani danno la preferenza ai «più bisognosi e trascurati», vengono altre due scelte: le povertà urbane (uno dei fenomeni più degradanti del tempo presente ed anche più massicci per il numero di persone coinvolte) e le minoranze etniche (spesso vittime di oppressione, emarginazione e minacciate di distruzione culturale e fisica).
Un impegno non indifferente e significativo rimane quello dell’animazione missionaria di tutte le chiese. Appena nasce, ogni comunità cristiana, per essere veramente tale, deve aprirsi all’intera umanità: all’annuncio del vangelo ai non cristiani del luogo e del mondo. Nostro compito, perciò, sarà quello di aiutare le comunità ad assumere questa dimensione, con slancio e generosità.
Infine l’impegno per la giustizia e la pace. Intitolato alla «Consolata», l’istituto ha ricevuto dal suo fondatore un criterio preciso: abbinare l’annuncio del vangelo con la promozione umana nelle sue diverse forme, la vicinanza e la partecipazione alla sorte della gente.
L’Allamano ha inviato i suoi missionari a portare un «vangelo di consolazione», capace di rendere «felici anche su questa terra». Vogliamo, allora, farci voce degli esclusi di ogni genere e a essi diamo voce, con l’impegno per la difesa e promozione dei diritti e della dignità umana, con la riconciliazione tra persone, tribù, popoli e nazioni, con la salvaguardia del creato. Questi temi sono parte costitutiva dell’evangelizzazione ad gentes ed «espressione odiea di consolazione».
Un’attenzione particolare i missionari della Consolata la riservano ai laici, con i quali vogliono condividere l’evangelizzazione. È la conseguenza della presa di coscienza che ogni battezzato è missionario per natura sua, vero agente di pastorale e di missione, per vocazione. È un cammino aperto, che richiede riflessione, nonché qualche «conversione», per saper collaborare, condividere, programmare insieme.

Tutti questi aspetti portano alla conclusione che le trasformazioni avvenute, nel mondo e nella chiesa, esigono un forte impulso al rinnovamento, ma nel profondo. Puntando quasi a una «rifondazione» dell’istituto, perché vi sia lo «zelo apostolico» di cui parlava il beato Allamano. «Ci vuole fuoco per essere apostoli!»: zelo presente in modo caratteristico nelle prime generazioni di missionari.
Questo, al di là delle strategie e delle proposte per il futuro, ravviva il cammino che i missionari della Consolata vogliono compiere per i prossimi… 100 anni!

Giacomo Mazzotti

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