SPECIALE 100 ANNI – Ieri e sempre…

PIONIERI

INOSSIDABILE
mons. Filippo Perlo (1873-1948)

Partito col primo drappello di quattro missionari destinati al Kenya, alle dipendenze dei padri dello Spirito Santo, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.
Superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo: l’anno seguente fu nominato superiore.
Intelligente e pratico, lavoratore instancabile, salute di ferro, era nato per comandare. L’esperienza militare l’aveva formato a quel tipo di autorità che dà ordini senza troppe spiegazioni ed esige obbedienza assoluta. Per la profonda conoscenza del territorio, acquisita con numerosi e difficili viaggi, i suoi giudizi sul lavoro e scelte da fare erano spesso insindacabili; nel suo frenetico dinamismo indicava la strada e la percorreva per primo. Tutte le incipienti missioni del territorio affidato all’Istituto portano l’impronta della sua fatica, ispirazione e propulsione.
Sapeva servirsi delle autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con intelligenza, diplomazia e qualche sotterfugio, riusciva a ottenere il massimo e concedere l’indispensabile.

Sognava una rete di missioni, distanti una giornata di cammino una dall’altra, entro cui abbracciare tutta la regione dei kikuyu per evangelizzarla e impedie l’accesso ai protestanti. Da qui la sua strategia: «occupare» i punti nevralgici, con strutture ridotte all’osso, da cui partire per la penetrazione capillare nel territorio. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni, un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricolo-pastorizia in embrione.
All’inizio del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati, visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri, formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino ai nostri giorni.
Nel progetto iniziale dell’Allamano, l’impresa missionaria in Kenya doveva servire come prova temporanea, in attesa di spostarsi tra gli oromo (galla) dell’Etiopia. Ma padre Perlo convinse l’Allamano a chiedere a Propaganda fide di separare il territorio kenyano dal vicariato apostolico di Zanzibar e affidarlo ai missionari della Consolata. Il 14 settembre 1905, con grande disappunto dei padri dello Spirito Santo, fu creata la missione indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il consolidamento del lavoro tra i kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative, vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei meru.
Nella sua inesauribile strategia, il vescovo sarebbe voluto andare dappertutto; talvolta senza misurare le forze dei missionari. Già nel 1902 scriveva nel diario un piano di evangelizzazione per i nomadi masai: «Ancora da nessuno tentata, si presenta a noi in condizioni certamente favorevoli. Però il sistema di evangelizzazione sarà alquanto differente da quello dei kikuyu, popolo agricoltore e stabile. Come i missionari che evangelizzano i beduini, bisognerà seguirli nelle loro peregrinazioni, abitando nei loro kraals, in tende o casette mobili con ruote!». Il piano cominciò a realizzarsi solo nel 1963, quando a mons. Cavallera fu affidata la regione di Marsabit.

Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania (1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e ne controllava strettamente l’esecuzione. Tre di esse costituirono il fiore all’occhiello della sua geniale attività: tipografia (1916) e pubblicazione del mensile Wathiomo mukinyu, diventato strumento indispensabile per lo sviluppo delle scuole e consolidamento dell’attività catechetica; seminario di Nyeri per il clero locale (1919); congregazione delle suore indigene della Immacolata Concezione (1920).
Ritenendo la donna indispensabile nella evangelizzazione, il Perlo aveva voluto le suore fin dall’arrivo in Kenya, «prestate» dal Cottolengo; poi insistette perché l’Allamano estendesse la sua pateità anche al ramo femminile: nel 1910 nacque l’Istituto delle missionarie della Consolata. Egli sapeva quanto una missione dipendesse dalle suore. Non fu sempre tenero con loro, ma per lui contavano quanto i missionari, a volte anche di più.
Nel 1924 il vescovo dovette tornare in patria per seguire da vicino e a tempo pieno la vita dell’Istituto. Alla morte dell’Allamano divenne superiore generale. Durante la visita apostolica si ritirò dalla carica (1930). Avrebbe voluto tornare nel suo vicariato. Ormai con la nomina del nuovo vicario, mons. Giuseppe Perrachon, i ponti erano tagliati. Si ritirò a Roma, dove morì nel 1948.

