DAL 1899 L’UMANITÀ IN PRIMA PAGINA

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Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone