Il ritorno del Nazareno

Nasce universale

È pentecoste. Spinto dallo Spirito, Pietro prende la parola davanti ai giudei provenienti dai quattro punti cardinali del mondo allora conosciuto, da Roma all’Arabia, dalle coste della Libia a quelle del Mar Nero. Tre mila persone accolgono il primo annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo e sono battezzate. Poco tempo dopo se ne aggiungono altre cinque mila.
Nasce la missione. Nasce universale. Ma non senza tensioni. Tra i convertiti ci sono giudei della diaspora, chiamati «ellenisti»: questi fanno una lettura diversa della storia d’Israele. Relativizzano il ruolo del tempio e della legge di Mosè e scoprono nel vangelo una dimensione più universale che sorprende gli stessi discepoli di Cristo. Il giudaismo ufficiale reagisce con veemenza: Stefano viene lapidato. Gli ellenisti abbandonano Gerusalemme e portano il vangelo fuori delle mura della città santa.
Intanto gli apostoli sembrano dimenticare il comando del Signore: «Andate in tutto il mondo, fino agli estremi confini della terra; battezzate tutti i popoli e insegnate loro ciò che io stesso vi ho insegnato». Ed ecco altre persecuzioni che costringono discepoli e apostoli a uscire fuori dei confini geografici ed etnico-religiosi a cui sono abituati.
Pietro capisce per primo che l’evangelizzazione è destinata anche ai non giudei, quando lo Spirito Santo lo tira per i capelli nella casa del centurione romano Coelio a Cesarea: tutta la famiglia si apre alla fede in Cristo, viene battezzata e confermata dalla discesa dello Spirito.
Ma chi si distingue nella direttrice universalistica è Paolo, apostolo dei gentili. Uomo di grande statura culturale e spirituale, persecutore dei cristiani, afferrato da Cristo sulla via di Damasco, si butta anima e corpo nella predicazione del vangelo. Tra il 46 e il 58, intraprende tre viaggi missionari, percorre diverse regioni dell’Asia Minore, fino a raggiungere la Macedonia e l’Acaia. Si rivolge dapprima ai giudei, destinatari prioritari del vangelo. Ma di fronte al loro rifiuto, si dedica all’evangelizzazione dei pagani. Un quarto viaggio lo porta a Roma in catene; ma continua a presentare a tutti il Cristo, fino al giorno in cui subisce il martirio, l’anno 67.
Gli apostoli sono affiancati da collaboratori, per lo più laici, missionari itineranti, che si spostano di città in città per annunciare il vangelo (profeti) e per consolidare la fede con la catechesi (dottori). Apollo di Alessandria d’Egitto, Lidia di Tiatira, i coniugi Aquila e Priscilla, collaboratori di Paolo, sono solo alcuni nomi di una folta schiera di anonimi uomini e donne che collaborano alla diffusione del vangelo nel primo secolo della chiesa.
Ma l’apertura universale non è indolore. Una corrente conservatrice esige che i pagani, prima di entrare nella comunità cristiana, diventino giudei, sottoponendosi alle leggi e costumi tramandate da Mosè. Una pretesa impraticabile: i pagani aborriscono la circoncisione; i divieti alimentari impediscono ai cristiani di cultura e origine diverse di prendere insieme i pasti. Per di più, osservava Paolo, l’imposizione della legge mosaica annulla l’assoluta novità e gratuità dell’azione liberatrice operata da Cristo.
La situazione diviene insostenibile. Perfino Pietro una volta la dà vinta ai conservatori, rifiutando di mangiare con gli «incirconcisi». Paolo gli rinfaccia l’incoerenza senza peli sulla lingua. Per dirimere la questione, verso l’anno 50, si raduna a Gerusalemme un «concilio ecumenico», il primo nella storia della chiesa: apostoli, anziani (collaboratori) e delegati di Antiochia, guidati da Paolo, raggiungono un compromesso: le prescrizioni giudaiche non devono essere imposte ai cristiani provenienti dal paganesimo; in compenso questi devono astenersi da comportamenti che fanno rabbrividire i giudei, specie in fatto di matrimonio.
La fede cristiana si sgancia dal giudaismo; con la distruzione del tempio (70), il distacco è definitivo. Ormai anche le autorità romane sanno distinguere i cristiani dai giudei, come dimostra la persecuzione scatenata da Nerone, in cui periscono Pietro e Paolo.
La chiesa diventa veramente cattolica (universale) anche sotto l’aspetto geografico: alla fine del I secolo il vangelo è ormai annunciato in tutte le grandi città dell’Oriente mediterraneo, dall’Egitto all’Asia Minore, dalla Grecia a Roma e alle coste della Gallia.
Le comunità sono piccole; i cristiani sono una minoranza, ma si fanno ammirare e notare per lo stile di vita singolare: preghiera comune e, soprattutto, solidarietà nel soccorrere i fratelli più bisognosi sparsi per il mondo greco-romano.

Evangelizzazione per osmosi

M orti gli apostoli, i loro successori diventano sedentari, facendo un tutt’uno con i vescovi. Anche i missionari itineranti scompaiono gradualmente. Eppure la chiesa cresce e si dilata, grazie a un certo numero di cristiani, come mercanti, soldati, funzionari, schiavi e altre persone costrette a spostarsi a causa del mestiere: evangelizzati, diventano evangelizzatori. Si potrebbe dire che i cristiani, chi più chi meno, si sentano tutti in «stato di missione».
Se da una parte, nel II e III secolo, il vangelo viene comunicato quasi per osmosi, non mancano i missionari veri e propri, che portano il vangelo fino agli estremi confini dell’impero; alcuni, addirittura, passano al di là delle frontiere. Gregorio il Taumaturgo (213-270), per esempio, predica il vangelo nelle regioni estreme del Mar Nero; Gregorio l’Illuminatore evangelizza l’Armenia, fonda ben 12 sedi vescovili, spingendosi fino alla Mesopotamia, Persia ed India.
Alla fine del III secolo i cristiani costituiscono il 15% della popolazione dell’impero, anche se ripartiti in maniera assai disuguale: in molte regioni orientali costituiscono più della metà della popolazione (5-6 milioni); in Occidente il cristianesimo avanza più lentamente (2 milioni), ma raggiunge gli estremi confini dell’impero. Alcune sedi vescovili compaiono in Britannia; una trentina sono in Gallia; nel 256 papa Coelio riunisce in assemblea 60 vescovi italiani; Cipriano ne convoca 87 a Cartagine; il concilio di Elvira (300) parla di 33 sedi vescovili in Spagna e Portogallo. «Siamo nati ieri – scrive l’apologista cristiano Tertulliano – e abbiamo già riempito la terra e tutto ciò che era vostro: città, quartieri, fortificazioni, municipi, borgate, palazzi, senato e foro. Vi abbiamo lasciato solo i vostri templi».
Senza togliere nulla allo zelo dei primi cristiani, la straordinaria espansione del vangelo è favorita dall’organizzazione dell’impero romano, all’apice della sua potenza. La pax romana è una realtà tangibile; ordine e diritto regnano in tutte le regioni; una fitta rete di strade e collegamenti marittimi raggiunge tutto il mondo allora conosciuto.
I missionari possono circolare in tutta sicurezza e andare dove vogliono, godendo della protezione legale dell’ordinamento romano; col greco possono farsi capire dappertutto.
Sotto l’aspetto religioso la società greco-romana è pervasa da confusione e tendenze contraddittorie. Per l’élite gli antichi dèi sono ormai fuori uso; la filosofia non offre soluzioni adeguate ai problemi della vita; allora si rifugia nei culti misterici di divinità orientali, che promettono esperienze del divino, dignità umana, pace interiore e immortalità felice. Le disuguaglianze sociali provocano malcontenti e risentimenti tra le classi meno fortunate. Per tutti, schiavi e liberi, ricchi e poveri, plebei e aristocratici, nobildonne soprattutto, l’ideale cristiano diventa la vera risposta alle più profonde aspirazioni di salvezza radicale, redenzione spirituale e felicità eterna. E così il vangelo abbatte ogni barriera di lingua, razza e ceto sociale.
Il sangue dei martiri

