Le favelas, le antenne sulle baraccopoli – Speciale BRASILE

Pigramente sdraiato su una spiaggia
di Rio de Janeiro, in auto sull’interminabile ponte «Niteroi», tifando nella calca
dello stadio «Maracaná»…
O a passeggio per la trafficata via Rio Branco, intimorito dai grattacieli e abbagliatodai flash pubblicitari…
Poi ti volti e scopri le «favelas». Un’altramegacontraddizione
nel paese «maior do mundo».

Delusione a Rio de Janeiro! Avevo sognato, atterrando sulla metropoli brasiliana, che i morros (colline) che ne vivacizzano il panorama scattassero sull’attenti, che il jumbo mi scodellasse dolcemente sulla baia dell’Atlantico, decantata dai manuali turistici come la più pittoresca del mondo. E il Cristo del Corcovado? Avevo sperato d’incontrae subito l’abbraccio nella luce smagliante del sole. Invece sono catapultato sul cemento ribollente senza troppi complimenti. Foschia, fracasso, afa.
All’aeroporto cerco padre Ivanilson, brasiliano, che non c’è. Diventa un’impresa galleggiare sull’onda travolgente dei viaggiatori frettolosi e dei facchini ossessivi. Una dozzina di taxisti, nell’arco di altrettanti minuti, mi «offre» il carro. È tanta l’insistenza che… Però la mano amica di Ivanilson mi «salva».
Padre Ivanilson guida una sgangherata Volkswagen alla «Rio de Janeiro»: sorpassi da brivido, slalom acrobatici fra le auto in corsa, frenate precipitose sul filo del… paraurti. «Se non fai così non ti muovi!» si scusa l’autista gridandomi all’orecchio.
Di fronte all’occhio intransigente del semaforo rosso, la Volkswagen si arresta e cessa di sferragliare. Allora ci si intende. «Vedi il colle Pão de açucar? Devi salirci. Di lassù gusterai uno spettacolo unico. Una geografia da favola nel paese maior do mundo: colline che si ammirano a vicenda da ogni versante, spiagge dorate sorvolate da decine di alianti…». Padre Ivanilson parla proprio come un libro stampato.
Ma, al verde del semaforo, l’autista ingrana subito la quarta e la poetica descrizione sfuma. Nuovo semaforo: siamo circondati da alcuni ragazzetti, che si aggrappano ai finestrini e ci sollecitano di comprare un infilato di arance, un mazzetto di fiori, un cartoccio di verdura, una gabbietta per uccelli.
– Chi sono?
– Favelados.
non esistono, ma lavorano

Fra le sue «attrattive» Rio de Janeiro ostenta anche le favelas. O baraccopoli. Se ne contano 375 con circa 3 milioni e mezzo di individui. La Rocinha ospita 350 mila baraccati. A Rio tre persone su otto sono favelados.
I primi insediamenti incominciarono nel secolo XVII, allorché alcuni schiavi neri in fuga si rifugiarono sui morros di Rio, costituendo delle vere comunità: è il caso della favela di San Carlos. In seguito vi entrarono altri gruppi, compresi dei delinquenti. Di qui l’idea che le favelas siano spelonche di ladri: il che corrisponde a verità, ma non è «la» verità. Nella favela le persone equivoche sono una minoranza, rispetto ad una maggioranza onesta.
Dal 1950 le favelas sono aumentate a causa del massiccio esodo dalle campagne: molti brasiliani poveri del nordest si sono inurbati, sognando di trovare l’«eldorado» in città. E i morros si sono trasformati in accampamenti di nullatenenti. I braccianti non avevano altra scelta che installarsi in una favela, dove potevano costruirsi una baracca senza pagare il terreno e con il vantaggio di trovarsi a due passi da un lavoro in città.
Un’altra ragione per rifugiarsi nelle baraccopoli erano i bassi stipendi, erosi pure da un’inflazione alle stelle (ha raggiunto persino il 950% annuo). Oggi la moneta real è abbastanza stabile. Ma i lavoratori, dati i salari da fame, sono presto al verde.
Da anni ormai i baraccati di Rio de Janeiro assorbono una grande fetta della manodopera nel settore dei servizi: autisti, meccanici, elettricisti, spazzini e muratori, come pure domestiche, portinaie, camerieri, sarte, impiegati nelle banche, poliziotti. Rappresentano un grosso potenziale economico e politico, ma le baraccopoli non esistono legalmente. Gli stessi residenti «non esistono».
Il governo vi buttò l’occhio solo per decretare la fine di alcune favelas attraverso il trasferimento forzato dei favelados. Ciò avvenne negli anni ’30. Fuori Rio sorsero quartieri di Santa Croce, Mesquita e Città di Dio, che però non offrirono alcuna possibilità di lavoro, scuola, strutture sanitarie. Per accedere a tali servizi (lontani), si esigeva tempo, denaro e resistenza fisica. Inoltre, nei nuovi barrios, con la disoccupazione e l’anonimato, la criminalità toccò indici elevati.
Fu così che molti ritornarono sui morros precedenti, perché «Città di Dio» non era affatto tale e «Santa Croce» era davvero un calvario. E, tuttavia, alcuni restarono trasformando il barrio in favela!

sono davvero Banditi?

Favela della Mangueira. Entro in una «casa monostanza», abitata da una donna con sette bambini, più un altro marmocchio che non è suo, ma non sa dove rifugiarsi. Poi attraverso un ponticello di bastoni sconnessi e scricchiolanti per affacciarmi su un vano dalle pareti «multicolori»: una di fango, una di latta, una di compensato, mentre la quarta parete è… l’ingresso senza porta. Ci vive una ragazza di 17 anni con due figli.
Costeggio un muro, abbastanza alto, di cemento armato. La costruzione fa da disco rosso all’avanzare della favela: al di là del muro è proprietà privata di un grileiro, che affitta il terreno a caro prezzo. È triste rilevare come il povero sfrutti il più povero…
Esuberanti, creativi, innamorati della samba… i baraccati della Mangueira. Gente quasi tutta nera, proveniente dal nordest del Brasile, dove, quattro secoli fa, furono deportati schiavi razziati dall’Africa. Nel 1888 cessò la schiavitù, ma non gli schiavi.
Eccoli oggi ancora alla Mangueira. Un favelado è esplicito: «Da oltre 100 anni siamo liberi solo sulla carta. I nostri bisnonni, pur discriminati dal padrone bianco, lavoravano e mangiavano. Noi lavoriamo e tiriamo cinghia. Se non ci dessimo da fare, avremmo solo la libertà di morire affamati e…».
L’interlocutore interrompe il discorso, attratto da due ragazzi che scappano per scomparire in uno dei mille meandri dell’ambiente. Poco dopo, sulla via, compare la polizia: un’occhiata qua e là, qualche parola… e gli uomini in divisa ritornano sui loro passi.
«I ragazzi fuggiti – riprende il favelado – sono piccoli spacciatori di droga. Fanno un lavoro che scotta; però garantisce sicurezza economica all’intera famiglia. Prima o poi cadranno in trappola; tuttavia preferiscono vivere un giorno da leone che cento da pecora. Per lo stato sono banditi. Per noi sono anche amici, perché finanziano le nostre feste popolari, regalano fiori e caramelle ai bambini…».
Mentre lo stato esige dalla favela «ordine» e «moralità», senza muovere un dito per sanare le piaghe della disoccupazione, dell’analfabetismo e dell’igiene, i «banditi» assicurano almeno un giorno di allegra evasione. Ma fino a quando il gioco vale la candela?

quale soluzione
per le baraccopoli?

La favela lotta ogni giorno per sopravvivere. Il principale problema è l’insicurezza: la paura dello sfratto, il terrore che il terreno frani e seppellisca tutti. Sono pochissimi i proprietari legalmente riconosciuti del fazzoletto di terra dove vivono, spesso, da generazioni. I favelados nella quasi totalità sono abusivi.
Non mancano i grileiros: individui che, invasa la terra e impadronitisene con documenti falsi, speculano sugli affitti e giungono perfino a farsi pagare una sorta di tassa demaniale. In favela le baracche sono abitazioni clandestine e, di conseguenza, gli affitti sono insindacabili dalla legge. Di più: se i favelados sono fuorilegge, lo sono altresì i fittavoli. Tutto questo perché il mondo della favela è «inesistente» per la legge brasiliana.
C’è una soluzione al problema? È evidente che la questione cesserà solo quando in Brasile si risolverà, con giustizia, il cruciale problema della terra. Ma questo, purtroppo, non è in vista.
Intanto è urgente che le comunità dei favelados e gli organismi governativi si accordino su alcuni punti scottanti: legalizzare la favela, riconoscere agli abitanti la proprietà del terreno, affrontae gli aspetti logistici secondo i suggerimenti dei residenti. Nessuno meglio di loro (che hanno costruito abitazioni con miracoli di ingegneria spicciola) conosce le soluzioni urbanistiche più idonee. Si erigano asili, scuole professionali, centri sanitari e sportivi.
Si devono prevedere piccoli progetti, che il governo appoggerà foendo assistenza tecnica e mezzi finanziari, mentre gli «ex favelados» presteranno il lavoro.
Forse qualcosa sta muovendosi nel verso giusto. Fino agli scorsi anni ’80 dominava l’idea che le baraccopoli fossero un’anomalia, che il progresso avrebbe riassorbito. Ma con l’attuale modello di sviluppo il disagio, anziché diminuire, cresce. Di conseguenza incomincia a cambiare l’atteggiamento dei governi e delle agenzie finanziarie inteazionali.
Invece di espellere, si inizia a vagliare quanto i favelados hanno prodotto, investendo risorse per dotare gli insediamenti spontanei dei servizi essenziali, regolarizzando la proprietà, integrando gradualmente le aree e i loro abitanti nel contesto urbano normale. Questo pure in sintonia con la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla casa, Habitat II, svoltasi a Istanbul nel 1996.
Però la soluzione del problema «baraccopoli» non è dietro l’angolo, perché troppi remano contro. Inclusa la tivù.