Dall’antico vicariato apostolico del Kenya, sono nate l’arcidiocesi di Nyeri, con le suffraganee di Meru, Murang’a, Embu, Marsabit, Garissa e vicariato di Isiolo. Tali chiese locali restano la migliore testimonianza che l’opera, avviata e guidata per 22 anni da mons. Perlo, aveva radici profonde, capaci di portare frutti abbondanti.

INAFFERRABILE
mons. Gaudenzio Barlassina (1880-1966)

Era il sogno dell’Allamano: continuare il lavoro del Massaia in Etiopia. Turbolenze per la successione al trono, opposizione del clero copto, intrighi inteazionali rendevano impossibile l’entrata ai missionari.
Dal vicariato dei galla, affidato ai cappuccini francesi, nel 1913 Propaganda fide staccò la prefettura del Kaffa e nominò prefetto padre Gaudenzio Barlassina. «Trovata chiusa la porta, non mi resta che la finestra» decise il missionario: travestito da mercante, cavalcando un mulo, la sera di natale del 1916 entrò in Addis Abeba; affittò una casetta annessa all’Hotel Bollolakos e cominciò a studiare la situazione, oltre alla lingua e costumi del paese.
«Guardare senza copiare; sentire senza parlare; fare senza dire; procedere senza curarsi degli apprezzamenti umani…» era la strategia adottata per riuscire nella sua complicatissima missione. Per non dare nell’occhio, si dedicò a minuscoli commerci; lavorò come traduttore nella Banca Abissina; diventò socio della falegnameria dell’italiano Felice Gullino, col quale cercò i contatti giusti per raggiungere i suoi scopi.
Riuscì a farsi ricevere da ras Tafari, reggente al trono dell’impero etiopico. Questi apprezzò il progetto sociale e umanitario proposto da Barlassina; ma non concesse alcun permesso esplicito, per non provocare la suscettibilità del clero copto, sostenuto dalla regina Zauditù.
Gli andò meglio con alcuni ministri imperiali e capi locali, dai quali ottenne un lasciapassare per entrare nella regione del Kaffa per svolgere attività commerciali.

Alla fine del 1917 arrivarono i primi rinforzi, anch’essi camuffati da mercanti. Non potendo agire allo scoperto, Barlassina progettò scuole agricole e laboratori industriali, con cui entrare in contatto con la gente, soprattutto con i giovani: nasceva la stazione missionaria di Ghimbi, 500 km a ovest di Addis Abeba.
L’anno seguente, scoppiata un’epidemia di spagnola, i missionari si mobilitarono per soccorrere i malati: allacciarono relazioni con «molti cattolici abissini», residui delle cristianità del Massaia, cacciati dai paesi d’origine dalla persecuzione.
Con una fitta serie di leggendarie carovane mons. Barlassina perlustrò il territorio a lui affidato, strinse amicizie con i capi locali, studiò posizioni strategiche dove aprire nuovi centri commerciali-missionari. Nella prima carovana (1919) ebbe una stupenda sorpresa: a Giren incontrò abba Mattheos, ultimo superstite dei sacerdoti ordinati dal Massaia, costretto a domicilio coatto in mezzo ai musulmani. Si riannodava così l’ultimo filo che legava le gesta del grande cappuccino alle avventurose iniziative dei missionari della Consolata.

Era il tempo delle «catacombe». I missionari circolavano in incognito, chi con una vecchia Singer, cucendo tuniche e braghe per la gente dei villaggi; chi con pentole per raccogliere cera da fondere; chi fabbricando per capi, capetti e benestanti porte, finestre, divani, tavolini, casse per i vivi e per i morti. Intanto incontravano vecchi cristiani del Massaia e li accoglievano in segreto nelle loro capanne.
In due anni sorsero cinque stazioni missionarie. «Niente visibili monumenti di religione – scriveva monsignore -. Tutto è ancora piccolo: piccole cappelle, piccole scuole, piccoli ambulatori, piccoli catecumenati e piccole cristianità. I sacramenti sono amministrati all’ombra delle aziende e laboratori. Viaggiamo da poveri; ci stabiliamo come onesti lavoratori. Tra un lavoro e l’altro puramente materiale, trova comodo passaggio l’annuncio nascosto del vangelo».
Nel 1921 mons. Barlassina ottenne da ras Tafari la concessione di sfruttare la foresta di Sayo, ai confini col Sudan; fu allestita una falegnameria dove si costruiva di tutto, fino a case smontabili e trasportabili a distanza. La regina Zauditù e ras Tafari ordinarono due palazzine, completamente arredate. Il trasporto del materiale fino alla capitale, oltre 700 km, richiese 80 giorni di viaggio, due carovane di 3.600 portatori ciascuna e la collaborazione di 22 governatori, obbligati dall’autorità imperiale a procurare il ricambio del personale. L’impresa leggendaria aprì definitivamente i cuori dei sovrani nei riguardi di Barlassina: nel 1924 ottennero il permesso di fare entrare in Etiopia le prime suore della Consolata.
Era un tacito riconoscimento dell’attività religiosa dei missionari. Accanto ai laboratori, dispensari e bazar sorsero opere di autentica missione. Nel 1927 il Kaffa contava 11 stazioni missionarie, disseminate in un territorio esteso come l’Italia continentale, un seminario e un convento di suore indigene: le Ancelle della Consolata.

Negli anni di presenza in Etiopia Barlassina si era fatto etiope con gli etiopi, tanto che grandi studiosi di cose abissine si rivolgevano a lui come fonte esperta in materia. Non meno benemerita fu l’attività di mons. Barlassina per combattere la piaga della schiavitù. Oltre a raccogliere fondi per affrancare gli schiavi, studiò un progetto per restituire loro dignità, organizzando i «villaggi della libertà». Per liberare la gente da epidemie e malattie, fondò ospedali nella capitale e nell’interno del paese, chiamando a dirigerli medici italiani.
Nel 1932, alla posa della prima pietra dell’ospedale italiano di Addis Abeba, mons. Barlassina aveva accanto a sé l’amico ras Tafari, diventato imperatore col nome di Hailé Selassié. Era un riconoscimento esplicito di 16 anni di instancabile attività, condotta con eroica abnegazione e mirabile prudenza.
Quando la prefettura del Kaffa era ormai consolidata, nel 1933 mons. Barlassina fu eletto superiore generale, carica riconfermata nel capitolo del 1939. Per 17 anni guidò l’espansione dell’Istituto in Europa e America Latina. Nel 1949 fu nominato procuratore generale presso la Santa Sede, ufficio che rivestì fino alla morte (1966).

INARRESTABILE
padre Pietro Calandri (1893-1967)

Da piccolo sognava di fare il «bandito». Entrato nel seminario diocesano, non sapeva come conciliare sogni di avventura e vocazione; «ed eccoti saltar fuori la chiamata alla missione» racconterà lui stesso. E fu una vita al cardiopalmo.
Dopo cinque anni di esperienza in Kenya, nel 1925 padre Pietro Calandri fu inviato in Mozambico, con i primi missionari della Consolata destinati alla missione di Miruru. In tasca, però, aveva l’ordine di recarsi nella regione del Niassa insieme a padre Amiotti. Si stabilì a Mandimba, ai confini con il Malawi. Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i dovuti permessi.
Invece dell’autorizzazione, il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, intimò di uscire immediatamente dal paese, sotto pena di sospensione da ogni attività religiosa. Da Torino arrivò l’ordine di restare. Per padre Calandri seguirono due anni di «purgatorio»; «una situazione così terribile» da farlo piangere giorno e notte.
Nel 1928 la proibizione del prelato fu revocata e padre Calandri cominciò immediatamente la costruzione della missione di Massangulo. Ma non ebbe vita facile: appena iniziati i lavori, il governatore del Niassa gli ritirò il permesso di residenza. Due anni dopo, il delegato apostolico gli ordinò di chiudere la missione. Per chiarire la faccenda, il padre dovette correre prima a Porto Amelia, poi a Beira, migliaia di chilometri con mezzi sgangherati e sentirneri da capre.
Altre minacce venivano da ladri, leoni e capi musulmani. «La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso e i lavori continuarono frenetici. Con l’arrivo delle suore furono avviate le scuole elementari, la visita sistematica ai villaggi, la cura dei malati in missione e a domicilio.
Progettava altre missioni, ma dom Rafael negava ogni permesso di espansione. Padre Calandri concentrò i suoi sforzi per ingrandire Massangulo: collegi e scuole per oltre 200 alunni; laboratori di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle nei villaggi, affidate a maestri formati alla missione; formazione dei primi nuclei di famiglie cristiane.

Tensioni e scontri tra il missionario e il vescovo durarono fino al 1936. Da Roma dom Rafael si sentiva dire che l’evangelizzazione del Mozambico «era indietro di 300 anni», per cui egli aveva bisogno di personale. A Lisbona si vedevano con sospetto i missionari stranieri, specie italiani, visti come la lunga mano di Mussolini. Torino inviava missionari più del richiesto. E il vescovo scaricava il suo imbarazzo su Calandri.
Per eliminare l’equivoco, Roma sostituì dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; il superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, spedì Calandri a São Manuel (Brasile), per dipingere la chiesa di Santa Teresina.
Oltre alla pittura, Calandri si dedicò anima e corpo al lavoro missionario. La gente lo adorava. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma nel cuore sentiva quella destinazione come un castigo immeritato. Una ferita che lo fiaccò fisicamente, fino ad ammalarsi. A liberarlo dalla «terribile oppressione e agonia», che da quattro anni lo stavano consumando, arrivò il permesso di ritornare nella sua missione.
A Massangulo trovò come superiore provinciale un missionario della sua statura, ma di mentalità totalmente differente: interveniva in ogni decisione presa da Calandri. Dopo una serie di scontri e arrabbiature indescrivibili, il provinciale ebbe la bella idea di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità: la missione cresceva, fino ad accogliere oltre 500 alunni.

Nel 1948 padre Calandri fu richiamato in Italia; ma il vescovo di Nampula gli ordinò di restare al suo posto fino alla visita canonica del superiore generale. «Che cosa ho fatto di male?» si domandava il padre.
Da tempo lo si criticava per aver fondato la missione in una zona totalmente musulmana; perché perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; per la sua ospitalità, che avrebbe trasformato la missione in un albergo… A distanza e senza vedere la realtà, le critiche diventavano macigni.
Arrivato il superiore generale per la visita canonica padre Calandri fu chiamato a Mitucué: l’incontro si trasformò in «una bufera con tuoni e lampi». Ma quando mons. Barlassina arrivò a Massangulo, cambiò totalmente atteggiamento: non finiva di meravigliarsi per lo splendore e numero delle opere e attività della missione. Per il resto della vita monsignore continuò a definire Massangulo «una meraviglia».

Toata la bonaccia, padre Calandri continuò a lavorare col solito entusiasmo e determinazione, realizzando i sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, e la costruzione della chiesa dedicata alla Consolata, subito definita «cattedrale del Niassa».
E continuava a battagliare contro le ingiustizie: prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedevano terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Seguirono gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona gli appuntò sul petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; il governo italiano lo nominò Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice.
Nel 1967, tre mesi dopo aver celebrato il 50° anniversario di sacerdozio, morì nell’ospedale di Nampula. Fu sepolto nella sua «cattedrale», secondo il suo ultimo desiderio: «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo».

U na vita tutta in salita; ma non si arrese mai. Padre Calandri fu pioniere, eroe, gigante, artista, antropologo… ma soprattutto educatore, difensore e padre degli africani, specie degli ultimi. Cuore sincero e sensibile, li amò tutti, senza distinzione, cristiani e musulmani. E fu riamato.

TRAVOLGENTE
padre Giovanni Battista Bisio (1903-1947)

A 21 anni (era nato a Garessio, Cuneo, nel 1903), ancora studente, Giovanni Battista Bisio dirigeva i lavori per la costruzione della cattedrale di Mogadiscio, dove fu ordinato sacerdote nel 1926. Amministratore della scuola di arti e mestieri e delle attività agricole, fece appena in tempo a farsi le ossa: nel 1930 il vicariato della Somalia fu consegnato ai cappuccini. Il padre toò in Italia e passò alla formazione dei fratelli coadiutori.

N el 1937 padre Bisio fu inviato in Brasile per studiare la possibilità di raccogliere mezzi e vocazioni. A offrire un piede a terra era il vescovo di Botucatú, chiedendo in cambio di assumere la responsabilità della parrocchia di São Manuel e portare a termine la costruzione del santuario di s. Teresa di Lisieaux.
A poche settimane dall’arrivo, padre Bisio era già sui ponteggi per dirigere i lavori, tra la meraviglia dei muratori: l’anno seguente il santuario fu inaugurato. Con l’arrivo di due confratelli iniziò a rinnovare la vita della parrocchia, guadagnandosi stima e amore della gente.
Entusiasta e intuitivo, vide nel Brasile enormi potenzialità vocazionali e cominciò a sognare qualcosa di impensabile in quei tempi: l’inteazionalità dell’Istituto. Tenace e pratico, faceva progetti dettagliati e chiedeva l’approvazione dei superiori, insieme all’invio di personale per la formazione degli aspiranti. Suggeriva di cercare un campo di prima evangelizzazione, di cui il paese era ricco, per mandarvi i futuri missionari brasiliani.
A sostenere il suo entusiasmo arrivò padre Domenico Fiorina, con visioni più avanzate: missionari della Consolata brasiliani inviati ad altri popoli e continenti.
A Torino, però, si consigliava di procedere con i piedi di piombo, finché l’avventura brasiliana non fosse passata al vaglio del capitolo straordinario del 1939. All’assemblea capitolare partecipò anche padre Bisio. La sua relazione fu accolta con favore, anche se furono poste restrizioni più di forma che di sostanza.

A capo di sei missionari, padre Bisio martellava i superiori per avere altro personale. La guerra in corso ne aveva assottigliato la disponibilità. Gli fu risposto: «Arrangiatevi come potete». «Fecero miracoli di abnegazione e buona volontà» come testimoniava il superiore del gruppo. Il 16 febbraio 1940, adattando ambienti già esistenti, venivano inaugurati due seminari «embrionali», l’uno ad Aparecida, nei pressi di São Manuel, l’altro mille chilometri lontano, a Rio do Oeste, stato di Santa Catarina, affidato a padre Domenico Fiorina.
Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra al fianco degli alleati, i missionari si trovarono dalla parte sbagliata e furono annoverati tra i nemici. I massoni di São Manuel cercarono di tirare padre Bisio per la giacca; il suo nome comparve in una lista di spie. Ma riuscì a difendersi e scagionarsi totalmente. Ma più logoranti furono l’isolamento in cui erano costretti i missionari in Brasile e le difficoltà di comunicare con i superiori in Italia, per ricevere chiare direttive ed evitare incomprensioni.

Finita la guerra, padre Bisio riprese a stendere progetti sorprendenti per l’espansione dell’Istituto in Cile, Argentina e altri paesi sudamericani. Ne illustrava i vantaggi con dovizie di particolari. Ma Torino frenava i suoi bollori e centellinava il personale.
Nel 1946 il padre rientrò in Italia per un periodo di riposo e per riaffermare l’attaccamento all’Istituto: lo sforzo di autosostenersi economicamente aveva destato in qualcuno il sospetto che il gruppo del Brasile fosse diventato troppo autonomo. Padre Bisio non ebbe difficoltà a dimostrare la lealtà all’Istituto e ai superiori. Continuò a battere il chiodo del personale e toò in Brasile con la nomina di superiore provinciale e una decina di missionari e altrettante suore.
Con i nuovi arrivati si poteva consolidare la formazione di oltre 100 aspiranti missionari, aprendo noviziato e seminario filosofico, e assumere la responsabilità di nuove parrocchie. Mentre le suore, oltre a collaborare con i lavori in corso, accoglievano nel noviziato una ventina di aspiranti, già preparate spiritualmente da padre Fiorina.
Nel 1947 i missionari espulsi dall’Etiopia e quelli che non poterono tornare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Brasile. «Troppa grazia, sant’Antonio!», pensò padre Bisio, che dovette sobbarcarsi a interminabili trasferte per cercare nuovi campi di lavoro.
Dopo 10 anni di attività intensa, viaggi spossanti, responsabilità sempre crescenti, il padre si sentiva stanco e chiese ai superiori di passare la responsabilità di guida a padre Fiorina. Da Torino lo si riteneva ancora necessario: era l’uomo giusto al posto giusto.
Ma il 17 maggio 1947, ricoverato all’ospedale di Jahù per una banale appendicite, padre Bisio morì a causa di una misteriosa complicazione.

«Muoio giovane, a 44 anni, per andare a vivere la vita vera. Muoio contento: mi è forza e gioia il pensiero di aver compiuto il mio dovere di sacerdote, religioso e cristiano. Per primo venni in Brasile, per primo devo morire» furono le ultime parole.
Una vita breve, ma vissuta intensamente. Il seme da lui piantato e coltivato ha maturato decine e decine di missionari della Consolata brasiliani, inviati in tutti i continenti. I suoi sogni sono stati superati dalla realtà: oltre ai vari stati brasiliani, l’Istituto si è esteso ad altri quattro paesi dell’America Latina.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti

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