I nizialmente tollerati come una delle tante sètte orientali che pullulano nelle regioni dell’impero, i cristiani si trovano presto nell’occhio del ciclone. Scatenata per scherzo da Nerone, la persecuzione continua per oltre due secoli e mezzo; da Roma si estende alle più lontane regioni dell’impero, con intermittenza e intensità variabili, che va dal sospetto prudente alla caccia al cristiano.
Perché tanto accanimento contro i cristiani, in un impero fondamentalmente tollerante verso tutte le religioni dei popoli vinti? Le cause sono molteplici: ignoranza, calunnie, interessi, fanatismi. Ma c’è un motivo più profondo: in un ambiente in cui anche la religione è a servizio dello stato, fino a prestare culto agli imperatori, come segno di civica lealtà, i cristiani, che inorridiscono di fronte ad ogni idolatria, sono sentiti come corpi estranei e accusati di alto tradimento.
In alcuni periodi la persecuzione è devastante. A migliaia i cristiani d’ogni età e ceto cadono sotto la spada dei persecutori o finiscono in pasto alle fiere, negli spettacoli di circhi e anfiteatri, per il sollazzo della plebe.
Eppure il martirio si dimostra un efficace strumento «missionario» e molti evangelizzatori si identificano di fatto con i martiri. «Il sangue dei martiri è seme di cristiani – afferma Tertulliano -. Alla vista di tanto coraggio il popolo s’interroga e vuole sapere di che si tratta. E quando un uomo ha conosciuto la verità, è dei nostri». Le persecuzioni rafforzano lo sviluppo del cristianesimo e ne consolidano la struttura comunitaria, tanto che la chiesa, in tutti i suoi membri, si identifica con la sua missione.
Altri pericoli, più micidiali delle persecuzioni, minacciano vita e sviluppo delle comunità cristiane: le eresie. Per arginare tali sbandamenti dottrinali vengono radunati vari concili, che condannano gli errori e affermano la vera dottrina del vangelo. Un valido aiuto viene anche dagli intellettuali che, una volta convertiti, mettono penna e cultura a servizio del vangelo.
Fiorisce una letteratura cristiana ricca e variegata, per dimostrare ai persecutori la bellezza del messaggio evangelico e la lealtà dei cristiani; per confutare gli errori degli eretici; per confrontare i valori del vangelo con quelli della cultura corrente.
Non solo vescovi, preti e diaconi, ma anche i laici di ogni strato sociale (soldati, commercianti, nobili, schiavi, filosofi e scrittori) danno un solido apporto all’evangelizzazione. Senza dimenticare le donne, che danno luminose testimonianze di fede, sia affrontando impavide il martirio, sia cornoperando intelligentemente all’evangelizzazione.

Il vangelo nelle campagne

C on l’editto di tolleranza religiosa, promulgato dall’imperatore Costantino nel 313, il cristianesimo acquista finalmente la libertà, fino a diventare vera e propria religione di stato (380). Per combattere lo sfascio morale della società, gli imperatori puntano tutto sulla chiesa.
Col connubio tra stato e chiesa, l’evangelizzazione s’impone sui diversi ceti sociali, soprattutto sulle masse popolari. Farsi cristiano diventa quasi uno status symbol: chi non è cristiano non è chic. Un atteggiamento non privo di ambiguità. Al tempo stesso prova la autorevolezza di cui la chiesa gode presso tutto il popolo, tanto che alcuni pastori non esitano a condannare i monarchi per le loro eventuali violenze e fanatismi.
Del momento di grazia la chiesa approfitta per portare avanti la sua missione nella società, riuscendo a far legalizzare certi valori cristiani: proibizione di uccidere gli schiavi; autorità patea non deve essere dispotismo; abolizione dei giochi cruenti del circo; assistenza alle vedove e agli orfani.
Un nuovo slancio missionario è diretto alle popolazioni delle campagne (pagus, da cui i termini «pagano» e «paganesimo»), fino ad ora trascurate dai missionari e rimaste attaccate a riti e superstizioni pagane. A mano a mano che il vangelo raggiunge le zone più isolate, l’attività missionaria si trasforma in azione pastorale, con istituzioni di parrocchie, affidate a preti distaccati dalle urbane sedi vescovili.
È chiaro che la cristianizzazione non fa cambiare necessariamente i costumi. Vescovi e preti hanno il loro daffare per purificare le motivazioni di tutti coloro che in massa si precipitano verso le chiese per adottare la religione dell’impero. Fortunatamente si registrano apostoli capaci di ascoltare e dialogare. Vescovi come Filostrato di Brescia, Vigilio di Trento, Martino di Tours, Germano di Auxerre, Vitricio di Rouen, Valentino di Chartres, il monaco Gionata di Almirisso (Tracia)… non si accontentano di lavare teste con l’acqua battesimale, ma si prodigano nella formazione di veri cristiani.

Alla fine del IV secolo il vangelo si è consolidato all’interno dell’impero, fino agli estremi confini. In Oriente li ha superati, spesso grazie a circostanze fortuite. I prodigi e la saggezza di alcuni schiavi cristiani destano tale impressione sui loro conquistatori, da indurli a chiedere all’imperatore di Bisanzio o ai vescovi più vicini l’invio di missionari tra la propria gente. In seguito a un miracolo, santa Nino converte la Georgia. Frumenzio, giovane intellettuale prigioniero in Etiopia, fonda la chiesa in questa regione. Wulfila, portato prigioniero a nord del Danubio, elabora un alfabeto per la traduzione della bibbia e, per 40 anni (341-383), trasmette il cristianesimo nella versione ariana a goti e visigoti. Attraverso di essi il cristianesimo ariano si diffonde tra numerosi popoli germani.
Lo slancio missionario è forte anche tra molte chiese orientali, rimaste fuori della comunione ecclesiale più per motivi politici che religiosi. I nestoriani dell’impero persiano, per esempio, si dimostrano prodigiosi missionari in tutta l’Asia, fino all’India e alla Cina.




Presentazione speciale “sandali nel vento”

Da 20 secoli le strade del mondo risuonano sotto il passo dei messaggeri del Vangelo, da quando Cristo Gesù, primo missionario del Padre, ha comandato ai suoi apostoli di «andare ad evangelizzare tutte le nazioni» e di «essere testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra».
Erano 12. Hanno avviato una storia infinita, che ha visto poi la cooperazione di una schiera incalcolabile di uomini e donne che hanno preso sul serio il mandato del Maestro. Una storia ingigantita di secolo in secolo e mai interrotta, più vivace e ricca di eventi in alcuni periodi privilegiati, spesso con accenti di epopea commovente e drammatica. Essa si prolunga fino ai nostri giorni, con i numerosi martiri che ogni anno testimoniano col sangue la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Ma è una storia poco conosciuta e di cui i cattolici stessi sono ben lontani da misurare l’ampiezza.

«S andali nel vento», che presentiamo, offre una visione panoramica sui 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una galleria di ritratti di alcuni grandi missionari che, in tutte le epoche, hanno scritto le pagine più belle degli annali della missione, vergate con sudore, lacrime e sangue.
Questo numero speciale di Missioni Consolata si inserisce perfettamente negli scopi e significati del grande Giubileo che stiamo celebrando, in cui tutte le Chiese particolari sono chiamate a fare memoria dei loro martiri. «Non sia dimenticata la loro testimonianza – ammonisce Giovanni Paolo II nella bolla d’indizione dell’evento ecclesiale -. La Chiesa in ogni parte della terra dovrà restare ancorata alla loro testimonianza e difendere gelosamente la loro memoria».
Sono certo che il lettore troverà in queste pagine uno stimolo per approfondire le radici della propria fede e, soprattutto, per varcare la soglia del terzo millennio con rinnovato ardore missionario. Anche questo rientra negli scopi del Giubileo del 2000, definito dal Santo Padre «un nuovo periodo di grazia e di missione», in cui tutta la Chiesa è chiamata a rafforzare la «coscienza del proprio mistero e del compito apostolico affidatole dal suo Signore» e a rinnovare «l’impegno missionario dinanzi alle odiee esigenze dell’evangelizzazione».

A nche se l’annuncio del Vangelo, sotto l’aspetto geografico, ha raggiunto gli estremi confini della terra, l’avventura della missione non è affatto finita. Anzi, siamo ancora agli inizi, come sottolinea il Sommo Pontefice nell’enciclica Redemptoris missio. Più della metà del genere umano attende ancora il dono della fede, con tutti i suoi tesori di dignità e frateità, di giustizia e amore.
La fede è un bene da condividere. Più è condivisa e più si rafforza. È una storia infinita, di cui il discepolo di Cristo è chiamato ad essere protagonista.
Non mi rimane, pertanto, che esprimere il voto che il Giubileo del 2000 rinnovi l’impegno missionario di tutti i credenti.

Città del Vaticano, 25 marzo 2000

Angelo Sodano




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



La padrona degna del padrone

La fiducia del beato Giuseppe Allamano nella provvidenza è totale: scaturisce
da uno spirito di fede, rafforzato
da un autentico atteggiamento
di povertà. Il fondatore
dei missionari della Consolata
non si attribuisce nulla
di ciò che appartiene a Dio.
È convinto di essere solo uno strumento. Il «padrone» è Lui.
E la Consolata la «padrona».

Il linguaggio impressiona anche per la sua arditezza. Specialmente durante la prima guerra mondiale, il beato Giuseppe Allamano ripeteva che «Dio deve aiutarci», che non lascerà mancare nulla, perché l’Istituto dei missionari della Consolata è opera sua, l’ha voluta Lui: quindi è obbligato a pensarci. Manifestava spesso tale fede così: «Questa casa l’ha posseduta il Signore fin dall’inizio».
Però, se Dio è il padrone, la Consolata è la padrona, ed è lei che tiene la borsa.
Il beato Allamano, fondatore dei missionari e missionarie della Consolata, poté dire che per le spese ingenti dell’Istituto e delle sue opere non ha mai perso né il sonno né l’appetito. Affidava ogni preoccupazione alla Consolata affermando: «Pensaci tu! Se fai bella figura, sei tu!».
«HA FATTO NEVICARE
DENARI»
Il beato Allamano dimostrò fiducia in Dio e nella Consolata soprattutto nelle situazioni difficili.
Agli inizi del 1899, quando si trattava di ristrutturare il santuario della Consolata di Torino, il rettore Allamano presentò il progetto all’ingegnere Carlo Ceppi. Ma questi si spaventò.
– Reverendo, lei vuole un miracolo!
– E il miracolo verrà! – rispose tranquillamente l’Allamano.
– Ma un milione non basterà? – ribatté l’ingegnere.
– Se non basta, ne spenderemo due e anche più, purché la Madonna abbia un santuario degno di lei…
Durante la costruzione della casa madre dei missionari della Consolata, una volta il fondatore ebbe difficoltà a saldare un conto. L’impresario chiedeva il denaro per il sabato. Era mercoledì, ma l’Allamano assicurò: «Adesso non ce l’ho e non saprei nemmeno dove prenderlo. Però c’è ancora oggi, tutto domani, venerdì e poi viene sabato. Sì, la Madonna per sabato li avrà trovati i soldi». E così avvenne.
In una conferenza alle suore missionarie, dopo aver parlato dei disagi della guerra mondiale e delle spese per la costruzione della loro nuova casa, aggiunse: «Alcune persone mi domandano: “Come va? Con questi chiar di luna!…”. Ebbene, è anche per carità, per dar lavoro a quei poveri muratori, che altrimenti non ne troverebbero… però ci vogliono anche i mezzi… e a questo penserà la divina provvidenza».
Nel 1924, in un incontro con alcuni diaconi prossimi all’ordinazione sacerdotale, si confidava: «Una volta vi facevo qualche regaluccio, ora non più, ci vuole pane!… Ma, se è volontà di Dio che si accettino tanti individui e che questi corrispondano bene, Iddio deve fare miracoli, come li fa al Cottolengo. Là ci sono poveri uomini che vengono sollevati; per noi si tratta di salvare povere anime! Senza questa fede nella divina provvidenza, ci sarebbe da rompersi la testa. Vivete di fede e poi il Signore farà anche dei miracoli, anzi sarà obbligato a farli».
L’assoluta fiducia dell’Allamano in Dio e nella Consolata non andò mai delusa. Durante la novena della Consolata nel 1915 confidava: «Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui è tutto della Consolata. La Consolata ha fatto per questo Istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre… ha fatto nevicare denari. Nei momenti dolorosi la Madonna interveniva in modo straordinario. Ho visto molto, molto».
«Non morrete di fame»
Nel corso del 1916 l’Allamano, riferendosi ancora alle tristi condizioni causate dalla guerra, accennava ad interventi straordinari di Dio: «Tutto costa caro; siamo sempre con lo spavento, nel timore di qualcosa di nuovo. Bisogna disporsi a mangiare pan nero. Ma il Signore ci fa sempre il miracolo, ha sempre provveduto, ci vuole bene». E, dopo avere raccontato qualche caso speciale di offerte ricevute, proseguiva: «Questo è per dire come il Signore ci vuole bene: siamo, direi, la pupilla dei suoi occhi».
Una volta il fondatore doveva fare una grossa spesa per l’Istituto, ma non aveva il denaro necessario. Però «mentre uscivo dal duomo (di Torino) – raccontò egli stesso -, una vecchietta che non conoscevo mi si avvicina e, dandomi una busta, mi disse che erano i suoi risparmi e che li impiegassi come volevo… La busta conteneva quanto di cui abbisognavo in quel momento».
Varie volte, nelle conferenze formative ai missionari, L’Allamano ricordava san Paolo eremita, nutrito per molti anni da un corvo con mezzo pane. Il giorno in cui sant’Antonio lo andò a trovare, il corvo portò un pane intero. E l’Allamano proseguì: «Se è necessario il Signore manderà un corvo nella bottega del panettiere… ma non andiamo a insegnare a nostro Signore dove pigliarlo (il pane), sa lui!».
Ai missionari partenti ricordava: «Il Signore penserà a voi, come ha pensato agli apostoli quando li inviò a predicare sine pera (senza bisaccia), senza niente… e poi li interrogò se era mancato loro qualcosa, ed essi risposero che non era mai mancato niente… Così sarà di voi. Non morrete di fame, state certi, quantunque il missionario debba essere disposto al martirio».
Intraprendenza
e discrezione
Le parole del vangelo sulla confidenza nel padre celeste, che nutre gli uccelli del cielo e veste il creato in modo insuperabile, non sono una metafora. Le opere dei santi testimoniano la potenza della fede. Senza ricorrere ai compromessi tanto facili in materia economica, essi però non trascurarono di mettere in atto i mezzi cui si può fare ricorso.
Per l’Allamano «la fiducia nella divina provvidenza non esclude il pensare all’avvenire… Al Cottolengo non si sta colle mani conserte… Dio dice “aiutati che ti aiuto”. Nelle comunità mi sembra che in generale vi sia il vizio contrario: si prende tutto come cosa dovuta. Non così nel mondo, specie in questi tempi di carestia, dove ognuno s’industria per tirare innanzi».
La fiducia nella provvidenza va unita all’intraprendenza personale. Ma nell’Allamano c’è qualcosa di tipico. Rispetto agli altri santi piemontesi (Cottolengo, Bosco, Murialdo…), l’Allamano fu quello che forse si lasciò meno angustiare dal problema finanziario. Disse più volte che per le missioni era disposto anche a chiedere l’elemosina e che, se avesse avuto bisogno di aiuto, «avrebbe saputo a chi rivolgersi, sicuro non solo che non gli sarebbe stato negato, ma neppure differito».
«Naturalmente – aggiungeva – se il Signore me li manda (i denari) senza che io vada a cercarli, è meglio, così non vado ad importunare la gente». In ogni caso ci vuole grande discrezione.
Anche in questo l’Allamano attuò il principio del «bene fatto bene». Secondo lui, «andare avanti a suon di tamburo non va per le opere di Dio. Non siamo noi che ci procuriamo i mezzi; è la divina provvidenza che ce li manda, ed essa non ha bisogno della nostra reclame».
Abbonarsi
a «Missioni Consolata»
In occasione del citato restauro del santuario della Consolata, scrisse che la «Direzione del santuario… non vedeva bene che si andasse in giro a squattrinare il pubblico, anche se per opere buone. Perciò, non sarebbe ricorso alla pratica di andare di porta in porta ad importunare i devoti, ma si sarebbe accontentato di quanto l’amore alla Consolata avrebbe suggerito a ciascuno di portare alla sagrestia del santuario».
Così per le missioni. Però anche era dell’idea che si dovesse «mettere la grande famiglia dei benefattori al corrente del lavoro che si fa nelle missioni e delle loro necessità, senza forzare nessuno, lasciando al Signore muovere i cuori secondo la sua volontà».
Fu questo lo stile del periodico La Consolata (divenuto poi Missioni Consolata): far conoscere il lavoro missionario. Questo, anche senza appariscenti appelli, è già uno stimolo alla cooperazione.
Di qui, pure, lo straordinario significato assunto dalla rivista. Fu uno dei principali mezzi per animare missionariamente il popolo di Dio e per sostenere l’attività missionaria. L’abbonamento e la diffusione del mensile furono proposti come una forma di cooperazione alla missione: «Si fa una vera carità ai missionari inviando con sollecitudine il proprio abbonamento, e specialmente adoperandosi a diffondere la lettura del periodico stesso e a procurare in tal modo qualche nuovo abbonato». Un Allamano efficace, dunque, e sempre discreto. Per questo «raccomandava di non aggravare i benefattori delle missioni con indiscrete richieste di aiuti» e disapprovava l’eccessivo affarismo.
Era spietato di fronte ai sacerdoti che si perdevano in affari temporali. Diceva: «Sarebbe rapire il tempo alle anime, danneggiare i poveri e la chiesa e avvelenare la nostra vita». E ancora: «I beni della chiesa lasciati ai parenti sono come il sangue dei poveri che grida vendetta al cospetto di Dio». Di fronte a qualche iniziativa missionaria poco opportuna, intervenne: «Non voglio preti mercanti, ci sono già di quelli della diocesi che fanno questo mestiere; non voglio che voi, miei figli, facciate questo lavoro… Il Signore ha sempre provveduto al suo Istituto e lo farà sempre se sarete buoni. È non lascia mancare il pane ai suoi figli».

Gottardo Pasqualetti




BRASILE – Una gatta da pelare

Consacrato vescovo della prelazia di Itacoatiara
il 19 marzo scorso, padre Carillo Gritti, missionario della Consolata, non nasconde le difficoltà
e responsabilità che dovrà affrontare come pastore
di una chiesa povera di risorse e personale,
dispersa su un territorio vasto e impervio.
Una sfida accettata con fede,
cui intende rispondere con coraggio,
pazienza e simpatia.

Il nome stesso, Itacoatiara, per abituarsi a pronunciarlo senza inciampare o balbettare, richiede non poca ginnastica di mascelle e muscoli facciali. Ritagliata dal territorio della diocesi di Manaus, la prelazia fu eretta nel 1963 da Paolo VI. Misura 92.000 kmq di estensione, poco meno di un terzo dell’Italia. Conta appena 153.000 abitanti, in buona parte raccolti in villaggi disseminati, per 600 km, lungo il Rio delle Amazzoni; il resto è sparso in un territorio vastissimo e ricoperto di foresta tropicale.
La sede della prelazia, Itacoatiara, è unita a Manaus da 300 km di asfalto in pessime condizioni. Gli altri centri abitati, sia lungo il fiume che nell’interno, sono raggiungibili solo mediante imbarcazioni. In tempo di secca i corsi dei fiumi sono chiaramente delineati; durante il periodo delle piogge le acque ricoprono chilometri e chilometri di foresta, e gli itinerari sono tutti da inventare, zigzagando tra gli alberi, alla ricerca di percorsi navigabili; spesso bisogna abbandonare la barca per proseguire a piedi e a cavallo.
La gente è molto povera: vive quasi esclusivamente di pesca, grazie ai numerosi affluenti del Rio delle Amazzoni che solcano il territorio. L’agricoltura è quasi inesistente. Ad aggravare la situazione sono sopraggiunte varie compagnie che monopolizzano il commercio del pesce e hanno ridotto i pescatori a semplici braccianti. Coloro che continuano a svolgere la loro attività in modo indipendente sono spesso vittime di pressioni e ricatti mafiosi: per non ributtare il pesce in acqua, devono svenderlo a basso prezzo.
Molte comunità mancano di scuole e servizi sanitari. La chiesa è l’unica organizzazione che si interessa dei loro problemi. Ma anche la prelazia è povera in canna. Divisa in 10 zone pastorali, ha appena sette preti: un brasiliano proveniente dal sud del paese, un canadese, due spagnoli e tre messicani. Neppure un prete locale. Alla scarsità del personale si aggiunge quella delle strutture: la liturgia del mercoledì delle ceneri fu celebrata all’aperto, perché la chiesetta che funge da cattedrale è troppo piccola.
Padre Carillo ha avuto bisogno di un forte soffio dello Spirito Santo per accettare la guida di una prelazia così scomoda e difficile; e ne avrà bisogno ancora di più quando inizierà la sua nuova missione.

E lo Spirito deve essere disceso con abbondanza durante la liturgia della consacrazione episcopale. La gente che gremiva la cattedrale di Manaus lo ha invocato con entusiasmo, insieme alla protezione di tutti i santi, mentre il neo eletto giaceva prostrato a terra. Sul suo capo i vescovi consacranti hanno premuto forte e a lungo le loro mani.
Prostrazione, unzione del capo col sacro crisma, consegna del libro dei vangeli, dell’anello episcopale e del pastorale sono stati riti pieni di suggestione, che la gente ha seguito con gli occhi fissi, con attenzione e commozione, per esplodere in un applauso finale, quando tutti i vescovi presenti hanno accolto il neo consacrato con un abbraccio festoso e caloroso, con sonore pacche sulle spalle, secondo lo stile brasiliano.
Con altrettanta commozione sono state accolte la benedizione e le parole pronunciate da mons. Carillo alla fine della cerimonia. Ricordando Elia, stanco e sfiduciato, seduto all’ombra di un ginepro, mons. Carillo ha accennato alle croci che lo attendono nella nuova missione episcopale, alla guida della chiesa di Itacoatiara. «A differenza di Elia – ha concluso – il missionario non ha tempo né può permettersi il lusso di stancarsi».
La croce figura anche nello stemma episcopale. Sulla sua lunga asta poggia uno scudo in cui è raffigurata una grande barca, sospinta dallo Spirito Santo, che soffia su una vela a forma di Cristo dalle braccia spalancate. Ai piedi dell’asta il motto: «Memoria Jesu dulcis».
Mons. Carillo ne spiega il significato: «La memoria degli apostoli, ricordo vivo e affettuoso del Cristo risorto, è radice e ragione della chiesa. Memoria che lo Spirito mantiene viva e dilata fino agli estremi confini della terra e fino agli ultimi tempi, quando la chiesa entrerà nella comunione definitiva col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Alla fine della cerimonia, quando depone i paramenti episcopali, la talare bordata di rosso di mons. Carillo è zuppa di sudore, da capo a piedi, come se fosse uscito dal Rio delle Amazzoni.

È sera. Complimenti e festeggiamenti sono terminati. Finalmente posso incontrare il nuovo vescovo a quattrocchi e carpire qualche notizia sulle sfide della prelazia e i progetti per affrontarle.
– Le informazioni prese prima di accettare la nomina mi dicono che avrò una bella “gatta da pelare”.
– Il personale soprattutto: sette preti per quante parrocchie?
– La prelazia non è organizzata in parrocchie, ma in comunità: ce ne sono 242. Tutto il lavoro burocratico “parrocchiale”, come la registrazione di battesimi, è fatto nella curia. Ufficialmente i preti risiedono a Itacoatiara, da cui si spostano per servire la varie comunità. Inoltre, ci sono tre suore impegnate nella pastorale e un monastero di benedettine, che rischiano di chiudere i battenti perché non riescono a mantenersi. Farò di tutto perché la chiesa di Itacoatiara non perda una testimonianza forte, in cui credo fermamente.
– Si dice che c’è tutto da rifare.
– La prelazia è poverissima. Le strutture quasi inesistenti. L’amministratore mi ha detto che lo scorso anno si è chiuso in pareggio; ma rimane qualche “debituccio”. La maggior parte del bilancio è prosciugato dagli spostamenti dei missionari. Per tale scopo la prelazia ha i due barconi, con elevati costi di manutenzione e carburante. Alcuni fedeli mi hanno già chiesto di costruire subito la cattedrale. Nella situazione attuale sarebbe un suicidio economico, di tempo e personale.
– E sotto l’aspetto pastorale?
– Non partirò da zero. Il mio predecessore, il canadese mons. George Marskell, morto di tumore due anni fa, era un uomo di Dio, venerato da quanti lo hanno conosciuto. Mi sembra, però, che anche lui sia rimasto in qualche modo ostaggio della mentalità creata dalla cosiddetta «teologia della liberazione», che ha influenzato le linee pastorali della chiesa brasiliana. Per cui, anche a Itacoatiara, l’evangelizzazione ha assunto una tinta ideologica e politicizzata. Mi è stato riferito che, in prossimità delle ultime elezioni presidenziali, un prete della prelazia abbia iniziato la predica sbattendo sul leggio un ciclostilato del partito dei lavoratori, dicendo: «Oggi è questa la parola di Dio». Una forma certamente estrema, ma indice di una certa mentalità.
– Ha progetti in proposito?
– Per un anno vorrò conoscere il clero e gli altri collaboratori pastorali; parlare poco e ascoltare molto. Per cui non ho in tasca né progetti né soluzioni prefabbricate. Però ho qualche idea.
– Per esempio?
– Vorrei costruire un certo presbiterio, anche se non sarà possibile radunare insieme tutti i preti. Cercherò di stare loro il più vicino possibile, per dare coraggio, sostanza e maggiore spiritualità. Voglio che i preti lo capiscano: tutti i ministeri sono importanti; nessuno è escluso, ma nessuno è privilegiato.
– Niente privilegio per il sociale?
– È mia intenzione impegnarmi nel sociale, come ho fatto qui a Manaus, organizzando corsi non di formazione ideologica, ma di specializzazione in informatica, riparazione di condizionatori d’aria, parrucchieri e manicure… Preparare, cioè, professionisti in grado di entrare nel nuovo mondo del lavoro, quando anche a Itacoatiara arriveranno industrie, commercio e mode.
– Ci sono prospettive di sviluppo?
– Oggi il pesce è ritenuto un prodotto industrializzabile al cento per cento. Non sarà la chiesa a costruire industrie; ma dobbiamo aiutare la gente a guardare al futuro, frenare la corsa verso la città e accogliere coloro che ne ritornano delusi. Per fare questo bisogna rendere l’ambiente vivibile con scuola, sanità, lavoro. Tanti piccoli centri ne sono totalmente sprovvisti. Mi sono incontrato col governatore dello stato dell’Amazzonia e mi ha promesso tutti gli aiuti di carattere sociale di cui avrò bisogno. Confidandomi che ormai ha fiducia solo della chiesa, perché spende i soldi negli scopi cui sono destinati e ne rende conto, ha concluso: «Qui sono tutti dei grandi ladroni». Parole testuali del governatore; non so se alludesse anche a se stesso.
– Buona notizia. Ce ne sono altre?
– Troverò un popolo buono, semplice, cordiale, come sono le comunità di pescatori. Me l’hanno garantito in molti. Farò di tutto per non deluderlo. Provo già una profonda simpatia per questa gente e prego Dio che me la conservi, perché la ritengo importante per una convivenza cordiale e costruttiva.
– A proposito di simpatia, hai piuttosto fama di “duro”.
– Il più grande sacrificio che dovrò affrontare è tenere a freno il mio carattere. Non ho mai avuto un grande bagaglio di pazienza. Vuol dire che, d’ora in poi, dovrò recuperae qualche dose, sperando di riuscirvi. Cercherò di tenere i miei problemi per me stesso, di diluirli nella preghiera e nell’amicizia con i miei preti. E poi non sono così “duro”. È vero che quando mi saltano i nervi volano parolacce; ma è altrettanto vero che sono capace di giocare con i bambini.

Benedetto Bellesi




PERU’ – I terroristi di san Tommaso

Una rivista scritta a mano
e disegnata a pastello
per celebrare il giubileo.
La scrivono un gruppo di detenuti
del «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru», rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Yanamayo e raccolti in una comunità cristiana di base. Sperano che il 9 luglio, giorno dedicato al giubileo dei prigionieri, qualcuno si ricordi di loro.

La notizia può destare stupore: tra i detenuti di Yanamayo esiste una comunità cristiana di base. Ne fanno parte un gruppo di prigionieri appartenenti al «Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru» (Mrta) e accusati di terrorismo. Queste persone sono rinchiuse a Yanamayo, carcere di massima sicurezza posto a quasi 5.000 metri sopra il livello del mare, nella provincia di Puno. Lo stupore non può che aumentare apprendendo che questa comunità di base ha iniziato, alcuni mesi fa, la «pubblicazione» di una rivista.
Due domande sorgono spontanee: che cosa ci fa una comunità cristiana di base fra persone accusate di terrorismo? Che senso ha pubblicare una rivista?

Una breve riflessione su che cosa si intenda per terrorismo in questo contesto può aiutarci a trovare delle risposte. Il delitto di terrorismo, dal punto di vista legale, come è attualmente concepito in Perù, è stato formulato nella costituzione redatta nel 1992 in seguito al cosiddetto autogolpe messo in atto dal presidente Fujimori. Il Perù si trovava allora nel pieno di una guerra civile, che durava da più di dieci anni e che vedeva contrapposti all’esercito peruviano due movimenti guerriglieri: Sendero Luminoso e l’Mrta. Per questo il problema della sicurezza nazionale era al primo posto nell’agenda del governo.
Nella nuova costituzione (che su questo tema presenta delle analogie importanti con la legislazione italiana anti-terrorismo varata negli «anni di piombo») il delitto di terrorismo è stato esteso a tutte le azioni sovversive contro lo stato. Rispetto alla legislazione precedente, in vigore dalla caduta della dittatura militare, non si riconosce alcuna attenuante. Ad esempio, per aver agito per un particolare scopo morale (cioè il diritto di ribellarsi a un tiranno che già San Tommaso considerava legittimo). Nella nuova legge queste azioni sono squalificate al livello di delinquenza comune con l’aggravante di quella che in Italia si chiamerebbe «banda armata». È superfluo specificare l’aumento della durata delle pene da scontare.
Questa era quindi l’idea del governo che, attraverso i mezzi di comunicazione, si è diffusa a tutta l’opinione pubblica: in Perù non ci sono guerriglieri che combattono spinti da nobili ideali, bensì sanguinari terroristi la cui unica differenza dai delinquenti comuni è l’organizzazione militare. Essi sono i responsabili delle pene e delle sofferenze del popolo peruviano e, pertanto, vanno combattuti con tutti i mezzi. Certamente alcune pratiche, in particolare quelle di Sendero Luminoso, hanno contribuito a confermare questa tesi. Un interessante corollario di questa situazione è che, tuttavia, di terrorismo non possono essere accusati, in nessun caso, membri dell’esercito.
Questa ovviamente è solamente una faccia della medaglia. Infatti, se vediamo le cose dall’altro punto di vista, quello dell’Mrta dalle cui fila provengono i fondatori di questa comunità cristiana di base, abbiamo una percezione assolutamente diversa: si definiscono lottatori sociali. In pratica si percepiscono proprio nel ruolo che la Costituzione del 1992 nega loro, cioè di persone che agiscono per ottenere una società migliore, più giusta, più equa. La lotta armata è quindi la risposta a una situazione di violenza non esplicita, ma comunque opprimente: la violenza della fame, della povertà al limite dell’indigenza, della mancanza di quasi ogni tipo di protezione sociale.
La lotta armata nasce anche da un secondo elemento: l’impossibilità di protestare attraverso canali istituzionali, o comunque di farlo con ragionevoli speranze di successo. Certamente questo è uno dei punti più critici, in quanto dal 1979 il Perù è, almeno formalmente, un paese democratico. Questo significa che, teoricamente, c’è la possibilità di presentare un progetto politico alternativo. Evidentemente l’analisi politica dei due gruppi guerriglieri aveva almeno un punto in comune: l’impossibilità di cambiare la realtà attraverso una via democratica.

Al di là delle considerazioni che si possono fare sulla legittimità di questa posizione è chiaro che chi intraprende la via della lotta armata non si percepisce come un terrorista. Al contrario, vede questo cammino come l’unica soluzione praticabile per una trasformazione della società in senso più equo; secondo la sua ottica, quella della lotta armata è una scelta non libera, vissuta come un’imposizione e quindi anche dolorosa. Da questo punto di vista si può capire perché, per chi si considera un lottatore sociale, la scelta della violenza rappresenta solo un altro mezzo, obbligato, per raggiungere un fine superiore, un bene che giustifica il ricorso a qualsiasi mezzo pur di conseguirlo; certamente si può obiettare che un uomo non ha il diritto di scegliere quale sia il bene per gli altri uomini e imporre le sue scelte.
Un lottatore sociale, dal suo punto di vista, assume integralmente l’opzione per i poveri ed è qui che alcune tematiche religiose vengono recuperate soprattutto alla luce dell’elaborazione teorica della teologia della liberazione. In un continente, l’America Latina, dove non colpisce tanto la povertà quanto l’assoluta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la scelta di schierarsi con i poveri porta a trovare sullo stesso versante persone che sono guidate da idee molto diverse come possono essere cattolici e militanti dell’estrema sinistra, ma con questo punto in comune: l’opzione per i poveri.
Per questo vediamo ripetersi, in un remoto carcere del Perù, un’esperienza originale. Originale soprattutto per noi europei che viviamo in un contesto sociale e politico che ha mantenuto fino a poco tempo fa una radicale opposizione fra la chiesa e l’ideologia marxista, ma è interessante vedere come anche da noi ci siano curiosi riavvicinamenti, per esempio sul fronte dell’opposizione al neoliberismo.
Esperienza, tuttavia, che non è particolarmente innovativa per l’America Latina: basti pensare alla Colombia dove una delle organizzazioni guerrigliere ancora attive, l’Eln («Esercito di liberazione nazionale»), è stata fondata da un prete, padre Camillo Torres, e ha annoverato nelle sue file, anche con incarichi di responsabilità, diversi religiosi.
Questa esperienza colombiana, sebbene in misura minore, si è ripetuta in Perù, in modo che diverse persone di fede cattolica, certamente un cattolicesimo vicino alle posizioni della teologia della liberazione, si sono trovate a scontare severe condanne per terrorismo.
In questo contesto molto difficile, fosse solo per la prolungata privazione della libertà e per la mancanza di prospettive di liberazione a breve termine, non è più tanto sorprendente un recupero delle esperienze più significative, dei valori più sacri per ogni persona, di tutto ciò che può dare un senso alla propria vita passata, presente e futura. Infatti tutte queste persone sono condannate a 20, 30 anni di reclusione o addirittura all’ergastolo. Inevitabilmente sorgono angosciosi quesiti esistenziali ai quali si deve dare risposta per evitare di cadere in preda alla disperazione e cercare, per quanto è possibile, di mantenere un certo equilibrio fisico e psichico.
Un’idea a cui essi non possono rinunciare è quella di essere portatori della verità: che in fondo era giusto lottare per i poveri, per la giustizia, per i diritti umani, per denunciare la situazione di violenza e oppressione nella quale vive la maggioranza del popolo peruviano, anche se per farlo è stato necessario ricorrere alle armi. Per questo motivo la comunità ha scelto per se stessa un nome molto significativo: quello di monsignor Juan Girardi, il vescovo di Città del Guatemala assassinato nell’aprile 1998, dopo aver presentato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. In questo modo i detenuti desiderano sottolineare il loro legame con un simbolo di verità e di coerenza tra pensiero e azione.
Per chi ha dedicato tutta la vita a una causa e ha messo in gioco la propria vita per quella causa essere condannati al silenzio è una grande sconfitta. Quindi, scrivere una rivista, dire la propria opinione, dopo anni di silenzio forzato, è una «liberazione».
L’articolo con cui si apre il primo numero della pubblicazione trasmette bene questa emozione di poter tornare (finalmente!) a dialogare con il resto del mondo, segno evidente di una necessità negata per troppo tempo anche in violazione agli standard inteazionali sulle norme di detenzione.
Bisogna precisare tuttavia che questa è una possibilità più che altro teorica. Questa rivista è scritta a mano e disegnata a pastello; il numero delle copie non può superare cifre evidentemente irrisorie a causa della mancanza degli strumenti tecnici necessari per la redazione e, ovviamente, delle restrizioni a cui sono sottoposti questi detenuti di «alta pericolosità sociale». Tuttavia non bisogna trascurare il significato simbolico di questo passo: una rivista è un mezzo di comunicazione importante, che permette di tornare a parlare, di partecipare, seppure in modo sui generis, a un evento importante per un cattolico com’è il giubileo. Rompe l’isolamento al quale sono condannati, in un caso in cui il concetto di pena è equivalente a quello di castigo e vendetta, ed esclude a priori qualsiasi possibilità di recupero.
Evidentemente il momento della «pubblicazione» di questa rivista non è casuale, come viene scritto esplicitamente; è una tappa di avvicinamento al giubileo (il primo numero è uscito nel luglio del 1999), un modo per non restare esclusi da questo avvenimento che per un prigioniero politico assume un significato ancora più importante: la speranza di poter beneficiare personalmente di questo anno santo, di poter riacquistare la libertà, se è vero che il significato originario di giubileo è quello di condonare debiti e restituire la libertà.
C’è quindi la necessità di partecipare a questo momento per tenere viva la speranza della libertà, speranza forse non ragionevolmente fondata, ma che non può e non deve essere abbandonata.

Lorenzo de Ambrois




Furio Combo e la scuola materna

Scrive su «la Repubblica» del 13 aprile scorso l’on. Furio Colombo, deputato al parlamento, giornalista e scrittore di successo: «Di là dalla chiesa e dal fiume Dora c’è la scuola matea. Un avviso comunica che cominceranno le lezioni di arabo. Pensi che la civiltà cammina in fretta, e che i bambini faranno da tramite fra comunità che non si conoscono. Ma c’è una seconda parte dell’annuncio. Dice: “Solo per bambini arabi”. In due righe, la costituzione italiana viene prima affermata (il diritto all’educazione anche per i nuovi venuti) e poi negata (quel diritto non è per tutti)».
La scuola matea torinese di cui parla Furio Colombo è quella di via Cecchi, in un quartiere a ridosso di Porta Palazzo, popolato da immigrati (in modo particolare, d’origine africana e araba). Conoscendo personalmente il circolo didattico, di cui la struttura per l’infanzia in questione fa parte, come altamente motivato e coinvolto a livello professionale nei confronti delle famiglie immigrate, ritengo azzardata e ingiustificata l’accusa di «anticostituzionalità» mossa dal noto giornalista e politico. Il corso di arabo era sì offerto a un’utenza proveniente da paesi islamici, ma come semplice alternativa all’ora di religione cattolica (proposta ai bambini italiani) e come risposta ad una precisa richiesta di alcuni genitori musulmani, che volevano dare ai propri figli la possibilità di recuperare la lingua araba senza dover ricorrere alle scuole coraniche, di cui non condividono strategie e finalità educative.
La scuola aveva dunque accettato di intraprendere questo esperimento coraggioso e pionieristico, magari con un tocco di superficialità – garantire l’accesso alle lezioni ai soli bambini arabi e non a tutti -, dettata più dall’inesperienza e dalla scarsezza dei mezzi a disposizione (una sola insegnante per tanti bimbi), che dalla volontà di trasgredire alle norme costituzionali.
Ecco, dunque, che diviene necessario aprire due parentesi: da una parte siamo di fronte alla buona volontà e all’entusiasmo di insegnanti ed operatori del settore scolastico, che, pur desiderando accogliere al meglio i nuovi scolari (in numero sempre più crescente), spesso non hanno la formazione necessaria a raggiungere senza incidenti di percorso tale obiettivo; dall’altra, ci troviamo davanti a giornalisti e mezzi d’informazione che, in materia di immigrazione, agiscono sull’onda delle emozioni, della disinformazione, dell’ignoranza e della superficialità. E tutto l’articolo dell’on. Colombo, apparso in prima e quattordicesima pagina dell’importante quotidiano nazionale, ne è una dimostrazione lampante.
Angela Lano

Angela Lano




Musulmani in Italia

Questo è il titolo dell’interessante video curato e prodotto dal Centro diocesano torinese di studi arabi e dalla Nova-T. Il lavoro è stato presentato l’8 aprile scorso dallo scrittore e giornalista Furio Colombo.
La presenza di cittadini provenienti da paesi musulmani è sempre più visibile, in tutta la penisola italiana, sia attraverso moschee, negozi e ristoranti etnici, centri culturali, ecc., sia negli ospedali, scuole, mense pubbliche, fabbriche, mezzi di informazione, che devono ormai fare i conti con festività religiose e altri aspetti della cultura islamica.
In che misura è dunque possibile convivere – si chiedono gli autori del video – con l’islam e con i valori di cui è portatore? E ancora: islam e Occidente potranno mai trovare una via di comunicazione non conflittuale?
«L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, è poco preparata ad accogliere cittadini di altre culture – ha affermato Furio Colombo –. Noi non possediamo la coscienza dell’appartenenza politica e culturale alla nazione di cui siamo cittadini. Il rispetto dei principi costituzionali non è così sentito come negli Usa, dove, proprio a causa di questa forte identità nazionale, è stato possibile formare, con tutti i pregi e i difetti, una società veramente multietnica. In Italia si fa fatica ad accettare la diversità, proprio perché manca questo senso di identità. D’altronde, negli Stati Uniti, nessun Bouriqui Bouchta (il responsabile della Moschea di Porta Palazzo, ndr) potrebbe azzardarsi ad affermare, come ha invece fatto durante l’intervista registrata nel video, che la scuola italiana, laica, dovrebbe insegnare ai suoi figli il corano e che il musulmano, che vive in Italia, non possa accettare un ambiente anti-islamico».
Il video, curato da Tino Negri (del Centro Peirone) e da Sante Altizio (della Nova-T), si compone di due parti: la prima, di contenuto generale, introduce alla religione e alla cultura islamica; la seconda, attraversa alcune città italiane alla scoperta delle numerose comunità islamiche presenti.
Nel corso dell’opera, gli autori si interrogano su questioni di estrema importanza per gli attuali rapporti tra le varie comunità islamiche e lo Stato: «Perché molti cittadini di fede islamica residenti in occidente, rifiutano l’integrazione? Perché in alcuni paesi islamici sono vietati i culti di altre religioni? Perché non è possibile trovare un interlocutore riconosciuto da tutte le comunità musulmane italiane?».
Angela Lano

