DAL 1899 L’UMANITÀ IN PRIMA PAGINA

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Primo gennaio 2001

B envenuti nella società del terzo millennio! Quale società? Serge Latouche sostiene (provocatoriamente) che la società non è la nostra del «benessere», bensì quella «arretrata» del terzo mondo. Qui la vita è intessuta di rapporti umani solidali. L’iniziativa del singolo non reca profitto a se stesso, ma a tutta la comunità, che è chiamata ad approvare, condividere e persino finanziare.
E che dire della flessibilità del lavoro derivante dalla «pluriattività»? Non credo che coincida con la flessibilità decantata dai nostri illuminati economisti. Il punto fondamentale è il contrasto fra una società che investe sui rapporti umani ed una, come la nostra, che sposta tutto sul piano del profitto economico, interponendo meccanismi che tendano a nascondere i danni arrecati ai nostri simili nel perseguire la ricchezza.
Latouche ricorda il rischio di implosione cui la società del profitto ad ogni costo va incontro. Lo scenario è reale: nella economia globale pochi si arricchiscono, a scapito di masse crescenti di esclusi.
Già, la globalizzazione. I media del «pensiero unico» la sbandierano come un ordine economico superiore, un mondo che ci accomuna tutti soprattutto per l’allineamento della cultura.
Però non mi pare che, grazie alla globalizzazione dei mercati, un minatore africano o un bimbo lavoratore pakistano acquisiscano gli stessi diritti degli uomini del mondo «evoluto». Neppure quelli primari di sopravvivenza. Perché le banane centroamericane, da noi molto apprezzate, non fanno la ricchezza della popolazione locale?
Mezzi di informazione. Non a caso le maggiori testate sono in mano a grossi gruppi finanziari. Le coscienze devono essere «persuase» con l’immagine accattivante di un benessere per tutti, ma che in realtà pochi conseguono. Chi non lo accetta è tacciato di violenza. Tutti ricordiamo le manifestazioni di Seattle o Genova. Per i media i manifestanti erano terroristi. Ma, dalle famiglie e bambini che hanno sfilato, questo proprio non si poteva dire! E poi perché esportare ad ogni costo il nostro modello come l’unico valido per tutti?
Ho visto un servizio televisivo sulla riorganizzazione dell’economia della Tanzania. Il Fondo monetario internazionale, in cambio di un sostegno economico, ha obbligato il governo locale ad effettuare ingenti tagli alla spesa sociale. Risultato: scuole a pagamento per pochi fortunati e ospedali chiusi perché in perdita. Cioè aumento della mortalità infantile e scarse possibilità di sviluppo per un paese senza scolarizzazione. Il servizio descriveva pure gli effetti della privatizzazione su un’azienda agricola: aumento di disoccupati e spostamento degli utili dallo stato ad una società europea. Bel suggerimento disinteressato!

A llora… riportiamo l’uomo al centro del modello di sviluppo. Investiamo nella dignità umana, nel capitalizzare le esperienze e tradizioni, nel libero pensiero svincolato dall’economia.
Solo prendendo coscienza della spietata realtà liberista saremo in grado di proporre una valida alternativa al modello unico imperante. La via non è la «rivoluzione», ma la dissidenza, la discussione, il confronto di idee. Concetti, questi, che il «pensiero unico» vuole estinguere o appropriarsene a proprio comodo.

Massimo Veneziano