R incaso con padre Ivanilson dopo una visita in favela. È il tramonto. Tra poco moltissimi favelados si legheranno al tubo catodico per l’ennesima telenovela. Invidieranno palazzi sfarzosi e abiti firmati, sogneranno avventure e amori impossibili con uomini aitanti e donne procaci. Tutti individui raggianti quanto falsi, opulenti quanto bugiardi. Infatti la telenovela è una gigantesca alienazione, peggiore di quella che si consuma allo stadio Maracaná nella calca di 220 mila tifosi scatenati. È così che in Brasile «la telenovela continua».
Tra le tante antenne televisive che imperano sulle bidonvilles di Rio de Janeiro, São Paulo, Salvador, Manaus… ho adocchiato pure qualche parabolica. C’è da augurarsi che, almeno questa, non serva a propinare un’insulsa soap opera in inglese o italiano.

Francesco Beardi




Se nero significa brutto – Speciale BRASILE

Salvador Bahia – È bella la città di Jorge Amado. Le chiese, i palazzi barocchi, le case dalle tonalità pastello, le piazze linde e ben pavimentate richiamano folle di turisti, muniti di shorts e macchine fotografiche. Ma forte è l’impressione che tutto sia ad uso e consumo del visitatore. Un persona questa che quasi sempre ignora la vastità delle favelas che circondano la città vecchia (nota come «città alta»), quella sulla quale si sono riversati finanziamenti miliardari.
La Salvador non turistica deve fronteggiare problemi giganteschi: disoccupazione, povertà, analfabetismo. Tutto questo genera un forte clima di violenza. Non nasconde i problemi dom Gilio Felicio, dal 1998 vescovo ausiliare di Salvador. Lo incontriamo al «Centro di formazione per leaders» dell’arcidiocesi. Volto sorridente e coinvolgente simpatia, monsignor Felicio è un vescovo dalla pelle nera.

Nello stato di Bahia gli afro-brasiliani rappresentano più del 70 per cento dei 13 milioni di abitanti. E sono di gran lunga i più poveri ed emarginati. «Sulla popolazione nera – spiega mons. Felicio – ricade tutta l’ampia gamma dei problemi brasiliani. Molti di questi hanno una motivazione storica. Infatti, 300 anni di schiavitù e 100 di sottomissione alla cultura del “bianco” hanno lasciato il segno. Perché nella testa dei neri si è sedimentato un pesante senso di inferiorità».
È vero – chiediamo – che molti afro-brasiliani usano una terminologia particolare per nascondere la propria identità? «Purtroppo è proprio così. A volte, si arriva a situazioni assurde, ridicole. Quando un afro-brasiliano fa un buon lavoro, può accadere che lui stesso dica di avere fatto un lavoro… “da bianco”. La negritudine, l’essere neri non è assunto come un valore in sé, come esempio di vero, di bene o di bello. Anzi, è proprio il contrario: nero è brutto».
Lei è ottimista riguardo alla pastorale afro-brasiliana? «Vedo un lungo cammino ancora da percorrere, ma continuo ad essere ottimista. La chiesa cattolica, partendo dal Concilio Vaticano II, ha guardato in modo speciale al concetto del popolo di Dio, cercando di valorizzare le qualità di ogni soggetto. Nel passato la chiesa ha sempre avuto un occhio privilegiato per la misericordia e l’assistenza al povero, ma è stata più restia a considerare l’elemento culturale dei popoli. Giovanni Paolo II, nella conferenza dei vescovi latinoamericani di Santo Domingo, parlando agli indigeni e agli afro-americani, li ha invitati a coltivare e celebrare degnamente la propria identità e cultura. Credo che si stiano facendo grandi passi su questa strada. In Brasile la pastorale cerca di rispondere alle necessità della popolazione afro-brasiliana: essere riconosciuta per la cultura di cui è portatrice ed avere piena cittadinanza nella chiesa».
Nelle favelas di Salvador si tocca con mano un’offerta religiosa molto diversificata. Domandiamo a monsignor Felicio se il sentire dell’afro-brasiliano è quello del candomblé (nel quale confluisce la tradizione religiosa africana), della chiesa cattolica o delle sètte. «Su questa terra – risponde il prelato – c’è stata una confluenza, un incontro di diverse religiosità: quella indigena, quella europea e quella degli afro-discendenti. Questi elementi si sono accavallati, formando una specie di simbiosi religiosa che alcuni chiamano sincretismo, ma che in realtà è qualcosa di unico. Questo crea, non si può negarlo, delle difficoltà. Tuttavia, la chiesa cattolica ha riconosciuto l’importanza di vari aspetti del candomblé. Attraverso il dialogo si sta costruendo una nuova via per l’inculturazione del messaggio cristiano».

Nel 1995 sono stati commemorati i 400 anni del martirio di Zumbì, l’eroe per antonomasia della popolazione afro-brasiliana. La chiesa cattolica ha partecipato alle celebrazioni, riconoscendo l’importanza di questo schiavo nero nella storia del Brasile. «È stato un gesto carico di significati. Però non è stato né l’unico né l’ultimo. Oggi abbiamo gruppi di lavoro e movimenti di sacerdoti, vescovi e diaconi neri. Lo scopo è di studiare la spiritualità afro-brasiliana e valorizzare la presenza e la cultura dei neri in questo grande paese».
Ma quanti sono i vescovi afro-brasiliani nella Conferenza episcopale del Brasile? «Sei su 400 prelati». Non sono molti, monsignore. Il sorriso di dom Gilio Felicio vale più di qualsiasi risposta.
Paolo Moiola

Paolo Moiola




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Missionari e indios di Roraima nella bufera – Speciale BRASILE

La testa sul vassoio
Testimonianza di un vescovo

Sono stato vescovo di Roraima
dal 1975 al 1996, in uno degli stati più «caldi» del Brasile, con scontri tra bianchi e indios. Durante i 20 anni di servizio, politici, giornali e radio locali hanno giocato al tiro a segno contro la chiesa di Roraima, scagliando contro il vescovo e i missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più spudorate.
L’apice della tensione si raggiunse nel 1993. Un sicario, telefonando ad una radio, si offrì di uccidere il vescovo, porre la sua testa su un vassoio e deporla ai piedi del monumento al garimpeiro (cercatore d’oro) di Boa Vista. La telefonata, ripresa da altre radio, fu udita da tutti e causò grande spavento.
Decisi di ricorrere a Brasilia, capitale federale, per presentare il caso al Ministero di giustizia e chiedere aiuto alla Conferenza episcopale (Cnbb). I vescovi promossero un giorno di mobilitazione, il 16 aprile 1993. La manifestazione si svolse a Boa Vista, con la partecipazione del presidente e vicepresidente della Cnbb, di altri vescovi, del Consiglio indigenista missionario (Cimi), della Commissione pastorale per la terra e di alcuni deputati. Il Ministero di giustizia inviò alcuni poliziotti per difendere la casa del vescovo.
Da allora la televisione di Roraima ha ignorato l’azione della chiesa: non più attacchi, ma neppure interviste. Il programma, che tenevo ogni venerdì, fu abolito.
Contro le accuse e discriminazioni la chiesa ha quasi sempre risposto col silenzio e perdono, mentre spiegava con lettere e messaggi il suo comportamento. Però una volta ha denunciato due radio (1993), ma le autorità hanno lasciato di proposito che il caso cadesse in prescrizione.

Potrei sintetizzare i miei 20 anni di episcopato
parafrasando san Paolo: una volta ho rischiato di avere la casa devastata dai garimpeiros; in tre occasioni ho avuto la polizia federale schierata davanti alla casa a protezione della mia vita; la chiesa di Roraima, accusata di ogni misfatto, è stata per due volte (1989-9O) indagata da due commissioni d’inchiesta, senza trovare la minima prova a carico; per tanti anni i missionari e il sottoscritto siamo stati spiati dalla polizia, senza mai trovare la minima illegalità nel nostro comportamento. Poi innumerevoli denunce di essere seminatori di zizzania.
Uno degli ultimi casi capitò nel 1995. Un delegato della polizia federale fu incaricato di indire il processo su un episodio di violenza contro gli indios macuxí; prima ancora di ascoltare le deposizioni delle vittime, il delegato accusò la chiesa di essere l’istigatrice dell’accaduto. La notizia rimbalzò su tutti i mass media nazionali, con le false testimonianze per provare l’accusa. Naturalmente eravamo estranei alla vicenda. E il caso si sgonfiò come una bolla di sapone.
Mentre certi settori della società e del governo
si scagliavano contro la chiesa di Roraima, questa riceveva onorificenze nazionali e inteazionali. Il 9 agosto 1990, a Brasilia, il presidente della camera e deputati di vari partiti elogiarono in assemblea il mio operato… Nel giugno 1994, a Rio de Janeiro, mi fu consegnato il premio «Alceu Amoroso Lima» per il lavoro a favore degli indios. Il 31 dicembre 1994 lo stesso governo di Roraima riconobbe i meriti della chiesa, concedendomi il grado di «grande ufficiale dell’ordine di Forte São Joaquim».
Ebbene, come spiegare il comportamento schizofrenico? Era chiaro che gli attacchi venivano da un ristretto gruppo di politici, detentori del potere, per i quali il bene della nazione s’identificava con i vantaggi personali, testardamente ostinati a negare i diritti della popolazione indigena.
Inoltre una parte dell’élite di Roraima (e del Brasile) conserva ancora una mentalità colonialista. In tempo di elezioni, il governo federale sfrutta tale mentalità, usando gli indios come merce di scambio e ricatto, per ottenere l’appoggio delle classi potenti.
Nel decennio 1975-85 i potenti erano contrari a qualsiasi demarcazione delle terre indigene. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: il diritto degli indios all’identità culturale e al possesso della terra fa parte della nuova costituzione; la demarcazione delle terre, destinate alle varie etnie, è stata fissata sulle mappe catastali, anche se non sono state soddisfatte tutte le aspettative degli interessati. Ma talora si ha la netta sensazione di essere «ritornati indietro».

A questo punto un chiarimento.
Contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, la demarcazione delle terre non ha affatto lo scopo d’isolare gli indios dalla società bianca e mantenerli nella povertà, ma garantire loro uno spazio geografico e sociale in cui crescere senza traumi e organizzarsi secondo la propria identità culturale.
La chiesa di Roraima ha cercato di aiutare i nativi a progredire in tutti i settori, senza fare tabula rasa dei valori culturali. Inoltre essa è convinta che uno dei meccanismi più importanti per lo sviluppo dei popoli sia il confronto con altre culture e l’assorbimento di nuovi modelli; ma è pure consapevole che, quando un gruppo culturalmente «debole» (come gli indios) viene inserito con violenza in una cultura «forte», il debole viene annichilito.
Proponendo alle comunità indigene di richiedere la demarcazione delle terre e appoggiando le loro aspirazioni, la chiesa non intende creare fratture sociali tra indios e bianchi, ma vuole promuovere una cooperazione rispettosa tra le diverse identità storiche e culturali della popolazione di Roraima. L’errata interpretazione di tali obiettivi spiega in parte l’ostilità incontrata in questi anni. Ma la vera causa è di natura economica e politica.
I risultati provano la validità delle scelte fatte: gli indios hanno riconquistato la fiducia in se stessi e lottano per occupare un posto degno nel contesto sociale di Roraima; i capi indigeni hanno preso coscienza delle proprie responsabilità; le comunità hanno imboccato la strada dell’autosostentamento. I ripetuti interventi per salvare i yanomami sono il fiore all’occhiello dell’azione della chiesa. La testimonianza dei missionari ha reso credibile il messaggio evangelico. Il progetto «una mucca per l’indio» è stato un miracolo, una benedizione.
Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.
Aldo Mongiano

La sfida del Nano
O di padre Giorgio Dal Ben

L’ansia e la fretta lo consumano.
Ecco perché, più che camminare, trotta. Anche il suo linguaggio è spumeggiante: una raffica di pensieri che rotolano su ogni dove con una logica che logica non è. E l’altro ascolta, ascolta, ascolta. Il ragionamento è una spirale che gira e rigira interminabile. Quando l’«oratore» finalmente si concede una sosta, l’ascoltatore ha capito poco, ma quanto basta. E cioè:
– che la situazione degli indios yanomami, macuxí, wapixana, ingarikó e taurepang è drammatica;
– che demarcar le loro terre è questione di vita o morte;
– che a luta continua: uno scontro tra nani e giganti.
Nano è un po’ anche lui, perché non supera i 160 centimetri di altezza.

Scriviamo di padre Giorgio Dal Ben,
da oltre 30 anni missionario della Consolata nella surriscaldata terra di Roraima. È forse il missionario italiano più europeo, perché è noto non solo nella nostra penisola, ma anche in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio. Quando parla in questi paesi i suoi discorsi sono pure interminabili, avvolgenti.
Ma tutti capiscono che padre Giorgio si impegna fino allo spasimo: perché gli indios non si vergognino più di essere tali e parlino la loro lingua; perché i tuxawa (capi) riprendano il loro ruolo di guide sociali e culturali insieme agli sciamani; perché i bambini vadano a scuola e imparino a scrivere anche in macuxí oltre che in portoghese.
Bisogna soprattutto – martella padre Giorgio – spezzare la dipendenza economica dal bianco e dalla sua cachaça (acquavite). Il progetto «una mucca per l’indio» (che ha affascinato persino Giovanni Paolo II e il cardinale Ersilio Tonini) mira a riconquistare le terre indigene usurpate dai fazendeiros e crea autosostentamento. Così pure i piccoli allevamenti di maiali e polli.
Con uma vaca para o indio, il missionario ha varcato i cancelli del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, imponendo all’attenzione del mondo i problemi indigeni.

Giorgio non è come il biblico Davide,
piccolo e solo davanti al gigante Golia; è un po’ nano, sì, ma un nano «lillipuziano» contro «il mostro Gulliver»: le sue «fiondate», grazie ad una vasta cerchia di collaboratori, piovono da ogni parte sugli sfruttatori degli indios.
Numerosi missionari della Consolata, che a Roraima hanno sposato la causa indigena, vivono nell’occhio del ciclone: minacce da parte dei bianchi e dei loro manutengoli, calunnie e attentati sono stati e sono pane quotidiano. Ma l’aggressività nei confronti di padre Giorgio Dal Ben non ha paragoni. È accusato di ledere la sovranità del Brasile: è a capo di un esercito di 2 mila indios, comanda azioni di guerriglia contro i cercatori d’oro, invade le proprietà altrui, circola armato, si traveste da donna, sfrutta gli indios in miniere d’oro e diamanti, preziosi che poi vengono inviati in Italia. Lo ha scritto la rivista Istoé, maggio 2000.
Ma una «rete lillipuziana», composta da tanti amici, ha subito fatto quadrato attorno al missionario con stima ed affetto. A Roraima la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, il 2 maggio scorso, ha denunciato la rivista Istoé, i giornalisti Pedrosa e Stuckert, il governatore di Roraima Campos, il deputato Feijão e il fazendeiro Bezerra di attaccare padre Giorgio e i popoli indigeni con «affermazioni false e perverse».
«L’aggressione – scrivono padre Lirio Girardi e suor Giuseppina Morelli – vuole impedire la demarcazione della terra indigena di Raposa Serra do Sol, demarcazione in linea con il decreto n. 820, sottoscritto dal ministro della giustizia Calheiros l’11 dicembre 1998… I responsabili dell’attacco non temono di ricorrere a mezzi turpi, fino a minaccia di morte, per aizzare l’opinione pubblica contro gli indios, dividere i loro capi e spaventare i loro alleati».
Non sono mancati pistoleros pronti a sparare. Finora padre Giorgio Dal Ben e i colleghi missionari sono scampati alla morte, spesso fuggendo. Ma i rischi aumentano.
Tuttavia la spada di Damocle pende soprattutto sugli indios. Anzi si è già abbattuta seminando numerose vittime. Incursioni a mano armata nei villaggi indigeni, malattie mortali provocate, incendi criminali, garimpeiros predoni… hanno decimato i popoli indigeni.
Inoltre, nell’arco di alcuni anni, centinaia di migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati selvaggiamente disboscati, molti fiumi inquinati e intere aree sommerse artificialmente con la costruzione di grandi centrali idroelettriche.
«L’indio perde sempre: nel riconoscimento del proprio territorio, nei progetti agricoli, nell’assistenza sanitaria, nella dotazione di scuole per i nostri bambini e i nostri giovani, che continuano a sperare in una preparazione per il futuro». Lo sostiene Aniceto Cacique, indio xavante del Mato Grosso. Sarà sempre così?
Gli indios di Roraima continuano a gridare: «Noi vogliamo vivere».
Francesco Beardi

finalmente La veritÀ
Sul massacro di padre Giovanni Calleri

«Giovanni Calleri, missionario della Consolata,
nel 1968 fu scelto dal governo brasiliano a dirigere la spedizione di pacificazione di una tribù indigena per la sua esperienza tra gli indios yanomami, ma anche per la sua ricca personalità. Un dirigente governativo, Verìssimo da Silveira, ne rimase conquiso al primo incontro. “Era una figura che impressionava – testimoniò -. Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Le persone che lo incontravano per strada o in una riunione lo definivano uno sportivo o un artista. E vedevano giusto»…
«Nel 1965 padre Calleri partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. Le sue lettere del 1966-67 rivelano un uomo determinato e metodico, che riesce a convivere con gli indios imparandone la lingua e instaurando un buon rapporto. Scrisse: “Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame, e sempre tanta solitudine”»…
«L’organizzazione della missione del Catrimani mise in luce un missionario con una straordinaria sensibilità. I suoi piani grandiosi non sempre furono approvati dai superiori locali. Sarà il superiore generale ad assecondare le iniziative del focoso missionario»…

Sono alcuni capoversi del libro «Massacre».
Ne è autore padre Silvano Sabatini, missionario della Consolata pioniere in Brasile. «Massacre» descrive la spedizione diretta da padre Giovanni Calleri, che aveva lo scopo di pacificare gli indios waimiri-atroari. L’avventura culminerà in un eccidio. Padre Giovanni aveva 34 anni.
«Massacre» non è di facile lettura. Scritto in portoghese, racconta una tragedia nell’impervia foresta amazzonica, intersecata da fiumi grandi e piccoli dai nomi più strani; coinvolge gli indios, che intendono vivere alla loro maniera e si ribellano alla costruzione della strada BR-174; l’autore sembra giocare a nascondino con l’inesperto lettore nell’immensa foresta, andando a zig zag nel tempo e nello spazio.
Di più: la raccolta di documentazione e testimonianze avviene «con le pinze» per gli indios che partecipano all’eccidio (waimiri-atroari e wai wai) e con «i grimaldelli» per i forzieri del potere politico brasiliano, allora in mano ai militari, tutti presi dalla «sicurezza nazionale». Ancora: le testimonianze sono estratte dalle «pozzanghere» della Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva), legata agli Stati Uniti, troppo interessata (come protestante) che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.

L’intento dell’autore è di scoprire mandanti
ed esecutori dell’eccidio a 30 anni di distanza. Procedendo in ordine logico e cronologico, le cose andarono in questo modo. Il massacro della spedizione, costituita da dieci persone (comprese due donne), avvenne nella foresta il 1° novembre 1968 e fu sempre attribuito agli indios. Lo scopo della spedizione risulta chiaro. Al governo interessava pacificare gli indios che si opponevano alla costruzione della strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). I lavori, iniziati nel 1964, terminarono nel 1971.
Pure chiare le ragioni che spingevano il governo brasiliano ad intersecare l’Amazzonia di strade: integrare la vasta regione al paese, valorizzandone le immense ricchezze sulle quali gli Stati Uniti erano interessati (esportazione clandestina di oro e diamanti, vendita di terreni, ecc.). Né mancavano motivi militari, poiché l’Amazzonia a nord confina con sei nazioni in rapporti non sempre pacifici.
Per attuare il programma occorreva, però, fare i conti con gli indios che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.

Chi è padre Calleri?
Perché la scelta di dirigere la spedizione cadde su di lui? «Massacre» risponde bene e con passione a queste domande.
La spedizione venne preparata seriamente e il piano fu presentato al governo che l’approvò. Il piano consisteva nell’adottare una tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima indios non irritati contro i bianchi, per farli mediatori presso gli altri sul piede di guerra, perché vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano, perché indiretto, fu ritenuto da qualcuno troppo lento: per non fermare i lavori, bisognava confrontarsi subito con i ribelli waimiri-atroari, che in quanto ad imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e di morte risultavano enormemente aumentati.
La spedizione dovette essere ricomposta anche nei membri: venne inserito come elemento principale Alvaro Paulo da Silva, espertissimo della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla missione protestante Meva, con residenza in Guaiana, interessata a sua volta a far fallire la spedizione guidata da padre Calleri.
Va detto che l’azione della Meva, diretta dal pastore statunitense Robert Hawkins, nella doppia attività di evangelizzazione e ricerca di miniere, non coinvolge nelle sue brutture le altre chiese protestanti, specie per l’attività criminale dello statunitense Claude Leawitt.

La tesi sostenuta da padre Sabatini
con innumerevoli testimonianze (l’autore si avvale di 300 ore di registrazioni) è che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimiri-atroari e wai wai, istigati però da un manipolo di bianchi, in particolare da Alvaro Paulo (l’unico che sfuggì al massacro) e da Claude Leawitt. I due poi imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Nel 1987 padre Sabatini, dopo una grave malattia, giurò a se stesso di far luce su fatti e persone che la Commissione d’inchiesta sul «caso Calleri» non svolse. Il quadro che ne risulta è fosco. Contro gli indios, prima e dopo il 1968, furono commessi crimini orribili: i waimiri-atroari, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio. Padre Sabatini sostiene, con una denuncia sferzante, che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios.
«Massacre» vuole essere, oltre che una denuncia profetica (e i profeti non scherzano), anche «una risposta al trionfalismo dei 500 anni dalla scoperta del Brasile». Non fu una scoperta, ma un’invasione imbrattata di sangue.
Igino Tubaldo
(traduttore in italiano ad usum privatum di «Massacre»)

Aldo Mongiano




Indios, i nodi vengono al pettine – Speciale BRASILE

Fuga e resistenza

Si fugge sempre quando assale il «terremoto»…
In Brasile gli indios non hanno il tempo di capire, ma solo di reagire a cose fatte. Fin dall’inizio, con l’attestarsi dei conquistatori portoghesi sulle coste atlantiche (dal bacino del Rio delle Amazzoni a São Paulo), gli indigeni reagiscono trasferendosi all’interno del paese, cambiando territorio e invadendo quello altrui.
La fuga è una soluzione che, fino a quando è possibile, accompagna tutta la storia dei rapporti fra indios e invasori. Sotto l’incalzare dei bandeirantes, per esempio, non resta altra soluzione che rifugiarsi in luoghi inaccessibili.
È quanto accade anche nel secolo XX in risposta all’invasione delle multinazionali: solo che, a differenza dei bandeirantes (già terribili), i nuovi invasori hanno mezzi e armi sofisticati (elicotteri e defoglianti) e fuggire è una misera soluzione.
Ma non tutti gli indios fuggono. Fra quelli che restano, molti resistono alla conquista. Quasi tutte le tribù (non completamente distrutte) attraversano periodi di lotta contro gli aggressori: lottano per ritardae l’avanzata o per dissuaderli dal continuare.
Nel secolo XVI i tupí creano un movimento di resistenza, riunendosi nella confederazione detta «tamoios»; ma non ha grande esito per la violenta controffensiva dei portoghesi. Maggiore successo riscuotono le etnie tatuias nel nord-est: queste, alleatesi, per circa 50 anni (XVII secolo) impediscono l’avanzata distruttiva dei portoghesi.
Pertanto, fin dagli inizi della conquista dei bianchi, gli indigeni brasiliani oppongono resistenza… Nel 1788 è la volta degli indios del Rio Branco: parecchie tribù karibe (tra cui i macuxí) si ribellano, distruggendo un forte portoghese e mantenendo la zona per alcuni anni. Ma l’impossibilità di creare una struttura socio-politica apposita impedisce la continuazione della rivolta.

si decide di morire

Dalla conquista ad oggi, alcune tribù si lasciano sconvolgere dall’impatto con il bianco, rifiutando però l’integrazione. Diverse etnie, trasferite con la forza nelle riserve, costrette alla sedentarietà, perdono il «gusto di vivere» e cadono in una abulia senza rimedio. Un esempio.
Kosó, capo dei kaapor, dopo aver perso la moglie e l’unico figlio, vittime di un’epidemia, cadde in grande prostrazione. Un giorno, tornato dalla caccia, avrebbe raccontato di essersi incontrato con il padre defunto. Questi gli disse: «Vieni, Kosó. Dove siamo noi si sta bene». Kosó, dopo il racconto, si gettò sull’amaca e non parlò più. Il giorno seguente era morto. La gente del villaggio disse che Kosó era stanco e non voleva più vivere.
Accanto a simili reazioni personali, occorre ricordae altre rivolte, questa volta, contro la propria prole. Si tratta del rifiuto esplicito della vita nella comunità: o non nascono più bambini o vengono eliminati (aborto e infanticidio). La donna accetta il suicidio culturale.
È la terribile azione di una società che decide di morire, piuttosto che deculturarsi e integrarsi nella società dei conquistatori.

I risultati
della «civiltà cristiana»

«Fra gli indios, dove non si portò la morte violenta, fu imposta la distruzione della coscienza, della storia e della volontà di masse di uomini, senza nulla recare in cambio. Nulla significa nulla: sfumare, precisare e chiarire significa tradire i concetti». Così lo studioso J. C. Mariategui.
Parlando di distruzione, si evidenzia quella socio-culturale e la volontà del sistema occidentale di rifiutare il «diverso» perché fonte di fastidio.
«Il problema indio» nasce dall’economia dei bianchi, che affonda le radici nella proprietà individuale, che tende ad usurpare le terre indigene, a privatizzare i beni comunitari e a mutare in modo violento i meccanismi di produzione. Questi tre elementi generano influenze deleterie fra la cultura «forte» occidentale e quella «debole» india, e cioè: spopolamento del territorio, degrado ambientale e degenerazione degli individui.
Varie le imposizioni dei «forti»:
1) concentramento degli aborigeni in grandi agglomerati rurali;
2) imposizione del vestiario europeo;
3) opposizione al matrimonio secondo la tradizione indigena (missionari);
4) applicazione della legge penale europea a presunti delitti di immoralità;
5) soppressione del sistema di proprietà comunitaria e dell’autorità dei capi.
Questi tratti culturali, imposti più o meno con la forza da coloni e missionari, comportano in 500 anni di conquista quasi lo sfacelo socio-culturale degli indios.
Tuttavia il Brasile, prima dell’arrivo dei portoghesi, non è un paradiso: le guerre tra gruppi etnici sono frequenti; a determinarle è l’esigenza di sopravvivenza dei gruppi. I bianchi sfruttano le inimicizie fra i nativi.

Civilizzarli. E come?

«Gli indios vivono come bestie. Occorre vestirli, educarli, civilizzarli» dice qualche bianco. «Non esistono più indios – aggiungono altri -, ma soltanto loro discendenti che sono brasiliani come noi». Questo problema si impone con forza all’opinione pubblica brasiliana.
Oggi in Brasile, dei 5-6 milioni di indios del 1500, sopravvivono circa 330 mila persone: appartengono a 215 popoli e parlano 180 lingue differenti.
Per tanti decenni latifondisti (fazendeiros) e cercatori d’oro (garimpeiros) hanno invaso le terre indigene. La scoperta di un giacimento minerario, la possibilità di sfruttare una foresta, la presenza di campi per allevare bovini… sono diventate valide giustificazioni per condannare gli indios a morte.
Sulla rivista di Rio de Janeiro Fatos e fotos nel 1968 si leggeva: «Un piccolo aereo aveva compiuto alcuni voli sul villaggio. Gli indios, impauriti, correvano in casa; donne e bambini piangevano nel cortile senza saper dove andare. D’improvviso un’esplosione fa volare in aria paglia, legna, terra e corpi di persone. Il rombo del motore copriva il rumore degli spari, ma dal finestrino dell’aereo si scorgeva il braccio di un uomo che sparava con un mitra. Mentre la gente scappava in foresta… tutti furono uccisi. E fu sterminata una tribù di Cintas Largas nel Mato Grosso».
Misfatti del genere sono avvenuti in ogni angolo del Brasile, restando quasi sempre impuniti.

Il problema della terra

È «il» problema. La terra è indispensabile anche per la sopravvivenza culturale degli indios… Nel 1973 il governo brasiliano, con la legge 6.001, decide di demarcar i territori indigeni: tempo cinque anni. La legge rimane lettera morta.
Il bestiame dei bianchi continua ad invadere le coltivazioni degli indios e a distruggere tutto. Nel frattempo gli indigeni vivono in fazendas, recintate da filo spinato: non possono più cacciare e pescare; sono obbligati a lavorare nei latifondi del bianco come manodopera quasi gratuita. Spesso ricevono solo acquavite o addirittura alcornol puro: obbligati a bere veleno in cambio di lavoro nelle loro ex proprietà.
L’invasione risponde ad un chiaro piano governativo: concentrare le terre nelle mani di chi può sfruttarle «più razionalmente per il bene dell’economia brasiliana». Si conia uno slogan per giustificare l’operazione: «La terra senza uomini (l’Amazzonia) agli uomini senza terra (i brasiliani nordestini)». Si aprono le strade transamazzoniche, perché «i poveri coloni emigrati» possano avere un po’ di terra da lavorare.
Ma il sogno dei piccoli coloni dura poco. Infatti il governo dichiara: finora la transamazzonica ha aiutato il piccolo colono; «ma ora dobbiamo entrare nella fase delle grandi imprese».
Per realizzare ciò, si vende il Brasile a ditte straniere e a prezzi irrisori. Indios e coloni (anche i secondi hanno versato lacrime e sangue) lottano fino a morire. Vince l’interesse dei potenti.
L’Amazzonia ci rimette oltre un milione di chilometri quadrati (negli stati di Mato Grosso, Rondonia, Goiàs, Acre, Pará, Roraima). Gli indios, minacciati dall’invasione genocida dei bianchi, sono: yanomami, macuxí, wapixana, ingarikò, taurepang, deni, suruí, guajé…
Orecchi da mercante

Il 19-12-1973 il presidente brasiliano Medici firma lo «statuto dell’indio», che dovrebbe tutelare i diritti delle minoranze etniche della nazione. Però la legge penalizza gli indios. Lo stesso presidente dichiara senza mezzi termini: «Lo scopo fondamentale dello statuto è la rapida e salutare integrazione dell’indio nella civiltà».
Nell’ottobre del 1978 la situazione peggiora ancora. Il ministro degli interni Reis consegna al presidente Geisel un decreto-legge sull’integrazione obbligatoria di quasi tutti gli indios.
L’iniziativa suscita una tenace opposizione in vari settori della società: chiesa e università. Gli indios rifiutano con forza il progetto genocida e, il 19 aprile 1979, inviano a tutti i brasiliani il seguente messaggio: «Riuniti in un’assemblea nazionale, siamo portavoce anche dei gruppi indigeni che non sono potuti intervenire. Sono nostri fratelli di sangue che aspettano, come noi, di vedere i loro problemi risolti, specialmente il problema della terra… Stiamo forse chiedendo integrazione ed emancipazione nella società dei bianchi? No. Noi vogliamo solo il riconoscimento e il rispetto della nostra integrità fisica e culturale».
Le richieste trovano orecchi da mercante.

Di male in peggio?

«È in corso una guerra non dichiarata, ma calcolata e sporca: da una parte il governo brasiliano e i centri di potere economici e militari vogliono sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo amazzonico; dall’altra la diocesi di Roraima, con la chiesa cattolica del Brasile e le associazioni filantropiche e ambientaliste, cerca di impedire il genocidio di 100 mila indios, la distruzione della flora e fauna amazzonica, l’inquinamento dell’atmosfera e dei fiumi».
È la denuncia dei missionari della Consolata di Roraima del 16 febbraio1988. Investe tutto il Brasile.
Nel paese vige la «nuova repubblica»: una dittatura (con una facciata democratica), dove operano potenti forze economiche brasiliane e multinazionali, appoggiate da settori militari. Si impone un modello di sviluppo neo-colonialista, peggiore dei precedenti: il saccheggio delle risorse forestali e minerarie dell’Amazzonia è perpetrato in modo caotico, incontrollato; provoca l’ennesimo sterminio di migliaia di indios. Secondo il piano governativo, le culture indigene devono scomparire, le comunità integrarsi nella società brasiliana e la maggior parte delle terre è da sottrarsi agli indios, per sfruttare i minerali ritenuti necessari allo sviluppo del Brasile.
Chi crede nel valore della «diversità» dell’indio insorge. I missionari della Consolata si appellano alle Nazioni Unite lanciando una campagna internazionale…
Nell’ottobre del 1988 c’è la nuova costituzione brasiliana. Si ritorna a sperare, perché si avallano i diritti degli indios: alla cultura, alla lingua, alla terra e all’usufrutto delle sue risorse. Si riconoscono 594 territori indigeni e 279 vengono registrati. La registrazione totale dovrebbe completarsi nel 1993.
Ma, nel presente 2000, non sono ancora stati delimitati 315 territori. Le terre indigene continuano ad essere depredate. Sembra davvero che in Brasile, o maior do mundo, non ci sia posto per il «diverso».

Francesco Beardi




Speciale BRASILE – Da Cabral a Cardoso

1500 Pedro Álvarez Cabral «scopre» il Brasile.
1501 Amerigo Vespucci esplora le coste brasiliane.
1530 Martim A. de Sousa fonda Peambuco, São Vicente, Piratininga.
1533 Istituzione di 12 capitanie: inizia la colonizzazione.
1539 Prima domanda ufficiale di importare schiavi dalla Guinea.
1548 Giovanni III nomina Tomé de Sousa governatore generale.
1549 Arriva Tomé de Sousa con sei gesuiti. Fondazione di Bahia.
1550 La tratta degli schiavi diventa sistematica.
1551 Erezione della prima diocesi brasiliana: São Salvador de Bahia. Primo vescovo è mons. F. Sardinha (muore nel 1556 divorato da cannibali).
1554 Padre Anchieta fonda São Paulo. Martirio di Pedro Correa e João de Sousa.
1567 La colonia di calvinisti francesi viene cacciata dalla baia di Rio de Janeiro.
1570 Canna da zucchero coltivata su larga scala: importazione massiccia di schiavi.
1576 Inizia l’evangelizzazione degli indios: per loro sono costruite chiese e scuole.
1576 Creazione della prelatura apostolica di São Sebastião, Rio de Janeiro.
1580 Arrivano carmelitani, benedettini e francescani, che aprono conventi e scuole.
Il regno del Portogallo passa sotto la corona spagnola; vi rimarrà fino al 1640.
1595 Seconda colonia francese si stabilisce nel Maranhão e fonda São Luis (1612).
1624 Gli olandesi iniziano l’occupazione del nord-est. Saranno cacciati nel 1654. Negli stessi anni arrivano cappuccini francesi e mercedari spagnoli.
1650 Lotta dei coloni e autorità locali ai gesuiti, espulsi da una parte del territorio.
1676-1677 Creazione di tre diocesi: São Sebastião, (già prelatura), Olinda e São Luis do Maranhão (1677).
1694 Distruzione del quilombo di Palmares.
1695 Zumbi, capo del quilombo di Palmares, è catturato: la sua testa viene esposta sulla piazza di Recife.
1696 Scoperta dell’oro in Minas Gerais.
1720-1750 La febbre dell’oro accelera il traffico negriero.
1759 Pombal espelle tutti i gesuiti (428) dalla colonia.
1800 Molti schiavi vengono affrancati: la debolezza dell’economia non ne consente il mantenimento.
1808 João VI di Portogallo si stabilisce a Rio de Janeiro.
1818 Apertura delle porte agli immigrati cattolici europei (Italia, Spagna, Germania, Polonia, Russia, Armenia, Libano).
1819 João VI torna in Portogallo; reggenza del figlio Pedro.
1820 Esplode la coltivazione del caffè.
1822 Dom Pedro proclama l’indipendenza del Brasile dal regno del Portogallo e viene coronato imperatore.
1831 Abdicazione di Pedro I in favore del figlio Pedro II.
1840 Inizia il regno di dom Pedro II: seguono 50 anni di pace e sviluppo.
1846 I gesuiti tornano in Brasile, seguiti dai lazzaristi e congregazioni femminili.
1850 Finisce la tratta negriera; ma comincia il contrabbando illecito di schiavi.
1865-1871 Guerra del Brasile contro il Paraguay.
1871 È promulgata la «legge del ventre»: tutti i nascituri da madre schiava sono liberi.
1880 Inizia la febbre del caucciù in Amazzonia; durerà fino al 1912.
1888 Abolizione definitiva della schiavitù.
1889 Cade la monarchia e viene proclamata la repubblica.
Migliorano le relazioni tra chiesa e stato; ciò permette l’entrata nel paese di molti ordini religiosi: salesiani, verbiti, spiritani, francescani tedeschi, cappuccini italiani, benedettini belgi…
1891-1895 Insurrezione dello stato di Rio Grande do Sul.
1916 Organizzazione del Fronte dei neri brasiliani.
1930 Golpe militare porta al potere Getulio Vargas.
1937 Con un nuovo colpo di stato Vargas impone la sua dittatura.
1943 Il Brasile entra in guerra a fianco degli alleati contro il nazifascismo.
1945 Pronunciamento militare costringe Vargas a dimettersi.
1950 Vargas si fa rieleggere presidente.
1954 Vargas è costretto dall’opposizione a lasciare il potere e si uccide.
1964 Un colpo di stato militare impone come presidente Castelo Branco (1964-67).
1974 Fine della dittatura e ripresa delle libertà democratiche.
1990 Con l’elezione del presidente Feando Collor trionfa il neoliberismo.
1994 Viene eletto presidente Feando Henrique Cardoso, che continua la politica neoliberista. Rieletto nel 1998, è il primo presidente a ottenere due mandati consecutivi con libere elezioni.

Benedetto Bellesi




SPECIALE BRASILE – Tra farsa e disprezzo – Introduzione generale

Si è vista prima la nave di Cabral o la terra su cui è sbarcato? Ha visto, per primo, il portoghese o l’indio? È certo che gli indigeni erano già sulla costa di Porto Seguro quando i portoghesi riuscirono a scorgerla.
Però non è importante sapere chi fu il primo a vedere la nuova realtà. Fondamentale è conoscere l’«altro lato» della storia non scritta, tanto più quando si è in presenza di visioni antagoniste, cristallizzate nella frattura socio-nazionale del Brasile. I vinti di ieri sono gli esclusi di oggi. Rappresentano la stragrande maggioranza, resa però minoranza senza voce.
La perplessità è presente nella storia del Brasile fin dal principio. «Perplessità» è la parola che meglio riassume la sensazione degli indios quando i portoghesi conquistarono la loro terra. Chi aveva incontrato, prima di allora, individui… così pelosi, così pallidi, così carichi di vestiti? Uomini senza donne, parlano una lingua incomprensibile, guidano «case» sulle acque come fossero canoe. Chi sono e cosa vogliono?
La perplessità e i suoi sottoprodotti (curiosità, sfiducia, paura) segnarono i primi incontri nel 1500. La diffidenza era reciproca. Indios e portoghesi non sfuggirono alla regola seguente: quando persone o gruppi forestieri si vedono per la prima volta, non si mettono a giocare abbracciandosi uno con l’altro. Non fu quindi un incontro idilliaco.
Seguì lo spavento, allorché gli indios, accanto alla propria schiavitù, videro anche quella degli uomini neri portati a forza dall’altra parte del mare con il sequestro e lo stupro delle donne. Poi nacquero i mulatti, che furono aggregati al sistema con violenza…
La conquista fu un cataclisma per gli uomini e la natura. Il mondo non era più lo stesso. I bianchi annientarono la cultura indigena. L’oppressione costante, le separazioni lancinanti delle persone, i demoni dei missionari… si installarono in un clima di terrore. Quelli che non riuscirono a fuggire all’invasore bianco sprofondarono in uno stato di rassegnazione e resistenza muta, paralizzati per il disgusto, resi schiavi dalla paura.
Seguirono 500 anni di disperata pazienza, inframezzata da rivolte. Si fece silenzio. La sua eco è arrivata fino a noi, oggi, attraverso l’umiliazione della gente contadina senza terra.

N el festeggiare il quinto centenario del Brasile, lo stato, abituato al disprezzo del popolo, non ha accettato il confronto con la storia. Celebrando «la portoghesità» e non «la brasilianità», ha agito come i colonizzatori e i loro eredi. Per rendere più concreta l’impostura ha creato un «museo aperto», la cui definizione tecnica è spregevole.
Ma la contestazione non si è fatta attendere. L’attacco è stato diretto contro «la portoghesità». Si sa che, dal punto di vista europeo, la «trovata» portoghese non esiste: infatti Colombo ha preceduto Cabral nel 1492 e nel 1498, quando ha individuato il continente americano. Qualunque altra «scoperta» è subordinata a quella spagnola.
Il popolo brasiliano scopre, perplesso, che i 500 anni della sua storia si appoggiano su una farsa. La storia del suo paese comincia con una scoperta che non c’è stata.
Infine come mettere insieme una nazione, tronfia di una scoperta, che esclude la maggior parte della popolazione? Come far progredire un paese la cui storia ha per base l’irrazionalità e perpetua il mal governo?

C inquecento anni dopo la conquista-colonizzazione, il Brasile è un paese ancora diviso e deturpato, dove gli eredi dei colonizzatori continuano a sfruttare i discendenti dei colonizzati. Il popolo vive nella miseria, ed è quotidianamente discriminato ed umiliato. La cordialità e la democrazia razziale, che si accreditano al brasiliano, sono solo simulacri segnati dall’esclusione sociale.
Come la conquista è avvenuta nell’ambito di tribù che si distinguevano anche per caratteri biologici, l’intero processo di colonizzazione si è avvalso del tribalismo, sfruttandolo e sovrapponendolo ai problemi economici. L’odiea esclusione sociale ha pertanto basi etniche: ne fanno le spese indios, neri, contadini senza-terra.
I mali del paese non sembrano avere soluzioni, perché le classi dirigenti, i partiti, gli intellettuali e persino la sinistra fingono di non conoscere questa dolorosa realtà. Ma come è possibile estraniarsi? Come si può vivere dentro un’apartheid senza vederla? Si può parlare a nome del popolo brasiliano e, nello stesso tempo, identificarsi con i conquistatori? È quanto sta accadendo in Brasile.
La situazione stagnante ha impressionato il mondo intero: il Brasile è probabilmente il paese più disuguale del pianeta.
Ma il quinto centenario della storia del Brasile può offrirci l’opportunità di un cambiamento. Abituato al disprezzo per il popolo, il governo si tradisce. L’abito del disprezzo condanna i tiranni. Nel Brasile la cosa non sarà diversa.
Allora il paese uscirà dalla perplessità, dalla sudditanza, dell’esclusione. E incomincerà finalmente ad esistere nella storia.

Celene Fonseca




Se Gesù avesse incontrato i musulmani

L’islam e il rapporto tra cristiani e musulmani in Italia e nel mondo sono temi rilevanti di Missioni Consolata. Nel 1989 uscì il numero monografico «Allah il più grande». Seguirono vari dossiers e articoli.
Nel 1999 pubblicammo testimonianze di cattolici italiani convertiti all’islam. Lo facemmo con spirito critico, per mettere sul «chi va là» i superficiali, pronti a mettersi sotto la «sharia» del corano. Scrivemmo allora: «Quanti presunti cristiani, che abbandonano la loro religione, hanno veramente sperimentato che Gesù Cristo, figlio di Dio, è la via, la verità, la vita? È lui “il” salvatore di tutta l’umanità. Lo affermiamo con fede e coraggio».
L’articolo di Michel Barin «La moschea nel convento» (Missioni Consolata, giugno 2000) presenta un’altra esperienza: in alcuni locali affittati, presso un istituto di suore della Valle d’Aosta, si tengono lezioni di arabo e si celebrano festività islamiche. Le lettere seguenti commentano il fatto. Qualcuno contesta duramente Michel Barin.

Non scherziamo,
per favore!

Rabbia, tristezza e delusione sono stati i nostri sentimenti dopo aver letto l’articolo «La moschea nel convento», pubblicato su Missioni Consolata di giugno 2000. Poco è servito a consolarci la provocazione finale di Michel Barin, che risponde riportando le verità che sembrano non essere prese in considerazione da un sedicente ecumenismo.
Ecumenismo, parola ambigua per molti. Si pensa che il cristiano d’oggi debba non solo accettare le varie religioni, ma anche approvarle, a scapito della propria fede. Ma l’ecumenismo non deve danneggiare il proprio credo.
Noi pensiamo che il rispetto per chi aderisce ad una religione non cristiana significhi aiutare chi è nel bisogno: se ha fame, dargli da mangiare; se ha sete, dargli da bere, ecc. E, se un musulmano si prostra a terra per pregare Allah, è rispetto non impedirglielo. Il suo è un diritto, che però non deve calpestare il nostro. Perché non possiamo dichiarare che Maria è madre di Dio? Perché dobbiamo dire che è solo madre dell’uomo-Gesù? Solo per non far arrabbiare i musulmani, che ritengono Gesù-Dio una bestemmia? Ma scherziamo! Si insegni pure l’arabo, la cultura e religione islamica… purché ciò faciliti il dialogo vero, che permetta di accettare l’altro per quello che è, ma non violi le verità trasmesseci da Gesù e dalla chiesa.
Come cattolici ci sforzeremo sempre di aiutare chi è nel bisogno, senza alcuna distinzione: Gesù ce l’ha dimostrato. Ma quanto avviene ora non è ecumenismo. Noi, ad esempio, non vogliamo collaborare con fondi affinché si ergano qua e là moschee (è già avvenuto), perché solo così saremmo cristiani. Altro che evangelizzazione! Questa è islamizzazione!
Se le crociate di ieri sono oggi condannate, non commettiamo il peccato inverso. Sì, riteniamo peccato permettere che la nostra fede venga deformata… per non dispiacere a qualcuno e non apparire anti-ecumenici. È una presa in giro dei missionari, che rischiano la vita proprio nei paesi islamici. Soprattutto è un’offesa a Colui che ha dichiarato di essere il compimento delle scritture, che Lui solo è la via, la verità, la vita. E nessun altro.
Non vogliamo mettere in bocca a Dio i nostri pensieri. Ma dubitiamo molto che Gesù, se avesse incontrato i musulmani, li avrebbe lasciati nei loro errori o addirittura esortati a continuare, solo perché rispettoso dell’uomo. Gesù è morto per essersi dichiarato figlio di Dio e per amore della verità. E noi dovremmo trovare un compromesso falsificando la verità fatta uomo! Stiamo forse perdendo la nostra identità cristiana?
Davide e Anna – Maranello (MO)

Fate bene, amici, a non mettere in bocca a Dio i vostri pensieri, specialmente in campo teologico. Egli infatti potrebbe rispondere: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).

Siamo figli, non schiavi

È curioso che un nemico dei vecchi «imprimatur» cattolici, quale io sono, si trovi ad essere sugli spalti dell’ortodossia insieme a Michel Barin. Condivido in pieno il suo articolo: si parla del «buonismo cattolico davanti all’integralismo del corano». La cultura occidentale si è liberata dall’integralismo. Siamo lontani anni luce dal taglio della mano, dalla fustigazione, dalla lapidazione e da altre sconcezze. Sulla lapidazione dell’adultera Gesù è stato molto chiaro. Altrettanto sul ripudio della moglie…
Il dialogo presuppone apertura mentale e approfondimento delle posizioni della controparte. Quale approfondimento del cristianesimo mostrano le persone che pensano che Gesù non sia morto in croce e che la Trinità sia formata da Padre, Figlio e Madonna?
Ricordo pure che nel vangelo ci viene detto che non siamo schiavi di Dio, ma figli: un concetto lontano dai musulmani, i quali, nonostante la loro religione sia più giovane della nostra, sono rimasti fermi a qualche millennio fa (al Dio di Abramo e Isacco).
Carlo May – Milano

Vi sono pure musulmani aggioati, con i quali il dialogo è fruttuoso.

Non lasciarsi abbagliare

Concordo con Michel Barin. È indubitabile che il movimento migratorio (e, in particolare, l’invasione islamica) sia un fenomeno irreversibile che non possiamo né frenare né demonizzare. Bisogna però saperlo gestire. Il pericolo maggiore non proviene solo dall’invasione di tanti musulmani, quanto piuttosto dall’ignoranza religiosa di troppi cristiani. Questi sono «solo» battezzati, ma non conoscono quasi nulla della loro religione; perciò non l’amano e sono pronti a passare anche all’islam!
A tale preoccupante situazione non si può rimediare solo con corsi di cultura islamica, come sembra illudersi il giornale diocesano di Aosta. Uno pseudo irenismo reca pessimi frutti. Non è questo il dialogo di cui parla il papa. Che teologi e specialisti approfondiscano la conoscenza dell’islam va bene. Più ci si conosce e più si potrà sperare di convivere in pace. Ma i nostri cristiani comuni hanno bisogno, prima di tutto, di istruirsi nella loro religione. Altro che istruirsi sull’islam!
Come possono i cristiani vedere i punti di divergenza fra Gesù e Maometto, se non conoscono la loro religione? Si lasceranno facilmente attrarre dai lati positivi dell’islam, che li abbaglieranno, e finiranno di pensare (per lo meno) che una religione vale l’altra. Alla presenza massiccia dell’islam, il migliore antidoto è intensificare lo studio della nostra religione.
Margherita Massaia
Vicoforte (CN)

Gli immigrati musulmani in Italia, all’inizio del 1999, erano 436.000, su un totale di 1.250.000 stranieri legali. I termini «invasione» e «presenza massiccia» non sono appropriati.
Le crociate «alla Barin»

Gentile direttore, le comunico il mio disappunto e quello della congregazione delle suore di San Giuseppe in riferimento a «La moschea nel convento». Dall’articolo emergono punti contraddittori sul reale contenuto dell’intervista che ho rilasciato. Nei locali occupati dalla cornoperativa «La Sorgente» non viene insegnato il corano, ma l’arabo, così come vengono insegnate altre lingue utili per l’inserimento in Italia di stranieri.
È decisamente errata l’affermazione (attribuitami) che le suore di San Giuseppe non sono missionarie. Per non parlare dell’accostamento grottesco di alcune affermazioni, con il chiaro intento di non stimolare una riflessione ecumenica, ma di dar luogo, probabilmente, ad uno sfogo personale.
Sono certa che lei saprà chiarire ai suoi lettori che, nella nostra comunità, non vi è alcun nesso tra «moschea» e «convento».
sr. Consolata Tonetti – Aosta