Per ulteriori informazioni:
«Nova-T»
Produzioni televisive dei Frati Cappuccini
via F. Bocca, 15 – Torino
tel. 011-8987098;
«Centro di studi arabi “Federico Peirone”»
via Barbaroux, 30 – Torino
tel. 011-5612261

Angela Lano




“Voglia di sicurezza”

Malika è sola e disperata. Risiede in Italia da 10 anni, con regolare permesso di soggiorno, assunta con i libretti di lavoro presso una cornoperativa che si occupa di assistenza agli handicappati. Sposata con un giovane tunisino, Malika ha una figlia di due anni e un altro appena nato, è sola e disperata. Questa donna, energica, con un fluente italiano, con nessuna voglia di tornare in Marocco, da alcuni mesi si era ritrovata a far i conti con il parto che incombeva, con la figlia piccola e con nessuno a cui lasciarla. Suo marito, che aveva richiesto la regolarizzazione, è stato rispedito per direttissima in Tunisia, perché nel ’92 aveva commesso un reato minore e risultava, agli atti, «persona pericolosa» e non gradita. Tuttavia, al di là delle motivazioni legali all’origine di tale espulsione, resta valido il fatto che una famiglia di immigrati, con figli piccoli, sia stata divisa. L’ultima legge sull’immigrazione, la Turco-Napolitano, voluta dalle sinistre, per accontentare le destre e la «voglia di sicurezza» degli italiani, non prevede concessioni, o attenuanti, nel caso di nuclei familiari composti da soli stranieri.
Nella categoria degli «inespellibili» risultano infatti solo le donne incinte, con figli fino al sesto mese di età, le persone coniugate e conviventi con cittadini italiani; per gli altri non sono previste agevolazioni, e il decreto di espulsione può essere comminato non solo in caso di reato, ma anche in numerose altre situazioni di irregolarità ‘amministrativa’ e non penale, mancanza temporanea di lavoro, mancata presentazione entro gli otto giorni lavorativi della domanda di soggiorno, ecc.

Trasformarsi in clandestini, irregolari, è dunque molto facile, più di quanto si pensi. E il dramma è che lo possono diventare padri di famiglia che, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, risultino senza lavoro (perché, magari, lo hanno appena perso).
Si tratta dei nuovi disperati – persone che hanno situazioni di miseria o di guerra alle spalle – e qui finiscono con divenire vittime di una legge che, seppur vuole essere strumento di «ordine» verso i criminali, riesce spesso a colpire i più deboli. A ciò si aggiunge che, da qualche anno, alcuni avvocati italiani (con pochi scrupoli) hanno scoperto in tanti immigrati sprovveduti, confusi o semplicemente «persi» tra le pastornie burocratiche italiane, l’Eldorado dei soldi facili. Molti fra gli stranieri ancora irregolari che l’anno scorso hanno presentato domanda di regolarizzazione, si sono appoggiati ad avvocati per presentare le pratiche di soggiorno, di ricorso in caso di rigetto, di ricongiungimento, o per eventuali carichi penali passati. Taluni di questi legali chiedono fior di milioni promettendo loro tutele che poi non arrivano.
Ancora una volta, dunque, capita che, in un’Italia che ha quasi paura degli immigrati, o che li usa come capri espiatori per rimuovere altri problemi, ad essere vittima dei raggiri siano spesso proprio loro, gli extracomunitari che vogliono diventare cittadini regolari.
A.L.

Angela Lano




La memoria corta degli italiani

«Balie italiane, colf immigrate»: questo è il titolo di un’interessante mostra fotografica itinerante allestita dal Centro interculturale del comune di Torino. Da alcuni anni esso ha avviato, attraverso il Centro di documentazione permanente sull’emigrazione «Emigrare e immigrare», una meritoria riflessione su tutte le tematiche legate ai fenomeni emigratori e immigratori.
La mostra rappresenta una sorta di «finestra» sui recenti flussi migratori verso l’Europa, ma anche sull’emigrazione italiana all’estero (Stati Uniti, Belgio e Uruguay), realizzata attraverso l’esposizione di pannelli con foto e didascalie che, a specchio, ritraggono immagini di nostri connazionali ai primi decenni del Novecento e degli attuali immigrati provenienti da ogni parte del mondo. Volti che portano dipinta la stessa fatica, la stessa speranza e voglia di costruire, ma che rappresentano momenti tra loro lontani decine e decine d’anni. Colf immigrate, quelle che entrano nelle nostre case benestanti, e balie italiane, quelle che, ancora bambine, lasciavano i nostri villaggi di campagna, al nord come al sud, per recarsi all’estero a guadagnare quei pochi soldi con cui mantenere se stesse e la famiglia. E ancora, navi affollate di nostri bisnonni che, malnutriti e malvestiti, lasciavano l’Italia nella speranza d’un avvenire migliore; migranti nostrani che popolavano fatiscenti abitazioni negli Stati Uniti; oppure bambini dai volti sporchi e tristi; lavoratori in biote malsane.
Immagini dimenticate, memoria di un passato di duro lavoro, nonché di sofferenze e umiliazioni, che ognuno di noi dovrebbe rispolverare quando, tentato dall’intolleranza e dal pregiudizio, s’appresta a inveire contro l’immigrato della porta accanto.

Tra gli altri laboratori, allestiti in alcune sale del Centro, ricordiamo: «Porta aperta sul Maghreb», un’ambientazione araba-beduina accoglie percorsi di conoscenza sul Maghreb nei suoi aspetti geopolitici, culturali, religiosi e antropologici, utili anche a fornire chiavi di lettura delle comunità islamiche immigrate; «I diritti umani», un percorso di educazione alla legalità, alla cittadinanza, alla lotta contro le discriminazioni; «Economia e globalizzazione», gli squilibri nord-sud del mondo, la globalizzazione e la possibilità di sviluppo sostenibile; «Le minoranze storiche a Torino», la storia, le tradizioni e la cultura di comunità vicine, ma spesso sconosciute: ebrei, rom e valdesi; «Viaggio nelle letterature del mondo», un percorso tra le parole degli scrittori per scoprire paesi e culture.
Attivo dal 1996 quale luogo di confronto e scambio culturale, il Centro si pone l’obiettivo di valorizzare le realtà di gruppi e associazioni presenti a Torino, attraverso la disponibilità di spazi per incontri, l’accesso gratuito ai corsi di formazione, l’informazione sulle iniziative, la rivista trimestrale «Identità/Differenza», e mediante progetti tra vari soggetti istituzionali e non.
Inoltre, in collaborazione con altre realtà locali, organizza, ogni anno, in autunno, la manifestazione «Identità e differenza» che, per una quindicina di giorni, offre alla città la possibilità di confrontarsi su tematiche interculturali.

Dal sito web del Comune di Torino si può accedere a uno spazio dedicato all’intercultura, dove, oltre a una bibliografia e a un glossario appositamente redatti, saranno disponibili approfondimenti su temi legati alle problematiche sociali, al mondo della scuola, ai diritti umani, all’economia, alle religioni, all’immigrazione, alla storia delle minoranze, links con siti inteazionali e un forum interattivo per condividere osservazioni e domande.

A.L.

Per ulteriori informazioni:
Centro Interculturale del Comune di Torino
via Frattini, 11
Torino
Coordinatrice: dott.ssa Paola Giani
tel. 011.4429700
www.comune.torino.it/infocultura/intercultura
E-mail: centroic@comune.torino.it

Angela Lano