Sono il direttore del Corriere della Valle d’Aosta e scrivo in merito all’articolo di Michel Barin. È una clamorosa montatura. Le accuse, lanciate alla nostra collaboratrice Carla Jacquemod e al settimanale da me diretto, sono totalmente infondate, sfiorano il ridicolo.
Signor direttore, sarei ancora al mio posto se il nostro giornale facesse propaganda per l’islam? Aprire un dialogo con le religioni monoteistiche non mi autorizza a propagandare la religione musulmana attraverso lezioni di corano o a proporre un islam bonario…
Non era più prudente telefonare al vescovo della nostra diocesi per capire come fosse possibile una simile follia?… A volte si pensa che più la cosa è incredibile più è vera.
Il modus operandi del vostro collaboratore è molto discutibile e, per questo, vi invio il nostro articolo incriminato. Barin potrebbe rendere più giustizia alla sua causa se vi raccontasse i suoi contatti con l’islam e tutte le problematiche che ne sono nate, piuttosto che esprimere certe idee sul mondo islamico mettendo in mezzo un giornale che ha 50 anni di storia e ci tiene alla propria reputazione. Le crociate alla Barin contro «infedeli» e «ipotetici collaborazionisti» appaiono poco utili ad affrontare il serio problema dell’islam.
Chiedo la pubblicazione della mia lettera e penso che siano d’obbligo le scuse verso le persone diffamate dal vostro giornale.
Fabrizio Favre – Aosta

Lettera che ne raccoglie altre due, ossia la protesta di Carla e Riccardo Jacquemod, citati da Michel Barin.
Missioni Consolata non indaga sulla vita privata dei suoi articolisti. Ma non sposa le idee di tutti. Però tutti possono dire la loro (anche sbagliando), e tutti possono replicare.
Se uno scritto ci pare unilaterale, lo facciamo notare: o affiancandogli un altro con una tesi diversa o affermandolo. Così è stato anche per Barin. Il suo articolo, da noi definito «molto critico» verso l’apertura all’islam, copre 3 pagine in un dossier di 20. «Una» voce accanto ad «altre». La verità non è mai tutta da una parte.

aa.vv.




Un’allibita e una “rompiscatole”

Sono rimasta allibita da «I terroristi di S. Tommaso» (Missioni Consolata, giugno 2000). L’articolista non si rende conto che le frasi «chi intraprende la lotta armata non si percepisce come terrorista», «la scelta della violenza rappresenta un mezzo obbligato per raggiungere un fine superiore»… si applicano a tutti i terrorismi? Ed è semplice constatare che furono le «idee» che animarono, in Italia, le Brigate rosse.
Il resto dell’articolo, anche se nota che «un uomo non ha diritto di scegliere quale sia il bene degli altri», è tutto sbilanciato sull’«ideale» dei terroristi e sul loro avvicinarsi a concezioni messianico-cristiane (per cui si ha la verità in tasca e si può imporla agli altri). Non una parola sui dolori, sulle tragedie e sui morti che il terrorismo in Perú (e non solo) ha provocato. Questa è una tendenza fanatica, a cui portano certe commistioni tra politica e religione.
Luciana Gallino – Torino

Gentili amici, sono la solita rompiscatole, che vuole, precisare e mettere i puntini sulle «i». Capisco di essere molesta. Ma, leggendo l’articolo «I terroristi di S. Tommaso», ho sentito l’impulso a scrivervi.
Dice l’articolista che in Colombia un movimento rivoluzionario è stato fondato da un sacerdote, Camillo Torres, che ha avuto tra le sue file diversi religiosi con incarichi di responsabilità… In Perù molti cattolici sono vicini alla teologia della liberazione: il tutto come se fosse la cosa più normale ed ortodossa.
Una volta per tutte, per non confondere le idee dei lettori, vogliamo dire con chiarezza che la teologia della liberazione applica alla realtà l’«analisi marxista», fa di Cristo un «liberatore» alla Che Guevara ed è stata sconfessata dalla chiesa? Vogliamo dire chiaramente che Gesù Cristo non era un rivoluzionario che tendeva a sovvertire ordinamenti sociali ingiusti, ma veniva a liberarci dal peccato, dalla morte e a rivelarci il Padre?
Vogliamo dire (una volta per sempre) che la lotta violenta, l’uccisione dei nemici non è cristiana? Che cambiare struttura e vertici non porta a nulla di meglio dell’esistente, come ha dimostrato l’esperienza nei paesi comunisti?
Siamo capaci di dire a chiare lettere che il cambiamento avverrà quando ogni uomo prenderà coscienza della sua dignità di figlio di Dio e, in solidarietà con altri, lotterà pacificamente per la propria libertà? Che nel lungo e difficile cammino di liberazione non sono ammesse «scorciatornie violente»?
Io non chiedo che gli articoli in sintonia con la teologia della liberazione non siano pubblicati, ma è obbligatoria una parola di chiarificazione e commento.
Con tutto ciò aderisco allo spirito della «campagna» di solidarietà verso i carcerati del Perù (Missioni Consolata, giugno 2000). Ho già l’indirizzo di una «terrorista», con cui desidero iniziare uno scambio epistolare, nel pieno rispetto delle sue convinzioni.
Giulia Guerci – Castellazzo B.da (AL)

Dunque mettiamoli i puntini sulle «i».
L’analisi marxista (non il marxismo) è un metodo di studio: se, di fronte ai mali sociali, provoca un impegno per la giustizia e l’uguaglianza, tale analisi è positiva, soprattutto se avviene dove la differenza tra ricchi e poveri è abissale.
n La vera teologia della liberazione non presenta un Gesù rivoluzionario alla Che Guevara, bensì i volti di Gesù malato, nudo, assetato, forestiero, incarcerato… che attende la «liberazione» (cfr. Mt 25, 35-36). E, di fronte a moltitudini che muoiono di fame, non è fuori luogo rispondere alla domanda: «Queste sono state affamate da chi?».
n Al cospetto di tanti «poveri cristi», resi schiavi dai «faraoni» del comunismo o del capitalismo, dalle multinazionali, dalla new economy, dai servizi segreti, dall’usura…, Dio dichiara sempre a qualche Mosé: «Ho visto l’oppressione del mio popolo. Ora va’ e libera il popolo mio» (cfr. Es 3, 7-10). Ecco la teologia della liberazione.
n Gesù non esita a definire «volpone» lo spregiudicato e potente Erode (cfr. Lc 13, 31).
n Il peccato non è solo un male personale. Esistono anche «strutture di peccato». In alcuni imperialismi modei si nascondono forme di idolatria: del denaro, del potere, della pubblicità, della tecnologia. «Si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a strutture di peccato – scrive Giovanni Paolo II -. Diagnosticare così il male significa identificare esattamente il cammino da seguire per superarlo (Sollicitudo rei socialis, 37).
n Sul no alla violenza, pienamente d’accordo.

Luciana Gallino e Giulia Guerci




“Sandali al vento”

Carissimo padre Benedetto Bellesi, con gioia ti dico il mio «contento» per Missioni Consolata di luglio-agosto. Hai magnificamente descritto i 2 mila anni di «avventura missionaria», avviata dal Signore Gesù e giunta al nostro oggi.
Il testo che hai steso, dal titolo spigliato
Sandali al vento,
sottende una fatica greve per precisare tempi, situazioni e persone, con calore ma senza enfasi, e con una gran voglia di affascinare il lettore e indurlo a riflessioni adeguate. Nel districarti fra numerosi eventi, spesso drammatici, non ti stanchi mai di evidenziare la fiducia nella missione e nel regno di Dio.
Il domani che apre al 3000 è appena iniziato, con scambio di doni tra le chiese in occidente e quelle nel sud del mondo. Sarà un domani splendido, tutto da vivere. Sia davvero la primavera profetica di cui ha parlato il pontefice venuto da lontano!
Padre Benedetto, da anziano-giovane non mi resta che dirti «grazie» e pregare per te e per tutta Missioni Consolata.
p. Giuseppe Mina
Alpignano (TO)
Padre Giuseppe sta per vivere la «primavera» dei 90 anni. La sua lettera ci è giunta via e-mail, grazie all’apporto di padre Giuseppe Villa, un altro «anziano giovane» della comunità missionaria di Alpignano.

Leggo sovente Missioni Consolata, esprimendo talora anche delle critiche. Ma mi è doveroso dire che ho trovato assolutamente perfetto il numero di luglio-agosto. Più che un numero di rivista, è un libro avvincente, che ci parla dell’entusiasmante storia missionaria della chiesa nel corso di 20 secoli.
dott. Renzo Mattei
Genova

Giuseppe Mina e Renzo Mattei